Sovraffollamento: dopo due anni e mezzo superata quota 60mila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2023 In barba agli appelli rivolti del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura, dai dati del Dap di novembre emerge che il tasso ha raggiunto il 117,2% (e il 126,3% rispetto ai posti effettivi disponibili). Cresce vertiginosamente il sovraffollamento carcerario. I dati più recenti forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a fine novembre, e diffusi dal ministero della Giustizia, rivelano una crescente e allarmante situazione di sovraffollamento carcerario in Italia. Attualmente, il numero di detenuti ha raggiunto quota 60,116, superando di gran lunga la capienza regolamentare dei posti disponibili, fissata a 47,000. L’aumento è significativo, portando il totale nazionale a superare la soglia delle 60,000 unità per la prima volta dopo più di due anni e mezzo. Questo livello di affollamento non si vedeva dai tempi precedenti alla pandemia. Rispetto all’inizio dell’anno, il numero di detenuti è cresciuto di 3,920 unità, un aumento percentuale del 7,0%. Il tasso di affollamento ha raggiunto il 117,2%, calcolato sulla capienza ufficiale, e addirittura il 126,3% rispetto al numero effettivo di posti disponibili. Il sovraffollamento non solo impatta negativamente sulla qualità della vita dei detenuti, costretti a condividere spazi sempre più ristretti, ma si allontana anche dalle direttive stabilite dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani o Degradanti. Quest’ultimo ha stabilito che ogni detenuto dovrebbe avere almeno 4 metri quadri di spazio vitale. Questo divario tra le condizioni reali e gli standard internazionali è motivo di seria preoccupazione. Sappiamo che il Comitato Europeo ha raccomandato agli Stati membri di affrontare il problema del sovraffollamento penitenziario in modo deciso, stabilendo un limite massimo di detenuti per ogni istituto penitenziario. Ha anche esortato i governi a collaborare con legislatori, giudici, pubblici ministeri e dirigenti carcerari per affrontare il problema con azioni coordinate. Tuttavia, il governo attuale ha risposto con leggi carcerocentriche, inasprimento delle pene e nuovi pacchetti sicurezza, che sembrano peggiorare la situazione anziché migliorarla. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, interviene sulla questione, riconoscendo un’attenzione da parte del governo sugli agenti penitenziari, ma sottolinea la mancanza di provvedimenti concreti ed efficaci. Le misure adottate sembrano mitigare solo i sintomi, senza affrontare le radici delle patologie del sistema penitenziario, portandolo a un collasso inevitabile. De Fazio invita il ministro Nordio e il governo Meloni a prendere provvedimenti urgenti, promuovendo un decreto carceri con misure deflattive della densità penitenziaria e il potenziamento del personale, delle strutture e dell’equipaggiamento. Parallelamente, fa un appello al Parlamento e a tutte le forze politiche per varare una legge delega che permetta riforme complessive e strutturali. La situazione attuale richiede azioni immediate e coordinate per preservare i diritti umani e garantire una gestione equa e giusta del sistema penitenziario italiano. Un giorno alla Corte costituzionale di Franco Corleone societadellaragione.it, 6 dicembre 2023 Seduta della Consulta sull’affettività in carcere. Ieri mattina ho assistito all’udienza della Corte Costituzionale con emozione, perché si discuteva di una delicata questione di diritto della persona che interessa il mondo della detenzione, uomini e donne e le famiglie, mariti, mogli, compagne e compagni che subiscono una orrenda limitazione degli affetti e delle relazioni intime. Il relatore, il giudice Massimo Petitti, ha illustrato con estrema precisione il ricorso presentato dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi per denunciare l’incostituzionalità delle norme che di fatto vietano l’esercizio di un diritto fondamentale che già la Corte Costituzionale nel 2012 aveva definito come esigenza reale e fortemente avvertita, lanciando un invito al Parlamento per legiferare. Questi undici anni sono trascorsi inutilmente e il monito della Corte è rimasto inascoltato, nonostante le proposte di legge presentate alla Camera e al senato, anche da parte dei Consigli regionali della Toscana e del Lazio. Qualcosa è cambiato però nel mondo e in Europa solo l’Italia non ha una legge che garantisca un nocciolo significativo della persona come gli Stati generali dell’esecuzione penale avevano definito la questione. Le pronunce del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo sono chiare ed esplicite. Daniela Palma e Alessio Mazzocchi, della difesa del detenuto di Terni che ha dato origine al nuovo caso, hanno illustrato le ragioni per un accoglimento del ricorso, citando l’importanza dell’Appello promosso dalla Società della Ragione, dal CRS e dalla Associazione Coscioni intitolato “Il corpo recluso e il diritto all’intimità”, redatto dal prof. Andrea Pugiotto e sottoscritto da più di duecento tra giuristi, avvocati, esponenti dei movimenti per i diritti. Vi era molta curiosità per l’intervento dell’Avvocatura dello Stato. Massimo Giannuzzi non si è limitato a chiedere una decisione di inammissibilità a causa di un insostituibile intervento legislativo, quasi come una clausola di stile, ma ha voluto affermare la fondatezza dei principi sostenuti nel ricorso e ha lamentato l’inerzia del Parlamento. Addirittura ha espresso il dispiacere per la richiesta di inammissibilità, affidandosi comunque alla saggezza della Corte per individuare una alternativa tra quelle suggerite nell’Appello. Questo intervento ha suscitato emozione per il coraggio civile. Due note finali. E’ stata sottolineata l’importanza della norma (art. 19) dell’Ordinamento penitenziario minorile che può costituire la norma applicabile anche alla detenzione degli adulti. Per una ragione, negli Istituti penali per minori in realtà sono presenti anche soggetti fino a 25 anni di età, quindi sarebbe paradossale che godano di un diritto e nel momento di trasferimento in un carcere per adulti lo perdano. La Corte aveva chiesto che il Ministero della Giustizia e il Dap fornisse indicazioni sulla disponibilità di locali idonei per l’esercizio del diritto a colloqui senza controllo visivo. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha risposto al quesito, ma ha parlato d’altro, cioè della costruzione di otto padiglioni per ampliare la capienza di altrettante carceri, finanziati con i fondi del PNRR che vedranno la luce nel 2026. Una magra figura motivata forse dalla volontà di dichiararsi impreparati a una novità straordinaria. In realtà le ricerche che sono state compiute in questi anni da associazioni e dalla Fondazione Michelucci dimostrano che è facilissimo ricavare quegli spazi già oggi nelle carceri italiane. Già venticinque anni fa Il direttore del Dap, Michele Coiro, chiese a tutte le direzioni di fornire un quadro delle possibili soluzioni. Quella documentazione è ancora disponibile. Il ministero della Giustizia ha compiuto un inaccettabile sgarbo istituzionale alla Corte costituzionale censurando elementi che consentirebbero una immediata sperimentazione e una rapida messa a regime del cambiamento delle relazioni familiari. L’affettività in carcere: “Un diritto non accettato” di Federica Pacella Il Giorno, 6 dicembre 2023 Attesa per la decisione della Consulta, il sì avrebbe implicazioni sulle strutture. La Garante Ravagnani: “C’è una visione della pena solo come punizione”. Ore di attesa per la decisione della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere, 23 anni dopo la prima proposta di riforma del regolamento penitenziario. Già 11 anni fa la Corte stessa riconobbe il diritto delle persone detenute a una vita affettiva e sessuale, ma ora ci si aspetta un passo in avanti, che possa portare a colmare una lacuna. “Una vera discussione che vada alla radice del problema non c’è mai stata, non si è neanche mai arrivati. Semplicemente non è stato previsto un diritto all’affettività, perché c’è una visione della pena solo in termini di punizione”. A sottolinearlo è Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Brescia, che conta sul suo territorio il carcere di Verziano e la vetusta Casa circondariale Nerio Fischione, tra le peggiori in Italia per sovraffollamento. Ravagnani è tra i 200 - tra giuristi, associazioni e personalità (anche dalle Università di Milano-Bicocca, di Bergamo, Pavia, Brescia), che hanno firmato l’appello alla Corte costituzionale, per una decisione risolutiva. “In assenza di contrarie ragioni di sicurezza, vietare al detenuto di “svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta”, senza il controllo a vista da parte del personale di custodia (imposto dall’art. 18 dell’ordinamento penitenziario), è conforme alla Costituzione e alla Cedu?”, la domanda posta dall’appello. Segue l’elenco dei diritti della Costituzione italiana e della Convenzione europea per i diritti dell’uomo violati: la preclusione di relazioni sessuali in carcere, ad esempio, contraddice il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu) e il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 Cedu). Se la Consulta sancisse l’incostituzionalità, si aprirebbe un capitolo importante, che implicherebbe anche una revisione delle strutture delle carceri. “Ma non è solo una questione di locali - ricorda Ravagnani - è un cambiamento culturale in toto. Per altro, quando si parla di affettività non si deve pensare solo alla sessualità, ma all’intero rapporto di famiglia, che significa creare spazi per condividere tempo con coniuge e figli. Si tratta di una questione di rispetto dei diritti del detenuto, che purtroppo fatichiamo a digerire: la pena è privazione della libertà di movimento, non di altre libertà”. Sesso in cella, il governo: “Giusto ma impossibile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 dicembre 2023 Corte costituzionale. Oggi la Consulta decide sulla legittimità sull’articolo 18 della legge 354/1975 “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia”. La questione di cui si è occupata ieri la Corte costituzionale in udienza pubblica (ma la sentenza è attesa per oggi) è ancora considerata un po’ scabrosa. La chiamano “diritto all’affettività dei detenuti in carcere” ma, per usare le parole di Adriano Sofri, “siccome la nostra società, che ha finito di trattare il sesso nei giorni feriali, come un bicchiere di acqua sporca, continua a vergognarsene nelle feste comandate, allora preferisce parlare, piuttosto che di rapporti sessuali, di rapporti affettivi, madri che possono abbracciare i figli, famiglie che possono incontrarsi fuori dagli occhi dei guardiani. In effetti, oggi non possono farlo. Ma poi c’è il sesso: la nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore una persona che lo desideri e consenta. Sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che sì”. Risposta che da noi è ancora tabù ma non, ad esempio, in Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera, come ricorda il segretario di +Europa Riccardo Magi nella prefazione alla proposta di legge “a tutela delle relazioni affettive intime dei detenuti” presentata alla Camera una settimana fa. Ma il tema non è nuovo: la Consulta torna ad affrontarlo (giudice relatore Stefano Petitti) su impulso del Magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, dopo più di dieci anni dalla sentenza n. 301 del 19 dicembre 2012 nella quale i giudici costituzionali sollecitarono - inascoltati - il legislatore ad intervenire sull’ordinamento penitenziario per permettere ai detenuti di relazionarsi con il proprio o la propria partner anche sessualmente. Questione che attiene al diritto del detenuto di non essere sottoposto ad altra pena afflittiva se non quella della privazione della libertà personale, ma anche al processo di reinserimento del condannato. Lo spiega bene nell’ordinanza del 12 gennaio 2023 Gianfilippi che ha richiesto il giudizio di legittimità sull’articolo 18 della legge 354/1975 “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Perché il diritto all’affettività quale espressione della persona umana rientra tra i principi di rilievo costituzionale: lo hanno spiegato gli avvocati Daniela Palma e Alessio Mazzocchi, del Foro di Velletri, difensori del detenuto oggetto dell’ordinanza spoletina. Principi che anche per l’avvocato di Stato Massimo Giannuzzi “sono sacrosanti e incontestabili”, malgrado abbia richiesto “l’inammissibilità della questione” per un problema legato alla “ineliminabile sfera della discrezionalità politico legislativa e della insostituibilità dell’intervento del legislatore. Oggettivamente - ha ammesso Giannuzzi - c’è una inerzia. E c’è, in base anche alle notizie avute, un Pnrr che non ci consente di fare un passo avanti”. Infatti, riferisce l’avvocato di Stato, tra gli interventi previsti dal Pnrr “il Ministero informa che c’è la realizzazione di 8 padiglioni con capienza ciascuno di 80 posti”, all’interno dei quali “sono previsti numerosi spazi per attività trattamentali per i detenuti”, ma “nessuno spazio destinato allo svolgimento e all’esercizio del diritto all’affettività”. E, secondo l’avvocato, “non è possibile una ipotesi di riprogettazione” dei padiglioni, che dovrebbero essere pronti entro il 2026. Eppure, come hanno ricordato i difensori del detenuto di Velletri, che l’affettività sia tra i diritti inviolabili dell’uomo lo hanno affermato anche il Consiglio d’Europa nel 1997 e nel 2006, il Parlamento europeo nel 2017 e, da ultimo, anche la I sezione penale della Corte di Cassazione a gennaio di quest’anno. Il tempo per adeguarsi c’era. Sesso dietro le sbarre: rebus costituzionale di Luca Fazzo Il Giornale, 6 dicembre 2023 Un giudice di sorveglianza si appella alla Consulta per chiedere libertà sessuale per i detenuti. “Il diritto alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali” è un diritto inviolabile di tutti i cittadini, anche di quelli detenuti. E impedire a chi vive in carcere una vita sessuale è un “trattamento inumano e degradante”. È su questa tesi che da ieri è chiamata a esprimersi la Corte Costituzionale, con una sentenza - prevista per oggi - che potrebbe cambiare in profondità il sistema penitenziario italiano. Nel futuro prossimo dei detenuti, purché non siano sottoposti a misure di sicurezza particolari, potrebbero arrivare anche in Italia le “stanze dell’amore”, luoghi appartati dove gli incontri possano svolgersi lontano dagli occhi degli agenti di custodia, in modo da poter sviluppare in pieno “affettività” e “sessualità”. Sono passati undici anni dall’ultima volta che la Consulta si era espressa sulla richiesta di un condannato di poter fare sesso durante i colloqui: e allora il divieto era stato confermato, pienamente conforme alla Costituzione e - in sostanza - un elemento di quelle privazioni della libertà senza le quali il carcere non sarebbe carcere. Spettava semmai al Parlamento, disse la Consulta, intervenire con una nuova legge. Ieri, su iniziativa di un giudice di sorveglianza di Spoleto, la faccenda torna all’esame della Corte. Visto che negli undici anni trascorsi dall’ultima sentenza il Parlamento non si è mosso, il giudice chiede che sia la Corte a provvedere, cancellando dalla legge penitenziaria gli articoli che prevedono che i colloqui si svolgano sempre sotto il controllo almeno visivo della polizia penitenziaria. A chiedere l’intervento della Consulta è stato E.R., detenuto da quattro anni per tentato omicidio e altri reati, e con la prospettiva di restare dentro fino al 2026. In carcere E.R. non si è comportato bene, accumulando denunce e rapporti disciplinari. Ma paradossalmente proprio il suo comportamento è stato usato per giustificare la richiesta: perché gli impedirà a lungo di godere di permessi premio, durante i quali avrebbe potuto fare sesso con la partner. Ma viste le sanzioni che ha accumulato, l’unico modo per garantirgli “spazio alla affettività” è modificare le leggi sui colloqui. Il giudice che ha passato la palla alla Corte Costituzionale, Fabio Gianfilippi, aveva avuto parole severe per le conseguenze del divieto di contatti fisici nei colloqui. “La forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà appare in contrasto anche con la Costituzione poiché di fatto determina una compressione della libertà personale che non appare giustificata in ogni caso da ragioni di sicurezza”. “Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità, quale la dimensione sessuale dell’affettività, finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Oltretutto, scrive Gianfilippi, l’assenza di contatti sessuali ha effetti inevitabili sul “diritto alla genitorialità”, impedendo di procreare”. Ieri udienza pubblica e decisione rinviata a oggi, a conferma della complessità del tema. Il volontariato penitenziario, un viaggio tra l’umanità ferita di Roberta Barbi vaticannews.va, 6 dicembre 2023 In occasione della Giornata Mondiale del Volontariato 2023, che ricorre ogni 5 dicembre, suor Isabella Belliboni, vicepresidente dell’associazione Vol.ca., attiva negli istituti di pena di Brescia, racconta la particolarità del servizio tra gli ultimi. Fragile, ferita, bisognosa, indurita. Suor Isabella Belliboni utilizza questi quattro aggettivi per descrivere l’umanità che ha trovato in carcere e che continua a incontrare instancabilmente da quel lontano giorno del 2004 che segnò il suo primo ingresso tra quelli che sono “dentro”. “Ricordo il rumore dei cancelli, so che lo ricordano tutti ma è impossibile non citarlo, così forte, così definitivo - racconta a Radio Vaticana-Vatican News la vicepresidente dell’associazione Vol.ca. - e poi volti, sguardi, tantissimi. Molte delle prime persone che ho conosciuto lì le incontro ancora e le seguo nel loro cammino. C’è tanta umanità dietro quei cancelli”. Dall’ascolto alla gestione del guardaroba: i compiti di Vol.ca. - Vol.ca. è una realtà nata nel 1989 per fornire un servizio d’ascolto ai detenuti, in ottemperanza all’articolo 78 dell’ordinamento penitenziario che consente ai volontari di avere colloqui con i ristretti: “Da subito ci siamo occupati anche di fornire vestiti o beni di prima necessità ai detenuti indigenti le cui famiglie non potevano permetterselo, e poi, in primo piano c’è anche il servizio di catechesi che viene fornito da volontari opportunamente formati come catechisti e che entrano settimanalmente nelle strutture”. A questi, negli ultimi anni si sono aggiunte anche attività educativo-ricreative come il gruppo di lettura che riscuote molto successo, e i tornei di carte. “Infine i nostri volontari gestiscono anche all’esterno un’esperienza di housing sociale per chi può scontare la propria pena in misura alternativa al carcere, che è molto importante”, precisa la religiosa. Formazione e sensibilità: il volontario “perfetto” - La formazione per un volontario che si approccia al mondo del carcere è particolarmente importante: “Oltre a un’intensa attività di affiancamento che fornisce nozioni per così dire pratiche - continua suor Isabella - organizziamo corsi e incontri come quello che abbiamo appena fatto sulla formazione giuridica con i giuristi cattolici, mentre con l’anno nuovo parteciperemo a incontri di carattere maggiormente educativo, avvalendoci anche della preziosa collaborazione di una realtà come Sesta Opera San Fedele di Milano”. Il volontario penitenziario perfetto ovviamente non esiste, ma ci sono delle caratteristiche che chi si avvicina a questo mondo così sconosciuto per la società, deve avere: “La voglia di imparare da chiunque incontri - afferma convinta suor Isabella - poi la sospensione del giudizio e, soprattutto, del pregiudizio, ma anche la prudenza, l’ascolto, l’attesa e una curiosità sincera verso il prossimo”. Giubileo: dal Vaticano due progetti per rifugiati e detenuti di Eliana Ruggiero agi.it, 6 dicembre 2023 I “Rosari del mare”, sfruttando il legno delle barche dei migranti altrimenti destinato alla dismissione, e il programma di reinserimento lavorativo di chi è in cella, in collaborazione con l’associazione “Seconda Chance”. La Basilica di San Pietro si prepara al Giubileo con l’avvio di due nuovi progetti di promozione sociale, rivolti a persone rifugiate e carcerate: i “Rosari del mare” (realizzati con il legno delle imbarcazioni dei migranti) in collaborazione con la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, e un programma di reinserimento lavorativo di detenuti, in collaborazione con l’Associazione Seconda Chance. In particolare il progetto “Rosari del mare”, avviato nel mese di settembre 2023, impiega persone rifugiate nella produzione di rosari destinati all’acquisto da parte dei pellegrini che giungono nella Basilica di San Pietro. Il materiale utilizzato per i rosari, altrimenti destinato alla dismissione, è il legno delle imbarcazioni dei migranti che hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere le coste italiane in cerca di salvezza. I rosari vengono completati e assemblati presso la Fabbrica di San Pietro da due persone rifugiate, assunte dalla Cooperativa sociale Casa dello Spirito e delle Arti, e consegnati per vendita negli shop della basilica di San Pietro. Il legno delle barche dei migranti inteso come “memoria della storia di quelle persone in fuga dalla guerra e dalla povertà”. Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore e Presidente della Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti”, spiega così l’idea all’origine del progetto “Rosari del mare”. Tante le barche con i migranti viste a Lampedusa. Barche che venivano distrutte e smaltite come “rifiuti speciali”. “Nel 2021 abbiamo chiesto al governo italiano che il legno delle barche, anziché essere distrutto, potesse essere riutilizzato. Ed eccoci qui con i Rosari del Mare - spiega durante la conferenza stampa in Vaticano dei due progetti di carattere sociale in vista del Giubileo: con le chiglie vengono realizzate le croci da parte di persone detenute. Le croci arrivano quindi dal carcere insieme ai grani, sempre nati da quel legno, e in un locale messo a disposizione dalla Basilica di San Pietro due persone rifugiate assemblano i Rosari”. Le fasi precedenti del lavoro si svolgono in alcuni istituti penitenziari di Milano, Monza e Roma. A Milano Opera, due persone smontano le barche e preparano il legno per le diverse parti che comporranno il rosario. Le croci vengono realizzate presso la Casa Circondariale di Monza e il Carcere di Rebibbia. Una piccola parte del lavoro viene inoltre svolta da persone senza fissa dimora presso l’Opera Cardinal Ferrari di Milano. Il primo rosario prodotto e’ stato donato a Papa Francesco. Il ricavato della vendita dei rosari sostiene le persone rifugiate e detenute. Il progetto “Seconda Chance”, invece, promuove il reinserimento dei detenuti nella società tramite l’attività lavorativa. Grazie alla collaborazione con l’associazione Seconda Chance, un detenuto di Rebibbia Nuovo Complesso è già impiegato da alcuni mesi come elettricista nelle ordinarie attività di manutenzione della Basilica, coordinate dalla Fabbrica di San Pietro. Dopo recenti colloqui nelle carceri romane di Rebibbia e di Regina Coeli, altre figure sono in corso di selezione. Sempre in collaborazione con l’associazione “Seconda Chance”, la Fabbrica di San Pietro ha inoltre aderito al progetto Mammagialla Sailin, in corso presso il carcere Mammagialla di Viterbo, dove è allestita una sartoria di alto livello, nella quale i detenuti sarti utilizzano vele in disuso e tessuti nuovi per produrre borsoni personalizzati per circoli sportivi, enti pubblici e aziende. La Fabbrica di San Pietro ha infatti richiesto ai detenuti sarti di Viterbo borsoni da proporre ai visitatori nei punti vendita della Basilica. “Mi sono dato come obiettivo di raddoppiare entro il 2024 il numero dei detenuti che attualmente lavorano”. Lo ha sottolineato il capo del Dap, il dipartimento di amministrazione penitenziaria Giovanni Russo durante la conferenza stampa in Vaticano. Grazie ad agenzie di work scouting e ad agenzie di volontariato “siamo riusciti - ha spiegato Russo - a fare percepire a chi lavora nel carcere e alla popolazione detenuta che ora ci sono nuove occasioni. Abbiamo stretto già rapporti convenzionali che ci portano a potere dire che saremo in grado di offrire diverse decine di migliaia di posti di lavoro di formazione e di posti di lavoro”. “Rosari del mare” e lavoro ai detenuti L’Osservatore Romano, 6 dicembre 2023 Presentati i progetti sociali della basilica di San Pietro in preparazione al Giubileo. I “Rosari del mare” e “Seconda chance”: sono i due progetti più significativi compresi nelle “azioni di carattere sociale della basilica papale di San Pietro in preparazione al Giubileo”. A presentarli è stato il cardinale arciprete Mauro Gambetti, durante un incontro con i giornalisti svoltosi stamane, martedì 5 dicembre, nella Sala stampa della Santa Sede, attualmente in via dell’Ospedale. La prima iniziativa, avviata nel settembre scorso in collaborazione con la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, impiega persone rifugiate nella produzione di corone mariane destinate ai pellegrini che giungono in Vaticano; la seconda, portata avanti con l’associazione che ha lo stesso nome del progetto, promuove il reinserimento dei detenuti nella società tramite attività lavorativa. Illustrando le motivazioni generali delle attività, il cardinale Gambetti ha indicato tre parole-chiave per l’Anno giubilare: gratuità, giustizia, perdono. Proprio da esse - grazie anche alla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia della Repubblica italiana e con le due associazioni coinvolte - nascono i progetti sociali promossi dalla basilica di San Pietro. Riguardo alla gratuità, il porporato ha sottolineato che si vive in un mondo dove ciascuno “è un dono e tutto ciò che utilizziamo o di cui abbiamo il temporaneo possesso ha la sua origine nella gratuità”. Ne deriva che “prima di pensare alla retribuzione da ricevere, occorre impegnarsi per restituire ciò che è stato ricevuto in dono (in prestito), mettendo a disposizione degli altri il “talento” e i “talenti”“. Quanto alla giustizia, Gambetti ha fatto notare che la terra “in cui viviamo è una terra buona, terra donata, ma non solo a me. A tutti”. Per cui bisogna che “le diseguaglianze sociali, le sperequazioni, vengano quanto ridotte, dove non del tutto eliminate”. Infine, parlando del perdono, il porporato lo ha definito “il motore e il carburante della gratuità e della giustizia”. Occorre “essere operatori di pace nel proprio ambiente, a partire da quello familiare” rispondendo “con mitezza alle parole offensive”, con “gesti di riconciliazione dove vi è divisione” e facendo “del bene a chi si pone come nemico”: tutti atteggiamenti “che costruiscono la pace, distruggono il potenziale del male e lo trasformano in bene”. Entrando nello specifico, Gambetti ha poi annunciato che la sera del 9 dicembre, in occasione dell’accensione dell’albero e della benedizione del presepe in piazza San Pietro, la parrocchia di San Pietro organizzerà insieme al Dicastero per la Carità e con il supporto del Governatorato una cena con persone senza fissa dimora. Inoltre, in vista del Giubileo, sono stati ampliati gli orari per la preghiera in basilica, aggiungendo l’appuntamento settimanale dell’adorazione eucaristica serale all’altare della Confessione ogni sabato alle 21. Da parte sua Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha sottolineato che uno dei tre assi portanti del significato giubilare, quello della giustizia, consiste nel riconoscimento della dignità di tutte le persone, anche di quelle la cui libertà è limitata. In proposito ha chiarito come la necessità che l’esecuzione di una pena possa e debba “essere scontata in condizioni di sicurezza, senza che venga mai misconosciuta l’identità del condannato. Il rischio è quello di considerare i detenuti non come essere umani ma come “corpi” da consegnare nei luoghi del carcere, o da trattare come numeri, come cose”. Ha quindi preso la parola Flavia Filippi, fondatrice e presidente di “Seconda Chance”, associazione nata lo scorso anno per offrire opportunità di lavoro a carcerati, ex detenuti e loro familiari. Grazie alla collaborazione con il sodalizio, un ospite di Rebibbia Nuovo Complesso è già impiegato da alcuni mesi come elettricista presso la Fabbrica di San Pietro. E dopo recenti colloqui negli istituti romani di Rebibbia e di Regina Coeli, altre figure sono in corso di selezione. La richiesta primaria, ha osservato la Filippi, è “trovare opportunità per i tanti ristretti che sono nella condizione giuridica adeguata per lavorare fuori, dove la carenza di manodopera è cronica in diversi settori, soprattutto nell’edilizia e nella ristorazione”. Ma i reclusi scrivono anche per colmare la solitudine, “per una risposta o una visita, per domandare se possono contare su di noi”. L’intenzione di “Seconda Chance” è “di allargare, consolidare, ben strutturare sull’intero territorio nazionale questa piccolissima rete che, non contando su personale dedicato, non è potuta ancora uscire dall’artigianalità”. Purtroppo, ha evidenziato Filippi, reperire contratti di lavoro è molto difficile. Per individuare un “imprenditore senza pregiudizi disposto a venire in carcere con noi per valutare manodopera, e disinteressato ai lunghi tempi burocratici che passano prima che il detenuto venga autorizzato a lavorare fuori”. Sempre in collaborazione con Seconda Chance, la Fabbrica di San Pietro ha aderito anche al progetto Mammagialla Sailin, presso il Carcere di Viterbo, dove è allestita una sartoria, nella quale i detenuti utilizzano vele in disuso per produrre borsoni per circoli sportivi, enti pubblici e aziende. La Fabbrica ha perciò richiesto borse da proporre ai visitatori nei punti vendita della basilica Vaticana. Successivamente, Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione “Casa dello spirito e delle arti”, ha aperto il suo intervento rievocando una visita compiuta a Lampedusa, dove aveva constatato che le barche su cui arrivano i migranti venivano distrutte e smaltite come “rifiuti speciali”. Da qui l’intuizione che quel legno potesse diventare “memoria della storia di quelle persone in fuga dalla guerra e dalla povertà”. E nel 2021 ha chiesto al Governo italiano che il materiale delle imbarcazioni potesse essere riutilizzato. Da questo legno sono ricavati i “rosari del mare”, mentre con le chiglie vengono realizzate le croci da parte di persone detenute. Il progetto si chiama “Metamorfosi” e prevede che le croci arrivino dal carcere insieme ai grani di legno: in un locale messo a disposizione dalla basilica di San Pietro vengono assemblati i rosari da due persone rifugiate. Con questa iniziativa, da una parte si cerca di far sì che tanti giovani, ricevendo la corona mariana, possano conoscere il dramma contemporaneo dei migranti; dall’altra, si offre un’occasione di lavoro in carcere, negli istituti penitenziari di Opera, Monza, Rebibbia e Secondigliano, dove ci sono le diverse liuterie e falegnamerie. Con il legno delle barche infatti vengono anche realizzati violini nel carcere milanese di Opera. A coordinare i laboratori dove vengono costruiti i rosari è Erjugen, uno dei primi liutai, che Mondadori ha incontrato tredici anni fa. Accompagnato nel suo percorso, “ora da uomo libero, con il suo cartellino con la scritta “insegnante”, organizza il lavoro delle persone detenute e presto sarà anche nella Fabbrica di San Pietro per collaborare insieme al “falegname Stefano, presenza costante insieme alle due donne rifugiate, Suzanne e Ana Maria”. Una piccola parte del lavoro viene inoltre svolta da persone senza fissa dimora presso l’Opera Cardinal Ferrari di Milano. E il primo rosario prodotto è stato donato al Papa. Russo (Dap): “Raddoppiare entro il 2024 il numero dei detenuti che lavorano” agensir.it, 6 dicembre 2023 “Il nostro obiettivo è quello di raddoppiare, entro il 2024, il numero dei detenuti che lavorano”. Lo ha detto Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia della Repubblica italiana, intervenuto alla conferenza stampa di presentazione, in Sala stampa vaticana, delle “azioni di carattere sociale” promosse dalla basilica di San Pietro in vista del Giubileo. “Essere giusti nella fase di esecuzione della pena significa considerare permanentemente l’essenza umana delle persone detenute, in modo che non venga mai disconosciuta la propria identità”, ha spiegato Russo: “Il lavoro riveste un ruolo chiave nella vita degli uomini, anche in quella delle persone detenute: non è un modo di riempiere le giornate oziose dei detenuti, ma un tramite per ritrovare la dignità di sé stessi, per ricostruire la propria personalità fedeli al dettato costituzionali”. “Se c’è una funzione intrinseca della pena, accanto alla sua valenza punitiva, è quella di tendere al recupero del detenuto”, ha spiegato Russo, illustrando l’imponente politica di aiuto al lavoro del Dap, “che parte dalle attività formative all’interno o, dove possibile, all’esterno degli istituti penitenziari, per consentire ai detenuti di ritrovare la propria capacità di essere umano con la possibilità di instaurare nuove relazioni sociali e di essere capace, al termine dell’esecuzione della pena, di ritrovarsi nella comunità da pari a pari, in grado cioè di competere con le richieste che la società chiede a questo uomo ritrovato”. “Il lavoro penitenziario è retribuito, regolato con i contratti collettivi nazionali di categoria, esattamente come avviene per gli uomini liberi”, ha precisato Russo: “La nostra aspirazione è creare un ponte tra la capacità di conseguire titoli professionali all’interno degli istituti e la possibilità per il detenuto di trovare, una volta terminata la pena, un lavoro che gli consenta di inserirsi nel contesto sociale a testa alta, disponibile a rispettarne le regole”. Tutto ciò, attraverso la collaborazione con partner come “Seconda chance”, che fa attività di “work scouting” anche per la Fabbrica di San Pietro, o della “Casa dello spirito e delle arti”, che tra le tante attività ha quella di confezionare “Rosari del mare” con il legno delle barche dei migranti che vengono distrutte. Filippi (Seconda Chance), “riceviamo continue richieste dai detenuti, vogliamo allargare la rete all’intero territorio nazionale” “L’arrivo in Vaticano del primo detenuto di Seconda Chance, lo scorso primo settembre alle 6.55 del mattino, è stato un momento indimenticabile”. Lo ha raccontato Flavia Filippi, fondatrice e presidente dell’Associazione “Seconda Chance”, intervenendo alla conferenza stampa di presentazione, in Sala stampa vaticana, delle “azioni di carattere sociale” della basilica di San Pietro in vista del Giubileo. “Il suo sorriso stupefatto mentre correva verso l’ingresso del Sant’Uffizio per arrivare puntuale alle 7 segna l’avvio di un percorso cominciato un anno e mezzo fa grazie al Cardinale e alla Fabbrica di San Pietro”, ha spiegato la relatrice: “Diversi colloqui di selezione sono in corso per altre posizioni presso la Fabbrica. Siamo già tornati a Rebibbia e a Regina Coeli per valutare alcuni candidati. Il progetto si diffonde con una velocità impressionante: inizialmente Seconda Chance puntava solo al reinserimento lavorativo dei detenuti, ma l’Associazione si è presto trasformata in un punto di riferimento per la popolazione carceraria”. “Al nostro indirizzo - ha proseguito Filippi - riceviamo continue richieste dai detenuti, dai familiari, dagli avvocati, ma anche da operatori penitenziari che ci chiedono di portare corsi di formazione, di procurare forni per pizza e attrezzi da palestra, di provare a migliorare le infrastrutture sportive, di organizzare eventi sportivi, culturali, musicali. La richiesta primaria però è quella di trovare opportunità per i tanti ristretti che sono nella condizione giuridica adeguata per lavorare fuori, dove la carenza di manodopera è cronica in diversi settori, soprattutto nell’edilizia e nella ristorazione. Ma i reclusi ci scrivono anche per colmare la solitudine, per una risposta o una visita, per domandare se possono contare su di noi. E quando escono in permesso ci telefonano sempre, talvolta passano a salutarci”. L’intenzione di Seconda Chance, ha spiegato la fondatrice, “è quella di allargare, consolidare, ben strutturare sull’intero territorio nazionale questa piccolissima rete che, non contando su personale dedicato, non è potuta ancora uscire dall’artigianalità. Reperire contratti di lavoro è una fatica immensa. Non bastano le mail, le telefonate, i biglietti da visita lasciati nei bar, nei ristoranti, nei negozi, nelle autofficine, nelle fabbriche, nelle aziende edili, agricole, grafiche. Per individuare un imprenditore senza pregiudizi disposto a venire in carcere con noi per valutare manodopera e disinteressato ai lunghi tempi burocratici che passano prima che il detenuto venga autorizzato a lavorare fuori, occorrono pazienza, sensibilità, cuore, tempo”. Card. Gambetti, il 9 dicembre una cena con 150 persone senza fissa dimora “Tre parole risuonano nell’anno giubilare. Gratuità, giustizia, perdono”. Lo ha ricordato il card. Mauro Gambetti, arciprete della basilica vaticana, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano e presidente della Fabbrica di San Pietro, nella conferenza stampa di presentazione - in Sala stampa vaticana - delle “azioni di carattere sociale” della basilica di San Pietro in preparazione al Giubileo. La gratuità. “Bisogna che le diseguaglianze sociali, le sperequazioni, vengano quanto più possibile ridotte, dove non del tutto eliminate”, l’appello sulla scorta della seconda parola: “Certamente gli indigenti non mancheranno mai, ma dobbiamo lottare per contrastare la miseria - economica, culturale, spirituale - per consentire a tutte e a tutti di avere le medesime opportunità di crescita e di godere dei beni della terra e del cielo”. Per Gambetti, inoltre, “occorre essere operatori di pace nel proprio ambiente, a partire da quello familiare, praticando il perdono”, che significa “rispondere con mitezza alle parole offensive, porre gesti di riconciliazione dove vi è divisione, fare del bene a chi si pone come nemico sono alcuni degli atteggiamenti che costruiscono la pace, distruggono il potenziale del male e lo trasformano in bene”. Da queste convinzioni e dalla collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana, con la Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti” e con l’Associazione “Seconda Chance”, nascono i progetti sociali della basilica. Accanto a questi progetti, la sera del 9 dicembre, in occasione dell’accensione dell’albero e della benedizione del presepe di Greccio in piazza San Pietro - ha annunciato il cardinale - la parrocchia di San Pietro organizza insieme al Dicastero per il Servizio della Carità e con il supporto del Governatorato una cena con 150 persone senza fissa dimora. “In preparazione al giubileo abbiamo inoltre ampliato gli orari per la preghiera in basilica, aggiungendo al sabato alle 21 l’appuntamento settimanale dell’adorazione eucaristica serale all’Altare della Confessione”, ha ricordato Gambetti, citando il ciclo delle “Lectio Petri”, già iniziate dalla Fondazione Fratelli tutti in collaborazione con il Cortile dei Gentili. Carcere e solidarietà, torna “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore” di Giuseppe Tetto romasette.it, 6 dicembre 2023 Chef stellati e tanti protagonisti dello spettacolo in 28 carceri d’Italia a preparare e servire i pasti. A Roma, coinvolta la sezione femminile del carcere di Rebibbia. Un pranzo di Natale a base di piatti “stellati” preparati da rinomati chef e serviti da volti noti dello spettacolo, dello sport, dell’arte e del giornalismo. Ospiti d’onore: detenuti e detenute delle carceri italiane, con le loro famiglie. Torna anche quest’anno “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore”, l’iniziativa di sensibilizzazione e solidarietà promossa dall’associazione Prison Fellowship Italia onlus, in collaborazione con Rinnovamento nello Spirito Santo, fondazione Alleanza del RnS e ministero della Giustizia. Sono 28 gli istituti che hanno confermato la loro partecipazione per questa decima edizione, in programma mercoledì 20 dicembre: Roma Rebibbia (sezione femminile), Milano Opera, Torino, Alessandria, Aosta, Napoli Secondigliano, Nisida minorile (Na), Salerno (sezione femminile), Eboli (Sa), Aversa (Ce), Avellino, Ariano Irpino (Av), Bologna (maschile e femminile), Castelfranco Emilia (Mo), Parma, Rimini, Firenze minorile, Massa, Teramo, Pesaro, Castrovillari (Cs), Palmi (Rc), Paola (Cs), Vibo Valentia, Cagliari minorile, Lanusei (Nu), Palermo. E sono numerosi gli chef stellati e i maestri dell’alta cucina del nostro Paese che hanno accettato di mettere a disposizione la loro arte culinaria per questo momento di solidarietà. Come tanti sono anche gli artisti che daranno una mano ai 1.200 volontari, per servire gli oltre 6mila piatti in programma. “Questo evento straordinario - dicono gli organizzatori - ci conferma, ormai da 10 anni, che il bene sprigiona il bene, guarendo molte ferite dell’anima e favorendo l’integrazione tra il “mondo fuori” e il carcere. Un ponte di speranza che abbatte i pregiudizi, apre il cuore all’ascolto e un varco verso una società più inclusiva e sana”. Diverse le particolarità di quest’anno. Per la prima volta, ad esempio, un istituto scolastico contribuirà economicamente alla realizzazione dei pranzi. Si tratta del Liceo classico “Bernardino Telesio” a Cosenza, che ha raccolto e devoluto la quota di mille euro per coprire parte delle spese dei pranzi di Natale della Regione Calabria. A Bologna, con l’intervento di Andrea Segrè, ordinario di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Alma Mater, il pranzo sarà un’occasione per sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare: a realizzarlo sarà Filippo La Mantia con il cibo recuperato dagli sprechi grazie alla campagna pubblica di sensibilizzazione “Spreco Zero”, un progetto di Last Minute Market-Impresa Sociale, in collaborazione con il dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari (Distal) Alma mater studiorum - Università di Bologna. A Torino, invece, per la prima volta, il pranzo di Natale sarà servito alla sezione dei “Sex offender”, di detenuti, cioè, che hanno commesso crimini a sfondo sessuale, solitamente reclusi in aree isolate e protette. Sempre nel carcere di Torino, oltre ai comici, si esibiranno per la prima volta gli Stardust, un gruppo musicale nato dal progetto “La Musica che gira dentro”, sviluppato con alcuni detenuti dell’istituto del blocco C e del blocco E. I costumi e le scenografie sono frutto del lavoro di un secondo progetto, il “Laboratorio riuso dello scarto”, che ha coinvolto ospiti del blocco A. Toghe, ipotesi stretta sull’imparzialità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2023 Tornare al passato e riproporre misure restrittive, con relativo riverbero disciplinare, per i magistrati che si comportano in maniera tale da compromettere il requisito dell’imparzialità. A questo sta pensando il ministro della Giustizia Carlo Nordio che, nel rispondere per iscritto a un’interpellanza di Maurizio Gasparri, nel contesto del caso Apostolico (la magistrata di Catania che, per prima, ha disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il fermo di tre migranti, e ripresa in un video del 2018 a una manifestazione a sostegno della richiesta di sbarco di immigrati sulla nave Diciotti) ha chiarito la linea del Governo. Nel testo, Nordio scrive che “al fine di evitare il ripetersi di situazioni analoghe a quella in esame, resta tema centrale l’eventuale reintroduzione nel nostro ordinamento (anche con una diversa modulazione pienamente aderente al principio di tipicità degli illeciti disciplinari), tra i doveri del magistrato, del divieto di tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Un divieto previsto, ma solo fino al 2006, quando venne abrogato, dalla disciplina degli illeciti disciplinari. Nordio invita a “un’attenta riflessione nella consapevolezza della fondamentale importanza del valore dell’imparzialità di chi è chiamato a svolgere le delicatissime funzioni giurisdizionali, imparzialità che deve essere non soltanto effettivamente sussistente ma anche declinarsi sotto il profilo della sua apparenza”. In quest’ottica, il ministro della Giustizia ricorda che “di recente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sottolineato che la responsabilità sociale che caratterizza la funzione giudiziaria impone anche il serio rispetto della deontologia professionale e sobrietà delle condotte individuali”. Una norma di contenuto simile venne introdotta nell’ordinamento giudiziario e poi soppressa dopo pochi mesi, e cambio dia maggioranza (da Berlusconi a Prodi), perché troppo generica e penalizzante per le toghe. Sono i giudici “senza sentimenti” a fare la buona giustizia per tutti di Paolo Borgna Avvenire, 6 dicembre 2023 Ci sono casi in cui il semplice applicare la legge, nel modo più normale e pacato, richiede un certo coraggio. Perché a volte non è facile non farsi condizionare dal vento dello spirito del tempo che entra dalle finestre. I giudici di Asti, che lunedì hanno condannato l’orefice che ha ucciso due rapinatori ferendone un terzo, hanno dimostrato di possedere questo pacato e silenzioso coraggio. C’è un orefice che nel suo negozio subisce una dura rapina, con armi puntate contro la moglie, che viene brutalmente legata (che quelle impugnate fossero armi giocattolo non conta, perché lo si saprà solo dopo). Tutto è nitidamente registrato dalle telecamere interne. Quell’orefice, alcuni anni prima, aveva subito un’altra violenta rapina nel corso della quale era stato percosso e ferito. Forse ripensando proprio a questo precedente, l’orefice perde la testa. C’è un altro filmato, delle telecamere esterne che, altrettanto nitidamente, ci mostra la seconda fase di questa tragedia: l’orefice esce dal negozio, insegue i rapinatori in fuga che stanno salendo in auto; spara loro alla schiena; colpisce con un calcio alla testa uno dei rapinatori che sta morendo sul marciapiede. Due sono uccisi. Il terzo è ferito. Dal punto di vista della legge, non c’è alcuna possibilità di dubbio. Le immagini del filmato sono implacabili. I banditi sono stati uccisi mentre fuggivano, non avevano più le armi puntate contro la vittima. Semplicemente, stavano scappando. Nessun giurista può seriamente parlare di legittima difesa e neppure di eccesso colposo. La difesa personale è legittima solo quando si è nella necessità di difendere un proprio o un altrui diritto contro “il pericolo attuale di un’offesa ingiusta” e la difesa deve comunque essere “proporzionata all’offesa”. Se si spara contro un rapinatore in fuga, lo si fa per riprendersi il maltolto. Sacrificio della vita di altri per la difesa del proprio patrimonio. Non c’è alcuna proporzionalità possibile. C’è, indubbiamente, in chi ha agito esasperato sparando, la parziale attenuante di aver subito una provocazione (“agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”: articolo 62, n. 2 del codice penale). E infatti, il Tribunale di Asti ha riconosciuto questa attenuante, oltre alle attenuanti generiche, diminuendo fortemente la pena prevista per l’omicidio. Tenuto conto che l’omicidio era duplice e che c’era anche il tentato omicidio del terzo rapinatore, tenuto conto degli aumenti di pena previsti per ciascun fatto, la sanzione è stata, a ben vedere, mite. Non certo “durissima” come si sono affrettati a dire molti commentatori. Insomma: i giudici di Asti hanno applicato la legge, con equilibrio e saggezza. Fin qui, il diritto. Ma poi ci sono i sentimenti. C’è il ricordo di quel che l’orefice aveva già subito anni prima. C’è la comprensione per la sua rabbia verso i rapinatori che pochi istanti prima, sotto i suoi occhi, avevano vilmente legato la moglie. Ma tutto questo poteva giustificare una reazione anche violenta nel corso della rapina. Non l’inseguire e lo sparare alle spalle. “Almeno, hanno perso il vizio di venire a far rapine da queste parti”, ho sentito dire da un signore che abita a poche centinaia di metri dai luoghi del fatto. È un sentimento non so quanto diffuso ma certo non isolato. Ma proprio qui sta l’importanza di affidare l’amministrazione della giustizia a donne e uomini che non devono farsi dominare dai sussulti dell’animo. Indignazione, sdegno, simpatia, antipatia, sono lussi che il magistrato non si può permettere. Altrimenti, tanto vale mettere l’imputato nelle mani della folla affinché scelga tra Gesù e Barabba. La storia insegna che la “volontà del popolo”, che investe i giudici senza alcun schermo, è quella che - come ci racconta Alessandro Manzoni nella Colonna infame - portò i giudici milanesi a condannare gli untori. I giudici di Asti ci hanno ricordato tutto questo. Qualunque siano i sentimenti che in noi ha suscitato questa tragica vicenda, dobbiamo essere grati a questi giudici. Che ve ne siano tanti, anche in futuro, capaci del loro semplice coraggio. Se la toga pretende di “riequilibrare la volontà popolare” di Federico Tedeschini La Discussione, 6 dicembre 2023 Dobbiamo sicuramente ringraziare quel Magistrato emerso agli onori delle cronache per aver affermato - secondo quanto riferito dal ministro Crosetto - che fra i compiti del potere giudiziario rientrerebbe anche quello di “riequilibrare la volontà popolare”, dichiarando così (e neanche troppo timidamente) che ove tale volontà non dovesse rispettare determinati canoni, sarà compito dei giudici assicurare il perseguimento del bene comune attraverso misure correttive non meglio specificate dall’autore di una simile dichiarazione. Pur rimasto anonimo, dobbiamo ringraziare quel giudice perché -trent’anni dopo l’inizio delle ostilità fra magistratura e politica -ha finalmente dato voce ai presunti compiti etici che il potere giudiziario ha ritenuto di potersi legittimamente attribuire (talvolta negando di averlo fatto, talaltra sbandierandolo come inevitabile scelta), coprendolo dietro l’usbergo dell’assenza di ogni responsabilità civile per i danni che un simile modo di opinare possa creare. Valutare il comportamento di un magistrato che sostiene come il potere giudiziario debba riequilibrare la volontà popolare - pur se espresso in una riunione della propria associazione di categoria -richiede un’analisi accurata sotto diversi aspetti, tra cui il contesto legale, quello etico e, non ultimo, il suo riflesso sul principio diseparazione dei poteri e sulle sue pratiche conseguenze. In tutti i sistemi democratici, infatti, la separazione dei poteri è il fondamento stesso della Costituzione materiale. Secondo questo modello, Il potere giudiziario è incaricato di interpretare e applicare la legge, non di riequilibrare la volontà popolare, perché quella funzione è generalmente riservata al potere legislativo, che rappresenta, per delega, il popolo: un’affermazione del genere da parte di un magistrato potrebbe dunque sollevare preoccupazioni, almeno rispetto alla sua capacità di comprendere il proprio ruolo all’interno di un sistema che si vuole democratico. Lo stesso modello è però essenzialmente teorico: basti ricordare quanto avvenuto a proposito della disapplicazione degli atti normativi afferenti il fermo dei migranti clandestini per comprendere come, nella pratica, il comportamento di alcuni magistrati si muova - e non da oggi - attraverso un uso creativo delle potestà che la legge conferisce loro. Ma chi è “la legge” se non la principale manifestazione di quello stesso potere politico che taluni magistrati vogliono (e non da oggi) “riequilibrare”? Tutti sono d’accordo nel sostenere come un principio chiave che giustifichi il grande potere dei magistrati consisterebbe appunto nella loro imparzialità. Affermare di voler riequilibrare la volontà popolare potrebbe - al contrario - essere interpretato come segno di pregiudizio o di un’agenda politica redatta da un potere sviato, minando la percezione della loro imparzialità e indipendenza. Ciò potrebbe avere ripercussioni sulla fiducia del pubblico nello stesso sistema giudiziario: la progressiva caduta nel “gradimento” nell’uso della giurisdizione è la miglior prova di quanto appena affermato. Per far risalire la china al potere giudiziario nell’immaginario collettivo, un ruolo fondamentale potrebbe essere attribuito all’Associazione Nazionale Magistrati e alle sue “correnti”, queste ultime spesso fungono da forum per la discussione di questioni legali e politiche. Tuttavia, i commenti fatti in tali contesti dovrebbero rispettare i principi fondamentali della deontologia giudiziaria. È importante valutare se le affermazioni di cui qui ci occupiamo siano state fatte in un contesto di dibattito intellettuale o se riflettano un’effettiva intenzione di influenzare le decisioni e le misure da assumere, modificandole a seconda dei soggetti verso i quali il potere giudiziario vuol dirigersi. Anziché continuare a polemizzare, dunque, potrebbe essere utile mutare approccio, per esaminare come simili affermazioni sarebbero valutate in altri sistemi giudiziari, soprattutto quelli che si muovono in differenti contesti legali. Questo potrebbe fornire una più utile prospettiva per valutare il nostro sistema rispetto alle norme internazionali, almeno con riferimento al ruolo e ai doveri dei magistrati. In altre parole, un’analisi del comportamento di un magistrato che faccia tali affermazioni richiede un equilibrio tra il rispetto della libertà di espressione e la necessità di mantenere la fiducia nel sistema giudiziario, assicurando che tutti i giudici aderiscano ai principi di imparzialità e indipendenza, tenendo innanzitutto presente che la libertà di espressione di cui ciascuno di noi gode trova un limite invalicabile nel potere di cui egli stesso è investito. Albano: “In 30 anni detenuti raddoppiati. Nuovi reati, pene più alte: tutto ciò non serve a nulla” di Angela Stella L’Unità, 6 dicembre 2023 “Toghe politicizzate? Accusa a senso unico. C’è un sottosegretario alla presidenza del Consiglio che da anni fa avanti e indietro tra magistratura e politica”. Silvia Albano, giudice della sezione immigrazione del tribunale di Roma, è stata eletta presidente di Magistratura democratica in un momento molto critico per i rapporti tra politica e magistratura. Crosetto in Aula ha letto le dichiarazioni del suo Segretario Musolino al congresso di Area. Come si spegne il fuoco della polemica? Credo che siano state estrapolate delle frasi dal contesto di un intervento più ampio e ciò abbia portato a fraintendere il senso dell’affermazione. Cosa significa il ruolo “anti maggioritario” della giurisdizione l’ha spiegato molto bene Vladimiro Zagrebelsky su “La Stampa”. È un termine usato dai costituzionalisti e dai giuristi in generale, non solo in Italia, e riguarda i limiti che il potere di legiferare trova nella Costituzione e nelle Carte Sovranazionali. Alla giurisdizione i costituenti hanno assegnato il compito di garantire il rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona, inviolabili anche da qualsiasi maggioranza, ed è per permetterne lo svolgimento che ha previsto lo statuto di indipendenza della magistratura. Non un privilegio, ma garanzia per i cittadini. Del resto l’art. 1 Cost. stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, ma che questo “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: tutta la Costituzione è un dizionario di recinti al potere delle maggioranze, di tutte le maggioranze. Credo che se il confronto si spostasse su questi temi non dovrebbe esserci ragione di polemica. “Les Juges son la bouche de la loi”: perché non è così per voi? È un concetto superato da tempo nella cultura giuridica. Era il motto di Robespierre, superato dalla moderna cultura liberale. L’attività interpretativa è un’attività complessa, diventata ancora più complessa in un’epoca in cui la produzione normativa non è solo nazionale. Esiste un sistema di fonti normative di cui alcune sono sovraordinate (Carta dei Diritti fondamentali della UE, Convenzione Edu, solo per citarne alcune), che non possono essere violate dalle leggi ordinarie. Il giudice ha prima di tutto il dovere di interpretare le leggi alla luce di quelle, solo se un’interpretazione conforme non sia possibile, può sollevare questione di costituzionalità o proporre una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Ma questa ci dice anche che ogni giudice dell’Unione è anche un giudice europeo e che quando una norma interna viola le norme europee direttamente applicabili negli Stati membri il giudice ha il dovere di disapplicarle. L’attività interpretativa non è meccanica, le norme hanno spesso clausole generali che devono essere riempite di contenuti. Si pensi ad esempio alle numerose clausole “umanitarie” previste nel diritto dell’Unione o all’attività interpretativa che richiede un bilanciamento tra diversi diritti di rango costituzionale che possono nel caso concreto confliggere tra loro. Il risultato di questa attività non è univoco, il dibattito tra i giuristi è sempre stato molto vivace, anche per questo sono previsti diversi gradi di giudizio. Non pensa che il dibattito tra politica e magistratura debba porre nel cassetto quanto accaduto con Tangentopoli? Tangentopoli ha lasciato sul terreno un discorso pubblico distorto secondo me; il conflitto politico spesso non è più tra forti e deboli, visioni del mondo di destra e di sinistra, oppressi e oppressori, ma tra condannati e non condannati, imputati e non imputati. Mi pare che anche il dibattito nel campo del politico, per così dire, sia diventato preda del giudiziario. Al di là della commissione dei reati da parte di politici, la riflessione della politica dovrebbe essere sulla responsabilità politica dell’agire, non solo sulla responsabilità penale. Credo che questo limite del modo di fare politica debba essere superato e consentirebbe di assimilare in maniera più fisiologica le normali vicende giudiziarie in cui la politica può incappare. I ricorsi del governo avversi alle ordinanze della sezione immigrazione del Tribunale di Catania verranno discussi il 30 gennaio alle Sezioni Unite. Il presidente dell’Anm all’assemblea ha commentato: ciò “fa capire quanta ingiustizia ci sia stata in quegli attacchi nei confronti di questi quel magistrato”. I provvedimenti si possono sempre criticare, per carità, la critica dei provvedimenti ha fatto crescere la giurisdizione e ha favorito la sua evoluzione. Il problema è quando non si critica il contenuto del provvedimento ma si attacca la persona del magistrato, facendo intendere che strumentalizzi la sua attività giurisdizionale in funzione delle proprie idee politiche. Questa è un’accusa gravissima. Che idea si è fatta dell’operare di questo Governo verso la magistratura? Da un lato congelano la separazione delle carriere, dall’altra però vi attaccano, accusandovi di fare opposizione giudiziaria. La magistratura non fa opposizione giudiziaria, interpreta le norme sulla base dell’ordinamento giuridico, che è un sistema complesso. E questo può portare a risultati che non corrispondono ai desiderata del governo di turno. È la fisiologia dell’equilibrio dei poteri disegnato dei costituenti. Poi vedo una certa contraddizione in alcune affermazioni. Si accusa solo una certa parte della magistratura di essere vicina ad alcuni ambienti politici, ma abbiamo un sottosegretario alla presidenza del consiglio che viene direttamente dalla Corte di Cassazione e da molti anni fa avanti e indietro tra la giurisdizione e l’impegno politico attivo, anche in un partito. Abbiamo avuto un sottosegretario alla giustizia che veniva dalla giurisdizione ed era un leader della corrente attualmente maggioritaria della magistratura. Mi pare che le accuse alla magistratura di fare politica e di non apparire imparziale vengano mosse un po’ a senso unico. L’associazione Rosario Livatino - di cui è stato vice presidente l’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio e animata da tanti magistrati di quella parte della magistratura che viene definita come quella che svolge in silenzio il proprio lavoro - tra le campagne che rivendica di aver svolto c’è l’appello contro il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili (divenuto legge dello Stato) e il disegno di legge Zan. Ma è giusto: i giuristi, la magistratura hanno sempre partecipato al dibattito pubblico sulla giustizia e non a caso le associazioni della magistratura e i singoli magistrati vengono auditi nell’iter di approvazione delle leggi. Pensa che questo Governo stia abusando del diritto penale? Abbiamo assistito a una proliferazione di nuove fattispecie di reato e all’aggravamento delle pene già previste in altri casi, come se tutto si potesse risolvere col diritto penale, in un Paese nel quale abbiamo oltre 30.000 fattispecie di reato. Lo vedo un po’ in contraddizione col programma del Ministro Nordio, che in un’ottica garantista alludeva alla necessità di un diritto penale minimo. Ci sarebbe bisogno di un’opera seria di depenalizzazione, invece. Di fronte a reati sicuramente efferati che colpiscono l’emotività di ognuno si risponde creando una nuova fattispecie di reato o aggravando le pene. Non serve a nulla, come dimostrano i Paesi dove viene praticata la pena di morte. Occorre attivare un’opera di prevenzione, intervenire sulla riduzione della marginalità sociale, sulla sensazione di abbandono da parte dello Stato di fette del territorio del nostro Paese dove non ci sono servizi e spazi di aggregazione. Si è toccato con mano quanto a poco serva aggravare le pene per combattere la violenza sulle donne se non si favorisce, con ogni mezzo, una vera e propria rivoluzione culturale, che educhi al rispetto dell’altrui dignità e libertà, se non si ampliano i servizi al territorio, gli spazi di ascolto, anche nelle scuole. Il presidente di Antigone Gonnella al vostro congresso di Napoli ha detto: “Siamo arrivati a 60 mila detenuti, 12 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Ci stiamo pericolosamente avvicinando ai numeri che poi hanno portato alla nota sentenza Torreggiani”. Ritiene che da parte del legislatore ci sia una sottovalutazione della gravità del problema? Siamo in una situazione paradossale: negli ultimi trent’anni la vecchia criminalità individuale è crollata, gli omicidi si sono ridotti a meno di un sesto. Ma la popolazione carceraria è quasi raddoppiata: i detenuti erano 31.053 nel 1991 e sono oggi oltre 60.000; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1867, due terzi dei quali aggravati come “ergastoli ostativi”. Sembra essersi perso il senso del fine rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione. È impossibile effettuare effettivi percorsi di reinserimento sociale e lavorativo in carceri sovraffollate dove anche gli spazi di socialità spesso hanno dovuto essere eliminati. Costringere i detenuti a stare chiusi in piccole celle sovraffollate per 23 ore al giorno, come accade in certe carceri, costituisce trattamento inumano e degradante per cui rischiamo altre condanne. La vera sicurezza viene assicurata facendo in modo che chi esce dal carcere non si rimetta a delinquere ma possa reinserirsi nella società. Non si risolve il problema costruendo nuove carceri, ma valorizzando percorsi alternativi di pena che favoriscano il reinserimento sociale e lavorativo. Si ritorna ancora sulla necessità di investimenti sui servizi sociali e al territorio, nonché sul coraggio di tornare a ipotizzare il “numero chiuso” degli istituti penitenziari. Delmastro usa le parole di Mussolini: “spezzare le reni” alle correnti delle toghe di Liana Milella La Repubblica, 6 dicembre 2023 Pd, M5S e Avs: “Si dimetta”. Parlando ad Aosta a un’iniziativa di FdI il sottosegretario alla Giustizia definisce “cancerogeni” i gruppi associativi dei magistrati. Le dem Braga e Serracchiani caldeggiano la mozione di censura. Si caccia in un altro guaio, stavolta politicamente assai grave, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Cita una famosissima frase di Mussolini - “spezzeremo le reni” - parlando del correntismo dei magistrati. Lo fa ad Aosta ad un evento di FdI. Immediata la reazione del Pd che già alla Camera ha più volte insistito sulla mozione di sfiducia presentata dopo gli attacchi del collega di gruppo o e di casa Giovanni Donzelli che ha accusarti il Pd di stare dalla parte della mafia quando è andato a trovare l’anarchico Cospito in carcere a Sassari. Immediata la reazione delle dem Chiara Braga, capogruppo alla Camera, e Debora Serracchiani, responsabile Giustizia, “quelle parole hanno radici ben identificabili, ci aspettiamo che la premier Meloni e il ministro Nordio revochino le deleghe di Delmastro”. Chiedono che venga calendarizzata subito alla Camera la mozione di sfiducia sollecitata dopo il rinvio a giudizio di Delmastro la settimana scorsa. Ma sono entrambe stupefatte per il linguaggio usato dal sottosegretario: “Le sue parole sono gravissime nei confronti della magistratura. Errare è umano ma perseverare diabolico. Si tratta di parole inaccettabili e incompatibili. Un sottosegretario non può usare le espressioni del dittatore fascista. Qui non si tratta di attendere la sentenza definitiva, il suo è un linguaggio che va ben oltre la libertà d’opinione”. Anche M5S e Avs chiedono di calendarizzare subito la mozione di censura. Inoltre il Dem Walter Verini vuole che anche il guardasigilli Carlo Nordio si presenti immediatamente in Aula. Delmastro non ha risparmiato la sua verve anti toghe e anti sinistra ad Aosta. Ha definito l’anarchico Alfredo Cospito “un influencer della sinistra”, e poi rivolto al Csm e contro il correntismo dei magistrati ha preso in prestito l’espressione “spezzeremo le reni” alla magistratura. Subito Serracchiani ha segnalato parole da “nostalgico autoritario”, da “aspirante sovversivo” per cui “l’insulto è l’unica modalità di dialogo nota”. Il Pd non accetta “questa devastazione dei rapporti istituzionali, né di trasformare la riforma della giustizia in un campo di battaglia a colpi di manganello verbale”. Per concludere che “si possono avere idee diverse su molte cose, ma un sottosegretario non può degenerare al punto da citare Mussolini”. Numero femminicidi 2023: perché circolano dati così diversi? di Elisa Messina Corriere della Sera, 6 dicembre 2023 Sono 110? Oppure 88? O addirittura 40? Quanti sono stati davvero i femminicidi in Italia dall’inizio del 2023 fino al momento in cui scriviamo? Giunti quasi alla fine di un anno in cui, forse più di ogni altro anno, siamo stati portati a riflettere sulla violenza maschile sulle donne, questa domanda non ha una risposta unica. Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, a Milano sono stati letti i nomi di 107 donne uccise. Davanti al ministro dell’Interno Piantedosi, Nunzia de Girolamo, il 25 novembre ha parlato di “109 femminicidi” e il ministro non ha eccepito. Ci sono poi letture sorprendentemente diverse, come quella fatta dal prefetto di Padova Francesco Messina (l’ex capo dell’Anticrimine), secondo il quale (dichiarazione del 25 novembre), non sarebbero più di 40. Nel sito del Ministero dell’Interno, il report sugli omicidi volontari (aggiornato ogni settimana e l’ultima versione è del 4 dicembre) conta 109 donne uccise di cui 90 ammazzate in ambito familiare/affettivo. Alla data del 25 novembre le vittime in ambito familiare-affettivo erano 87, quindi un numero diverso da quel 106 letto e scritto nelle tante celebrazioni ufficiali contro la violenza. E 88 vittime conta il nostro database della 27esimaOraL’Osservatorio del movimento femminista “Non una di meno”, aggiornato però all’8 novembre, allarga ulteriormente il tiro e conta 110 vittime suddivisi però in “94 femminicidi, 1 trans*cidio, 9 suicidi e 6 morti in fase di accertamento indotti o sospetti indotti da violenza e odio di natura patriarcale”. Come è possibile che su un dato apparentemente così oggettivo e terribile ovvero la conta delle donne vittime di delitti di genere, ovvero, uccise in quanto donne, da uomini, ci possa essere discordanza? Tutto dipende dal fatto che non esiste una banca dati istituzionale dedicata ai femminicidi perché “giuridicamente” il femminicidio non esiste nel nostro Codice Penale. Ma non esiste ancora neppure una definizione istituzionale di femminicidio condivisa dai 27 paesi dell’Unione europea come sottolinea anche l’Eige, l’agenzia europea per l’uguaglianza di genere. Quindi diventa difficile dare il numero “ufficiale” di delitti la cui definizione criminologica e giuridica ancora non c’è. In Italia e in Europa. Spieghiamola ancora meglio. Il Codice Penale non identifica il femminicidio come un preciso reato: è un omicidio (articolo 575) ma non esiste come “fattispecie di reato” come, per esempio, l’omicidio stradale. Dal 2013 a oggi, una serie di decreti hanno introdotto pene più severe per i delitti di donne che avevano una relazione qualificata (quindi soprattutto familiare o affettiva) con l’omicida. Esiste, per questi casi, l’ipotesi di delitto aggravato. Ma non esiste all’interno del nostro sistema di leggi penali la parola “femminicidio”. Così come non esiste la definizione giuridica di “delitto di genere” che poi è la stessa cosa. Il report settimanale del Ministero dell’Interno non usa la parola femminicidio ma si intitola “Monitoraggio e analisi dell’andamento dei reati riconducibili alla violenza di genere”. Come se ne esce? In assenza di definizioni giuridiche dobbiamo cercare le definizioni statistiche. Come spiega l’Istat nel suo rapporto annuale sul Benessere equo e sostenibile (Bes): “vengono definiti omicidi di genere, comunemente detti femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le variabili necessarie per identificare un femminicidio sono molte e riguardano sia la vittima, sia l’autore sia il contesto della violenza”. Facendo poi riferimento alle definizioni date dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite l’Istat precisa che esistono tre tipologia di “gender-related killing”: gli omicidi di donne da parte del partner, quelli da parte di un altro parente o di un’altra persona, sia conosciuta sia sconosciuta, che però avvenga attraverso un modus operandi o in un contesto legato alla motivazione di genere. Tra queste sono comprese, per esempio, anche le donne vittima della tratta, del lavoro forzato, dello sfruttamento della prostituzione. Le donne che sono state private illecitamente della libertà, che sono state violentate prima dell’uccisione. Un altro discrimine che ci permette di parlare di femminicidio è la differenza di posizione gerarchica tra la vittima e l’autore; se il corpo è stato abbandonato in uno spazio pubblico; se la motivazione dell’omicidio costituiva un crimine d’odio di genere (cioè se vi era un pregiudizio specifico nei confronti delle donne da parte degli autori). L’Istat precisa poi che in Italia, al momento non sono disponibili tutte queste informazioni, ma che “in futuro si potranno rilevare grazie alla collaborazione inter-istituzionale con il Ministero dell’Interno, rinforzata dalle richieste della Legge 53/2022 che obbliga l’Italia a misurare la violenza di genere”. L’Eige, l’agenzia europea per la parità di genere, seguendo la linea data dalla commissione statistica delle Nazioni Unite, ha steso un rapporto sul tema facendo una comparazione tra le raccolte dati e gli indicatori usati nei vari Paesi Ue e nel Regno Unito. E arriva a concludere, per esempio, che, oltre ai casi di delitti compiuti da partner o ex partner, sono da considerare femminicidi “l’uccisione di donne e bambine per i cosiddetti motivi d’onore e altre uccisioni conseguenti a pratiche dannose, l’uccisione mirata di donne e ragazze nel contesto di conflitti armati, nonché i casi di femminicidio collegati a bande, alla criminalità organizzata, a traffici di droga e alla tratta di donne e ragazze. E anche i delitti commessi contro donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere”. A questo punto è evidente che la definizione statistica e sociologica si muove su binari diversi rispetto a quelli usati dal report del Viminale. Il rapporto della Polizia infatti, distingue, tra le 109 donne uccise dal primo gennaio al 4 dicembre, i delitti commessi in ambito familiare affettivo (90) e tra questi, quelli commessi da partner o ex partner (58). Ovvero conta gli omicidi di donne che avevano una relazione, per così dire “qualificata” con l’autore del delitto. Ma non rientrerebbero tra le 90, per esempio, le prostitute uccise da un cliente occasionale, che invece, sulla base delle classificazioni statistiche delle Nazioni Unite e dell’Eige dovrebbero rientrare a pieno nella definizione del delitto di genere, o quelle uccise in ambito lavorativo. Ma del resto la Polizia di Stato non può che rifarsi al nostro contesto giuridico. Per questo, anche durante le celebrazioni del 25 novembre praticamente ovunque si è citato il numero complessivo delle donne uccise (107 al 23 novembre, 109 al 4 dicembre) e nessuno (ministro compreso) ha eccepito. E quel “40 femminicidi al massimo” di cui parla il prefetto di Padova (ex direttore dell’anticrimine)? Messina fa, probabilmente, un distinguo sulle motivazioni del delitto compiuto da partner o ex partner, basandosi solo sulle motivazioni affettive ed escludendo, per esempio, quelle economiche/ereditarie. Come vediamo il problema di definizione resta. Ma allora, 109 donne uccise vanno intese 109 presunti femminicidi? In un certo senso sì. Ed è per questo che, soprattutto in occasione del 25 novembre, si considera il dato delle donne uccise tout court. Poi subentrano però una serie di distinguo che, come abbiamo visto, rispondono a classificazioni ma soprattutto ad approcci diversi: c’è quello giuridico/penale e quello statistico/sociologico. Esiste anche una definizione “politica”? Volendo cercare una prima definizione in ambito politico-istituzionale nel nostro Paese, la troviamo nel dossier realizzato dalla prima Commissione parlamentare italiana sui femminicidi: “Uccisioni di donne da parte di un uomo determinate da ragioni di genere”. Le parlamentari si sono basate sulle dichiarazioni della Convenzione di Istanbul, ovvero la convenzione del Consiglio d’Europa “sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” ratificata anche dall’Italia nel 2013, in cui si definisce la violenza di genere come “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. La violenza di genere, ovvero quella contro le donne in quanto donne, in quest’ottica, non è quindi un’emergenza ma un fenomeno strutturale per via di stereotipi sedimentati nella nostra società che ne influenzano l’organizzazione e legittimano la disuguaglianza tra i generi. Questo è, precisano le senatrici rifacendosi alla Convenzione, il sottobosco della violenza di genere e della sua più estrema manifestazione: il femminicidio. Per concludere, quando si parla di femminicidio non si può prescindere dal contesto di discriminazioni e pregiudizi sociali in cui questo avviene. E l’Enciclopedia Treccani, citando i più importanti studi sul tema, arriva a precisare che il termine femminicidio “indica sempre la motivazione patriarcale alla base di questi omicidi e altre forme di violenza sulle donne”. Ecco a cosa ci riferiamo quando, accademicamente, si usa la parola “patriarcato”. La definizione politica, dunque, esiste e si aggiunge a quella statistica e ne delinea il contesto. Tirando le fila di tutti questi ragionamenti dobbiamo concludere che finché gli approcci al femminicidio saranno diversi, vedremo conteggi diversi. In attesa di una definizione giuridica del delitto di genere, ogni conteggio difforme da quello del Viminale può essere definito ideologico come quello dell’Osservatorio di “Non una di Meno”, ma forse questo è un modo troppo facile per liquidare il problema. E che, oltretutto, presta il fianco a letture strumentali e divisive di un tema che, invece richiede unità. Pagelle ai magistrati? Ecco perché resteranno una chimera di Valentina Stella Il Dubbio, 6 dicembre 2023 Agli allarmi sul nuovo fascicolo di valutazione che hanno già portato, un anno fa, allo sciopero dell’Anm, si aggiunge il consueto anatema di Gratteri. Ma si tratta di previsioni “inutilmente” apocalittiche: per misurare davvero le toghe servirebbe un sistema informatico che per ora, al Csm come a Via Arenula, esiste solo nel mondo dei sogni. Dalle pagine di Repubblica il procuratore Nicola Gratteri ha avanzato forti critiche sulle cosiddette pagelle dei magistrati, nella loro nuova previsione normativa introdotta dai decreti attuativi della riforma Cartabia, approvata pochi giorni fa in Consiglio dei ministri. “Non sono solo inutili- ha detto - ma addirittura dannose: i magistrati si preoccuperanno più di avere le carte in ordine che di fare giustizia”. La sua è una delle tantissime voci che, nell’ordine giudiziario, stigmatizzano, sotto vari profili, le nuove modalità di giudizio del lavoro dei colleghi. E non scordiamoci che lo scorso anno per l’Anm fu uno dei principali motivi alla base dell’astensione. Ma davvero è giustificato questo allarmismo? Oppure la macchina informatica necessaria per rendere operativo il “fascicolo di valutazione” è di fatto impossibile da attivare? Nella bozza del decreto Nordio leggiamo, tra l’altro, che la valutazione di professionalità “è operata secondo parametri oggettivi che sono indicati dal Csm” e che Palazzo dei Marescialli “disciplina con propria delibera gli elementi in base ai quali devono essere espresse le valutazioni”. La mole di dati da raccogliere nel nuovo “fascicolo del magistrato” si prefigura abbastanza copiosa. Ad oggi, il ministero della Giustizia gestisce una banca dati relativa all’organizzazione giudiziaria rispetto ai dati sugli affari civili e penali, e una sulle azioni disciplinari promosse dal guardasigilli. Ma ci sono molte lacune nel sistema che, ad esempio, non è in grado di elaborare statistiche con gli stessi parametri rispetto a tutti i distretti. Come si può pensare allora di gestire il nuovo fascicolo di valutazione? Una fonte del Csm confida, in via riservata, che “stiamo cercando di formare un’elaborazione statistica autonoma rispetto a quella del ministero. L’ambizione è quella di riuscire a fare le valutazioni di professionalità sulla base di dati nostri che dovrebbero essere diversamente configurabili e gestibili con un sistema informatico interno”. La necessità, ci spiega, nasce dal fatto che “sebbene le statistiche del ministero siano abbondanti, il problema è che gli uffici giudiziari, ad esempio, iscrivono procedimenti spesso in maniera non uniforme”. Quindi “ci sono statistiche che sono più attendibili perché i procedimenti rispondono a criteri di iscrizione molto riconoscibili e identificabili, altre più confuse e meno attendibili”. Questo “vale per le Procure dove, a seconda delle diverse visioni, un procedimento resta iscritto a modello 45 o modello 44 di più di quanto non avvenga in altri uffici inquirenti”. Il dato è importante perché “la qualità del carico di lavoro è significativo per la valutazione di professionalità prima ancora degli esiti dei procedimenti”. La criticità dunque risiede nella mancanza di prassi condivise: “In alcuni uffici le iscrizioni le fa il magistrato, in altre la cancelleria”, segnala ancora la fonte di Palazzo dei Marescialli. E poi manca una “valutazione del singolo affare: uno lo qualifica giuridicamente in un modo, un altro in maniera diversa, come succede nel civile, dove le iscrizioni avvengono in base alle indicazioni che dà l’avvocato attraverso il codice di riferimento dell’affare”. Posto dunque che il sistema ministeriale non è adeguato al compito richiesto dalla riforma Cartabia-Nordio, l’auspicio è quello di poter gestire la questione internamente al Csm. Ma “occorrono fondi, tempo, capacità e personale adatto per gestire una macchina informatica del genere e saper sistematizzare tutte le fonti”. E il tempo non aiuta, visto che tra non molto la riforma sarà legge: “Questo sicuramente è vero. È chiaro che all’inizio dovremmo fare alla vecchia maniera, con il materiale che già si possiede, e poi col tempo si spera di avere a disposizione un sistema meglio congegnato agli scopi”. Ma quindi l’allarme di Gratteri è giustificato. date tutte queste difficoltà tecniche? “Comunque esiste un messaggio culturale nella riforma scritta - conclude la nostra fonte - che viene passato. Comunque se tu sai che nella tua città ci sono dei divieti, sei più cauto a prescindere dal fatto se quei divieti poi verranno applicati. Se tu sai che non ci sono, guidi con maggiore senso di libertà”. Molto critico resta il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che ci dice: “In generale ci stiamo scontrando quotidianamente con mille difficoltà proprio sul versante delle strutture informatiche: le lacune e i deficit sono tanti. Dal processo penale telematico che fortunatamente slitterà, al processo telematico minorile, a quello dei giudici di pace e alle continue interruzioni nel funzionamento degli applicativi del giudizio civile. L’informatica è il lato molto debole dell’organizzazione dei servizi: su questo abbiamo chiesto reiteratamente interventi più incisivi al ministero”. Di conseguenza, anche rispetto al fascicolo redatto informaticamente “ci saranno molti problemi. Però io non vorrei che passasse l’idea che questa legge abbia instaurato un sistema di valutazione basato su ciò che il magistrato ha prodotto. È sempre stato così. Non è vero che non siamo già valutati su quello che scriviamo. La rilevazione a campione dei provvedimenti dei magistrati secondo criteri obiettivi e predeterminati c’è sempre stata. Stanno vendendo per novità alcune previsioni che già esistono, e si tace sulle criticità delle novità. Mi riferisco alla enormità del fascicolo che ricadrà sulle valutazioni. Più il fascicolo sarà onnivoro, più chi lo dovrà gestire non avrà le capacità in concreto per poterlo fare. Credo che la strada imboccata sia quella di un depotenziamento del sistema di valutazione. La prospettiva è errata dall’inizio”. C’è, tra l’altro, un ampliamento delle fonti: “Leggo nello schema del decreto che anche i risultati dei giudizi successivi verranno acquisiti a campione. Ma se si deve trovare una grave anomalia, essa la si rileva non sul campione ma rispetto a tutti i procedimenti. Già oggi i cancellieri non riescono a fare il minimo per gestire i processi, dovranno pure fare, per tutti i magistrati in valutazione, questo tipo di attività. E poi chi dovrà leggere tutto per elaborare la valutazione rischia di non leggere nulla alla fine. Che tutto questo poi venga fatto informaticamente da un ministero che fa acqua da tutte le parti è desolante”. Intercettazioni, la vita di Beniamino Zuncheddu affidata a un dj pagato 2€ l’ora di Andrea Aversa L’Unità, 6 dicembre 2023 Zuncheddu è libero dopo essere stato ingiustamente detenuto per 32 anni. Si dovrà rifare il processo. Cosa fareste se sapreste che la vostra libertà, la vostra vita, potrebbe essere affidata a persone incompetenti e pagate una miseria? Avreste ancora fiducia nella giustizia, nella politica e nelle istituzioni? Probabilmente no. Soprattutto quando in Italia ci sono storie come quella di Beniamino Zuncheddu, scarcerato dopo essere stato detenuto ingiustamente per 32 anni. Prigioniero di una falsa accusa di omicidio. In pratica e in attesa della revisione del processo, quest’uomo - ritenuto per sbaglio un assassino - ha perso gran parte della sua esistenza a causa di svariati errori giudiziari. Passi falsi commessi durante le indagini, commessi nella gestione delle testimonianze (proprio il ‘super testimone’ al centro dell’inchiesta ha ritrattato le sue dichiarazioni affermando di aver subito pressioni dalle forze dell’ordine, desiderose di trovare al più presto un colpevole) e commessi nella trascrizione delle intercettazioni. Ed è su questo argomento sul quale ci focalizzeremo. In occasione del XIII Congresso degli iscritti italiani al Partito Radicale, svoltosi a Roma lo scorso 4 novembre e registrato da Radio Radicale, l’analista fonico forense Walter Macialis ha potuto descrivere in modo chiaro come funziona il ‘sistema’ delle trascrizioni delle intercettazioni. E lo scenario descritto è stato davvero drammatico. Soprattutto se consideriamo il fatto che le intercettazioni sono spesso la prova principale a disposizione, prima di un magistrato e in seguito di un giudice in sede processuale. Ma le registrazioni sono anche un’opportunità per i giornalisti di fare uno scoop e dare inizio alla classica gogna mediatica. Insomma, le intercettazioni se utilizzate male non sono più uno strumento volto al raggiungimento della verità ma un’arma utile per i propri scopi professionali. Chi è Beniamino Zuncheddu: la storia - E in Italia, in questo settore, di professionalità ce n’è ben poca. Secondo quanto spiegato da Marcialis nel Belpaese lo Stato spende circa 250 milioni di euro l’anno per tutte le tipologie di intercettazioni: telefoniche, ambientali e informatiche. Per rielaborare quelle relative al ‘caso-Zuncheddu’ ci sono voluti circa 3 anni. A trascrivere le varie registrazioni ci pensano specifiche società. Primo elemento degno di nota: non esistono profili professionali e standard qualitativi particolari, richiesti dalle procure, per lo svolgimento di quest’attività. Così come non esistono dei centri o dei laboratori tecnici dotati delle dovute strumentazioni, fatta eccezione per le sedi dei Ris a Roma e Reggio Calabria. A nominare i periti è il Tribunale. In tutta Italia ci sono sì e no cinque professionisti di settore che fanno prettamente questo lavoro. Beniamino Zuncheddu: vittima della (mala) giustizia italiana - Tale prassi come è regolamentata? E qui veniamo al secondo e fondamentale elemento: nel 2023, nell’era dell’intelligenza artificiale, il ‘sistema-intercettazioni’ e conseguenti trascrizioni, risponde a una legge del 2002 (vent’anni fa!). Secondo questa norma, privati cittadini possono essere incaricati di sbobinare le registrazioni. Qual è la paga prevista? Due euro netti l’ora, per otto ore di lavoro al giorno! A sua volta, tale dispositivo, ha modificato un decreto regio, per il quale le intercettazioni erano trascritte da dipendenti pubblici, il cui compenso veniva valutato come straordinario. Marcialis ha raccontato che molto spesso sono studenti senza alcuna esperienza che per racimolare qualche soldo si cimentano in questo lavoro. Ci rendiamo conto dell’assurdità? Eppure, ad oggi, l’argomento intercettazioni è ancora un tabù. Beniamino Zuncheddu: le intercettazioni - Sapete chi ha fatto parte del team di periti che hanno trascritto le intercettazioni relative al caso di Zuncheddu? Un dj per feste di bambini! E se pensiamo che un dj è diventato ministro della Giustizia, effettivamente tutto torna. Passiamo ora agli aspetti tecnici e pratici che dimostrano quanto il ‘sistema-intercettazioni’ andrebbe riformato, perché vittima di un vuoto legislativo. Secondo una sentenza della Cassazione, l’attività di trascrizione delle registrazioni è prettamente meccanica. Marcialis ha spiegato che è assolutamente - da un punto di vista pratico - falso. Almeno per quanto riguarda l’Italia. Il sistema delle intercettazioni - Il nostro è un paese dai tanti dialetti e caratterizzato da una comunicazione non verbale che rende il contesto nel quale è intercettata una conversazione, di difficile comprensione. Non solo, spesso si parla per antifrasi, ovvero si afferma qualcosa dichiarando l’esatto contrario. Altra prova che dimostra quanto sia impossibile seguire il principio di normalizzazione della lingua (metodo valido per la trascrizione di libri e / o manoscritti), per le intercettazioni? Il numero di vocali che abbiamo a disposizione: nella lingua italiana sono cinque; ad esempio, nel dialetto napoletano e in quello sardo, sono rispettivamente 7 e 9. Walter Marcialis al congresso del Partito Radicale - Poi ci sono i mezzi, le tecnologie. Marcialis ha spiegato che nelle procure, all’interno delle sale dove vengono ascoltate e trascritte le intercettazioni, vi sono postazioni da 600 euro (stiamo parlando di un pc e di un paio di cuffie). Quelle che invece usa l’analista hanno un valore di migliaia di euro, tra software e hardware (solo le cuffie possono costare anche 1000 euro). Infine, Marcialis ha posto l’attenzione sullo squilibrio che c’è tra accusa e difesa in relazione al processo: i pareri degli inquirenti hanno più peso di quelli dei difensori. Ma c’è una differenza, ha ribadito l’analista, se un investigatore, un esponente delle forze dell’ordine, sbaglia a trascrivere una registrazione, commette un semplice errore. Se a fare lo stesso sbaglio è un professionista, quest’ultimo è perseguibile per legge. L’evento su Radio Radicale - Insomma, ecco a quale sistema i cittadini italiani - del tutto inconsapevoli - affidano la responsabilità della propria libertà e della propria vita. Questa ‘ignoranza’ ha portato Beniamino Zuncheddu a farsi da innocente 32 anni di carcere. Una storia di inciviltà, propria di un Stato irrispettoso del diritto. Eppure, tali errori hanno colpito migliaia di persone. E questa barbarie continua ad accadere continuamente nella totale indifferenza. I carteggi di Cospito e Messina Denaro e la giustizia morale della magistratura di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 6 dicembre 2023 Esprimere il desiderio di sovvertire lo Stato, pur essendo un concetto riprovevole, non è illegale e non dovrebbe giustificare un regime carcerario come il 41bis. Così come esprimere sentimenti per un criminale potrebbe essere discutibile, ma non dovrebbe essere un motivo per comminare misure restrittive. L’altro giorno, durante una trasmissione televisiva, mi è capitato di ricordare quel che scrisse Alfredo Cospito a proposito del 41bis: il sistema di tortura legalizzata che, per impedire a mafiosi e terroristi (a volte in custodia cautelare, e perciò tecnicamente innocenti) di comunicare con l’esterno, finisce per disporre divieti che sarebbero buffi se non fossero tragicamente effettivi: dai minuti d’aria per non concedere troppa letizia al detenuto fino all’inibitoria della musica neomelodica, perché il boss potrebbe ritrarne motivi di rinvigorito orgoglio. Cospito scriveva, in una lettera dalla sua prigionia, di ritenere incivile il regime del 41bis, incivile non perché lui vi fosse sottoposto ma per chiunque. In collegamento c’era il noto “garantista nel processo e giustizialista nella pena” Andrea Delmastro Delle Vedove, il legittimo confidente dell’onorevole Giovanni Donzelli, il quale ha creduto di rinfacciarmi che Cospito al 41bis ci doveva restare perché nelle sue lettere scriveva cose sovversive. Ho ripensato alla cosa l’altro giorno, sulla notizia dell’arresto della figlia dell’amica di Matteo Messina Denaro. Perché ancora una volta è da una lettera (da una “missiva”, come si legge in stile carabinieresco nel provvedimento di giustizia) che si pretende di ricavare materia per giustificare una misura di limitazione della libertà personale (sia essa quella più tenue dell’arresto ai domiciliari, sia invece quella più stringente del cosiddetto carcere duro). Dice: lettere di istruzioni a qualcuno per commettere delitti? No, appunto: lettere che (nel caso di Cospito), accanto alla denuncia dell’ingiustizia del 41bis recavano considerazioni e propositi, farneticanti fin che si vuole, sulla necessità di abbattere lo Stato; e lettere che (nel caso della figlia dell’amante del boss) manifestavano trasporto e sentimenti filiali per il latitante (addirittura “venerazione”, si apprende). Due casi diversissimi, ovviamente, ma resi simili dall’occhio inquirente che in modo identico, in un caso e nell’altro, fa lo scrutinio dei vagheggiamenti altrui con la pretesa di raddrizzarne l’orientamento pervertito. Non si capisce, evidentemente, che il compito della giustizia è un altro: non si capisce che desiderare la sovversione delle istituzioni statali sarà riprovevole ma non è illecito e non giustifica irrigidimenti del regime carcerario; non si capisce che il lasciarsi andare alla manifestazione di simpatia e sensi amorosi per un criminale sarà anche discutibile secondo il criterio altrui, ma non è un delitto e non può essere messo sul conto della persona da arrestare, che magari va arrestata ma non per quel motivo (e se non è quello il motivo per cui l’arrestano, allora non si capisce perché vi si faccia riferimento nel provvedimento di arresto). Tutto questo per dire cosa? Solo per dire che c’è un sottosegretario alla Giustizia con scarse cognizioni e parecchia disinvoltura e una magistratura che largheggia in indagini valoriali sugli scritti di una donna che vuole bene all’amico mafioso della madre? Sì, solo per dire questo: e solo per dire che nessuno ne ha detto niente. Sardegna. Addio a Granfranco Pala, il direttore che parlava ai detenuti ansa.it, 6 dicembre 2023 Riaprì l’Asinara per capimafia e gestì passaggio Buoncammino-Uta. È morto al Policlinico di Monserrato Gianfranco Pala, 64 anni, originario di Decimomannu, dopo una vita professionale dedicata all’amministrazione penitenziaria. Nel 1989 fu direttore di Badu e Carros, a Nuoro. Dal 1991 ebbe l’incarico di riaprire l’Asinara attrezzando il 41 bis a Fornelli che dal 1992 in poi ospitò circa 250 capimafia, tra i quali Totò Riina, Leoluca Bagarella, Francesco Schiavone. Fu poi alla guida del carcere di Buoncammino, a Cagliari: nel 2014 gestì il trasferimento a Uta. Ha sempre lavorato per l’apertura del carcere alle associazioni di volontariato, per consentire ai reclusi una detenzione meno afflittiva. “Il suo ruolo - ricorda Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, in prima linea nelle carceri sarde - non gli evitava di manifestare, al pari del rigore nelle risposte, empatia, umanità e sensibilità. Effettuava colloqui quotidiani con le donne e gli uomini privati della libertà ricordando sempre a se stesso che la sua posizione non poteva ammettere incertezze e ripensamenti ma consapevole che dare una risposta seppure negativa significava sottrarre la persona detenuta alle mille illazioni che gli avrebbero procurato una sofferenza”. Presidente regionale della Federazione pugilistica italiana, fino all’ultimo con tutte le sue forze ha girato la Sardegna garantendo la sua preziosa esperienza e presenza in tutte le manifestazioni di pugilato e nelle riunioni organizzate per migliorare e fare crescere una disciplina sportiva che amava fin da ragazzo. Sanremo (Im). Caso Scagni, i diritti dei colpevoli di Luigi Manconi La Repubblica, 6 dicembre 2023 Può un uomo, sotto la custodia dello Stato, rimanere ostaggio di altri detenuti per ore? E può subire violenza non una volta, ma due volte, in due istituti penitenziari diversi? Pochi giorni fa una donna è stata accompagnata nella cella dove suo figlio è stato violentemente picchiato per ore dai suoi compagni. Nello spazio angusto dove era recluso il figlio rimangono ancora le tracce del pestaggio: una scarpa, del sangue, il tavolo e i letti rivoltati. La donna è Alessandra Zarri, madre di Alberto Scagni, detenuto nel carcere di Sanremo, e di Alice Scagni, morta per mano del fratello nel maggio del 2022. “Sono arrivata in carcere alle ore 10” - racconta Zarri alla Senatrice Ilaria Cucchi - “e verso le 11:25 sono stata accompagnata alla cella 6. Quella in cui è stato massacrato Alberto, mio figlio. Davanti alla cella 6 c’è la cella 9. Ci sono tre persone detenute, appena rivolgo lo sguardo si avvicinano e mi dicono: ci dispiace per quello che è successo, abbiamo chiamato noi, abbiamo cercato di fermarli”. Può un uomo, sotto la custodia dello Stato, rimanere ostaggio di altre persone detenute per tre lunghissime ore? E può subire questo tipo di violenza non una volta, ma due volte, in due istituti penitenziari diversi? La senatrice Cucchi nel suo post ricorda la vicenda della madre di Scagni che, quando ancora sua figlia era viva, aveva tentato insieme alla famiglia di comunicare il disagio psichico di Alberto. Sapevano fosse fortemente malato, avevano chiesto aiuto ai servizi, avevano denunciato la possibile pericolosità del loro familiare. E dopo l’uccisione della sorella Alice, la sua “incapacità di cogliere la realtà” (dice la madre) si era acutizzata, fino a rendere Alberto ancora più estraneo al mondo circostante. I genitori avevano chiesto che il figlio pagasse per quanto aveva fatto, soprattutto - sottolineavano - “per evitare che qualcun altro si facesse del male”, ma allo stesso tempo avevano denunciato l’ingiustizia di recluderlo senza curarlo. Lui, come tutti coloro che soffrono di una patologia psichiatrica, aveva bisogno di un percorso terapeutico che in carcere gli è stato costantemente negato. A oggi Alberto Scagni è in prognosi riservata e, fanno sapere, una volta guarito sarà trasferito in un altro carcere. Il rischio, lo sappiamo, è che il trasferimento in una nuova cella di una nuova prigione potrebbe risultare un ulteriore passo verso la morte. Milano. Il Consiglio comunale: “Chiudere subito il Cpr di via Corelli” di Massimiliano Melley milanotoday.it, 6 dicembre 2023 Approvato l’ordine del giorno di Giungi (Pd): “Condizioni interne vergognose”. Per Nahum (Pd) “è un posto paragonabile a un lager”. L’indagine della magistratura. Chiudere subito il Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) per migranti in via Corelli: il consiglio comunale di Milano ha approvato, lunedì sera, l’ordine del giorno presentato da Alessandro Giungi del Partito democratico con cui si chiede al ministro degli Interni e alle altre istituzioni competenti la chiusura immediata della struttura, su cui è caduta la tegola di un’indagine della magistratura che ha scoperchiato condizioni di vita inaccettabili, dal cibo avariato alla mancanza di un vero presidio medico. Chi comanda al Cpr di Milano - L’aula di Palazzo Marino ha approvato l’ordine del giorno con 28 voti a favore, tutti della maggioranza di centrosinistra e 9 contrari. “Noi denunciavamo già le condizioni del Cpr di Milano, come l’abuso di psicofarmaci”, ha spiegato Giungi: “Anche il 22 novembre, in sotto-commissione carceri, avevamo avuto il Naga che ha ricordato, nel suo report, le condizioni igienico-sanitarie catastrofiche del Cpr, le persone che avevano tentato il suicidio, la mancanza di educatori e mediatori. Ora l’indagine della procura sta confermando ciò che sapevamo. Ci sono persone detenute in via amministrativa che non vengono nemmeno fatte curare e i gestori sono indagati per reati gravissimi, è una vergogna inaccettabile”. La giunta ha preferito non esprimersi sull’ordine del giorno, rimettendosi al consiglio comunale. In giornata il sindaco Giuseppe Sala aveva chiarito che, a suo parere, la questione del Cpr andava affrontata al più presto, ma il nuovo prefetto di Milano, Claudio Sgaraglia, aveva chiesto qualche giorno di tempo per studiare la situazione. Forse anche per questo l’assessora Arianna Censi, facendosi portavoce dell’amministrazione quando è stato richiesto il parere della giunta, in aula ha detto le fatidiche parole, “rimettiamo al consiglio”, che hanno scatenato putiferio tra i banchi, anche se la stessa Censi ha poi aggiunto, a livello personale, che lei e altri assessori erano d’accordo col testo. Le storie di chi è dentro al Cpr - Per Chiara Valcepina di Fratelli d’Italia, il punto non è tanto chiudere il Cpr ma “aumentare il numero di posti garantendo dignità e accoglienza a queste persone”, poiché il “presupposto è che chiunque sia in quei posti deve ricevere assistenza”. Molto simile la posizione della Lega, espressa da Alessandro Verri: “I Cpr sono utili, anzi dovremmo aprirne di più. Nel Cpr ci sono persone ritenute pericolose per la società, bisognerebbe mettere più risorse per riaprire le strutture di via Corelli che oggi sono inagibili. Il problema del Cpr è la gestione: credo che vada cambiata la cooperativa, non che vada chiuso il centro”. Di tutt’altro avviso il centrosinistra nella sua interezza. Da Giulia Pastorella, vice presidente di Azione e capogruppo dei Riformisti, che ha chiesto di aggiungere la sua firma al testo, a Carlo Monguzzi, capogruppo di Europa Verde, secondo cui “il Cpr di via Corelli va chiuso. Nel Paese che noi vorremo o almeno nella città che governiamo, chi non ha commesso un reato non deve essere messo in prigione”. Daniele Nahum, consigliere del Pd e presidente della sotto-commissione carceri, ha evidenziato che “solo il 12 per cento delle persone presenti nei Cpr è transitato nelle carceri.”. E poi si è chiesto: “È ammissibile che ci sia un posto paragonabile a un lager? Noi stiamo parlando di uno Stato che permette una detenzione che ricorda gli anni più bui del secolo passato”. E, per giovedì 7 dicembre, è stato indetto un presidio contro il Cpr da parte della rete “Mai più lager - No ai Cpr”. Gli attivisti, i cui dossier sono stati acquisiti agli atti dell’inchiesta della procura, che indaga per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta, si sono dati appuntamento alle 10 di mattina davanti al Teatro Dal Verme, dove consegneranno simbolicamente i ‘Corellini d’oro’, mentre all’interno si terrà l’annuale cerimonia degli Ambrogini. E il prefetto Claudio Sgaraglia, appena insediatosi, ha commentato che la prefettura ha fatto ispezioni periodiche, così come i vigili del fuoco e l’Ats. “Spesso sono state verificate irregolarità e irrogate sanzioni”, ha detto, aggiungendo di avere già parlato col procuratore dell’indagine in corso, che vede tra gli indagati il gestore di fatto e la legale rappresentante della cooperativa che ha in appalto la gestione della struttura. Alghero. Il Consiglio pronto alla nomina del Garante dei detenuti L’Unione Sarda, 6 dicembre 2023 Un atto che arriva dopo le discussioni nelle competenti commissioni consiliari. Dopo aver approvato il regolamento, il Consiglio comunale di Alghero il prossimo 13 dicembre procederà con la nomina del Garante dei detenuti. Un atto che arriva dopo le discussioni nelle competenti commissioni consiliari che si erano svolte alla presenza dei vertici della casa di reclusione “Giuseppe Tomasiello” di Alghero, con la direttrice Elisa Milanesi, e il professor Emanuele Farris del Polo Universitario Penitenziario di Sassari. Era stato il presidente della commissione Sanità e Ambiente, Christian Mulas, ad avanzare la proposta tramite un dettagliato ordine del giorno sottoscritto da tutte le forze politiche presenti in Consiglio. Il carcere di Alghero è infatti rimasto l’unico in Sardegna senza la figura di un Garante dei detenuti. Ed è per questo motivo che maggioranza e opposizione si sono trovati d’accordo nel dare mandato al sindaco e al Consiglio comunale per attivare l’iter e arrivare in tempi brevi a una nomina che dovrebbe avvenire nella prossima seduta dell’assemblea civica. Il Garante verrà individuato, previa scelta dei candidati, selezionando un massimo di tre persone nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale. Roma. “A un passo dal Paradiso”. Il detenuto di Rebibbia che lavora nella Cupola di San Pietro di Gian Franco Coppola agi.it, 6 dicembre 2023 Un 36enne romano, che ha il fine pena all’inizio del 2025, ha trovato un impiego in Vaticano come elettricista specializzato per le ordinarie attività di manutenzione della Basilica: “Mi sembra di vivere un sogno”. “Mi sembra di vivere un sogno. Ancora non ci credo. Lavorare in Vaticano, nella Basilica di San Pietro, nella Cupola o nelle Grotte dove sono le tombe dei papi. Ogni giorno è una emozione continua”. Fabio (nome di fantasia), 36enne romano, è il primo detenuto “al servizio” della Santa Sede. Rinchiuso nel carcere di Rebibbia dal 2019 (con un fine pena previsto per l’inizio del 2025), solo dallo scorso settembre ha cominciato ad assaporare aria di libertà, dalle 7 alle 13, per poi rientrare in cella. Beneficia del lavoro esterno e il suo è un datore un po’ diverso dal solito: è la Fabbrica di San Pietro, l’ente che si occupa della gestione di tutto l’insieme delle opere necessarie per la manutenzione edile ed artistica della Basilica di San Pietro in Vaticano. Fabio è stato scelto come elettricista specializzato in lavori in alta quota. Tutto merito di “Seconda Chance”, l’Associazione non profit del Terzo Settore creata nel 2022 dalla giornalista del Tg La7 Flavia Filippi, che procura lavoro a chi è vicino al fine pena ed ha un ottimo comportamento intramurario, con il coinvolgimento di aziende e imprese che, in base alla legge Smuraglia del 2000, possono usufruire di sgravi fiscali e contributivi. Alle 5.30 di ogni giornata (tranne il week end), Fabio esce da Rebibbia, prende la metropolitana, arriva in Vaticano, raggiunge la Basilica e comincia a lavorare sugli impianti elettrici, di illuminazione, di rete. Se la cava alla grande, si vede che è materia sua: ha fatto l’Istituto tecnico industriale e per anni ha lavorato presso un’azienda di Ciampino, occupandosi della manutenzione di turbine eoliche. E poi? “Poi ho fatto una cavolata per motivi di bisogno e sono finito in carcere - confida a chi ha potuto avvicinarlo -. Ma in cella ho imparato a conoscere me stesso, non ho mai perso la voglia di darmi da fare. Ho fatto lo spesino (quello che raccoglie le richieste dei detenuti per i generi da acquistare come sopravvitto, ndr), mi sono iscritto a un corso di sartoria, ho fatto teatro, ho continuato a studiare. Sono andato anche in palestra ma quella era più che altro un motivo di sfogo. Una grande mano me l’ha data la psicologa che mi ha aiutato soprattutto a livello familiare. Così come mi ha tanto aiutato anche l’ispettrice caporeparto del G8”. Fabio, infatti, ha una famiglia che lo supporta e lo aspetta per riabbracciarlo quando avrà la piena libertà: i genitori, una compagna (“con lei ci sono alti e bassi, purtroppo lavora saltuariamente”) e soprattutto un bambino di 7 anni (“va a scuola, ha momenti di difficoltà, l’ho lasciato quando ne aveva 2”). Nel frattempo, si gode il ‘suo momento’ in Vaticano: “Sono felice - ammette con pudore -. Mi sembra di sognare, ce la sto mettendo davvero tutta per non deludere chi ha puntato su di me e ha deciso di darmi fiducia. Per ora ho un regolare contratto di sei mesi, inutile dire che sarebbe bellissimo avere il rinnovo. Mi dicono che sono contenti di quello che faccio. Lavorare in Vaticano era inimmaginabile, è un luogo davvero magico, se penso che ogni giorno migliaia di turisti pagano per vedere le bellezze storiche e artistiche che ci sono a San Pietro. Io sono rimasto a bocca aperta quando ho visto da vicino le campane della Basilica, la Pietà di Michelangelo o le tombe dei Papi. Mia madre ancora piange quando le descrivo i luoghi in cui lavoro. Adesso stiamo allestendo il Presepe, che sarà aperto al pubblico fra pochi giorni”. Fabio destina parte dello stipendio alla famiglia (“così riesco ad aiutare la mia compagna”): “Il resto finisce al ‘penitenziario’, così quando esco posso contare su un piccolo tesoretto. Anche questo Natale non potrò vedere mio figlio. Ma gli ho già comprato il regalo, la PlayStation 5. In questi anni ci siamo visti davvero pochissime volte, quando esco da San Pietro e raggiungo la metro. Ma è doloroso quando ci dobbiamo separare. Lui va con la mia compagna in una direzione e io in quella opposta perché devo ritornare a Rebibbia. Si volta di continuo fino a quando non mi vede più, chiede alla mamma perché il papà scappa via. È davvero struggente. Forse è meglio non incontrarsi finché c’è questa situazione” Fabio non dimentica di ringraziare “Seconda Chance”: “Mi ha regalato questa opportunità di riscatto, mi ha dato lo spunto per tornare a sperare e dare un senso al mio futuro. Le persone non vanno giudicate subito dalle apparenze, anche chi ha sbagliato una volta, come è capitato a me, merita di essere messo alla prova. Conosco un altro padre di famiglia che si sta dannando l’anima per riabilitarsi. Voglio tornare ad essere una certezza per mio figlio”. Torino. Il carcere spiegato ai ragazzi di Marcello Longhin comune.torino.it, 6 dicembre 2023 “Il carcere spiegato ai ragazzi” è il programma di formazione dedicato agli studenti delle scuole superiori torinesi, progettato dall’Ufficio della Garante per i diritti dei detenuti, con l’obiettivo di elaborare riflessioni più articolate e meno stereotipate sulla vita quotidiana all’interno degli istituti di pena, partendo proprio dall’esperienza e dal lavoro svolto dall’Ufficio della Garante. L’iniziativa è stata presentata ieri mattina durante un incontro con le scuole al cinema Ambrosio, organizzato in collaborazione l’Associazione Museo nazionale del Cinema. Per l’occasione è stato proiettato il film di Claudio Giovannesi “Fiore” che affronta il complicato tema delle relazioni all’interno di un istituto penale minorile. Per la Garante, Monica Cristina Gallo, un incontro utile per fare conoscere agli studenti presenti in sala quanto possa essere umanamente alto il prezzo da pagare decidere di violare la legge, subire condanne a pene detentive e perdere la libertà personale. All’incontro al cinema Ambrosio erano presenti, per portare un saluto istituzionale, la presidente del Consiglio comunale Maria Grazia Grippo, la vicesindaca Michela Favaro e l’assessora con la delega ai Rapporti con il sistema carcerario Giovanna Pentenero. Nel suo intervento, Maria Grazia Grippo, ha sottolineato l’importanza del messaggio che deve passare in occasioni simili: aiutare a riflettere sulle conseguenze che i nostri comportamenti possono avere e offrire strumenti di consapevolezza per diventare buoni cittadini in grado di amministrare la propria libertà attraverso scelte corrette. La piazza e l’immensa seduta di autocoscienza di Emilio Randon Corriere del Veneto, 6 dicembre 2023 Gli applausi spezzano il rito collettivo che tra rabbia e dolore vede padri, madri e figli interrogarsi su ciò che siamo diventati “Papà Gino ha fatto diventare il suo dolore una speranza per tutti”. E io padre, chi sono io per somigliare a quel Gino che parla dal pulpito? Cosa direi io al suo posto là sull’altare? E io giovane, quanto sono Giulia e Filippo, quanti di loro conosco e non vedo? Quanti me ne porto dentro? In piazza c’erano anche le ragazze del “non una di meno”, con la fascia rossa al braccio, irrigidite nei loro postulati di genere e, con loro, dentro la chiesa, Elena che l’aveva detto per prima - “Filippo non è un mostro ma figlio sano del patriarcato” -, fuori qualche grido si è alzato ma nessuno lo ha raccolto. La rivolta di genere che lo spiegamento di polizia temeva non c’è stata. C’era la gente invece, adulti e giovani - tanti - persone arrivate con ancora in bocca l’eco delle parole scambiate in famiglia e sentite nei talk show. C’erano quelli che “no, non sono io il colpevole” e coloro che “la follia non si spiega”, c’erano i credenti nella misericordia e quelli che il male si nasconde in fondo ai pozzi delle nostre vite, quelli della responsabilità collettiva e quelli dell’ergastolo individuale. Per tutti c’era Giulia ad agitare le coscienze. Fatto sta che, dopo due ore, la folla - ottomila? diecimila? - non era più quella che era arrivata, il funerale, da evento pubblico è diventato lavacro, la cerimonia di Stato da rito si è fatta domanda intima sul nostro stato. Si è trasformata in un’immensa seduta di autocoscienza, personale, a volte dolorosa, a tratti inammissibile. Nessuno ne è uscito uguale. Gino Turetta era in primo piano sui due maxischermi, dignitoso, con l’occhio asciutto, la forza di un celebrante laico e la pietà di un cristiano che non sa pregare ma che alla fine ci prova. E’ sembrato separarsi dal sangue di sua figlia, accantonare il proprio dolore e farsi latore di un discorso pubblico. Chi l’ha ammirato, chi si è sorpreso. Ha citato Gandhi - “la vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia” - si è aperto all’amore. Così che la magnitudo del delitto per un attimo si è fermata, ha trovato quiete e non s’è eretta a colonna infame. Una coppia di anziani non ci sta, Gino non l’ha ancora sentito, protesta contro il clamore attorno a un lutto, contro “la stampa che cavalca una tragedia privata mentre è il silenzio che dovrebbe regnare”. “Tre giorni fa una ragazza ha subito la stessa sorte di Giulia e non se l’è filata nessuno” fa la signora, “a Filippo Turetta auguro una lunga vita con la foto di Giulia davanti”. Fa freddo, la gente non si muove, assiepata davanti gli schermi e su fino ai ponticelli che portano al Prato aspetta. Quando arriva il carro funebre forma un solo grande fermo immagine. Michelle e Ludovica, 18 anni, studentesse all’alberti di Abano, arrivate qui perché hanno marinato la scuola: “La preside non incoraggia le assenze, c’è un programma da rispettare, dice”. Filippo Turetta se lo immaginano come “uno che non ha ancora capito cosa ha fatto, uno che la pubblicità ha trasformato in un personaggio, in un detenuto di lusso. E questo non lo aiuta. Io sono solo una spettatrice - precisa Michelle - capire è già difficile, perdonare spetta a Giulia. So però che i maschi non c’entrano in questa faccenda, la colpa è dell’uomo come essere umano, in questo siamo tutti uguali, maschi e femmine”. Lontana la gazzarra che abbiamo visto passare nelle televisioni, sorprendente come non attecchisca. Alessandro e Alessio, 17 anni, assenti ieri all’itis Kennedy, presenti qui in piazza, sono due studenti che vedono e dicono quel che molti pensano: “La stampa se l’è giocata. Per questioni commerciali” commenta Alessandro; “è il loro lavoro” spiega Alessio; “sicuro, ma almeno diffonda roba vera” ribatte Alessandro. Dove sia il vero e il percepito non sanno dire ma sanno che sta nel mondo degli adulti e non serve a loro. L’applauso alle parole di Gino, “che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme contro la violenza, che la sua morte sia la spinta per cambiare. Addio amore mio”. Sono le 10 e 54, ce ne saranno altri tre. Giuseppe fa il vigile del fuoco, ha 21 anni, ha ascoltato “nessuna parola contro i maschi, mi sta bene, ognuno deve fare i conti con se stesso. I Filippo Turetta sono invisibili. Si è malvagi un attimo dopo, irreprensibili un attimo prima e la vita cambia per tutti”. Ora ci insegnano a riconoscere i Filippo potenziali, sono deboli, narcisi, sono cresciuti senza no. “Beh, se è per questo ne conosco diversi - dice ancora Michelle dell’alberti - apatici, indecifrabili, almeno così sembrano, si nascondono e non sanno chi sono. Noi nemmeno”. Si alza in piazza il rumore delle chiavi agitate, interminabile. “Per la vita, per la libertà”, grida una ragazza. E poi ancora il silenzio. Fabio, 20 anni, ammira quel padre, “ha parlato con il suo dolore, ha fatto vedere come un dolore privato può diventare discorso pubblico. Non si è scisso, non è stato incongruo e non poteva fare altrimenti, qui, nella chiesa di santa Giustina”“. Prima e dopo. Dopo le parole di Gino, dopo quelle del vescovo, e lo scandalo cristiano del perdono prende la piazza, la fa diversa. “Mi è piaciuto, non so quanto serva essere cristiani per perdonare e accogliere di nuovo Filippo dentro la comunità degli uomini. Io posso augurargli anche il peggio ma so che non risolvo niente”. Giacomo, studente di fisica, ammirato: “La grande forza di Gino, un padre che sembra scisso e invece non lo è. Avrebbe potuto parlare solo di Giulia e della sua perdita, ha parlato anche a noi, ha trovato il modo di insegnare qualcosa a tutti”. “Serve una svolta nel nome di Giulia”. Il rumore dei 10mila fuori dalla Basilica di Daniela Preziosi Il Domani, 6 dicembre 2023 Ci sono i colleghi dell’università, i ragazzi e le ragazze dei licei e delle scuole, e anche gli amici di Filippo e di suo fratello, con i bomber neri e le facce spaesate. Le parole del padre: “Basta violenza, parliamo ai maschi che conosciamo”. Sul Prato della Valle, davanti alla basilica di Santa Giustina a Padova, nella sterminata ellissi seconda solo alla piazza Rossa di Mosca, l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa a 22 anni dall’ex fidanzato, prende subito la forma di un funerale di stato. Non perché ci sono le dirette tv a reti unificate, su Rai 1 e Canale 5. Non per la solennità della funzione, celebra il vescovo Claudio Cipolla e concelebrano una trentina tra preti e abati e monaci, e una quindicina diaconi si sparpaglieranno a distribuire l’eucarestia nel Prato. Non per la valanga dei cronisti, e neanche per l’organizzazione discreta e perfetta che ha imbastito la diocesi, con gli alpini, le associazioni di carabinieri e polizia, degli scout, le ragazze del Valsugana rugby e i ragazzi del Excelsior rugby. Né tanto meno per le corone del Quirinale, della Camera e del Senato e di palazzo Chigi che aspettano il feretro, che arriva alle 11 di mattina. Qui lo stato sono le diecimila persone arrivate nonostante il freddo che spezza le mani, una moltitudine di ragazzi e ragazze allacciati e abbracciati a gruppi e gruppetti, vengono da Vigonovo, il paese di Giulia, dai paesi vicini, dalle città venete, e da qui, dall’università che frequentava lei: la rettrice Daniela Mapelli ieri mattina l’ha chiusa per lutto, a giorni consegnerà alla famiglia la laurea che la ragazza stava per ottenere e che il suo ex fidanzato e carnefice Filippo Turetta non tollerava prendesse prima di lui. Il caso qui si chiama segno, nella basilica è custodito il corpo della prima laureata al mondo, una filosofa del Seicento, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. Ci sono i colleghi e le colleghe del corso di Ingegneria biomedica, la nostra meglio gioventù presa un momento prima di partire per l’estero a cercare lavoro. Ci sono i ragazzi dei licei e delle scuole, i compagni del fratellino di Giulia, Davide, diciassettenne, fin qui tenuto al riparo dai riflettori. Ci sono anche gli amici di Filippo, e del fratello di Filippo, tutti con bomberino e facce spaesate, non regge il cuore a chiedere cosa vivono, cosa pensano, cosa sanno. Tutti e tutte hanno gli occhi rossi, senza complessi “anche” i ragazzi e gli uomini piangono. Del resto la cerimonia piega tutti, tutti e tutte siamo madri padri zie amici amiche di una ragazza come Giulia, nemmeno i cronisti reggono l’emozione, persino gli operatori tv, quelli più ruvidi che ogni giorno vedono cose che noi umani, stavolta scostano la camera dall’occhio, imprecando. Il padre parla agli uomini - Sono funerali di stato senza decreto, anche se dentro la basilica le autorità nazionali scarseggiano: non c’è la premier Meloni, data in arrivo da boatos locali; in sua vece al primo banco c’è il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ma lo si scopre dalla diretta tv, è entrato da una porta laterale, stringe la mano al papà di Giulia quando il vescovo ordina di scambiarsi un segno di pace. C’è il presidente della regione Luca Zaia, il sindaco Sergio Giordani, una schiera di primi cittadini con fascia tricolore, vengono dal Veneto e dal Friuli, c’è qualche deputato di zona seduto con discrezione fra i banchi, i democratici Alessandro Zan e Andrea Martella, l’Udc Antonio De Poli. La basilica è piena, la stampa resta fuori, la famiglia ha voluto accanto 400 persone ma tutti parenti, affetti e amici, ci sono i compagni di classe di Davide, quelli della 4C del Fermi, i suoi prof. Sono funerali di stato perché la solennità di questo momento la decide Gino, il padre di Giulia - Giulia la sua “combattente”, l’”oplita”, dice con infinita dolcezza - con una forza di origine inconoscibile, quando trasforma il lutto che si è abbattuto sulla sua famiglia, “la tempesta di dolore che sembra non finire mai” - ha perso la moglie per malattia e ora la figlia, con questa ferocia, nel giro di un solo anno - in una liturgia della promessa per il paese, quella di un impegno civile contro la violenza degli uomini sulle donne. “Una presa di consapevolezza collettiva” traducono le ragazze di Non una di meno, anche loro sparse fra la folla, presenti, militanti ma senza insegne, sparse nell’enorme sagrato davanti ai due maxischermi. Gino Cecchettin chiede che l’onda di emozione che ha investito il paese sia “una spinta per il cambiamento”, “la vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne”. Elenca cosa serve, evita con saggezza sovrumana parole che rimandino alle polemiche politiche - però parla di “patriarcato”, come ha fatto sua figlia Elena - ma è precisissimo: l’attenzione delle famiglie, l’educazione nelle scuole, la responsabilità dei media; si appella alle istituzioni perché, messe da parte “le differenze ideologiche”, affrontino “unitariamente il flagello della violenza di genere”. E alla fine si rivolge agli uomini, con una richiesta potente di autocoscienza: “Noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali”. Al ritrovamento del corpo di Giulia, era stata Elena a scuotere il paese, a infiammare la piazza del 25 novembre con il suo “ma quale silenzio, fate rumore, bruciate tutto”, nominando a muso duro il “patriarcato” e “il vostro bravo ragazzo” che le ha ucciso la sorella. Ieri al funerale è stato il padre a portare a termine lo stesso discorso: si è rivolto a tutti e tutte, ma soprattutto ai maschi, padri, fratelli, amici e “bravi ragazzi”. (più tardi il ministro dell’Istruzione Valditara ha raccolto la proposta del governatore Zaia: Gino sarà invitato a parlare nelle scuole). Il rumore verso il cielo - Dal Prato gli ha risposto un rumore fortissimo, migliaia di mazzi di chiavi tintinnanti, un boato. Non è una manifestazione politica, ma sì che è una manifestazione. E il simbolo del movimento non è un segno né un gesto, non ha un connotato di parte, è questo baccano di chiavi: perché è il contrario del silenzio di chi non denuncia, e perché una donna - ogni donna, giovane o vecchia, bella o brutta, apprensiva o spavaldissima - tiene proprio quelle chiavi in mano quando la sera torna a casa, in modalità allerta, nell’altra mano il cellulare per chiamare aiuto. Prima del rumore c’era stato un lunghissimo applauso alla bara bianca di Giulia. Alla sua gigantografia sorridente, a lei e a ogni ragazza libera. Poi un altro applauso, ancora più forte, quando dall’interno della chiesa sono emersi Gino, che ha ringraziato tutti a mani giunte, con i suoi due figli addosso. I tre sono partiti verso la seconda cerimonia, più privata, a Saonara, paese accanto al loro Vigonovo, alle due del pomeriggio. Alle tre, dall’altra parte del paese, ad Andria, in Puglia, un altro funerale, un altro femminicidio. Perché dopo Giulia sono state uccise altre tre donne, per mano dei loro mariti: Rita Talamelli a Fano, Meena Kumari a Salsomaggiore, e lei, Vincenza Angrisano ad Andria. Un tornante nella storia: perché l’assassinio di Giulia, e il discorso del padre, hanno cambiato le cose di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 6 dicembre 2023 Gino Cecchettin non ha puntato il dito contro nessuno. Ma le sue parole più importanti non sono quelle rivolte all’assassino di sua figlia: sono quelle che risuonano per tutti gli uomini. Nel 1965, Franca Viola, che non aveva ancora compiuto diciotto anni, fu violentata dal nipote di un boss mafioso. Secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto sposarlo: il matrimonio riparatore. Lei rifiutò, e i genitori si schierarono dalla sua parte. Il padre chiese l’aiuto della polizia. L’aggressore non vide estinto il reato, come sarebbe accaduto se Franca si fosse piegata al matrimonio; finì in carcere. “L’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce” disse la ragazza. Fu aperta una via che tante altre giovani donne, non soltanto del Sud, hanno seguito. Quando Franca si sposò con un uomo che amava e la amava, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inviò un dono di nozze, papa Paolo VI ricevette la coppia. Fu uno spartiacque nella storia d’Italia. È possibile che l’assassinio di Giulia Cecchettin e il discorso di suo padre ieri siano un altro di quei tornanti nella vicenda nazionale. Il padre non ha puntato il dito contro nessuno. Non ha neppure escluso che in futuro maturino le condizioni per il perdono. Ma le sue parole più importanti non sono quelle rivolte all’assassino di sua figlia; sono quelle che risuonano per tutti gli uomini. Che non sono ovviamente colpevoli in modo indiscriminato; ma che portano una responsabilità. Tocca agli uomini educare i figli a rifiutare la violenza e a denunciarla. Tocca agli uomini parlare agli altri uomini. Non minimizzare le piccole violenze, perché talora è da lì che nascono le grandi. Rispettare sempre e comunque le donne, molte delle quali portano come un peso nascosto il ricordo di tante piccole prevaricazioni. Non avere paura della libertà della donna, non considerarsi mai proprietari del suo corpo e della sua anima. Non girare la testa di fronte alle violenze e alle ingiustizie. Infine, l’invito forse più importante: accettare le sconfitte. I dinieghi e gli abbandoni, i no e i basta. L’ultima parola spetta alle donne. Giulia Cecchettin non ha potuto dire la sua. L’ha detta il padre per lei. A noi tocca ascoltarla, metterla in pratica, e ripeterla a chi verrà dopo. Immigrazione clandestina, è legge la stretta su espulsioni e minori di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2023 È stata pubblicata sulla G.U. n. 283 del 4 dicembre 2023, la legge 1° dicembre 2023, n. 176 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 5 ottobre 2023, n. 133, contenente “disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, nonché per il supporto alle politiche di sicurezza e la funzionalità del Ministero dell’interno”. In G.U. anche il testo coordinato. Il provvedimento è stato approvato da entrambi i rami del Parlamento in via definitiva il 30 novembre 2023. In conseguenza delle modifiche apportate nel corso dell’esame parlamentare, il provvedimento è ora composto da 15 articoli, rispetto agli originari 13, suddivisi in 5 Capi. Nel corso dell’esame parlamentare è stato introdotto l’articolo 01 secondo il quale non è ammesso l’ingresso in Italia dello straniero che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, per il reato di lesione personale commesso contro persona incapace, per età o infermità, che causi una malattia superiore a venti giorni, nonché per i reati relativi a pratiche di mutilazione genitale femminile e per il reato di lesioni permanenti al viso. L’articolo 1 interviene sulla disciplina dell’espulsione dello straniero e stabilisce che è il Ministro dell’interno l’autorità deputata a decretarla. Nei casi in cui ricorrano gravi motivi di pubblica sicurezza, l’espulsione è disposta dal prefetto. In secondo luogo, viene disciplinata la procedura di espulsione nei casi di applicazione delle misure amministrative di sicurezza. In terzo luogo, l’articolo modifica la disciplina relativa al diritto di difesa dello straniero parte offesa o sottoposto a procedimento penale che sia stato espulso prevedendo che il questore ha la facoltà di negare l’autorizzazione al rientro in Italia qualora la presenza dell’interessato possa procurare gravi turbative o grave pericolo all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica. Gli articoli 3 e 4 introducono alcune modifiche al procedimento di esame della domanda di protezione internazionale. L’articolo 5 introduce alcune novità in materia di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) nonché di accertamento dell’età nell’ambito della procedura di identificazione del minore. L’articolo 6 disciplina la conversione del permesso di soggiorno per minori stranieri non accompagnati al compimento della maggiore età. In particolare, la disposizione individua nei consulenti del lavoro e nelle organizzazioni dei datori di lavoro i soggetti ai quali è demandata la verifica dei requisiti. L’articolo 7 contiene “Disposizioni in materia di accoglienza”, affermando che per motivi di ordine pubblico si può derogare ai parametri di capienza previsti, per i centri e le strutture di accoglienza nella misura non superiore al doppio dei posti previsti dalle medesime disposizioni. L’articolo 8 contiene “Misure di sostegno per i comuni interessati da arrivi consistenti ravvicinati di migranti”. L’articolo 9 incrementa il contingente di personale delle Forze armate dell’operazione “Strade Sicure” di 400 unità dal 1° ottobre al 31 dicembre 2023 al fine di rafforzare i dispositivi di controllo e sicurezza dei luoghi ove insistono le principali infrastrutture ferroviarie del Paese, con una spesa complessiva quantificata in 2.819.426 euro, di cui euro 2.576.071 per l’anno 2023 ed euro 243.355 per l’anno 2024. L’articolo 9-bis modifica il limite massimo di età previsto per la partecipazione al concorso pubblico di accesso alla qualifica iniziale della carriera dei funzionari tecnici di Polizia, stabilendo che non possa essere superiore a trentadue anni anziché a trenta, come attualmente stabilito. L’articolo 9-ter prevede per il quinquennio 2024-2028 la determinazione annuale delle consistenze di ciascuna categoria di volontari di truppa del Corpo delle capitanerie di porto con decreto del Ministro della difesa, di concerto con i Ministri delle infrastrutture e dei trasporti, dell’economia e delle finanze e per la pubblica amministrazione e l’innovazione. L’articolo 10 incrementa, per il 2023, rispettivamente di 15 milioni di euro e di 2,147 milioni di euro, le risorse destinate alla remunerazione del lavoro straordinario delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (come previsto nel corso dell’esame parlamentare), con il fine di garantire le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, anche alla luce dei maggiori impegni connessi all’eccezionale afflusso migratorio. L’articolo 11, ai commi 1 e 2, destina risorse alla Polizia di Stato e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco al fine di corrispondere alle contingenti e straordinarie esigenze connesse all’espletamento dei loro compiti istituzionali, anche alla luce dei maggiori impegni connessi all’eccezionale afflusso migratorio e - come specificato in sede parlamentare - alla accresciuta necessità di presidiare obiettivi sensibili, tenuto conto, altresì, della crisi mediorientale. Si tratta, complessivamente, di 5 milioni di euro per il 2023 e di 20 milioni di euro per ciascun anno dal 2024 al 2030, che affluiscono alla disponibilità del Ministero dell’interno. Gli articoli 12 e 13 prevedono rispettivamente la copertura finanziaria e la entrata in vigore. Migranti. “Nell’hotspot di Taranto ancora 185 minori nonostante la sentenza Cedu” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2023 Dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione richiesta urgente di ricollocamento immediato. La notizia è già nota e riguarda l’ultima decisione della Corte Europea dei Diritti Umani, emessa il 23 novembre 2023 nel caso A. T. e altri c. Italia (procedimento n. 47287/ 17), con la quale il nostro Paese è stato nuovamente condannato per il trattamento illegale di minori stranieri non accompagnati nell’hotspot di Taranto. Ora giunge una richiesta urgente dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) per il collocamento immediato di 185 minori in strutture adeguate, nonché per la supervisione dell’attuazione delle precedenti sentenze, che, purtroppo, non hanno portato a modifiche significative nelle pratiche illecite. La sentenza, che si somma ad altre pronunciate in passato, evidenzia la sistematicità delle violazioni dei diritti umani nei confronti dei minori stranieri, sottolineando le carenze nel rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha condannato l’Italia per la detenzione illegale, l’utilizzo di trattamenti inumani e degradanti e la mancanza di nomina di un tutore, oltre a non aver fornito informazioni sui diritti legali dei minori. La gravità della situazione emerge ancor di più considerando l’attuale contesto, in cui le politiche restrittive nei confronti dei migranti non solo persistono ma si intensificano. L’accordo con l’Albania, finalizzato all’identificazione e detenzione dei cittadini stranieri all’estero, rappresenta un ulteriore esempio di tali approcci. Particolarmente preoccupante è il fatto che quasi duecento minori stranieri sono attualmente trattenuti nell’hotspot di Taranto, senza base legale o giurisdizionale, alcuni addirittura dall’agosto scorso. L’Asgi sottolinea che l’hotspot, situato in un parcheggio isolato nel porto di Taranto, è del tutto inadatto a ospitare minori, specie in condizioni di detenzione. L’avvocata Marina Angiuli e l’avvocato Dario Belluccio, che hanno seguito il caso presso la Cedu, dichiarano che la situazione è ancora in corso, con 185 minori non accompagnati attualmente presenti nella struttura di Taranto. La decisione della Corte costituisce un chiaro richiamo alle autorità italiane affinché adottino misure immediate. L’Asgi ha rivolto un appello alle Autorità competenti, tra cui la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, il Tribunale per i Minorenni di Taranto, la Prefettura e la Questura locale, il Garante nazionale e regionale per i diritti dei minori, affinché provvedano al collocamento immediato dei minori in strutture adeguate. Chiedono inoltre un monitoraggio costante delle condizioni di accoglienza, rispettando gli standard di umanità e dignità sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per i diritti umani. Le violazioni sono evidenti nei posti di frontiera italiani, come Crotone, Lampedusa, Pozzallo, l’hotspot di Contrada Cifali e di Taranto, dove i minori non possono lasciare i centri e sono costretti all’isolamento. Inoltre, la prassi di accogliere minori non accompagnati in strutture destinate ad adulti, in condizioni di promiscuità, continua a verificarsi. La mancanza di adeguate strutture e la temporanea detenzione nei commissariati a causa dei limiti di capienza rappresentano ulteriori violazioni dei diritti dei minori. Il quadro si complica ulteriormente con l’entrata in vigore del decreto legge n. 133 il 6 ottobre 2023. Questa nuova normativa consente il collocamento dei minori non accompagnati di età superiore ai 16 anni in centri di accoglienza straordinaria per adulti, senza i necessari supporti educativi e servizi di assistenza legale e psicologica. La procedura per l’accertamento dell’età manca di garanzie procedurali minime, violando il principio della presunzione di minore età. Davanti alla natura sistemica delle violazioni e alla mancata attuazione delle precedenti sentenze, l’Asgi ha inviato una comunicazione al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, chiedendo un intervento urgente per garantire la tutela e porre fine al trattenimento illegittimo dei minori stranieri non accompagnati in Italia. Sottolinea la natura sistemica delle violazioni e la mancata attuazione delle promesse governative, richiamando l’attenzione sulle gravi violazioni degli articoli 3, 8 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’Asgi formula raccomandazioni specifiche per garantire il pieno rispetto di tutti i diritti dei minori, evidenziando la necessità di un cambiamento immediato nelle pratiche attuali. La supervisione del Comitato dei Ministri è fondamentale per assicurare giustizia e protezione ai minori stranieri non accompagnati in Italia. Migranti. Il Cpr in Albania funzionerà anche come un carcere di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 dicembre 2023 Approvato il testo del disegno di legge. Novità dal Cdm: in alcune “aree idonee” detenuti i migranti sottoposti a misure cautelari. Tra tanti dubbi una certezza: il diritto alla difesa dei richiedenti asilo ridotto ai minimi. Il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) che il governo vuole costruire a Gjader, in territorio albanese, potrà avere anche la funzione di carcere. È la novità più significativa del disegno di legge (ddl) approvato ieri dal Consiglio dei ministri che ora andrà in parlamento. Tra gli agenti per l’ordine pubblico ci sarà anche un nucleo di polizia penitenziaria. In caso di reati commessi nelle aree messe a disposizione da Tirana, su cui varrà la giurisdizione italiana con competenza del tribunale di Roma, la custodia cautelare in carcere disposta dal giudice sarà scontata in “idonee strutture” all’interno del Cpr. Finora, e solo in rari casi, hotspot e centri per il rimpatrio erano stati utilizzati al massimo per gli arresti domiciliari. Per il resto si confermano molte delle indiscrezioni rivelate in anteprima dal manifesto sabato scorso. Le strutture saranno tre: un hotspot al porto di Shengjin, un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo sottoposti a procedura d’asilo accelerata in frontiera a Gjader e un Cpr nello stesso luogo. Tutte saranno realizzate dal ministero della Difesa in deroga alla maggior parte delle norme in materia. Nel documento visionato da questo giornale si parlava di 720 posti complessivi. Il governo, che non ha smentito quelle cifre nei giorni scorsi, non ha ancora comunicato nulla di ufficiale sull’effettiva portata del progetto in fase d’avvio. Il giorno in cui è stata siglata l’intesa con l’omologo Edi Rama, la premier Giorgia Meloni aveva annunciato 3mila migranti per un totale di 36mila l’anno. Cifre che appaiono sempre più lontane dalla realtà. Basta guardare alle assunzioni messe a budget. I numeri si riferiscono alle bozze del testo e i ministri li stavano limando, ma sono significativi. Undici persone in ambito sanitario - cinque medici, quattro infermieri, due amministrativi - affiancate da un ente pubblico che si occupa di sanità per migranti e poveri (Inmp). Per le cinque sezioni della Commissione territoriale d’asilo istituita ad hoc saranno reclutati in 45. Gli organi analoghi che esaminano le domande d’asilo sul territorio nazionale hanno quattro membri. Generalmente ogni sezione riesce a intervistare quattro richiedenti al giorno, eccezionalmente fino a sei, per quattro giorni a settimana. La quinta giornata è riservata alle riunioni collegiali su casi complessi. Se la Commissione d’oltre Adriatico andasse a ritmo doppio si fermerebbe comunque al di sotto delle mille persone ogni quattro settimane. Il turnover mensile di 3mila migranti annunciato in pompa magna dal governo italiano è solo fantasia. Tutto da verificare resta poi il funzionamento dei trasferimenti navali. Secondo il ddl possono essere “delocalizzati” solo i migranti imbarcati su navi militari italiane in acque internazionali. Per arrivare in Albania non bastano le motovedette, serviranno i pattugliatori d’altura della guardia costiera o le grandi navi della marina. Forse il governo pensa di piazzarle al di là delle acque territoriali, magari sulla rotta della Tunisia “paese sicuro”, in attesa che si riempiano? Si vedrà. Insieme a tanti altri aspetti che rimangono controversi, se non proprio oscuri. Di sicuro si prospetta una ulteriore compressione del diritto alla difesa dei richiedenti asilo. Dietro i formalismi che la legge si preoccupa di garantire resta la sostanza: difficoltà a trovare legali di fiducia e a incontrarli. Non solo le udienze davanti a commissione e giudici, ma anche i colloqui riservati con gli avvocati si svolgeranno da remoto. Altro tema è quello dei costi. Sabato abbiamo pubblicato una stima ministeriale che per il primo anno partiva da una base di almeno 92 milioni di euro, escluse le spese di trasferimento e quelle per l’ente gestore delle strutture. Ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani (Fi) ha alzato ancora la posta: “Costerà meno di 200 milioni”. Aggiungendo: “Molti meno di quelli sequestrati dalla guardia di finanza per un cattivo uso del superbonus”. Vedremo se quelle cifre non lieviteranno quando al piano saranno aggiunti i dettagli. In ogni caso, anche vista la congiuntura economica, potrebbero essere usate meglio che per trasferire in Albania qualche centinaia di migranti l’anno, sperando di ottenere un effetto di dissuasione sulle rotte migratorie. Stati Uniti. Strage degli oppioidi, giustizia o risarcimento di Marina Catucci Il Manifesto, 6 dicembre 2023 La Corte suprema Usa valuta un caso sulla famiglia Sackler, produttrice del farmaco antidolorifico che ha ucciso migliaia di americani. La Corte suprema degli Stati uniti è chiamata a decidere su un caso spinoso che riguarda la responsabilità penale del colosso farmaceutico Purdue Pharma, produttore di antidolorifici potenti, fra cui il famigerato OxyContin, tra i responsabili della crisi da dipendenza da oppioidi che provoca ogni anno la morte di migliaia di americani. In ballo c’è il destino di un’azienda, dei suoi proprietari, la potente famiglia Sackler, e dei dirigenti che hanno prodotto e promosso l’uso di un farmaco ad alta dipendenza, che ha causato la morte di centinaia di migliaia di americani e ha distrutto le vite di molti altri, e il fatto che le vittime possano o meno chiedere conto di tutto ciò ai Sackler in tribunale. DOPO ANNI di negoziazioni Purdue Pharma aveva accettato di pagare 6 miliardi di dollari di risarcimento per chiudere le migliaia di cause avviate dai familiari di vittime di dipendenza da oppioidi, aggiungendo come clausola fondamentale l’esonero dei membri della famiglia Sackler da ogni responsabilità. A maggio l’accordo era stato approvato da un tribunale di New York, ma il Programma fiduciario degli Stati uniti, una divisione del Dipartimento di Giustizia, lo ha bloccato, chiedendo alla Corte suprema di rivederlo: i giudici costituzionali hanno ascoltato gli argomenti delle parti lunedì. Alcuni dei casi che arrivano ai “supremes” mettono i giudici in un ruolo scomodo: Harrington vs Purdue Pharma sembra essere proprio uno di questi. Sin dalla prima seduta la Corte è sembrata subito divisa sull’ accordo fallimentare di Purdue Pharma ferocemente contestato, con le domande dei giudici che riflettevano il motivo per cui l’accordo ha suscitato così tante critiche, in una disputa che contrappone il denaro ai principi. Il problema è che in discussione non c’è solo l’effetto pratico dello scioglimento di un accordo negoziato faticosamente per anni, e la preoccupazione che l’esenzione dei Sackler dalla responsabilità legale li libererebbe da ulteriori controlli sul ruolo che hanno svolto nella crisi degli oppioidi, ma anche le conseguenze che avrà per altri accordi simili risolti attraverso il sistema della dichiarazione di bancarotta. L’accordo fallimentare che è stato negoziato prevede che la famiglia Sackler paghi personalmente poco più di 5 miliardi di dollari in 18 anni, con la maggior parte del denaro che andrebbe agli stati, ai governi locali e alle tribù dei nativi americani, per aiutare a combattere l’epidemia di oppioidi in corso. 750 milioni di dollari sono destinati a pagare le singole vittime e le loro famiglie. Il fondo stanzierebbe da 3.500 a 48.000 dollari, con pagamenti distribuiti su 10 anni. Questa per Purdue è una grande concessione e il loro rappresentante ha dichiarato che l’accordo di bancarotta è l’unico grande accordo sugli oppioidi a prevedere dei “recuperi significativi” per le vittime. All’interno dell’aula i giudici sono apparsi profondamente divisi, e i loro interventi non si sono allineati lungo linee ideologiche, conservatori da una parte e “progressisti” dall’altra. La giudice liberal Ketanji Brown Jackson si è mostrata scettica sul fatto che l’esenzione di responsabilità possa essere l’unico modo per risarcire le vittime degli oppioidi. Un avvocato dei gruppi delle vittime, Pratik Shah, ha insistito sul fatto che altrimenti i membri della famiglia Sackler non sottoscriverebbero nessun altro accordo, rischiando così di lasciare le vittime senza nulla. “Senza questo risarcimento, - ha detto - Non ci sarà alcun percorso praticabile per un rimborso delle vittime”. Finlandia. Italiani in carcere, appello dei legali: “Rinchiusi da oltre un mese senza sapere accuse” ansa.it, 6 dicembre 2023 Da un mese e mezzo due cittadini italiani sono rinchiusi nelle carceri della Finlandia senza poter comunicare con i loro avvocati in Italia, gli stessi che hanno reso nota la notizia. I due, Nicola Ruiu di 24 anni e Edmondo Casula di 39, residenti entrambi a Dorgali, in provincia di Nuoro, sono stati arrestati a metà ottobre al loro arrivo a Helsinki. Dopo essere stati trattenuti alla dogana sono stati trasferiti in prigione. Hanno subito un interrogatorio da parte delle autorità giudiziarie finlandesi e poi sono stati separati e rinchiusi in due carceri differenti. Casula è stato messo in una cella in isolamento. Ai due detenuti, cui sono stati assegnati due difensori d’ufficio, finlandesi, è stato proibito nominare e parlare con i loro avvocati italiani, Ivano Iai e Francesco Lai. È stato consentito loro solo di avere brevi interlocuzioni telefoniche con i familiari, vietandogli però di parlare del procedimento in corso nei loro confronti, e anche di esprimersi in lingua sarda. Ai familiari hanno confidato di essere detenuti in condizioni pessime, al freddo e con cibo scarso. Gli avvocati Iai e Lai denunciano il mancato rispetto dei diritti umani: “Si confida che lo Stato italiano, attraverso l’ambasciata italiana a Helsinki, possa al più presto intervenire presso lo Stato finlandese affinché sia assicurato il rispetto dei diritti umani, anche sul piano processuale”, dichiarano. La situazione è definita preoccupante dai due avvocati, che non sono riusciti ad avere informazioni precisi sui reati contestati nemmeno dall’ambasciata italiana a Helsinki. “Il nostro timore - spiegano - deriva dal fatto che Ruiu e Casula non riescano a percepire chiaramente i termini dell’accusa ed esercitare pienamente i propri diritti difensivi, come d’altra parte hanno confidato ai familiari nelle occasioni di contatto telefonico finora intervenute”. Un prossimo colloquio telefonico fra gli avvocati italiani e l’ambasciata è stato fissato per giovedì 7 dicembre. Intanto i due detenuti restano in carcere senza che nessuno in Italia sappia di cosa siano accusati.