Carceri insufficienti: condonate le pene di Carlo Valentini Italia Oggi, 5 dicembre 2023 Di tanto in tanto l’eco mediatica si accorge dello stato indecoroso delle carceri, malate di sovraffollamento, di scarsa igiene, del personale di vigilanza sotto organico che limita gli spazi di attività dei reclusi. Di fronte a questa situazione andrebbe realizzato un piano di costruzione di carceri e di ristrutturazione e potenziamento di quelle esistenti. Ciò che è stato annunciato dai vari ministri della Giustizia che si sono avvicendati senza però mai aprire i cantieri. Essi hanno finito per optare per la scorciatoia di ridurre il numero dei detenuti attraverso la depenalizzazione dei reati. Nel 2016, per esempio, è stata decisa una semplice sanzione amministrativa nei casi di atti osceni, guida senza patente, abuso della credulità popolare, installazione e uso di impianti abusivi di distribuzione carburante, e così via. Recentemente il ministro Nordio ha annunciato una nuova iniziativa per la depenalizzazione di altri reati. Però avvengono poi fatti di cronaca rilevanti che scuotono l’opinione pubblica e la politica si instrada verso la recrudescenza delle pene ovvero il contrario della depenalizzazione. Una schizofrenia che potrebbe in parte essere superata (per i reati meno gravi) con la giustizia riparativa. Ovvero non la licenza, nei fatti, pagando un obolo, a trasgredire la legge ma una congrua pena che può essere scontata anche fuori dal carcere, per esempio in comunità impegnate nel sociale. È dallo scorso giugno che la giustizia riparativa è entrata nell’ordinamento, voluta dall’ex ministro Marta Cartabia, che disse: “Rendere giustizia non è giustiziare il colpevole ma dare giustizia alle vittime”. Da allora è stata utilizzata assai poco mentre le comunità potrebbero rappresentare una valida e più economica alternativa al carcere, ovviamente se propongono programmi di reinserimento e danno garanzia di controllo antievasione. Si tratta ora di non cadere nell’inerzia ma di promuovere, per i reati minori, questa forma alternativa alla cella che potrebbe consentire di evitare le spinte alla diseducativa depenalizzazione poiché ridurrebbe il numero dei reclusi, così migliorando la vita negli istituti di pena, ma altresì attenuerebbe il pericolo di recidiva (assai alto per chi si ritrova in carcere). Carceri: il divieto d’amare alla prova della Consulta di Angela Stella L’Unità, 5 dicembre 2023 Oggi l’udienza sulla questione degli incontri intimi vietati dall’ordinamento penitenziario. E +Europa presenta una pdl per garantire il diritto all’affettività. Oggi la Corte Costituzionale discuterà sull’articolo 18 della legge numero 354 del 1975 (Nonne sull’ordinamento penitenziario), nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia. La questione è stata sollevata da un magistrato di sorveglianza di Spoleto. Il caso riguarda un detenuto, recluso dall’11 luglio 2019, attualmente con posizione giuridica di definitivo, con fine pena al 10 aprile 2026, nella cui prospettiva non c’è la concessione dei permessi premio. Inoltre i locali del carcere di Terni destinati ai colloqui con i familiari appaiono comunque inidonei ad assicurare l’esercizio della affettività, ivi compresa la sessualità, in condizioni di privacy. Alla vigilia dell’udienza, ieri alla Camera dei deputati, è stata presentata una proposta di legge, a prima firma il deputato di +Europa Riccardo Magi, proprio in materia di tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute: “l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità - si legge nella pdl - potrà essere effettuato da tutte le persone autorizzate ai colloqui senza distinzione tra familiari, conviventi e “terze persone”. A tale fine, “i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. Su questa questione è stato lanciato un appello nell’ambito della campagna per il riconoscimento del diritto all’affettività in carcere promossa dall’associazione la Società della Ragione insieme a Centro per la Riforma dello Stato e Associazione Luca Coscioni, già sottoscritto da oltre 200 fra giuristi, associazioni e altre personalità. “Sono 31 i Paesi europei - ha detto il costituzionalista Andrea Pugiotto, estensore e primo firmatario dell’appello - che permettono ai detenuti di usufruire di spazi per le relazioni affettive al riparo dagli sguardi della polizia penitenziaria”. “Oggi in Italia - ha sottolineato Magi - viene sistematicamente violato il diritto all’affettività e alla sessualità per le persone detenute. Nella cultura italiana sembra normale, ma non lo è per la maggior parte dei Paesi europei dove c’è un’attenzione a questo tipo di garanzia. La Corte Costituzionale si dovrà esprimere a breve su questo punto e noi speriamo arrivi una pronuncia chiara e netta e che sia anche una indicazione per il Parlamento”. Per Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, il diritto all’affettività in carcere “è una grave mancanza del nostro ordinamento. Le relazioni intime sessuali, come anche riconosciuto dalla Consulta nel 2012, rappresentano un diritto fondamentale della persona, che attiene alla pienezza della vita umana”. “La cultura che si vuole imporre al carcere - ha concluso Franco Corleone (la Società della Ragione) - è quella della sessualità delle case chiuse. Infatti l’obiezione che viene portata da alcuni che abusivamente parlano a nome della Polizia penitenziaria è la seguente: “ci volete far fare i guardoni”. La verità è che non prevedendo la pdl il controllo visivo anche questa ipotesi non è reale”. Affettività in cella, la proposta targata Magi: un incontro ogni mese di Valentina Stella Il Dubbio, 5 dicembre 2023 Nelle prossime ore la decisione della Consulta. Un appello firmato, al momento, da 200 giuristi e una proposta di legge di cui è primo firmatario il segretario di +Europa, Riccardo Magi, per “garantire il diritto alle relazioni affettive intime” dei detenuti. “L’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità - si legge nella pdl presentata ieri alla Camera in una conferenza stampa - potrà essere effettuato da tutte le persone autorizzate ai colloqui senza distinzione tra familiari, conviventi e “terze persone”. A tale fine, “i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. “Sono 31 i Paesi europei - ha detto il costituzionalista Andrea Pugiotto, estensore e primo firmatario dell’appello - che permettono ai detenuti di usufruire di spazi per le relazioni affettive al riparo dagli sguardi della polizia penitenziaria”. “Oggi in Italia - ha sottolineato Magi viene sistematicamente violato il diritto all’affettività e alla sessualità per le persone detenute. Nella cultura italiana sembra normale, ma non lo è per la maggior parte dei Paesi europei dove c’è un’attenzione a questo tipo di garanzia. La Corte costituzionale si dovrà esprimere a breve su questo punto sollevato da un magistrato di sorveglianza e noi speriamo arrivi una pronuncia chiara e netta e che sia anche una indicazione per il Parlamento”. Le due iniziative presentate ieri infatti cadono alla vigilia della udienza da parte della Consulta che dovrà pronunciarsi, probabilmente nei prossimi giorni, sull’articolo 18 della legge numero 354 del 1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario), nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, a tutela dell’affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia. La questione è stata sollevata da un magistrato di sorveglianza di Spoleto. Il caso riguarda un detenuto, recluso dall’ 11 luglio 2019, attualmente con posizione giuridica di definitivo, con fine pena al 10 aprile 2026, nella cui prospettiva non c’è la concessione dei permessi premio. Inoltre i locali del carcere di Terni destinati ai colloqui con i familiari appaiono comunque inidonei ad assicurare l’esercizio della affettività, ivi compresa la sessualità, in condizioni di privacy. In Italia non esiste un diritto alla sessualità e all’affettività in carcere di Federica Delogu valigiablu.it, 5 dicembre 2023 Oggi la Corte Costituzionale deciderà se negare il diritto alla sessualità in carcere sia in contrasto con la Costituzione italiana. Lo farà a partire dalla vicenda di un detenuto di Terni, in Umbria, che ha presentato un reclamo al giudice di sorveglianza di Spoleto perché, ha spiegato l’uomo, recluso dal 2019, l’impossibilità di avere momenti di intimità con la sua compagna influisce sul suo rapporto di coppia e, quindi, influirà sulla sua vita fuori dal carcere, una volta espiata la pena. Secondo il giudice Fabio Gianfilippi, che ha sollevato la questione di legittimità alla Corte, l’assenza di tutela del diritto alla sessualità intramuraria è in conflitto con la carta costituzionale e la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (Cedu). “Per più di un quarto di secolo non ho potuto scambiare neanche un bacio o una carezza con la mia compagna” - racconta a Valigia Blu Carmelo Musumeci, che ha trascorso 27 anni della sua vita in carcere e oggi è un uomo libero - “Anche a lei, che non aveva compiuto nessun reato, per tutto quel tempo non è stato permesso avere dei colloqui affettivi e riservati con me. Perché la pena, in questo carcere che ti priva degli affetti e delle relazioni intime, è estesa anche alle persone che ti stanno vicine”. In Italia il diritto alla sessualità in carcere non è mai stato garantito. L’ordinamento penitenziario, in vigore dal 1975, all’articolo 18, norma i colloqui, la corrispondenza e l’informazione e non prevede, quindi di fatto nega, incontri riservati con famiglia o partner. Quello alla sessualità infatti è un diritto non esplicitamente vietato dalle norme, perché nell’ordinamento penitenziario non viene mai citato. “Il diritto penale dovrebbe giocare a carte scoperte, quindi essere esplicito - spiega a Valigia Blu Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone - mentre questa esplicitazione non è presente e, di fatto, illegittima”. Se da un lato, l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario individua nei contatti con il mondo esterno e nei rapporti con la famiglia elementi di trattamento della persona reclusa, e l’articolo 28 afferma che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, i rapporti sono di fatto limitati a circa dieci minuti di telefonata a settimana e un colloquio in presenza per una o due ore settimanali. Ogni colloquio è inoltre sottoposto al controllo visivo, e non uditivo, degli agenti penitenziari, e avviene in sale spesso affollate di altre persone detenute che incontrano i familiari. Il diritto all’affettività in carcere - Il diritto alla sessualità si inserisce nel più ampio tema del diritto all’affettività, che comprende il riconoscimento e la tutela delle relazioni esterne delle persone detenute. L’ingresso in carcere comporta un’uscita dalla quotidianità e i legami con le persone della propria vita libera permettono di mantenere un contatto con quell’esterno al quale, alla fine della detenzione, si farà ritorno. “Il fine della pena è reintegrare la persona nella società - afferma Marietti - per questo la vita detentiva dovrebbe essere il più possibile simile alla vita fuori dal carcere e dunque tutelare le relazioni esterne è estremamente importante. Inoltre il diritto alla sessualità è un diritto fondamentale della persona, che si lega al diritto alla salute, ma anche alle relazioni familiari e alle relazioni in senso più ampio”. Nel caso di incontri intimi però per il nostro ordinamento le persone recluse possono esercitare il proprio diritto alla sessualità solo al di fuori del carcere, dunque quando possono uscire in permesso. Ma i permessi sono connessi alla premialità e, di conseguenza, anche la sessualità, nella prassi, è trattata alla stregua di un beneficio, a cui, oltretutto, non possono accedere, tra gli altri, le persone in custodia cautelare. Eppure l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non garantire momenti di intimità all’interno degli spazi detentivi. Ben 31 dei 47 Stati del Consiglio d’Europa prevedono, in forme diverse e variabili, incontri affettivi nei penitenziari. In Italia il dibattito fu introdotto nel 1999 nella proposta del nuovo regolamento penitenziario. L’allora direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, aveva proposto che i rapporti familiari fossero “mantenuti con forme diverse dal colloquio”. Oltre alla visita, disse Margara davanti alla Commissione Giustizia del Senato, “vale a dire un colloquio in ambienti senza separazioni, con possibilità di spostamento, come oggi avviene in molte aree verdi presenti in numerosi istituti italiani”, il nuovo regolamento prevedeva “una sorta di permesso interno, rilasciato dal direttore, che consente di fruire di incontri con i propri familiari in ambienti separati da quelli dei colloqui”. Si parlò di “unità abitative familiari”, “un mini appartamento, nel quale si soffermano per un certo numero di ore i familiari, potendo con questa espressione intendersi la moglie e anche i figli, ristabilendo così un momento di vita familiare”. L’aspetto della sessualità, secondo Margara, era da considerarsi “in definitiva ricompreso in questo concetto ma non rappresenta il momento saliente”. Fu poi il Consiglio di Stato a stralciare quelle parti del regolamento con due ordini di obiezioni, come spiega l’avvocata Sarah Grieco nel libro “Il diritto all’affettività delle persone recluse”: l’inadeguatezza del carcere reale, dunque la mancanza di spazi idonei, e “il silenzio della legge”, che non poteva essere sostituito in sede “regolamentare attuativa o esecutiva”. Quel silenzio della legge si è protratto fino a oggi, nonostante negli anni si siano susseguiti disegni di legge, proposte di dibattito, un ricorso alla Corte Costituzionale e il lavoro degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Da quel lavoro, confluito nella legge delega 103 del 2017, era emersa un’attenzione alla tutela dell’affettività, anche se non della sessualità, che non aveva però trovato concretizzazione nel decreto legislativo poi emanato dal governo, la cosiddetta Riforma Orlando, i cui decreti attuativi furono rivisti in senso restrittivo dal successivo governo nel 2018. Un avvicinamento, però, c’era stato, come spiega Marietti, perché la riforma ha introdotto un ordinamento penitenziario minorile, differenziandolo da quello degli adulti, e introducendo il termine “visite prolungate” per i minori reclusi. Visite che avvengono, o almeno è previsto che avvengano, in unità abitative con sedie, tavolo, tv, angolo cottura, frigorifero. “Il fatto che fosse stata utilizzata la parola visita e non colloquio - aggiunge Marietti - aveva fatto sperare che non rientrassero nell’articolo dell’ordinamento che prevede l’obbligo del controllo visivo, perché l’obbligo vale per i colloqui. Quindi si era auspicato che la visita prolungata potesse servire per introdurre anche una possibilità di vita sessuale per i più giovani, che restano al minorile fino a 25 anni”. Invece, il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, nelle linee di indirizzo, ha specificato che “alla visita prolungata va applicato lo stesso regime delle visite di normale durata, i controlli saranno quelli previsti dall’art. 18 della legge 354/75 e relativo art. 37 del regolamento di esecuzione D.P.R. 230/00 e saranno svolti dal personale di Polizia Penitenziaria”. “È stata un’occasione persa - conclude Marietti - il sistema non è stato capace di dare un’interpretazione ampia a questa novità, che come spesso accade, dal minorile si sarebbe potuta allargare al carcere degli adulti”. Tra diritto e sicurezza - Alla tutela del diritto si contrappone un’esigenza di sicurezza. Prevedere l’applicazione del diritto alla sessualità significherebbe permettere l’ingresso a persone esterne nei penitenziari sottraendole al controllo visivo della vigilanza. Secondo l’Associazione Antigone, che ha presentato un amicus curiae, strumento giuridico di supporto alla decisione della Corte, la sicurezza non può costituire un impedimento totale. In questo caso, si legge nel documento, ci troviamo di fronte a “una vera e propria assenza di bilanciamento tra sicurezza e garanzia del diritto”. Il diritto alla sessualità, secondo Antigone, non è compresso o modificato per adattarlo alle esigenze penitenziarie, come avviene per la tutela di altri diritti in carcere come ad esempio le ferie per i lavoratori detenuti, ma “integralmente negato”. Oltre dieci anni fa, nel 2012, la Corte Costituzionale era già stata chiamata a esprimersi sulla stessa questione, ma aveva ritenuto l’ordinanza inammissibile. “La situazione però allora era molto diversa”, spiega a Valigia Blu Sarah Grieco. “In quell’ordinanza mancavano degli elementi importanti: non era stato esplicitato né il regime di sicurezza in cui si trovava la persona detenuta di cui era stato sollevato il caso né gli elementi specifici che le impedivano di avere rapporti sessuali, dunque l’accesso ai permessi premio. Un intervento completamente demolitivo del controllo visivo avrebbe avuto effetti su tutti i soggetti, a prescindere dal regime detentivo, ponendo quindi una questione di sicurezza. D’altra parte una pronuncia di incostituzionalità non avrebbe di per sé garantito il diritto: abolendo soltanto il controllo visivo, ma lasciando la situazione inalterata, non erano previsti tempi, spazi e modi adeguati per la sessualità, come più in generale per l’affettività”. Su questo punto la sentenza n. 301 del 2012 sottolinea che “il problema della sessualità dei detenuti meriterebbe, bensì, particolare attenzione nelle competenti sedi politiche”. E invece nessuna legge in merito è stata approvata e la situazione è di fatto rimasta identica. Se la Corte dovesse accogliere l’ordinanza Gianfilippi, l’applicazione del diritto non sarebbe dunque immediata. Applicare il diritto alla sessualità prevede un ripensamento degli spazi del carcere, una nuova gestione della sicurezza. Sarah Grieco ha lavorato a una proposta di legge sull’affettività, già approvata dal Consiglio regionale del Lazio e depositata in Parlamento. “Questa proposta di legge nasce dalla voce dei detenuti - spiega Grieco, che ha intervistato oltre 240 persone recluse - Alla domanda specifica sulla sessualità molti rispondevano che avrebbero preferito di no, perché avevano in mente le attuali condizioni degli istituti penitenziari. Non avrebbero mai sottoposto la propria compagna o la propria moglie all’ingresso all’interno delle sezioni. Avrebbero voluto dei luoghi appartati con uno spazio sufficiente, anche in senso temporale, e una serie di accorgimenti. In questo senso la Corte aveva ragione nell’affermare che il diritto alla sessualità in una realtà carceraria come la nostra necessita di un intervento legislativo perché altrimenti lo scopo è assolutamente non praticabile”. Un intervento legislativo che in questi dieci anni, però, non c’è stato, per cui la Consulta è stata chiamata nuovamente a esprimersi: “Però il magistrato di Spoleto - prosegue Grieco - sottolinea che c’è stato un lasso temporale molto elevato e non è successo assolutamente nulla”. Un’altra novità della nuova ordinanza è la tutela del diritto alla genitorialità. “È uno degli aspetti più rilevanti, oltre ai parametri di costituzionalità già conosciuti - conclude Grieco - e che è rimasto finora sottaciuto. Nei nostri questionari detenute e detenuti ponevano in rilievo, per sé e per i loro partner, che soprattutto nei casi di pene lunghe erano privati del diritto a diventare genitori”. “Mi sono sempre ritenuto fortunato per il fatto di avere una compagna e dei figli fuori - racconta Musumeci - Quell’affetto è stato sempre uno stimolo, una medicina, ma ho incontrato molti detenuti giovani che avevano una relazione fuori dal carcere ma davanti molti anni di detenzione e sapevano di non poter avere figli. Per alcuni di loro quel non poter diventare genitori, quel perdere le relazioni fuori dal carcere, li faceva sentire profondamente soli e senza speranza, senza un motivo per migliorarsi”. Privazioni o punizioni? - “È il carcere la punizione, non si va in carcere per ricevere ulteriori punizioni” - spiega Marietti, che ha firmato l’appello sostenuto da accademici e garanti e promosso da Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara che a lungo si è occupato del tema, in cui si legge: “Fino ad oggi, la privazione dell’affettività-sessualità ha rappresentato un’autentica e indifferenziata pena accessoria”. Qual è allora il senso di una proibizione come quella che riguarda la propria sfera intima se non quello di un eccesso di afflittività? “Mi fa rabbia l’idea che la sessualità e l’affettività siano proibite, - afferma Musumeci - che cosa c’entrano con la pena? Con il passare degli anni non ti senti più colpevole, ti senti una vittima e giustifichi il male che hai fatto perché pensi che quello che stai subendo è ingiusto. Se ti privano dei sentimenti e ti proibiscono dei gesti di affetto uscirai solamente più arrabbiato, disabituato alla vita”. Il carcere è un luogo di privazioni e di deprivazione sensoriale, dove lo scollamento tra la quotidianità intramuraria e quella extramuraria produce effetti che vanno al di là della fine della detenzione. “Sono restrizioni che lasciano dei segni - conclude Musumeci - Quando sono uscito dal carcere io e la mia compagna sembravamo due adolescenti, avevamo perso anche la confidenza di scambiarci piccoli gesti. Il carcere ti trasforma, ti disabitua non solo a vivere e a pensare ma anche a fare l’amore, e quando esci devi reimparare tutto”. Sul carcere il Pd è distante anni luce da Andrea Delmastro di Debora Serracchiani* Il Dubbio, 5 dicembre 2023 Caro Direttore, nei giorni scorsi ho letto un contributo su questo giornale in cui si affermava che, sui temi penitenziari, la penserei esattamente come l’on. Delmastro Delle Vedove. Colgo l’occasione per chiarire che non è affatto così, né per me, né per il Partito democratico. Il nostro faro è stato sempre il fine rieducativo della pena, scolpito nell’articolo 27, comma 3, della Costituzione: al fondo di quella splendida norma vi è la consapevolezza che ciascuno, anche chi si è macchiato dei reati più gravi, ha diritto ad avere una nuova opportunità. E si ricollega a quella previsione (art. 3, comma 2, Cost.) secondo la quale la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo umano di tutti i cittadini, anche dell’autore del reato. Al contrario, l’on. Delmastro risulta firmatario - insieme alla Presidente del Consiglio Meloni - di un disegno di legge costituzionale di modifica dell’art. 27, comma 3, Cost. che mira a riaffermare la logica di prevenzione generale e di difesa sociale (C 3154/2021). Da questa differenza siderale sui principi, discende una prassi politica che è altrettanto sideralmente distante. Le proposte concrete e i provvedimenti valgono a dimostrarlo. Sono stata prima firmataria della legge sulle detenute madri che, come noto, pur essendo in quota opposizione, è stata a tal punto stravolta dalla maggioranza da costringerci a ritirarla. Tale la determinazione di questo Governo, che nel recente pacchetto sicurezza è stata prevista la norma che stabilisce che le donne incinte e i bambini fino ad un anno di età possano essere reclusi. Ho sottoscritto la proposta di legge a prima firma del collega Riccardo Magi sulla istituzione di Case di reinserimento sociale, destinate ad accogliere le persone che debbano espiare pene detentive non superiori a dodici mesi, nonché i detenuti e gli internati assegnati al lavoro all’esterno e i condannati in regime di semi libertà. Abbiamo depositato a mia prima firma una proposta di legge che si occupa della questione della salute mentale e che affronta il problema dei detenuti psichiatrici, la cui condizione nelle carceri italiane è disumana. Abbiamo presentato più volte emendamenti tendenti a ripristinare i fondi dell’edilizia penitenziaria, assolutamente insufficienti per la manutenzione ordinaria e tantomeno straordinaria dei siti spesso fatiscenti. Mi sia permesso, inoltre, ricordare che il mio partito si è fatto promotore di una profonda depenalizzazione (con i decreti legislativi del 2016), nonché ha supportato la depenalizzazione in concreto con l’estensione della punibilità nella riforma Cartabia ed oggi lavora al tema della esecuzione della pena recuperando ed aggiornando l’ottimo lavoro svolto dalla commissione guidata dal prof. Giostra. Leggo infine che dovrebbero sembrarmi dei “pericolosi sovversivi per eccesso di garantismo”, il Ministro Carlo Nordio e il Vice ministro Francesco Paolo Sisto. Stiamo parlando degli stessi autorevoli membri del Governo che da quando si sono insediati non hanno fatto altro che introdurre nell’ordinamento nuovi reati? Basterebbe citare, fra gli altri, il reato di rave, il decreto Caivano con lo stravolgimento del nostro processo minorile e del principio che il carcere per i minori debba essere la extrema ratio, dell’imbrattamento di beni comuni, dell’occupazione abusiva di immobili, il recente decreto immigrazione, della gestazione per altri come reato universale... E che dire del reato di rivolta nelle carceri con pena prevista anche in caso di resistenza passiva? O dell’idea di trasformare in carceri le caserme dismesse per far fronte a un sovraffollamento al 121%? A conti fatti, io auspicherei che il ministero Nordio fosse coerente con i principi garantisti che esibiva prima di diventare un guardasigilli giustizialista. La distanza fra me e il sottosegretario Delmastro Delle Vedove è evidentemente abissale, con riguardo ai comportamenti, ai principi e all’azione politica. Così come distante sono il suo ed il mio partito sui temi di cui ho più sopra scritto. Delmastro e il suo partito praticano un panpenalismo emozionale, funzionale alla ricerca del consenso. Il sottosegretario fa parte di un Governo che si accanisce contro i più deboli e gli ultimi, che mal tollera il fastidio di chi li mette in discussione sul terreno dei diritti, della giustizia e del garantismo. È anche per questo che io e il mio partito continueremo ad esercitare a testa alta la nostra prerogativa di ingresso e visita nelle carceri italiane. *Deputata del Pd e componente della commissione Giustizia e della bicamerale Antimafia La solita “dottrina Travaglio”: non esistono innocenti, solo colpevoli non condannati di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 dicembre 2023 Ma esiste il “carcere degli innocenti”? No, colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. Due giorni fa Marco Travaglio, emulando uno dei suoi maestri in toga, Piercamillo Davigo, ha scritto che “si può essere assolti anche da colpevoli”. Perché, “in base alla convenzione chiamata giustizia, si può solo dire che non sono stati condannati”. Sta parlando del numero enorme di errori giudiziari e carcerazioni ingiuste che ogni anno costa allo Stato, che pure li risarcisce solo in minima parte, cifre che si aggirano sui quaranta milioni di euro. E all’esercito di persone, 547 nel 2022, che, essendo state vittime della “forza” dello Stato, hanno ricevuto una riparazione in denaro per un totale di 37 milioni e 300.000 euro. Una goccia nel mare, le ingiustizie subite in realtà sono molte di più, possiamo tranquillamente moltiplicare per dieci quei cinquecento per avere la misura dell’ingiustizia italiana di ogni anno. E far toccare con mano agli increduli il fatto che, fino a quando la Cassazione, un anno fa, con la sentenza 8616 della quarta sezione penale, non ha dato una svolta a una violenza che si sommava all’ingiustizia, venivano respinte le richieste di ristoro se l’imputato nel primo interrogatorio si era avvalso della facoltà di non rispondere. Il diritto al silenzio era considerato colpa. Ne ha parlato alla Camera il ministro Guido Crosetto, citando le ingiustizie dell’ultimo trentennio e “i 30.000 innocenti in manette”. Innocenti? Macché, dice Marcolino, solo assolti, gente che probabilmente l’ha fatta franca. Ha orecchiato quel che l’ex pm Davigo aveva riferito a un solo processo, ma che è meglio generalizzare, giusto perché non ci si illuda del fatto che si possa davvero amministrare giustizia, che è certamente una “convenzione”, ma che imporrebbe una certa osservanza delle regole, chiunque le abbia fissate, dai costituenti in poi. Se qualcuno, il pm o il giudice o uno dei tre del tribunale che condannò Enzo Tortora in primo grado, avesse preso il telefono e chiamato quel signor Tortona il cui numero compariva nell’agendina di un camorrista, forse la storia processuale italiana sarebbe stata diversa. Ma quel numero non fu mai chiamato. E se ogni tanto non intervenissero le corti d’appello a raddrizzare errori ed entusiasmi pervicaci dell’accusa o la Cassazione a fissare regole, i tanti “casi Tortora” resterebbero chiusi in qualche cassetto. E, dal momento che non esiste, nonostante il famoso referendum, una seria legge sulla responsabilità civile dei magistrati, e per quella disciplinare vale la regola del 99 per cento, tanti sono i casi di archiviazione, i cittadini che subiscono quella “forza” dello Stato che si chiama ingiustizia, sono in balia della sorte. Che poi in certi processi al sud e troppo spesso nei confronti di esponenti politici o pubblici amministratori ha sempre il sapore della pervicacia con cui si insegue il malcapitato fino all’ultimo grado di giudizio. Anche quando si dovrebbe aver capito di avere quanto meno preso un abbaglio. Come nel caso del signor Tortona. Proviamo per una volta a giocare con il paradosso. Supponiamo che un domani Marco Travaglio possa entrare nelle vesti dell’imprenditore Alfonso Annunziata, oggi ottantenne, assolto pochi giorni fa (il fatto non sussiste) dalla corte d’appello di Reggio Calabria dall’accusa di essere un mafioso dopo che gli ultimi anni della sua vita li ha passati così suddivisi, tre in carcere, due ai domiciliari, un patrimonio del valore di 200 milioni di euro sequestrato e una condanna di primo grado a 12 anni per associazione mafiosa. Una vita distrutta. Annunziata era una vittima della ‘ndrangheta in realtà, ma secondo l’accusa a un certo punto ne era diventato complice. Ora è libero, assolto, e reintegrato nel suo patrimonio che i giudici gli hanno restituito. Che cosa si aspetta oggi dallo Stato il signor Travaglio- Annunziata? Chiudiamo un attimo gli occhi e immaginiamo una parola grande grande, riparazione. Materiale e morale, e qualcuno che gli chieda scusa, se pur con sette anni di ritardo. Quale è invece l’alternativa più probabile, quella dell’ingiustizia permanente? Che la procura generale di Reggio, che aveva chiesto la conferma alla condanna di 12 anni, si avventuri fino alla Cassazione, giusto per non smentire se stessa. E che il giorno dopo un direttore di quotidiano, parafrasando un amico ex pm, scriva che Travaglio-Annunziata era stato assolto, ma che questo non significava fosse innocente. Colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. “In carcere da innocente per 32 anni”. Parla il legale di Zuncheddu di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 dicembre 2023 L’incredibile storia del pastore sardo condannato all’ergastolo per tre omicidi a causa di testimonianze influenzate dai poliziotti. L’avvocato Trogu racconta cosa ha portato all’apertura del processo di revisione e alla sua liberazione. Trentadue anni in carcere da innocente. Il prossimo 19 dicembre, salvo sorprese, gli italiani verranno a conoscenza del più grave errore giudiziario della storia del nostro paese. Protagonista, suo malgrado, è Beniamino Zuncheddu, ex allevatore di Burcei (Cagliari) di 58 anni, di cui 32 trascorsi in carcere a causa di una condanna definitiva all’ergastolo per la cosiddetta “strage del Sinnai”: un triplice omicidio avvenuto l’8 gennaio del 1991, quando sulle montagne di Sinnai furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. Inizialmente le indagini non portarono a nessun risultato. L’unico superstite e testimone oculare, Luigi Pinna, riferì agli inquirenti di non aver potuto riconoscere colui che aveva sparato perché aveva una calza da donna sul volto ed era notte. Un pastore della zona disse invece di aver saputo di minacce da parte di Zuncheddu nei confronti di uno degli allevatori uccisi, ma di non aver mai assistito a queste. Tutto cambiò nel giro di un mese e mezzo. “Il cambio di versione di entrambi i soggetti avvenne a seguito dell’opera di convincimento da parte di un poliziotto”, racconta al Foglio l’avvocato Mauro Trogu, che nel 2016 ha preso in carico la difesa di Zuncheddu portando all’apertura di un processo di revisione. “Nel febbraio del 1991 - racconta - entrambi i soggetti cambiarono improvvisamente versione, dicendo a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro di aver visto in faccia chi aveva minacciato uno degli allevatori uccisi e chi aveva sparato: Beniamino Zuncheddu”. Zuncheddu fu condannato all’ergastolo. Ha trascorso gli ultimi 32 anni nelle carceri sarde di Badu ‘e Carros, Buoncammino e Uta. Il destino del pastore sardo sembrava ormai segnato, fino a quando nel 2019 l’avvocato Trogu, attraverso le sue indagini difensive, è riuscito a convincere l’allora procuratrice generale di Cagliari, Francesca Nanni, ad aprire un processo di revisione per esaminare le nuove prove a sostegno dell’innocenza di Zuncheddu. “Nell’estate del 2019 la dottoressa Nanni giunse alla conclusione che gli omicidi erano collegati a un sequestro di persona che si era consumato in quella zona nello stesso periodo - spiega Trogu -. C’erano delle strane coincidenze spazio-temporali tra i due delitti. Questi elementi, per esempio il fatto che gli autori della strage apparivano essere più di uno, sarebbero risultati molto utili nel processo a carico di Beniamino, ma non vennero mai presi in considerazione”. Riaperto il caso, la procura autorizzò nuove intercettazioni ambientali nei confronti del superstite Luigi Pinna dalle quali emersero ammissioni e anche parziali pentimenti sull’accusa rivolta oltre trent’anni prima nei confronti di Zuncheddu. L’ammissione definitiva, tuttavia, è giunta lo scorso 14 novembre nell’udienza del processo di revisione. Pinna ha infatti riferito che all’epoca un poliziotto, Mario Uda, gli mostrò una foto di Zuncheddu prima di essere interrogato dal magistrato. “È lui il colpevole”, disse il poliziotto a Pinna, indirizzando le indagini. Pinna accusò così proprio Zuncheddu. Queste testimonianze hanno indotto la corte d’appello di Roma, dove si sta tenendo il processo di revisione, a concedere dieci giorni fa a Zuncheddu la sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena. Dopo 32 anni di carcere, il pastore sardo è tornato in libertà, in attesa che il 19 dicembre i giudici mettano definitivamente la parola fine sulla sua incredibile vicenda giudiziaria. “Dopo la scarcerazione ho trovato Zuncheddu felice come non lo avevo mai visto”, rivela Trogu. “Le dico la verità. Tra luglio e agosto di quest’anno ho avuto molta paura per le sorti di quest’uomo, perché ha avuto un crollo psicologico preoccupante. In quel momento ho interessato la garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, anche perché far muovere il servizio sanitario in carcere non è mai facile. Ha vissuto dei mesi di grande pesantezza. Con la scarcerazione c’è stato un ribaltamento. Ora quando lo chiamo ride per un nonnulla, è proprio felice”. Trogu si dice “molto contento di vedere Beniamino così”, ma non si sente un eroe, anzi: “Continuo ad avere il rimorso di non essere riuscito a fargli ottenere la libertà prima. Ho chiesto la scarcerazione dal novembre 2020 e sento che gli sono stati rubati altri tre anni di libertà senza motivo”. Trogu aspetta comunque fiducioso la sentenza del 19 dicembre. Nell’ordinanza con cui hanno concesso la sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena, i giudici hanno infatti scritto che sono ormai “realtà processualmente accertata” sia “il fatto storico dell’avere” il poliziotto “segretamente mostrato a Pinna la fotografia di Zuncheddu”, sia “l’aspetto dell’avere indotto Pinna a sostenere che quello era lo sparatore da lui visto in viso e a tacere che aveva già visto quella fotografia”. Insomma, i presupposti per vedere confermata la caduta delle accuse contro Zuncheddu ci sono tutti. Sondaggio: per il 72% degli italiani la riforma della giustizia è prioritaria ansa.it, 5 dicembre 2023 Il 72% degli italiani ritiene che la riforma della giustizia sia un tema prioritario, ma solo per il 20% è una priorità assoluta, mentre per il 52% è secondaria rispetto ad altri settori. È quanto emerso dal sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca Quorum/YouTrend per Sky Tg24, diffuso oggi dal canale all news in base al quale l’urgenza di questa riforma è sentita maggiormente tra gli elettori della maggioranza: per uno su tre è la questione più prioritaria di tutte (33% tra gli elettori di Fratelli d’Italia, 27% tra gli altri elettori di centrodestra). Le opposizioni la ritengono invece un ambito di intervento meno prioritario: a definire la riforma della giustizia un tema poco o per nulla prioritario sono il 30% tra gli elettori del Pd e il 42% tra gli elettori del Movimento 5 Stelle. Complessivamente il 45% degli italiani dà un giudizio positivo alla riforma della giustizia, mentre il 34% la giudica negativamente. Tuttavia, il dato supera il 70% tra gli elettori della maggioranza, mentre rimane negativo tra gli elettori delle opposizioni. La approvano complessivamente il 24% degli elettori Pd e il 35% degli elettori del M5S. Tra gli elementi della riforma, la separazione delle carriere è l’unico a raccogliere il supporto della maggioranza degli italiani (il 65% lo approva). Un supporto che è trasversale tra tutti gli elettori: sono favorevoli il 60% degli elettori Pd, il 68% degli elettori M5S, l’81% degli elettori di FdI e il 78% degli altri elettori di centrodestra. Al contrario tutte le altre voci della riforma raccolgono un’approvazione generale inferiore al 50%. L’introduzione della collegialità del giudice per la misura cautelare del carcere è approvata dal 49%, la rimodulazione del concorso esterno in associazione mafiosa dal 45%, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dei pubblici ministeri dal 39% e l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio dal 29%. Analogamente anche sulle specifiche misure è presente una spaccatura per elettorato, con gli elettori della maggioranza che sono favorevoli a tutte le riforme tranne l’abolizione del reato di abuso di ufficio. Il 69% ritiene che il sistema di valutazione dell’operato dei magistrati debba essere reso più rigido, solamente il 15% non concorda. Tutti i segmenti elettorali sono in maggioranza favorevoli, ma il supporto è maggiore tra gli elettori della maggioranza. Sono favorevoli il 57% degli elettori Pd e il 55% degli elettori M5S, il dato cresce tra gli elettori di FdI (84%) e degli altri partiti di centrodestra (82%). Secondo la maggioranza relativa degli italiani (42%), dovrebbe essere una commissione nominata dal Consiglio Superiore della Magistratura a valutare l’operato dei magistrati. Per il 18% dovrebbe essere una commissione nominata dal ministro della Giustizia, per il 17% una commissione nominata dal Parlamento. Considerando le intenzioni di voto, sono gli elettori dei partiti di opposizione ad avere un’idea più netta. Il 65% degli elettori del Pd e il 57% degli elettori del M5s concordano con la maggioranza relativa degli italiani sul ruolo del Csm nelle valutazioni dei magistrati. Gli elettori di maggioranza invece sono più divisi. La maggioranza relativa (35%) degli elettori di centrodestra attribuirebbe il ruolo al Csm, ma una consistente minoranza (28%) la attribuirebbe al Parlamento (elettori FdI) o al ministro della Giustizia (altri elettori di centrodestra). La guerra con le toghe e l’interesse del Paese di Ferdinando Adornato Il Messaggero, 5 dicembre 2023 È disarmante dover ancora assistere alle solite, incancrenite baruffe di sempre tra magistratura e politica. Come se non avessimo imparato nulla dalla nostra stessa storia. Come se l’Italia volesse pervicacemente restare ferma agli anni Novanta. Eppure gli italiani, in tutti i sondaggi, chiedono di voltare pagina. E, di certo, se il nostro sistema non uscirà dal blocco politico e mentale che lo imprigiona, il suo futuro sarà sempre a rischio. Ma è possibile voltare pagina? Certo, ma a una condizione: che destra e sinistra compiano una sorta di “rivoluzione copernicana”. In primo luogo bisognerebbe evitare (soprattutto la sinistra) di recitare il ruolo di Alice nel Paese delle meraviglie. Se un ministro parla di una possibile “opposizione giudiziaria” può aver ragione o torto ma certo non dice una cosa fuori dal mondo. Vogliamo dimenticare la storia degli ultimi trent’anni? Come il celebre slogan di un magistrato “resistere, resistere, resistere” divenne addirittura il manifesto di movimenti di piazza (i girotondi) e trasformò un’inchiesta giudiziaria in un improprio “mito politico”? Non è forse vero che, a quel tempo, nacque la teoria secondo la quale la destra rappresentasse l’illegalità e dunque fosse da combattere con ogni mezzo? Da allora contaminazioni tra magistratura e politica ce ne sono state in abbondanza, favorite prima dalla crisi della Prima Repubblica e poi dalla particolare personalità di Berlusconi. Ma oggi che quel tempo è passato, e che governa una figura assai diversa dal Cavaliere, e per di più chiaramente sensibile al dovere della legalità come Giorgia Meloni, ha senso continuare a convivere con gli ammuffiti vecchi fantasmi? Non può essere civile un Paese nel quale non sia ancora condiviso il pensiero che l’azione di un tribunale non possa mai sostituirsi a quella della politica, pena il declino dell’intera democrazia. In secondo luogo, e di conseguenza, la politica dovrebbe trovare un’intesa intorno al tema del “diritto di opinione” dei magistrati. È lecito che essi intervengano con interviste e articoli sulla vita pubblica del Paese? E ancor di più: non è grave che correnti della magistratura arrivino a contestare ufficialmente una riforma costituzionale proposta dal governo? In sostanza: i diritti di opinione di un servitore dello Stato (sia esso magistrato o ufficiale dell’Esercito) possono essere gli stessi di un normale cittadino o devono piuttosto osservare una deontologia di riservatezza e di prudenza? È così difficile che anche la sinistra concordi su questo punto? Come si capisce è in gioco l’autorità dello Stato nel suo complesso, tant’è che sono moltissimi i magistrati che non condividono l’ansia di visibilità di alcuni loro colleghi. È poi urgente raggiungere un’intesa di buon senso sulla “vexata quaestio” delle dimissioni dagli incarichi pubblici. Lasciamo stare il pur intangibile diritto di essere considerato innocente fino a sentenza definitiva: ma come si può ignorare il fatto che, se un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio dovesse automaticamente comportare immediate dimissioni, si consegnerebbe a un singolo magistrato l’enorme potere di decidere la sorte dei governi? Soprattutto tenendo conto del fatto che spesso prevale l’insano e incostituzionale metodo di indagare qualcuno sulla base di pure ipotesi, confidando poi di trovare le prove a inchiesta in corso. Eppure Alessandro Manzoni ci aveva già ammonito come “a giudicare per induzione, e senza la necessaria cognizione dei fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti”. In definitiva: destra e sinistra possono e devono dividersi sui contenuti della riforma della giustizia e sul merito di provvedimenti sistemici, ma non possono più assolutamente dividersi sulla separazione dei poteri tra magistratura e politica, proibendo ogni invasione di campo, lesiva delle regole di uno Stato di diritto. Ciascuno può e deve contribuire, per la sua parte, a quest’impresa. I magistrati abbandonando ogni presunzione di sentirsi un contro-potere. La destra rinunciando, come chiede la Meloni, alla tentazione di uno scontro totale contro tutta la magistratura. La sinistra abbandonando la sua storica (e comoda) contiguità con correnti della magistratura. L’Italia ha assolutamente bisogno di chiudere “la guerra dei trent’anni”. Non è facile: ma è l’unica strada per evitare che una delle più grandi nazioni del mondo sia ridotta a una sorta di mortificante caricatura di un Paese giuridicamente sottosviluppato. Gratteri: “Da Nordio riforme dannose, renderanno i magistrati pavidi passacarte” di Dario Del Porto La Repubblica, 5 dicembre 2023 Il magistrato: “Le pagelle per giudici e pm sono inutili. Per ridurre i vuoti di organico bisogna limitare i fuori ruolo utilizzando i magistrati in pensione. Condivido l’allarme delle Corti d’Appello sulla prescrizione”. Nicola Gratteri, procuratore di Napoli. Qual è la sua opinione della riforma della giustizia proposta dal ministro Nordio? Le “pagelle” ai magistrati servono? “Nessuna delle norme da ultimo approvate possono essere utili a migliorare la giustizia. Le pagelle non solo non sono utili, ma addirittura sono dannose: i magistrati si preoccuperanno più di avere le carte in ordine che di fare giustizia. Queste riforme, che sono anche un altro regalo alle correnti della magistratura e seguono la stessa strada della riforma Cartabia, ci consegneranno un magistrato burocrate, pavido e passacarte che perderà di vista il fine primario: fare una giustizia giusta. C’è da pensare che sia questo l’obiettivo, perché sono ben altre le cose che servono per far funzionare il processo”. Dove si dovrebbe intervenire, secondo lei? “Serve riempire gli organici della magistratura: abbiamo raggiunto una scopertura pari a circa 1700 magistrati. Serve accorpare i tribunali di piccole dimensioni, mentre si parla addirittura di istituirne altri. E poi, serve riportare a 75 anni, o almeno a 72, l’età pensionabile, limitare il numero dei magistrati fuori ruolo e dare a magistrati in pensione incarichi che, meglio e più di altri, potrebbero svolgere. Se un ministro può avere più di 75 anni, perché i magistrati in pensione non possono essere destinati alle commissioni parlamentari o alla scuola superiore della magistratura? Una persona di 75 o più anni può prendere decisioni sul futuro di una nazione e non può occuparsi dell’aggiornamento dei magistrati? È un discorso che non sta in piedi, evidentemente non lo si vuole fare, anche se sono scelte che già domani mattina si potrebbero adottare, non serve modificare nessuna norma”. C’è chi dice che cambierebbe poco... “Non è vero. Anche 20 o 30 magistrati in più, in alcuni uffici, fanno la differenza. Sarebbe anche un segnale importante da parte della nostra categoria e smorzerebbe, pur solo in parte, una serie di critiche collegate alle correnti. Secondo un sondaggio, dopo il cosiddetto “scandalo Palamara”, larga parte degli italiani diffida della magistratura. Se vogliamo riacquistare credibilità, all’esterno ma anche all’interno, è il momento di fare qualcosa di concreto, non le solite chiacchiere che non portano a nulla. Credo che il Presidente della Repubblica, come presidente del Csm, dovrebbe chiederlo a viva voce. Come valuta la riforma della custodia cautelare? “Pensare che una misura cautelare debba essere emessa da tre giudici o che, prima di applicarla, l’indagato debba essere preventivamente interrogato, è qualcosa che solo chi non frequenta i tribunali può ritenere utile e solo chi non conosce l’attuale stato della magistratura può ritenere praticabile”. Come si velocizzano i processi? “Eliminando inutili adempimenti che nulla hanno a che vedere con le irrinunciabili garanzie. Oggi, dopo un defatigante processo di primo grado, si può fare un concordato in appello, con riduzione della pena e rinuncia al prosieguo. Perché non farlo prima? Si potrebbe anche limitare la possibilità di appello nelle ipotesi di arresto in flagranza con ammissione degli addebiti o quando sono palesemente strumentali. Lasciamo fare le riforme a chi nei Tribunali lavora veramente”. La separazione delle carriere è una soluzione? “È sbagliata da tutti i punti di vista. Il cambio di funzione arricchisce professionalmente il magistrato. Si criticano spesso i pm perché si dice che non hanno la cultura della giurisdizione. Quale miglior modo, allora, se non quello di far fare al pm anche il giudice e viceversa? Bisognerebbe avere il coraggio di tornare ad agevolare il cambio funzioni, come nel resto d’Europa, dove viene incentivato. La separazione delle carriere è l’anticamera della sottoposizione del pm all’esecutivo”. È d’accordo con l’allarme dei 26 presidenti di Corte di Appello sui rischi della modifica della prescrizione? “Certo che sì”. Le intercettazioni non costano troppo? “Ho speso fiumi di parole per dire che non sono costose. Ci si vuole nascondere dietro questo argomento allo scopo di limitarne il più possibile l’utilizzo per i reati contro la pubblica amministrazione, ormai sempre più a braccetto, almeno in alcune zone, con i reati di mafia. Se in un’inchiesta per mafia o traffico di stupefacenti sento parlare, in un’intercettazione, di una corruzione di milioni di euro o di un riciclaggio o di una truffa non la posso utilizzare, perché è un fatto diverso. Se emerge che un povero tossicodipendente ha rubato una bottiglia in un supermercato, anche se è un fatto diverso, sì”. E perché? “Per il furto nei supermercati è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, per la corruzione no. È un’assurdità, una giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Le intercettazioni sono fondamentali e dovrebbero comprendere anche i messaggi scambiati attraverso strumenti informatici e telematici, come io e il professor Nicaso spieghiamo nel libro “Il Grifone”“. Cosa non la convince della riforma Cartabia? “Direi quasi tutto. Condivido solo l’informatizzazione del processo penale (anche se ancora non funziona, nemmeno a livello sperimentale), oltre alle attività istruttorie che possono svolgersi a distanza. Per il resto, purtroppo, l’auspicata riduzione dei tempi non si avrà. Sono stati introdotti adempimenti che appesantiscono le procedure, anche nel processo civile. La lotta alla criminalità organizzata passa anche da qui: se un cittadino non ottiene una risposta veloce per un risarcimento danni o per la risoluzione di un contratto, si arrende oppure si rivolge alla criminalità. Entrambe le cose non vanno bene”. Pensa sempre che sia necessario costruire nuove carceri? “Lo dico da anni, ma non perché la mia aspirazione sia quella di riempire le carceri. Sarei ben contento di vivere in un paese dove nessuno commette crimini, ma se non è così, allora il sistema deve assicurare sia la certezza della pena, sia una carcerazione dignitosa. Le cose vanno di pari passo. Si era parlato di ristrutturare ex caserme, di utilizzare immobili confiscati. Ma non mi pare sia stato fatto nulla”. Lei come interverrebbe? “Centinaia di detenuti hanno commesso reati a causa della tossicodipendenza. L’unica via è provare a disintossicarli, siglando più accordi con le comunità terapeutiche e sovvenzionando la costituzione di altre. Dovrebbero essere istituite più strutture per i soggetti con disturbi psichici. Le Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr), non sono sufficienti, né lo è il personale. Vanno create altre strutture con medici, psichiatri e psicologi. E vanno potenzianti i Tribunali di Sorveglianza: tanti, anzi troppi, detenuti in esecuzione pena avrebbero già ora diritto ad una pena alternativa. Invece sono in attesa della decisione perché hanno difensori di ufficio o perché non arriva la relazione dai servizi sociali. Così affrontato, il sovraffollamento diventerebbe un falso problema. Ma evidentemente dei veri ultimi a nessuno interessa nulla”. Legittimo autocontrollo di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 5 dicembre 2023 Capisco, e l’abbiamo provata in tanti, la rabbia che pervade chiunque vede messo a repentaglio il proprio spazio vitale da ladri o rapinatori. Però, con buona pace di chi si indigna per i 17 anni inflitti al gioielliere cuneese Mario Roggero, un’umanità uscita dalle grotte della preistoria deve imporre un limite ai falli di reazione. Se insegui i rapinatori ad arma sguainata (peraltro illegalmente detenuta) mentre sono ormai usciti dalla tua gioielleria, non è legittima difesa. Se spari cinque colpi all’interno dell’auto in cui si sono rifugiati, non è legittima difesa. Se insegui uno dei banditi già ferito a morte mentre cerca di scappare e, vedendolo cadere a terra, lo prendi a calci in testa e alla schiena, poi gli punti addosso la pistola ormai scarica (ma tu non lo sai) e premi ancora il grilletto, non è legittima difesa. A renderla tale non basta il senso di impotenza che assale i cittadini alle prese con l’insicurezza del vivere e l’incertezza delle pene. Il mio è solo un predicozzo, dal momento che la vita è difendersi dalla sopraffazione altrui a qualsiasi costo, tanto nessuno ci protegge, nemmeno chi si fa chiamare Giustizia? So bene che questo è il pensiero dominante, eppure non lo condivido. Datemi pure della mammoletta, del maschio rieducato e anche dell’ipocrita, ma a mio figlio cercherò di insegnare che la convivenza umana è appesa a un filo esilissimo che si chiama autocontrollo. Ed è solo grazie a quel filo che non ci siamo ancora estinti. Sparare perché lo dice Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 dicembre 2023 Non sempre la retorica cialtrona dei demagoghi in perenne campagna elettorale produce guasti politici. A volte fabbrica vere e proprie tragedie e sparge dolore. Prendete il caso di Mario Roggero, condannato ieri a 17 anni di carcere in primo grado per un doppio omicidio. Ha sparato e ucciso due rapinatori all’esterno della sua gioielleria, a Grinzane Cavour, inseguendoli e accanendosi su uno dei due dopo averlo ferito. Gli è andata anche bene: gli sono state riconosciute le attenuanti per la provocazione. Secondo Salvini invece non gli è andata bene per niente così ieri ha protestato a tutto social perché “a meritare il carcere dovrebbero essere i veri delinquenti”. Se intende i rapinatori del caso questo non è più possibile perché - due su tre - sono morti ammazzati. E il ministro sbaglia anche quando giura che Roggero “ha difeso la propria vita e il proprio lavoro”, perché i rapinatori, armati di coltello e pistola finta, stavano fuggendo quando il gioielliere li ha inseguiti e aperto il fuoco. Così è stato condannato, il comportamento da giustiziere non ricade in nessuna fattispecie di legittima difesa, nemmeno putativa. Eppure Salvini, nella veste di legislatore oltre che di propagandista, aveva sostenuto e fatto credere il contrario. Durante il primo governo Conte convinse i 5 Stelle a votare una riforma per la quale, diceva, la difesa sarebbe stata “sempre legittima”. Ma è evidente che non può essere così, almeno fino a quando la destra non sostituirà la Costituzione con la legge della giungla. Lo scrivemmo allora e lo chiarì il presidente Mattarella, che promulgò la legge precisando che sarebbe stata applicata in modo “costituzionalmente orientato”. Il guaio è che qualcuno ha creduto a Salvini, di casi come quello di Roggero - capitato due anni dopo l’approvazione della legge - ce ne sono stati diversi. Tutti pistoleri, va detto, poi difesi rumorosamente dal ministro, qualcuno persino visitato in carcere o fatto salire su un palco. Ma nel frattempo abbiamo avuto nuove vittime e altri sparatori condannati. Solo Salvini è rimasto libero, a twittare. Carofiglio: “C’è una politica che specula sulle tragedie e rifiuta le regole della democrazia” di Niccolò Zancan La Stampa, 5 dicembre 2023 L’ex magistrato: “La condanna al gioielliere è corretta, la legittima difesa è un’altra cosa. Non mi confronto con Salvini sui temi del diritto, ma certe semplificazioni sono gravi”. Gianrico Carofiglio, per una volta partiamo dalla fine. Partiamo dai commenti. Dalla “piena solidarietà” espressa da Matteo Salvini al gioielliere di Grinzane Cavour condannato per duplice omicidio. Cioè, partiamo da un ministro che attacca il lavoro di un giudice e sconfessa una sentenza. Cosa sta succedendo in Italia? “Io non commento quello che dice Salvini in generale, tantomeno lo commento sui temi della giustizia. Perché quando era il ministro dell’Interno ha trattato con estrema cordialità dei pericolosi pregiudicati. Mi riferisco, nello specifico, a un signore di nome Lucci, arrestato dalla polizia per traffico di droga e già condannato per avere reso cieco con un pugno un tifoso avversario. Di fronte alle contestazioni per questa cosa inaudita e scandalosa per un ministro dell’Interno, Salvini ha risposto così: “Sono un indagato fra altri indagati”. Vede bene che per un giurista confrontarsi con Salvini sui temi del diritto è inimmaginabile”. Riformulo la domanda. Lei ritiene che questo attacco alla sentenza di Grinzane Cavour faccia parte dell’attacco alla magistratura a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni? “Non credo che qui ci sia un tema di contrapposizione fra poteri dello Stato. Ma il tentativo, che io trovo eticamente molto censurabile, di fare fruttare vicende tragiche, con persone morte e vite distrutte, per un tornaconto politico. Sfruttare la contingenza: ecco di cosa si tratta. Questo non toglie che ci siano molti politici, e non soltanto in questa maggioranza, insofferenti all’idea che esista un controllo di legalità”. Andiamo al caso specifico. Lei cosa ha pensato quando ha letto che il gioielliere era stato condannato a diciassette anni? “Ho pensato: è una pena giuridicamente corretta. Sono state concesse attenuanti di due tipi. Quelle generiche, che riguardano le condizioni personali del reo, il fatto che fosse incensurato. E l’attenuante della provocazione, a dimostrazione che i giudici hanno tenuto conto della serie di rapine subite da quell’uomo. Che a sua volta, ovviamente, è un’altra vittima di quella storia, pur avendo fatto - stando ai resoconti - una cosa tremenda”. Quanto avrebbe rischiato senza attenuanti? “Trent’anni o anche l’ergastolo”. Perché non è stata legittima difesa? “Immaginiamo questa situazione. C’è un negoziante che subisce tre rapine di seguito, ed è giustamente esasperato. Vorrebbe che i rapinatori venissero arrestati, vorrebbe che la smettessero di accanirsi contro di lui. Un giorno quel negoziante subisce la quarta rapina. I rapinatori scappano, ma per la prima volta li vede in faccia: li riconosce. Sono due ragazzi che ha già visto in precedenza. E quindi, chiude il negozio, prende la pistola, va a trovarli a casa, uno per uno, spara e li uccide. Io credo che neanche gli estremisti deliranti della presunta legittima difesa definirebbero lecito un comportamento del genere, sostenendo che ci si può fare giustizia da soli alla Charles Bronson. Ma quello che ho descritto è del tutto analogo a ciò che, stando ai resoconti, sarebbe successo nel caso di cui ci occupiamo. Tentativo di rapina finito, rapinatori in fuga, inseguimento ed esecuzione. La legittima difesa è un’altra cosa”. Cosa dice la norma? “Voglio leggerla: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Cosa significa costretto? “Non può avere scelta. Non ne ha. Gli stanno per sparare, spara. Gli stanno per dare un pugno, risponde con un pugno o con un calcio. In modo proporzionato”. Cosa significa pericolo attuale? “È legittima difesa solo se avviene quando l’aggressione è in corso. Se l’aggressione è cessata, come nel nostro esempio, rivive la regola per cui è allo Stato che spetta il monopolio dell’uso della forza. Serve sottolineare che il diritto penale è nato proprio per evitare che i cittadini si facciano giustizia da soli. Nel diritto romano si diceva: “Ne cives ad arma veniant”. Affinché i cittadini non ricorrano alle armi. Questo serve alla democrazia. L’alternativa è la giustizia privata, cioè la vendetta”. Criticare la sentenza incoraggia i giustizieri solitari? “No, credo che sia un rischio improbabile. Ma quello che si produce per effetto di questo parlare a ruota libera, senza alcun limite di etica e di decoro, è che i cittadini - soprattutto quelli meno attrezzati - si sentano autorizzati a parlare nello stesso modo. Autorizzati a tirare fuori il peggio delle loro pulsioni. Se un leader manda questi messaggi, se un politico di vertice dice che puoi pensare, dire e eventualmente fare tutto quello che ti pare, allora l’effetto è devastante. C’è un imbarbarimento complessivo”. È l’Italia del bipolarismo giudiziario? “È il tempo della contrapposizione su tutto. Lo scontro è totalmente radicalizzato e prescinde dai contenuti, contano solo gli schieramenti e le casacche. È un fenomeno grave che ha anche a che fare con l’età della rete. È come se tutti fossero arruolati. Non si possono mai riconoscere le ragioni dell’altra parte. Io mi rifiuto di partecipare a tutto questo”. O con il gioielliere o con i rapinatori? “È un problema molto grave. È un eccesso continuo di semplificazione. Riduce la possibilità di parlare seriamente dei problemi”. Come fa un magistrato a non sentire il peso di questo clima da stadio? “Quando facevo il pubblico ministero, la regola a cui mi attenevo era questa: applicare con coscienza e con tecnica interpretativa la legge, evitando accuratamente i giudizi morali”. Perché l’Italia, più di ogni altro Paese, si divide sempre fra innocentisti e colpevolisti? “Non ho certezze, ma quando la politica in maniera così energica e anche violenta rifiuta una delle regole basilari delle democrazie moderne, e cioè che esistono tre poteri e che devono essere autonomi uno dall’altro, è facile che tutto questo si riversi anche sui cittadini” Giustizia riparativa, che cos’è, da quando esiste, perché fa discutere di Elisa Chiari famigliacristiana.it, 5 dicembre 2023 La notizia che Cesare Battisti avrebbe chiesto l’accesso a un programma di giustizia riparativa porta alla ribalta della cronaca un istituto che la riforma Cartabia ha formalizzato. Cerchiamo di capire che cos’è, come nasce, a che cosa mira. Traduzione dall’inglese “restorative justice” la cosiddetta giustizia riparativa è un percorso parallelo ma non alternativo al processo penale che mira a “riparare” la frattura che il reato determina tra reo vittima e società. Il termine, in chiave moderna, risale agli anni Settanta del Novecento anche se ne sono esistite forme più antiche. Lo si fa coincidere con “caso Kitchener”, dal nome di una piccola città dell’Ontario al confine tra Canada e Stati Uniti, quando educatori proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini per aver danneggiato delle case un impegnativo programma di incontri tra i minori e le famiglie che avevano subito i danni dovuti alle loro azione e l’impegno a risarcirli riparando materialmente il danno compiuto con il lavoro di restauro. Esperienze simili sono state realizzate da allora in diversi Paesi dal nord America all’Oceania, passando per l’Europa a partire dagli anni Ottanta, all’inizio come esperienze estemporanee, dal basso, in seguito catalogati dall’International scientific and professional advisory council (ISPAC). Tra gli anni 80 e 90 pratiche simili sono state tradotte in forma di legge in diversi Paesi europei, con particolare riferimento alla giustizia penale minorile. Nel 1999, in tema di mediazione penale, è stata approvata la Raccomandazione del Consiglio d’Europa R19 del Comitato dei ministri degli Stati membri. Il tema è anche oggetto della Direttiva 2012/29/UE. Esempi di giustizia riparativa sono considerati e universalmente riconosciuti gli interventi di riconciliazione che hanno permesso al Sud Africa, con la Truth and Reconciliation Commission (TRC), o in afrikaans Waarheid-en-versoeningskommissie (WVK), ossia “Commissione per la verità e la riconciliazione”, di sopravvivere all’Apartheid e all’Irlanda del Nord di sopravvivere alle migliaia di morti dell’Ira senza che i rispettivi conflitti degenerassero in guerra civile. Qual è la filosofia del concetto di giustizia riparativa - È l’istituzione di un percorso che possa contribuire al risanamento del tessuto della società lacerato dal delitto, coinvolgendo in modi diversi il reo, la vittima e la società, superando la mera retribuzione delitto/sanzione, che, concentrandosi sulla relazione società-reo, finisce per marginalizzare la vittima lasciandola sullo sfondo: la giustizia riparativa sarebbe nelle intenzioni di chi la sostiene un modo di rimettere la vittima al centro o almeno di riconsiderarla, di rispondere anche al suo bisogno di superare la ferita che il delitto le ha inferto. Che cosa non è la giustizia riparativa - Non è un meccanismo di riparazione del danno nel senso di lavoro socialmente utile e non è, almeno in Italia, un’alternativa al processo penale che rimane con le medesime regole e procede come ha sempre fatto e termina con una sentenza di assoluzione o di condanna e, nel caso, relativa sanzione. Nel sistema italiano che ha in Costituzione l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale non sarebbe immaginabile, neanche volendo, un percorso alternativo al processo. Può essere solamente un percorso parallelo che cerca per altre vie una strada di mediazione. Quando però un percorso riparativo si compie, e può essere compiuto anche senza il consenso della vittima e in sua assenza con altre parti di società ferita, ed è riconosciuto come positivo dal giudice, cui viene inviato l’esito, può rappresentare una attenuante al momento dell’emissione della sentenza o comunque una diversa valutazione della gravità del reato agli effetti della pena o dar luogo alla sospensione condizionale della pena per il termine di un anno. Ma non implica sconti di pena automatici. Al contrario, il rifiuto di accedere al percorso o il suo esito negativo non possono tradursi in una sanzione più grave di quella originariamente inflitta. Il dissenso della vittima non può costituire, di per sé, una preclusione alla possibilità di accedere al percorso. Perché ha fatto discutere di recente - Il 19 settembre 2023 per la prima volta in Italia una Corte d’Assise, quella di Busto Arsizio, si è pronunciata su una richiesta di ammissione a un programma di giustizia riparativa - prevista dalla riforma Cartabia - da parte di un condannato per femminicidio, inviando il caso al centro per la giustizia riparativa e mediazione penale del Comune di Milano, perché si verifichi la fattibilità del programma. Il caso ha fatto discutere perché riguarda un delitto particolarmente efferato e perché il padre della vittima ha reagito negativamente alla notizia uscita sui media. La notizia secondo cui anche Cesare Battisti, che sta scontando ergastoli per 4 omicidi, compiuti durante gli anni di piombo, avrebbe chiesto di accedere a un percorso di giustizia riparativa, si presta a riaccendere il dibattito. Giustizia riparativa secondo la Riforma Cartabia - La possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa, si legge sul portale Altalex, che illustra il Decreto legislativo n.150 del 10 ottobre 2022 di attuazione della legge 134 del 27 settembre 2021, (c.d. “riforma Cartabia”), deve essere “assicurata a titolo gratuito a tutti i soggetti che vi hanno interesse; l’accesso è - per espressa previsione dell’art. 43 - sempre favorito, con la sola eccezione del caso in cui dallo svolgimento del programma possa derivare un pericolo concreto per i partecipanti; come precisa l’art. 44, i programmi sono accessibili senza preclusioni relative alla fattispecie di reato o alla sua gravità e l’accesso è possibile in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena o anche dopo l’esecuzione della stessa, così come all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità o per intervenuta estinzione del reato”. Chi può accedere alla giustizia riparativa - Possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa: la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa e altri soggetti appartenenti alla comunità (es. familiari, persone di supporto, enti e associazioni), oltre a chiunque vi abbia interesse. L’adesione è libera e volontaria. Non può essere imposta a nessuna delle parti e il percorso avviene sotto la guida di un mediatore terzo e imparziale che non è comunque il giudice, dato che il percorso riparativo avviene al di fuori dei tribunali. Non implica necessariamente l’incontro diretto tra vittime e persone indicate come autori del reato. In che cosa consiste concretamente - L’esito ripartivo po’ essere simbolico e “può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. Oppure materiale e “può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori”. Quali possono essere gli effetti penali della giustizia riparativa - “L’articolo 15 bis del d.lgs. 150/2022 oltre a consentire l’accesso alla giustizia riparativa in ogni fase dell’esecuzione penale”, scrive di Francesco Cingari in La giustizia riparativa nella riforma Cartabia, pubblicato in Sistema Penale, novembre 2023, “attribuisce allo svolgimento del programma riparativo e all’eventuale esito riparativo rilevanza ai fini della concessione di benefici penitenziari e di misure alternative al carcere. In particolare, posto che la mancata effettuazione del programma o il suo insuccesso non possano assumere rilevanza, la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale”. E ancora: “ Inoltre (…) lo svolgimento del programma e l’eventuale esito riparativo assumono rilevanza ai fini della valutazione del periodo di prova e la dichiarazione di esito positivo. Infine, lo svolgimento riparativo figura tra le condizioni in presenza delle quali il detenuto o internato condannato per reati ostativi dei benefici penitenziari non collaborante possa accedere a tali benefici stessi”. Il precedente italiano, l’incontro tra Br e vittime - Un esempio italiano di giustizia riparativa, percorso “precursore” compiuto a pene ormai scontate, con la mediazione di padre Guido Bertagna, ha riguardato responsabili e vittime del terrorismo rosso ed è documentato in Il libro dell’incontro. Di questo programma porta sovente testimonianza positiva e pubblica Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che, dopo una vita che definisce “sotto la dittatura del passato” si è più volte definita, a partire dal 2009: “Una utente felice della giustizia riparativa. In un primo momento ho detto no. Ho accettato di partecipare a una riunione solo di vittime e ho incontrato persone che attraverso questi incontri hanno iniziato a vedere le cose in un modo diverso”. Tra il dire e il fare - Se l’ambizione è chiara: dare alle vittime uno spazio di ascolto, che Agnese Moro arriva a esemplificare anche nella possibilità di rimproverare, e a chi ha commesso un torto di prendere coscienza della sofferenza inflitta per maturare consapevolezza della ferita inferta al tessuto sociale; la difficoltà di “istituzionalizzare”, e inevitabilmente “burocratizzare”, un percorso che necessariamente è individuale e che potrebbe non essere da tutti e per tutti, è altrettanto evidente; soprattutto se l’intenzione è, come ovunque asserito, non farne un mero modo di provare ad acquisire benefici penali, in un sistema sovraccarico. Tra gli addetti ai lavori il dibattito è aperto, anche perché si tratta di individuare prassi a un meccanismo e a una cultura nuove, ma è una riflessione che finora sembra concentrarsi prevalentemente sulle problematiche di conciliazione tra giustizia riparativa e penale, perché non vengano meno garanzie all’indagato: qualora si intervenga in fase di indagini: perché un percorso riparativo non si traduca in presunzione di colpevolezza. E, qualora lo si faccia in fase successiva, che un esito non positivo possa tradursi in un pregiudizio negativo da parte del giudice verso l’imputato o il condannato. Quello che sembra mancare molto in questo dibattito è la vittima, che il più delle volte appare relegata ai margini, citata quasi solo per dire che non le si può imporre un consenso o accordare un diritto di veto. Sembra poco rispetto alla prospettiva di “accoglienza” che a quanto si dice dovrebbe essere il cuore della giustizia riparativa. E qui forse sta il nodo tra il dire il fare che è una questione tutta aperta. Alberto Torregiani: “Uccise mio padre, non vedrò Battisti. La legge Cartabia? È sbagliata” di Gabriele Moroni Il Giorno, 5 dicembre 2023 Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per 4 omicidi e altri reati commessi quando militava nei Pac, ha iniziato a lavorare all’iter - previsto dalla riforma Cartabia - per chiedere di essere ammesso alla mediazione penale, parte della giustizia riparativa per poter accedere ai benefici penitenziari e ai permessi premio. Ora il trasferimento dal carcere di Parma a quello di Massa (più vicino alla famiglia) ha interrotto l’iter che va ripresentato. I parenti delle vittime possono rifiutare. Il 23 maggio scorso il magistrato di Sorveglianza di Ferrara ha stabilito che Battisti ha diritto a chiedere di accedere ai benefici: riconosciuti “12 semestri di liberazione anticipata, per un totale di 540 giorni, che, unitamente alla detenzione svolta, rendono procedibile la richiesta di permesso premio essendo decorsi oltre dieci anni di carcerazione”. “Cesare Battisti ha una opportunità che la legge gli permette di afferrare. Non è lui che sbaglia. È la legge che è stata fatta e riformata male. Questo vale per Battisti, ma anche per i mafiosi e per quanti si sono macchiati di un certo tipo di reati”. La voce pacata, l’opinione è netta, precisa. Alberto Torregiani, una vita segnata, intrecciata con i più cupi anni di piombo. Il 16 febbraio 1979 Pierluigi Torregiani, padre adottivo di Alberto, cade in un agguato di un gruppo di fuoco dei Proletari armati per il comunismo nella sua oreficeria, in via Mercantini, alla Bovisa, a Milano. Riesce a estrarre la sua pistola e a fare fuoco. Il proiettile colpisce alla schiena Alberto, che perde l’uso delle gambe. Ha 15 anni. Battisti non partecipa materialmente all’omicidio Torregiani, ma fa parte del direttivo dei Pac. Torregiani, lei è più critico nei confronti della legge o di Battisti che vorrebbe usarla? “Il percorso della vita è lastricato di opportunità e difficoltà. Ognuno sceglie il proprio volontariamente o meno. Cesare Battisti scelse con la propria autodeterminazione il percorso più malefico, inducendo la sua anima a coprirsi del sangue delle vittime da lui colpite, ben consapevole delle azioni che ne sarebbero conseguite. Ora, anche senza pentimento, senza ammissione di responsabilità, chiede di accedere a benefici e percorsi preferenziali che la legge, per garanzia umanitaria, mette a disposizione. Questo senza la dovuta considerazione per chi, ancora oggi, versa lacrime nel dolore quotidiano”. Che cosa risponde, allora, a Battisti? “A Battisti dico solo che ha già ottenuto favori e privilegi che ritengo contrari al peso della sua pena detentiva: l’ergastolo. Rispondo esprimendo il pieno diniego, mio e delle famiglie coinvolte, alla sua richiesta, attribuendo non a lui ma a chi ha scritto male la riforma le erronee conseguenze. Una legge scritta senza il dolore nell’animo non può comprendere che alcuni passaggi altro non fanno che mantenere aperte quelle ferite, che la garanzia non può percorrere su un solo binario, quello del carnefice. La tutela e i diritti dovrebbero salvaguardare la faccia debole della stessa medaglia: le vittime”. Di quali benefici ha già goduto Battisti? “È in carcere da appena quattro anni. Per prima cosa è passato da detenuto in regime di alta sicurezza a detenuto comune. Ecco il punto: questo gli ha permesso di avviare il percorso per accedere alla legge Cartabia. Nel 2020 ha ottenuto uno sconto di pena per buona condotta. È stata accolta la sua richiesta di trasferimento dal carcere di Parma a quello di Massa, più vicino alla famiglia. E questo è un altro beneficio”. Quale dovrebbe essere, a suo parere, un percorso corretto per chi sconta una pena per reati più gravi? “Si dovrebbero mettere prima dei paletti. Il detenuto sconti almeno metà della condanna, in silenzio, in regime di alta sicurezza. Sarebbe anche il modo migliore per tutelare le famiglie delle vittime. Dimostri un vero pentimento. Dimostri che può essere reintegrato nella società. E poi chieda i benefici che la legge gli concede. Il percorso di reinserimento nella società non può partire da zero”. Accetterà mai di incontrarlo? “No. Pieno diniego mio e delle famiglie delle vittime. Qui c’è un altro errore della legge. Anche se le famiglie non accettano l’incontro, il detenuto può proseguire il percorso. Va avanti lo stesso. La legge è scritta male”. Ha incontrato qualcuno di quelli condannati per l’assassinio di suo padre? “Incontrai Sebastiano Masala, ma erano gli anni Ottanta, altri tempi, altre storie. Chiese di incontrarmi e ci vedemmo in tutta segretezza. Aveva compreso di avere commesso un errore tremendo, si era pentito, si era assunto le sue responsabilità. Si è fatto la sua condanna senza che l’incontro con me influisse in alcun modo a suo vantaggio”. Regeni, quattro 007 egiziani a processo. La Presidenza del Consiglio sarà parte civile di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2023 Processo è stato fissato il prossimo 20 febbraio davanti alla Corte d’Assise della Capitale. Nei confronti degli imputati, a seconda delle posizioni, le accuse sono di concorso in lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. Il gup di Roma ha rinviato a giudizio i quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni avvenuto al Cairo tra il gennaio e il febbraio del 2017. Il processo è stato fissato dal giudice Roberto Ranazzi al prossimo 20 febbraio davanti alla Corte d’Assise della Capitale. Nei confronti degli imputati, a seconda delle posizioni, le accuse sono di concorso in lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. “Ringraziamo tutti, oggi è una bella giornata”. Così Paola Deffendi, la madre di Giulio Regeni, dopo la decisione. Il processo si è sbloccato dopo che il 27 settembre la Consulta ha stabilito che non esiste nessuna immunità per il reato di tortura e che non è accettabile la paralisi del processo Presidenza del Consiglio sarà parte civile - La Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata ammessa come parte civile nel procedimento a carico di quattro 007 egiziani accusati di avere torturato e ucciso Giulio Regeni nel 2016. Lo ha deciso il gup di Roma che dovrà vagliare la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal Procuratore aggiunto Sergio Colaiocco per gli imputati. Regeni: Pm Roma, il processo non sarà un simulacro - “L’assenza degli imputati non ridurrà il processo ad un simulacro. Poter ricostruire pubblicamente in un dibattimento penale i fatti e le singole responsabilità corrisponde ad un obbligo costituzionale e sovranazionale. Un obbligo che la Procura di Roma con orgoglio ha sin dall’inizio delle indagini cercato di adempiere con piena convinzione”. È quanto ha sostanzialmente affermato in aula il procuratore aggiunto, Sergio Colaiocco, nel corso dell’intervento con cui ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni. I membri dei servizi egiziani mandati a processo - Il 4 dicembre 2018 la Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque uomini, membri dei servizi segreti civili e della polizia investigativa egiziani, per concorso in sequestro di persona. Sono il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem. Mentre il 25 maggio 2021 il gup Pierluigi Balestrieri manda a processo i quattro 007 dell’Egitto. Il processo in Corte d’Assise inizia il 14 ottobre 2021. Ma i giudici, annullano il rinvio a giudizio per gli 007, perché bisogna rendere effettiva e non solo presunta la conoscenza agli imputati del procedimento a loro carico. L’11 aprile 2022 il gup sospende il processo, e il pm ricorre in Cassazione contro lo stop. La Cassazione rigetta il ricorso. Il 31 maggio 2022 il gup, accogliendo la richiesta della Procura, invia gli atti alla Consulta. Consulta sblocca processo: non c’è immunità per tortura - Il 27 settembre 2023 la Consulta sblocca il processo Regeni stabilendo che non c’è nessuna immunità per il reato di tortura. Pertanto non è accettabile la paralisi del processo. Il “dovere di salvaguardare la dignità umana” impone allo Stato italiano di accertare con un processo se sia stato commesso da parte di agenti pubblici il reato di tortura che ha una “radicale incidenza” proprio su questo bene. E ancora: “Non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale” la paralisi senza fine del processo per l’impossibilità di notificare gli atti a causa della mancata cooperazione del Paese di appartenenza degli imputati. Perché questo ostacolo determina “un’immunità de facto” che offende la vittima, il principio di ragionevolezza e gli standard di tutela dei diritti umani recepiti e promossi dalla convenzione di New York. È questo il cuore della sentenza con cui la Corte costituzionale ha interrotto la stasi del processo per l’omicidio, il sequestro e la tortura di Giulio Regeni, sancendo che il giudizio davanti alla Corte d’assise di Roma a carico degli 007 egiziani si può e si deve celebrare, nonostante sia stato impossibile notificare loro gli atti a causa dell’ostruzionismo delle autorità del Cairo, che non hanno mai fornito i loro indirizzi. Via D’Amelio, “blitz di giudici nello studio di Borsellino subito dopo la strage” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2023 Che la borsa di Borsellino sia giunta nell’ufficio dell’allora questore Arnaldo La Barbera era già notorio. È già storia che a recuperarla in questura, a distanza di cinque mesi, sia stato Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Ma non è tuttora risolto che fine abbiano fatto i documenti e l’agenda rossa che Borsellino custodiva all’interno della sua valigetta. Così come non è ancora accertato se la prima destinazione della borsa fosse la questura o la procura di Palermo. I verbali di interrogatorio dei cinque poliziotti non chiariscono questo punto. Emerge solamente che la borsa è stata portata nell’auto del sovrintendente Francesco Maggi. Poi si suppone che fosse subito portata in questura, dando credito a una parte della versione di Maggi che, grazie a questi verbali, risulta ancor di più inattendibile. Silenzio stampa e non solo, su alcuni dettagli fondamentali che Il Dubbio è in grado di rilevare dopo un’attenta lettura dei verbali. Prima di rilevarli, cominciamo nel dire che da questi verbali si può giungere alla definitiva smentita della fantasiosa narrazione di questi anni, rimarcata nelle trasmissioni tv e, purtroppo, inizialmente cristallizzata nelle motivazioni del primo processo del Borsellino Quater: tutti i poliziotti sentiti dai procuratori nisseni smentiscono la presenza di uomini in giacca e cravatta che rovistavano tra le fiamme appena qualche minuto dopo l’attentato del 19 luglio 1992 in Via D’Amelio. Ricostruzione che nasce con le dichiarazioni di Maggi, ora rivelatasi inattendibili. Così come, sempre dalla lettura dei verbali, risulta un falso che a prendere la borsa dall’auto di Borsellino sarebbe stato lui. Non solo. Smentita, ma già questo è già acclarato, la presenza di Bruno Contrada. Così come, ed è questa la parte più triste di tutta questa vicenda, emerge la completa innocenza e soprattutto la buona fede del carabiniere Giovanni Arcangioli. Dovette subire un linciaggio pubblico a causa dei media e soprattutto un processo. Reo di essere stato immortalato con la borsa e accusato di aver sottratto lui l’agenda rossa. Tutte falsità. Secondo i verbali, il passaggio della borsa di Borsellino avviene così: il carabiniere Arcangioli la prende, consegnata dall’ex giudice Ayala o da un magistrato sconosciuto, quindi l’ispettore Giuseppe Lo Presti gli intima di dargliela e ordina al poliziotto Armando Infantino di collocare la borsa nella macchina guidata da Maggi. Da questo momento, non è chiaro se la borsa sia stata portata direttamente in questura o se ci sia stato un passaggio nella procura di Palermo. C’è la versione di Maggi che dice di averla consegnata a un funzionario della questura che poi l’avrebbe dato a La Barbera, ma oltre ad aver appurato che ha dato versioni completamente inattendibili, come d’altronde emerge anche dalle motivazioni del primo processo Maio Bo + 4, sappiamo che il questore La Barbera non era presente il 19 luglio, ma arriverà a tardissima notte. Veniamo al punto. A differenza di ciò che ha detto il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Gaetano Bono, il vero convitato di pietra di questa vicenda non sono i servizi se` greti, ma diversi magistrati di Palermo che non solo erano sul posto subito dopo la strage ma, come emerge dai verbali al Csm del 1992 e, in particolare, dalle parole degli ex pm Gioacchino Natoli e Vittorio Aliquo, hanno anche visto il contenuto della borsa: documenti, tra i quali il verbale di Mutolo. Non solo. Ora grazie ai verbali emerge un dettaglio fondamentale. Prima di citarlo, ricordiamo che l’anno scorso Il Dubbio sollevò la questione dell’ufficio di Borsellino ritrovato semivuoto dai figli Lucia e Manfredi il giorno dopo per essere presenti all’inventario. Lo hanno testimoniato loro stessi innanzi ai pm di Caltanissetta, nel 2013. Il giorno dopo la strage del 19 luglio, infatti, raccontano di aver partecipato all’inventario dell’ufficio del padre alla procura di Palermo e notarono la mancanza di tutti i fascicoli delle ultime inchieste che il magistrato stava seguendo. “Era chiaro che qualcuno aveva messo le mani in quella stanza”, hanno spiegato, “non c’erano fascicoli, né interrogatori legati alle inchieste sulle quali papà lavorava”. In sostanza sono spariti, con tutta tranquillità e alcun clamore, i documenti dall’ufficio di Borsellino. Un fatto inquietante che la stessa moglie di Borsellino rivelò al giornalista Sandro Ruotolo, che rese pubblica la testimonianza solamente dopo la sua morte (il 5 maggio 2013), rispettando il volere della signora. Cosa disse? “Il giorno dopo la strage - ha rivelato la signora Agnese prima di morire - la polizia investigativa entra dentro l’ufficio della procura di Paolo, ci vanno anche i miei figli Lucia e Manfredi: entrano e si accorgono che tutti i suoi cassetti erano stati svuotati, non c’erano né carte e né tantomeno i suoi appunti!”. Forse non sono spariti, magari requisiti da altri soggetti. Quindi dovrebbe esserci un verbale. Uno dei tanti non richiesti o acquisiti in questi 31 anni. Ora grazie alla lettura degli interrogatori dei cinque poliziotti, abbiamo una risposta su chi fossero questi soggetti: i magistrati di Palermo. Precisamente riguarda il verbale di interrogatorio dell’attuale Vice Questore Andrea Grassi. Ecco cosa dice innanzi ai pm nisseni: “Nell’immediatezza dell’evento non ho redatto atti di P. G. o, quanto meno, non ne ho ricordo, mentre ricordo che, credo nella tarda serata di quel giorno, ho coadiuvato magistrati della procura di Palermo nell’ispezione dell’ufficio del dottor Borsellino, presso la Procura di Palermo, per essere più precisi, da via D’Amelio raggiunsi gli uffici della Squadra Mobile unitamente al dottor Sanfilippo, a bordo della sua moto privata, e da lì mi recai in Procura, credo con il dottor Fassari”. Ebbene, ad ispezionare l’ufficio sono stati i magistrati di Palermo. Esiste un verbale di ispezione? Sono stati sentiti dalla procura nissena? Ad oggi non risulta. Eppure questo dato va a confermare ciò che è scritto nel nuovo libro di Vincenzo Ceruso, “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” edito da Newton Compton Editor, dove per la prima volta si riporta la testimonianza di Salvatore Pilato, il quale il giorno della strage di Via D’Amelio era in servizio come magistrato di turno assieme a Luigi Patronaggio. Anche se quest’ultimo, in commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo, ha precisato di essere stato di “secondo turno”. Ebbene il magistrato Pilato rivela a Ceruso che i suoi colleghi gli hanno riferito che nell’ufficio di Borsellino c’era l’agenda rossa. Sommando questa rivelazione con le dichiarazioni di Natoli e Aliquo al Csm, ben riportate nella sua interezza nel libro, e il dettaglio emerso dai verbali di interrogatorio ai cinque poliziotti, si fa sempre più strada l’ipotesi che in qualche modo il contenuto della borsa di Borsellino sia giunto in Procura. Forse in un sacco di plastica? Lo stesso che sarà descritto dal verbale redatto da Cardella, ma con poca robetta (in più la presenza di tre documenti, ma che tuttora non si è dato sapere il contenuto) e con un biglietto nel quale si legge: “Rinvenuto sul luogo della strage, ass. Maggi Francesco”? La borsa che giungerà in questura da La Barbera era già “svuotata”? Per avere delle risposte, basterebbe ricostruire il quadro, ma questa volta sentendo tutti i magistrati viventi che erano sul luogo dell’attentato (non solo i soliti poliziotti o improbabili servizi segreti) e recuperando eventuali verbali. Primo tra tutti quello che riguarda l’ispezione svolta dai magistrati palermitani nell’ufficio di Borsellino. Ma ancora una volta, lo sguardo è altrove. Addirittura si dà credito ad un improbabile testimonianza di un ex amico della famiglia di La Barbera. I mass tornano nuovamente a svolgere il ruolo tossico avuto durante il periodo del surreale processo trattativa, enfatizzando il nulla. In questo ultimo periodo si sono fatti passi da gigante, basti pensare alla pista mafia- appalti. Ma basta poco per ricadere nelle tesi che creano fumo e neutralizzano i fatti nudi e crudi che man mano cominciano a emergere. In carcere imparo l’altruismo e sarò testimone quando uscirò di Ludovico Collo* Corriere della Sera, 5 dicembre 2023 Gentilissima Elisabetta Soglio, scrivo con penna, carta, busta e francobollo non per snobismo epistolare dal sapore vintage, ma perché è il mio unico mezzo di comunicazione: sono infatti forzatamente ospite delle patrie galere da quasi un anno e mezzo. Ho 57 anni, due figli, di 26 e 3o, che vivono a Milano. Esercito la professione di ragioniere commercialista e revisore legale da oltre 35 anni e - pur lavorando con imprese di tutta Italia - non ho mai abbandonato la mia Palermo. Da libero osservatore privilegiato di un mondo a me sconosciuto fino a ieri, mi rendo conto di quanto siano distanti le carceri dai pensieri dei cittadini liberi. Sin dalle prime settimane della mia detenzione ho scoperto di avere un “lato onlus”: mi impegno quotidianamente per supportare i compagni di sventura in svariate attività ove è necessaria una minima conoscenza giuridica di base, che possiedo, e che metto a disposizione degli altri: una differenza che non trasformo in indifferenza, cosa purtroppo molto diffusa. Grazie al carcere quindi ho conosciuto - a ben 57 anni, non è mai troppo tardi - un nuovo spazio di me stesso: aiutare gli altri. Ho anche avuto la possibilità di conoscere le attività del Terzo settore per il mondo penitenziario: ammirevole il quotidiano impegno degli operatori delle organizzazioni che si dedicano, tra mille ostacoli, a un mondo costruito dalla fragilità: grazie agli operatori si continua a provare ad avere speranza e prospettiva. Il Terzo settore pone in essere ciò che lo Stato non fa. Aggiungo che in alcune realtà esiste una certa ritrosia da parte dell’Amministrazione penitenziaria: si vive nel regno dell’opacità e della segretezza, è scomodo avere “estranei” dentro. Sarebbe auspicabile, anziché ostacolare e complicare le cose, effettuare una vera attività di programmazione con l’Amministrazione Penitenziaria da parte degli organismi del Terzo settore, finalizzata al coordinamento di azioni sul territorio per non disperdere risorse sia umane sia finanziarie. Al termine di questa mia esperienza ho deciso che sul mio biglietto da visita farò seguire il mio nome e cognome dalla dicitura “ex detenuto”: desidero infatti mettere a disposizione del mondo penitenziario la mia competenza da carcerato vero e reale. Mi farò promotore di un soggetto del Terzo settore che avrà come scopo principale la diffusione della conoscenza del mondo delle carceri nei confronti dei cittadini (ancora) liberi. Fornire più spazio e attenzione - senza pregiudizio - alla vera funzione rieducativa che dovrebbe avere il carcere, un luogo che è parte delle fondamenta di uno Stato di diritto. Sarebbe un forte segnale di civiltà. Non dimentichiamo che il carcere dovrebbe essere costruito con la medesima materia prima che fonda la nostra Repubblica: la Costituzione. Conoscere di più farebbe bene a tutti: guardie, ladri e cittadini liberi. Un caro saluto dal posto di vedetta realizzato, con fatica quotidiana, sul muro di confine della comfort zone che mi sono auto-costruito nel regno dello sconforto. *Detenuto del carcere di Caltanissetta Risponde Elisabetta Soglio Gentile signor Collo, la ringrazio per questa testimonianza (e che emozione leggere una lettera scritta a mano!) che insiste su un tema molto caro a BN, quello delle carceri. Lei ci conferma l’importanza del lavoro di tante realtà del Terzo settore, impegnate a mettere in pratica quanto prevede la nostra Costituzione, all’articolo 27, quando si dice che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Molti studi ci hanno mostrato che la recidiva si abbatte nel caso di detenuti cui è stata offerta la possibilità di studiare, avviarsi ad un lavoro, svolgere attività ricreative e, come nel suo caso, solidali. Aspettiamo dunque di sapere della sua nuova attività a fianco del Terzo settore e di ricevere il suo biglietto da visita. Campania. Il Garante Ciambriello: “Misure alternative per alleggerire le carceri” Il Mattino, 5 dicembre 2023 Il Garante per i diritti dei detenuti al seminario “Il viaggio della speranza e la rieducazione della pena” presso la Sala Pinacoteca di Aversa. Nel sistema penitenziari ad oggi sono ristrette 7.327 persone a fronte di una capienza regolamentare di 6.165 persone. “Sono tanti i detenuti per i quali si potrebbe evitare il carcere, se solo si incrementassero le misure alternative per chi ha pene inferiori ai 3 anni: in Campania sono 3.285 i ristretti che scontano una condanna da 0 a 3 anni, di cui 757 detenuti con condanna pena inflitta da 0 a 3 anni e 2.528 detenuti con residuo pena da 0 a 3 anni”. È quanto ha detto il garante per i diritti dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che ha preso parte al seminario “Il viaggio della speranza e la rieducazione della pena” presso la Sala Pinacoteca di Aversa, d’intesa con l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, l’Ordine degli Avvocati di Napoli Nord, la Camera Penale di Napoli ed il Movimento Forense. “Su questi dati, più che fare ragionamenti teorici, vorrei intervenire concretamente istituendo una task force fra Amministrazione penitenziaria, Prap campano, Direzione delle Carceri, Aree Trattamentali, Magistrati di Sorveglianza, Garanti territoriali, Uepe ed operatori del Terzo settore, per verificare quante di queste 3.285 persone sono effettivamente impossibilitate ad accedere alle misure alternative”, ha aggiunto Ciambriello. “Sono convinto che una operazione sistematica di questo tipo possa portare a ridurre notevolmente queste 3285 unità ristrette nella regione Campania. Abbiamo il dovere di mettere in campo le nostre forze, per evitare il carcere a queste persone invisibili agli occhi della società e delle istituzioni”, ha concluso Ciambriello, che è anche il portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Bolzano. Giustizia riparativa efficace sui minori di Elena Mancini salto.bz, 5 dicembre 2023 Un’opportunità per i giovani autori di reato che aderiscono sempre più ai servizi. In Provincia non ci sono aumenti di casi e la recidiva rimane bassa. La giustizia riparativa è uno strumento efficace per ridurre la recidiva ed è particolarmente adatta ai minori. “L’Associazione La Strada - Der Weg ha cominciato vent’anni fa ad occuparsene, quando ancora era una pratica sperimentale nel nostro paese”, ha ricordato il vicepresidente dell’associazione Alessio Cuccurullo in una conferenza stampa che è stata occasione per tracciare un bilancio. La giustizia riparativa è un approccio innovativo alla criminalità che si concentra sulla riparazione del danno causato dal reato, piuttosto che sulla punizione del reo. In ambito minorile gli obiettivi sono quelli di accompagnare i giovani nell’assunzione di responsabilità delle proprie azioni, creare consapevolezza per la vittima e trovare un’adeguata riparazione per il reato commesso. I dati sui minorenni autori di reato dell’anno 2023 sono incoraggianti. Su 500 ragazzi denunciati, solo 200 sono andati in Tribunale, mentre 345 giovani sono stati presi in carico dall’USSM (Ufficio dei Servizi Sociali del Tribunale Minorenni). I giovani che usufruiscono del servizio hanno per lo più tra i 15 ed i 17 anni, ed è sbagliato, sostiene la dottoressa Katia Sartori, parlare di baby gang: “Sono ragazzi che spesso non sono visti dagli adulti di riferimento, che per situazioni difficili a casa ma anche per mancanza di spazi e luoghi di aggregazione adatti si mettono sulla cattiva strada”. L’obiettivo, prosegue la direttrice, “è educare e responsabilizzare, in questo senso la giustizia riparativa è in grado di fare molto perché permette ai ragazzi di mettersi in contatto con le proprie emozioni e con le conseguenze dei loro comportamenti. Questo percorso di ascolto ed incontro con la vittima può renderli attori attivi della comunità di cui fanno parte e dalla quale spesso si sentono esclusi”. La coordinatrice del servizio Ulrike Oberlechner ha illustrato le statistiche dell’anno corrente. Nel corso del 2023, il servizio di giustizia riparativa ha accompagnato 115 situazioni che hanno coinvolto minorenni autori di reato (di cui il 20% ragazze) e 84 vittime. Il servizio coinvolge attivamente sia l’autore che la vittima: inizialmente sono svolti colloqui individuali con il minore, la sua famiglia e la persona che ha subito il reato. Se è possibile e le parti sono concordi si cerca poi di passare alla mediazione, ossia ad un incontro guidato dal mediatore tra la vittima ed il giovane autore di reato. In questa sede chi subisce il reato ha la possibilità in primo luogo di essere ascoltato, inoltre di ottenere informazioni sull’ulteriore svolgimento del processo e di avere voce in capitolo riguardo alla forma di riparazione che il giovane o la giovane dovrebbe mettere in atto. Il beneficio più grande da questa pratica è però quello ottenuto dal minore che finalmente affronta in un luogo protetto le conseguenze delle sue azioni, imparando sia a responsabilizzarsi che ad entrare in empatia con la vittima. Il presidente del Tribunale dei minori Benno Baumgarnter sottolinea come gli strumenti di giustizia riparativa, tra cui in particolare quella della messa alla prova, sono di vitale importanza soprattutto nei casi più difficili. Viene ricordato un caso particolarmente grave che coinvolgeva minori sottoposti a misure cautelari, conclusosi, per il ragazzo che ha scelto di intraprendere un percorso di giustizia riparativa e volontariato, con l’ingresso nel mondo del lavoro. Nel corso di quest’anno sono state 57 le pratiche chiuse con un risultato chiaramente positivo, con un totale di 73 giovani coinvolti: in circa il 63% dei casi, la vittima ha accettato un confronto e ha fatto una mediazione in cui il giovane o la giovane si è scusato e ha proposto la sua condotta riparativa. In 7 casi chi ha subito il reato non era disposto a incontrare l’adolescente e ha seguito solo colloqui di consulenza con il servizio. Solo 14 vittime non hanno richiesto il servizio. Se l’adolescente non ha la possibilità di scusarsi direttamente con la persona a cui ha recato danno, gli viene offerta l’opportunità di partecipare a un gruppo psicologico per riflettere sul proprio comportamento insieme ad altri minori autori di reato e per apprendere nuove strategie nonviolente. “Nel 2023 sono state attivate in totale 630 ore di volontariato da parte di minorenni autori di reato e lo svolgimento di queste attività, in particolare se collegate al contesto del reato commesso, ha permesso a molti ragazzi di sentirsi utili per la prima volta”, commenta Cuccurullo. Sono infatti diversi i casi di minori che decidono di continuare e, in alcuni casi, diventare volontari. La giustizia riparativa sta riscuotendo sempre più interesse in Italia e con la recente legge Cartabia è stata resa applicabile a tutti i gradi di giudizio. I risultati del servizio di giustizia riparativa in Provincia sono molto positivi, grazie a questo approccio alla giustizia penale si è riusciti a ridurre la recidiva e a favorire il reinserimento sociale dei minori autori di reato. Nonostante la percezione sia diversa, nella realtà altoatesina non si può parlare di un aumento della criminalità minorile. Se infatti si è assistito ad un incremento del 34% dei giovani presi in carico rispetto al 2020, questo dato è da attribuire all’abbandono scolastico ed alla diminuzione di attività sportive praticate dai ragazzi, effetti dovuti alla pandemia. Per questo sarebbe opportuno aumentare le risorse a questi servizi ma anche l’attenzione pubblica su questi strumenti. Purtroppo la popolazione è sempre più allarmata da altisonanti titoli di cronaca ma non vede il lavoro che da anni viene svolto in questo senso. Catania. Lavori di pubblica utilità grazie alla “messa alla prova”: la seconda vita di Gaetano di Paola D’Amico Corriere della Sera, 5 dicembre 2023 Alla Misericordia di Bronte (Ct), cittadina alle pendici dell’Etna nota per essere il maggiore centro mondiale di produzione del pistacchio, tutti ricordano con affetto Gaetano. È stato il primo di tanti che hanno svolto e svolgono presso l’organizzazione di volontariato il periodo di “messa alla prova” deciso da un giudice del Tribunale. “Quando dieci anni fa firmammo la convenzione con l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) il mio consiglio direttivo - spiega Armando Paparo, 68 anni, ex caposala di psichiatria e presidente della Misericordia - era molto preoccupato, non fu semplice far accettare il progetto. Invece l’arrivo di Gaetano, un giovane muratore, per noi fu una manna dal cielo. Era incappato nella giustizia per aver avuto problemi con l’alcol, il giudice aveva deciso di sospendere il procedimento e Gaetano non si limitò a svolgere i compiti previsti e studiati per lui, per esempio l’accompagnamento dei dializzati o degli anziani. Ma in sei mesi, spontaneamente, decise anche di rimetterci a posto la sede: ci eravamo trasferiti da poco ed era letteralmente un disastro, un cantiere aperto”. Al Centro servizi di volontariato etneo (www.csvetneo.org), che si occupa di mettere in contatto gli Ets e Uepe di Catania per informare, formare e facilitare la stipula delle convenzioni con Uepe stesso e Tribunale ed è stato un apripista in Sicilia, spiegano che le realtà di riferimento che accolgono persone con provvedimenti di “messa alla prova” (quando il procedimento penale viene sospeso) o per le quali la pena è convertita in “lavori di pubblica utilità” oggi sono oltre 70 nella sola provincia etnea. Dalla Sicilia alla Lombardia è cruciale il ruolo dei Csv su questo fronte. A Bergamo, per esempio, il Csv ha mappato sul territorio della provincia gli enti che dal 2014 al 2020 hanno accolto autori di reato: è emerso che in sei anni 452 realtà hanno accolto persone in messa alla prova, altre 149 hanno ospitato lavori di pubblica utilità come conversione pena e 17 hanno inserito al proprio interno persone per l’affidamento in prova al servizio sociale. Il Csv Insubria Como Varese, a sua volta, ha preparato un vademecum sull’utilizzo dei lavori di pubblica utilità nell’ambito della messa alla prova, utile alle organizzazioni e altri enti che hanno bisogno di un orientamento a seguito della legge Cartabia, che ne estende il ricorso per pene fino a 3 anni. L’ultimo nato è il progetto sperimentale “Tag” (Tutta un’altra Giustizia), come spiegano Elena Bleu, coordinatrice di “A&I Onlus” che è partner del progetto con la cooperativa Factory, e Patrizia Bisol, project manager per il Csv Milano. “Tag” il 3 ottobre scorso ha portato all’apertura di un primo sportello che dà informazioni ad avvocati, persone condannate, enti interessati ad accoglierle, ma anche all’inserimento di un Operatore giustizia di comunità. “Nel solo febbraio di quest’anno l’Uepe di Milano ha indirizzato alla messa alla prova - aggiunge Bleu - 1600 persone ma tra queste possono esserci soggetti fragili, chi per esempio assieme al procedimento penale si è trovato con uno sfratto, ed è loro che noi supporteremo nel percorso”. Sono molte migliaia in Italia le richieste di chi può accedere a una messa alla prova - dai 34.931 del 2020 si è passati a 48.008 nel 2021 (più 37%) - e anche degli enti che li possono accogliere ma l’incontro domanda-offerta è tutt’altro che semplice. Andrea Fanzago, presidente del Csv Milano commenta: “Essere capofila di un progetto così ci rende orgogliosi. Però il Progetto Tag ci chiede anche di scendere in campo con una responsabilità specifica, cioè promuovere la centralità della giustizia di comunità in tutti i nostri territori e quartieri, rendendola tema non più procrastinabile per la cura e lo sviluppo del nostro tessuto sociale”. E in questo percorso il primo passo sarà quello di rilasciare a breve un vademecum gratuito (scaricabile da progettotag.it): “Una guida pensata - conclude - per aiutare gli enti che decidono di accogliere persone per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, supportando le organizzazioni del Terzo settore che decidono di offrire concrete occasioni per lo sviluppo della giustizia di comunità”. Pistoia. Detenuti in cerca di un nuovo inizio. Il riscatto passa dalla cura dell’orto La Nazione, 5 dicembre 2023 Un grande successo per il progetto “Lavoro in prova” di Un raggio di luce. Allenarsi a un nuovo inizio, facendo qualcosa che sia in grado di restituire dignità oltre che pura sopravvivenza economica: lavorare. È una seconda occasione quella offerta dal progetto “Lavoro in prova”, proposto dalla cooperativa sociale “In Cammino” e finanziato dalla Fondazione Caript a partire dal bando Socialmente 2022, dalla Caritas di Pistoia e dalla Fondazione “Un raggio di luce” che ha permesso a un gruppo di detenuti in misura alternativa e a giovani in carico al Tribunale dei minorenni di Firenze di riprendere in mano le proprie prospettive a partire da un impegno lavorativo per rimettere in moto aspirazioni, iniziative e relazioni utili al reinserimento in comunità. L’iniziativa è partita a ottobre del 2022 ed è durata 12 mesi. La cooperativa ha affidato da quel momento un orto completamente attrezzato a 12 persone che lo hanno coltivato sotto la guida di un operaio agricolo, anche lui in regime di espiazione pena, assunto dalla cooperativa. Al termine del loro inserimento attraverso questo progetto, cinque di loro hanno trovato un’occupazione con un’assunzione lavorativa; due continuano la restante espiazione della pena con l’affidamento ai servizi sociali e un’attività di volontariato; una settima persona al termine della pena ha lasciato la regione ricongiungendosi con i parenti; un’altra ancora è in attesa del permesso di soggiorno e due continuano l’attività degli orti. Infine, l’ultimo partecipante è rientrato in carcere per aver fatto una evasione. L’attività del laboratorio è stata pensata per ragazzi giovani alle prime esperienze lavorative che vivono situazioni familiari e sociali complesse, il più delle volte all’insegna della marginalità. Qualche numero: per attivare i 12 percorsi, i colloqui necessari attivati sono stati 27 con l’inserimento di 17 ragazzi con periodi di frequenza diversificati, a testimonianza di un complesso problema quale è la disaffezione al lavoro o addirittura il totale disinteresse. Alto è anche il livello di fragilità psicologica che induce a stancarsi presto di qualsiasi esperienza e cambiare spesso attività lavorative. La cooperativa attraverso ‘Lavoro in prova’ è entrata in contatto con 40 persone e con 29 di queste ha sviluppato attività formazione-lavoro; otto di loro hanno trovato occupazione stabile. Civitavecchia (Rm). Corso per detenuti peer supporter nella Casa circondariale garantedetenutilazio.it, 5 dicembre 2023 Il percorso formativo intende offrire l’opportunità di diventare un sostegno nella quotidianità per i detenuti particolarmente fragili o che presentino un disagio psichico. È in corso di svolgimento nella Casa circondariale di Civitavecchia il corso di formazione per detenuti, organizzato dalla Asl Roma 4, “Il detenuto peer supporter come coach alla quotidianità: sostegno alla fragilità e veicolo di evoluzione del clima relazionale nel sistema penitenziario”. Relatori sono gli operatori delle aree sanitaria, psicologico-psichiatrica, Serd, trattamentale e della sicurezza. I nove incontri formativi, iniziati il 22 novembre, si svolgono ogni mercoledì e si concluderanno il 31 gennaio 2024, e sono destinati ai detenuti del settore circondariale e del settore reclusione. Come si legge nel foglio illustrativo dell’iniziativa, il corso è nato nel 2016 per tentare di fornire un approccio concreto e allargato a una problematica sempre più sentita quale è quella dell’adattamento al contesto carcerario per i detenuti particolarmente fragili o che presentino un disagio psichico. In particolare, la prospettiva si focalizza sulla prevenzione del rischio suicidario e dei rischi di aggressività auto od etero diretta. Si tratta di un percorso formativo che intende offrire l’opportunità ai detenuti di diventare un sostegno nella quotidianità per i detenuti fragili attraverso l’acquisizione di competenze semplici e orientate sui concetti base della relazione d’aiuto. Tale figura non deve essere confusa con il ruolo del “piantone”, già esistente nel contesto detentivo, né può essere assimilata al ruolo “badante/OSS/assistente alla persona”. Chi è e che ruolo svolge il peer supporter - Il peer supporter è una figura di riferimento relazionale, un promotore di benessere e autonomia e favorisce attraverso l’accoglienza, la rassicurazione e il contenimento emotivo l’adattamento dell’individuo fragile. Il raggiungimento di questo obiettivo potrebbe avere ripercussioni positive anche per coloro che attivamente si adoperano per il “bisognoso del momento” sia in termini di riattribuzione di significato della propria immagine, sia nel rapporto con le istituzioni. I partecipanti al corso vengono informati rispetto ai momenti e alle situazioni nelle quali la loro presenza potrà essere necessaria. In particolare, si affronteranno il momento dell’ingresso in istituto, il verificarsi di eventi critici, la presenza di detenuti con fasi di particolare fragilità e vulnerabilità. L’ingresso in istituto rappresenta, soprattutto per i soggetti provenienti dalla libertà ed alla prima esperienza detentiva, un momento complesso e delicato. La persona si trova a dover fronteggiare la distanza dagli affetti, lo sconvolgimento della propria routine di vita, la perdita dei propri spazi. Inoltre, nel caso di soggetti con dipendenza da sostanze, possono verificarsi problematiche comportamentali e psicologiche legate alla mancata assunzione; nel caso di disturbi psichiatrici l’ingresso in istituto può rappresentare una rottura ancor più complicata da gestire. Anche nel caso di soggetti con precedenti esperienze detentive, un arresto, una nuova condanna o un trasferimento possono destabilizzare e rappresentare un fattore di rischio per eventi critici. Gli eventi critici possono verificarsi in qualsiasi fase della permanenza in Istituto e possono riguardare l’individuo o il gruppo. Per eventi critici intendiamo principalmente atti autolesivi ed anticonservativi, atti aggressivi ai danni di operatori od altri detenuti, conflitti interni alle sezioni ma anche più in generale una perdita di controllo comportamentale. I soggetti con particolare fragilità rappresentano un bacino degno di attenzione particolare poiché la condizione detentiva può andare ad accentuare la difficoltà del soggetto predisponendolo a maggior rischio. La fragilità individuale può essere legata a fattori socio-ambientali e relazionali, a problematiche mediche, a problematiche psicologiche e psicopatologiche. All’interno di queste macroaree il corso fornisce al peer supporter delle indicazioni e degli strumenti atti a svilupparne le capacità osservative, di supporto e di una prima gestione delle problematiche. Queste sono finalizzate soprattutto a cogliere e intercettare segnali di rischio o disagio nella popolazione detenuta, al fine di poter costituire anche interventi con gli operatori per una presa in carico effettiva della problematica in atto. Velletri (Rm). “Detenuti senza acqua calda e riscaldamento”, la denuncia dei familiari di Lorena Fantauzzi corrierenazionale.net, 5 dicembre 2023 Detenuti costretti in cella senza acqua calda e senza riscaldamento. È quanto sta succedendo da almeno tre giorni nella struttura di Velletri. Lo rilevano diverse dichiarazioni raccolte dai parenti dei reclusi: “Mio marito sta scontando una pena per reati che ha commesso ma non deve stare al freddo. Che le istituzioni si sveglino dal letargo”, racconta una donna. Da quanto emerge non hanno l’acqua calda e riscaldamento. Si parla poi di altre problematiche come finestre che non si chiudono, scarichi che non funzionano e rubinetti che perdono enormi quantità di acqua. In più in tutti gli ambienti comuni, corridoi, sarebbero presenti termosifoni che non funzionano. Bisogna verificare quindi se gli ambienti di vita non pregiudichino la loro salute e se il disagio non rischi di innescare fenomeni di instabilità psicologica. Una situazione insostenibile che fa riflettere su questa cecità da parte degli organi competenti”. “Tra di loro vi sono anche persone anziane e con patologie croniche”. Ancona. “Corto Dorico” entra in carcere. I detenuti votano i migliori film di Pierfrancesco Curzi Il Resto del Carlino, 5 dicembre 2023 I cortometraggi che partecipano al noto festival sono stati proiettati a Montacuto e a Barcaglione. I cortometraggi di “Corto Dorico” entrano nelle carceri e l’iniziativa si conferma un successo. I detenuti si sono affezionati alla storia di Aseman, protagonista di uno dei sei corti (su una lista iniziale di film arrivati pari a 654) che sono stati selezionati per la finalissima del festival dei cortometraggi di sabato prossimo al Cinema Italia; la pellicola è stata realizzata da due registi, Gianluca Mangiasciutti che sabato sarà in sala per la serata finale, e il collega iraniano Ali Asgari, 41 anni, arrestato in passato e da qualche mese impossibilitato a lasciare il Paese e fare film fino a nuova disposizione. Un regista che ha conosciuto la durezza del carcere così come i ‘giurati’ speciali di ieri che lo hanno scelto in massa nonostante non sapessero del passato difficile del regista. Dopo le ‘puntate’ negli istituti di pena del pesarese, a Fossombrone in particolare, ieri il ‘Premio Ristretti Oltre le Mura’ è approdato nei due istituti di pena del capoluogo; il mattino a Montacuto e il pomeriggio a Barcaglione. Due istituti con storie diverse e soprattutto con problematiche diverse, ma per una volta ieri a tenere banco non sono stati i tanti punti d’ombra delle stretture penitenziarie, quanto la grande risposta in termini di interesse e attenzione suscitata nei detenuti che hanno aderito all’iniziativa: “Forse non è casuale che il corto ‘My name is Aseman’ abbia raccolto tantissimi consensi anche tra gli addetti ai lavori, esperti cinefili, registi, produttori e così via e lo stesso sia successo per le persone detenute nelle carceri. Il corto italo-iraniano ha trionfato ovunque in questi giorni per l’iniziativa ‘Premio Ristretti Oltre le Mura’ - spiega Luca Caprara, co-direttore artistico di Corto Dorico con cui ieri abbiamo seguito le proiezioni all’interno degli istituti di pena del capoluogo dorico - Sia a Fossombrone che qui ad Ancona ha avuto il più alto numero di voti. Alla fine queste preferenze peseranno anche nella serata finale quando i voti dei detenuti avranno un peso come quello della giuria di esperti. Questa iniziativa è molto importante per Corto Dorico e ci sta dando enormi soddisfazioni”. Alla fine della pellicola ‘My name is Aseman’ a Montacuto alcuni dei detenuti che avevano aderito all’iniziativa si sono addirittura lasciati andare a un applauso: “La storia ci ha colpito - ha detto uno di loro - almeno a me ha fatto questo effetto. Si parla di diritti, di violenza sulle donne. Se posso dire, anche tecnicamente era fatto meglio di tutti gli altri”. In effetti i commenti migliori in carcere hanno riguardato il corto favorito per la vittoria dell’edizione 2023, mentre, ad esempio, il film ‘Reginetta’, il primo della lista in ordine di proiezione, non è stato considerato troppo all’altezza dai detenuti. Curioso il commento di un membro della giuria carceraria sull’ultimo dei corti, The delay (il ritardo), molto intelligente e particolare: “Io ho votato questo perché sono sempre in ritardo su tutto e quel racconto mi ha colpito”. Prima e dopo la visione dei corti di ieri, compreso il breve dibattito alla fine dei film, si è formata una bella atmosfera nella sala di proiezione. Specialmente a Montacuto l’area trattamentale, ossia le iniziative collaterali alla vita del carcere, che dovrebbero agevolare le detenzioni, andrebbe sicuramente migliorata; un problema che l’istituto più numeroso delle Marche si porta dietro da anni. Varese. I detenuti creano “Arte in Libertà” rete55.it, 5 dicembre 2023 Alla Biblioteca Bruna Brambilla la mostra collettiva degli “artisti” della casa Circondariale. “Arte in Libertà” è il titolo della collettiva in apertura dal 6 al 20 dicembre alla Biblioteca “Bruna Brambilla”. In mostra le opere realizzate da alcuni detenuti che nel corso di un anno si sono avvicendati nella Casa Circondariale di Varese. L’esposizione si inserissce nell’ambito di un progetto di educazione alla bellezza coordinato da Ignazio Campagna con Anna Bernasconi e Carla Santandrea, direttrice del Carcere dei Miogni. Attraverso i lavori esposti, disegni e terrecotte, gli “artisti” hanno espresso ciascuno la propria sensibilità, le ambizioni, il desiderio di comunicazione e non da ultimo, quello di libertà. L’evento, seguito dai volontari della Biblioteca, prevede per il 14 dicembre un appuntamento con due ospiti “speciali”: la scrittrice Marta Morazzoni e il fotografo Carlo Meazza. Barbano riapre il caso Champagne: ecco “La gogna”, il suo libro sulla deriva dei magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 5 dicembre 2023 L’ultimo lavoro del giornalista sarà presentato alle 17.30 di domani al Maxxi di Roma. Un’impietosa scarnificazione della lotta fra pm consumata, manco a dirlo, a colpi di intercettazioni. È stata una notte sbagliata. Vischiosa. Dal potenziale tellurico notevole. Ma non si può ridurre tutto a quella notte. Fin dal titolo del suo ultimo libro, “La Gogna - Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, Alessandro Barbano si interroga. Ci interroga. Ci chiede di verificare se davvero abbiamo compreso fino in fondo la portata dello scenario sul quale il “Sistema” di Luca Palamara pretende di aver squarciato il velo. Si interroga, e ci interroga, il giornalista che è vicedirettore del Corriere Sport e tra le firme più prestigiose del nostro quotidiano, a proposito di quella notte, la cena all’Hotel Champagne. Ma non solo, perché, tanto per cominciare, ci mette di fronte all’interrogativo vero: ci si può continuare a illudere che la deriva corporativo-mercantilistica della magistratura sia iniziata e finita lì? Un po’ l’ordine giudiziario si è sforzato di farcelo credere. Non solo con l’individuazione in Palamara di un colpevole assoluto, radiato dalla magistratura, gettato fuori come manco le anime dannate nello Stige dantesco, ma anche con la progressiva miniaturizzazione delle responsabilità altrui. Di chi, con Palamara, scambiava messaggi e soprattutto propositi lottizzatori. Nulla di fatto, se non fosse per qualche trasferimento e per i procedimenti disciplinari ai cinque ex togati coinvolti nelle vicende del 2019. L’amnistia generalizzata per tutti quegli altri magistrati che non hanno la sfortuna di chiamarsi Luca di nome e Palamara di cognome finirà, pare, per estendersi persino all’ambito sindacal-associativo. Non ci saranno cioè diffuse sanzioni neppure da parte dell’Anm, che pure dovrebbe esercitare, come illustrato in tempi non sospetti da Giovanni Maria Flick, la “giurisdizione deontologica” sulle toghe. Eppure il “sindacato” non esitò a convocare un’assemblea nazionale mai così partecipata per cacciar via a pedate l’unico, evidentemente, passibile di tanta ignominia. Sempre lui, avete capito. Si dirà: c’era stato “Il Sistema”, il libro di Palamara. Perché un altro volume (nel caso di Barbano l’editore è Marsilio, le pagine sono 256, con appendice biografica per tutti i protagonisti, e il costo è 18 euro)? Perché questa sorta di interpretazione autentica dei fatti che il “bannato” Luca aveva già passato ai raggi X dal suo personale angolo e interesse? Semplice: perché ci voleva il coraggio di Alessandro Barbano per scavare oltre, per parlare senza scrupoli reverenziali del passato e del presente di chi ha avuto un ruolo, un qualsiasi ruolo, in quella vicenda. Senza specifiche volontà defensoriali nei confronti di Palamara, senza intenti vendicatori nei confronti degli avversari di quest’ultimo, da Giuseppe Pignatone in poi. Ma certo, con spietata puntualità di indagine. E con una lezione, che si coglie nel racconto dell’epopea Champagne e nella postfazione che lo stesso autore ha voluto aggiungere al resto: dalle intercettazioni come quelle che hanno incastrato Palamara e spalancato il retroscena spartitorio dei magistrati, Barbano ricava anche una severa critica sull’affidabilità di quello strumento investigativo. Soprattutto, sul cortocircuito che si attiva fra indagini e riflesso mediatico, quindi sociale, con successivo recupero del disdoro pubblico nell’alveo dell’attività inquirente. In una spirale di alterazione, manipolazione e sostanziale abuso del potere giudiziario che riguarda i procedimenti interni alla magistratura come quelli in materia di corruzione. Fino addirittura alle apparentemente irreprensibili inchieste di mafia. A Barbano, verrebbe da dire, non è bastata. Non gli è bastato sfidare il potere giudiziario costituito già con “L’inganno”, il suo precedente libro, dedicato agli abusi dell’antimafia. Di nuovo mette a nudo le derive del sistema giustizia nella prospettiva meno cara al resto della critica, vale a dire con l’idea di scarnificare e censurare gli arbitrii della magistratura. Ne parlerà alle 17.30 di domani, martedì 5 dicembre, al Maxxi di Roma, in una presentazione in cui avrà, come alleati, Sabino Cassese, Paolo Mieli, Enrico Mentana, Flavia Perina e Gian Domenico Caiazza. Sbattere contro il muro in apparenza inscalfibile dei cortocircuiti togati potrà sembrare, ai più cinici, ai qualunquisti dalla smorfia sbrigativa, una velleità donchisciottesca. Ma il pensiero, ogni volta che questo raro coraggio si manifesta, corre sempre al debito con Enzo Tortora, alla cui memoria non a caso è dedicata “La gogna”. In una magistrale recensione del libro che ha preceduto e precede questa, non solo cronologicamente, Vittorio Feltri dice di Enzo che ha “sempre uno scrupolo a citarlo per il timore di nominarlo invano”. Chi scrive condivide il dilemma. E ha spesso paura che l’arroganza cieca di cui Enzo fu vittima non sia servita granché da lezione. Il disagio mentale è collettivo: non c’è una soluzione individuale di Giuliana Sias Il Domani, 5 dicembre 2023 La sofferenza psichica non è mai solo il problema di un singolo individuo: è sempre legata alla società intera. Per questo secondo Marco Rovelli, bisogna creare una cultura di condivisione anche dei percorsi personali. Lo scorso febbraio è arrivato nelle librerie un libro che parla di disagio psichico attraverso decine di testimonianze, sia di pazienti che di terapeuti. Si intitola “Soffro dunque siamo” e lo firma Marco Rovelli per Minumum Fax. Quando l’ho letto, l’ho trovato semplicemente interessante. Ma a distanza di mesi mi sembra che sia invecchiato benissimo: che sia diventato fondamentale. Perché nel frattempo l’attenzione dell’opinione pubblica intorno al tema della salute mentale è cresciuta notevolmente, e in proporzione si sono fatte largo alcune banalizzazioni e molte contraddizioni che più che ampliare il nostro sguardo lo hanno ristretto. L’ambiguità - Anche Rovelli individua sacche di ambiguità nel dibattito attuale ma ritiene che non sia mai un male che si parli di salute mentale: “È un bene che se ne faccia parola, in qualche modo. Anche se quel modo non è detto che sia sufficiente, e magari può anche essere distorsivo, in ogni caso è sempre un possibile innesco, una scintilla. Perché parlarne consente poi di articolare un discorso più complesso mentre se non se ne parla affatto, perdiamo questa opportunità. Ad esempio l’esposizione di Fedez è un primo passo che può consentire di compierne un altro nella direzione di un superamento “politico” della sofferenza mentale, che non è mai un fatto solo individuale. Cioè non basta chiedere lo psicologo a scuola, o maggiori fondi per il bonus psicologo, perché la sofferenza è legata ai valori fondamentali di una società, a uno stile di vita, a un metodo di produzione. E in un certo senso è chiaro che questi stessi influencer siano portatori inconsapevoli di tale sofferenza, quindi ci pongono di fronte a una contraddizione. Ma sono queste contraddizioni a mostrarci in maniera più evidente una verità sociale, è scavando in queste contraddizioni che si può creare una soggettività collettiva capace di indirizzarci verso una soluzione. Tempo fa un mio post ha suscitato qualche polemica: parlavo di Giorgia Soleri, che parlava di psicofarmaci. Io mi concentravo sul fatto che quello non fosse il modo giusto, perché ne parli da sofferente però mettendo al centro della tua pratica terapeutica il farmaco, quindi fai un discorso del tutto individualizzante. Dall’altra parte c’è il rovescio: anche se la questione viene posta in maniera equivoca, destigmatizza. Non è ancora nulla ma è già qualcosa”. Rischio individualizzazione - Quando finiamo necessariamente a parlare di personaggi molto noti, che hanno assunto in maniera indiscutibile un ruolo centrale in tema di disagio psichico, confesso a Rovelli di aver dato al titolo del suo libro un senso diverso rispetto a quello dichiarato nel corso delle pagine. La sua analisi si fonda sull’idea che il disagio debba essere sempre posto in relazione all’ambiente, sia fisico che sociale. Mentre io, a scatola chiusa e sentendomi circondata da imprenditori di successo che scaricano su milioni di follower i loro traumi non elaborati, gli avevo dato un significato più polemico: se non dimostri a un pubblico di soffrire, non sei nessuno. “Oggi pensiamo di dover riparare la nostra sofferenza per avere successo ma la nostra sofferenza è legata esattamente al paradigma individualista performativo. Perciò il rischio di questa prospettiva, dell’individualizzazione del disagio, è di uscire dal pantano solo attraverso l’adesione a un’altra norma performativa, che è una legge non meno cogente della società edipica, della legge del padre, e che magari ti impone di esporre la tua fragilità. La spettacolarizzazione, dalla tv del dolore in avanti, fa leva su tutta una serie di meccanismi di identificazione e antagonismo: lui soffre come me oppure lui soffre al posto mio. Schemi perversi di esibizione del malessere che estraggono valore dalla sofferenza umana”. Tra diagnosi e marketing - In pratica il cosiddetto capitalismo di estrazione o di spremitura (basato sull’appropriazione di dati personali, capace di creare profitto da ogni aspetto della vita sociale) fa anche della salute mentale un business. Nel capitolo del libro di Rovelli dedicato agli psicofarmaci, tra gli altri dati ce n’è uno che riguarda le case farmaceutiche: non è un segreto che abbiano un peso nell’affermazione di una psichiatria centrata sul farmaco e che “le Big Pharma spendono più per il marketing che in ricerca”. Allo stesso modo, negli ultimi due anni in Italia, si assiste alla nascita di diverse startup le cui attività sono classificate come “Produzione di software non connesso all’edizione”, e quindi non in ambito sanitario ma tecnologico, che mettono in contatto domanda e offerta di servizi psicologi. In contemporanea il mantra dei testimonial di queste aziende private è che “tutti hanno bisogno di uno psicologo”. “Tutti quanti siamo soggetti a nevrosi, diceva Freud. È indubitabile che ognuno di noi abbia la propria ferita ma dire che tutti abbiamo bisogno di una terapia vuol dire tutto e non vuol dire niente. Il sistema delle startup tecnologiche che offrono servizi di psicoterapia mi pare si possa riassumere con “provo a salvarmi nel mare della sofferenza rivolgendomi a chi mi offre un salvagente”. Ma il problema di fondo rimane lo stesso: chi ha gli strumenti per capire dove andare, da chi andare, quali sono i sentieri per cercare una terapia che sia valida, trova. Chi non li ha, non trova. Questo è il capitalismo: tutto dipende dal bagaglio economico e di conoscenze di ognuno, dal tuo capitale cognitivo. Ciò che bisognerebbe fare, invece, sarebbe costruire una cultura condivisa, un’educazione su questi temi che leghi i percorsi individuali e li collettivizzi. Una diagnosi effettuata nel mondo dei Big Data può rischiare di essere un “per sempre”, cioè una gabbia merciologica e non l’inizio di una cura”. Perché se le pubblicità ti vengono cucite addosso identificando un tuo tratto di personalità, tu magari semplicemente aderisci a un target. In questo momento siamo in grado di stabilire con esattezza cosa sia marketing, cosa attivismo per la salute mentale e cosa una diagnosi? Anche questo equilibrio è ancora troppo fragile. Flora alla mensa dei poveri, cinque milioni come lei: è l’Italia dei volontari di Flora Barone Corriere della Sera, 5 dicembre 2023 Barone ha fondato l’associazione Calabriameda da cui sono poi nate Ristorando, la mensa sociale, e lo Sportello Rosa per le donne. Martedì 5 dicembre Cosenza passa a Trento il testimone di “Capitale italiana del volontariato” C’è un mondo di persone, di ragazze e ragazzi, donne e uomini, giovani e anziani, che ogni giorno dedica una (buona) parte del proprio tempo agli altri. Cinque milioni calcola l’Istat - in realtà molti di più - di formichine instancabili in continuo movimento spesso invisibili, perché non chiedono palcoscenici (né hanno bisogno della pubblicità dei social) come ci fa bene intendere una di loro, Flora Barone, 60 anni compiuti, esperta in controllo di gestione, sposata con un figlio, nata e cresciuta a Cosenza. Da lei partiamo oggi, perché la sua esperienza è un piccolo modello in cui tanti possono rispecchiarsi e anche perché Cosenza quest’anno è stata la Capitale italiana del Volontariato e martedì 5 dicembre passa il testimone a Trento, che tra l’altro nel 2024 sarà contemporaneamente anche la Capitale europea del Volontariato. Testimone - Flora Barone ci racconta che a far scattare la molla di occuparsi degli altri è stato “incontrare fuori dalla Chiesa quando avevo appena 6 anni una famiglia che chiedeva l’elemosina. Per me, cresciuta nel benessere, fu una pugnalata. Realizzai fin da piccola che nella vita c’era altro, oltre al mondo di benessere in cui vivevo”. Crescendo si è poi domandata spesso “come potevo rendermi utile”. In parrocchia prima, in realtà laiche dopo, “ho cercato di fare molta formazione, perché mi era già chiaro che non era sufficiente seguire il cuore”. E poi, dopo molte e diverse esperienze sul campo, a cominciare dal supporto dato ai campi estivi per bimbi quando era adolescente, nel 2016 assieme al marito ha fondato Calabriameda, “una associazione che si occupa di contrasto alla povertà”. Ristorando, la mensa sociale, e Sportello Rosa - Da qui è poi gemmata una mensa sociale, ospitata in una casetta di legno accanto alla Chiesa evangelica cittadina e di fronte alla Agenzia delle Entrate, alla quale è stato dato il nome “Ristorando” (per “togliere lo stigma che può legarsi a una mensa sociale”, conclude la volontaria) dove le famiglie in difficoltà possono pranzare oppure ritirare un pacco di beni alimentari. Calabriameda è uno specchio di ciò che stanno attraversando molte associazioni: “Siamo nati per dare una minima risposta a un bisogno ma ora abbiamo anche aperto lo Sportello Rosa, uno spazio dove le donne possono stare assieme, dove trovare consulenze psicologiche, ma anche laboratori di scrittura creativa, di poesia. Si comincia da un punto e poi inevitabilmente si vanno occupare spazi dove c’è un bisogno. Questo è il bello di fare volontariato. Se tutti lo facessero staremmo meglio tutti”. Povertà sanitaria: per oltre 400mila italiani farmaci e cure sono un lusso di Ruggiero Corcella Corriere della Sera, 5 dicembre 2023 Si tratta di connazionali che nel 2023 hanno dovuto chiedere aiuto a realtà assistenziali per ricevere gratuitamente medicinali: quasi l’11% in più rispetto al 2022. È il dato preoccupante dell’11° Rapporto Donare per curare di Banco Farmaceutico. Una fotografia ancora una volta inquietante: nell’anno in corso, 427.177 persone (7 residenti su 10) si sono trovate in condizioni di povertà sanitaria. Hanno dovuto, cioè, chiedere aiuto ad una delle 1.892 realtà assistenziali convenzionate con Banco Farmaceutico per ricevere gratuitamente farmaci e cure raccolti anche grazie all’annuale appuntamento della Giornata di raccolta del farmaco che nel 2024 si svolgerà dal 6 al 12 febbraio. Rispetto alle 386.253 persone del 2022, c’è stato un aumento del 10,6%. È quanto emerge dall’11° Rapporto Donare per curare - Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci realizzato con il contributo incondizionato di IBSA Farmaceutici e ABOCA da OPSan - Osservatorio sulla Povertà Sanitaria (organo di ricerca di Banco Farmaceutico). I dati sono stati presentati il 5 dicembre 2023 in un convegno promosso da Banco Farmaceutico e AIFA. Nord Ovest e Nord Est, le regioni più rappresentate - E se si pensa che la povertà sanitaria sia un “problema” solo di alcune aree del Paese, magari quelle nelle regioni del Sud, si rimane una volta ancora delusi: gli assistiti con problemi di salute e in povertà economica risiedono, anche nel 2023, principalmente nelle regioni del Nord-Ovest (36% del totale) e del Nord-Est (23%), in aumento rispetto al 2022, ma so stanzialmente in linea con il triennio 2019-2021. Non è che al Sud, le situazioni di povertà siano miracolosamente assenti. La capacità della Rete di intercettare le persone bisognose è legata alla distribuzione territoriale degli enti caritativi, storicamente più limitata nel Centro, nel Sud e nelle Isole rispetto al Nord. Le diverse possibilità di accesso agli aiuti sono un’involontaria fonte di disparità tra quanti vivono in povertà sanitaria. Spesa farmaceutica in aumento - Intanto, la spesa farmaceutica delle famiglie aumenta, ma la quota a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) diminuisce. Nel 2022 (ultimi dati disponibili), la spesa farmaceutica totale è pari a 22,46 miliardi di euro, 2,3 miliardi in più (+6,5%) rispetto al 2021 (quando la spesa era di 20,09 miliardi). Tuttavia, solo 12,5 miliardi di euro (il 55,9%) sono a carico del SSN (erano 11,87 nel 2021, pari al 56,3%). Restano 9,9 miliardi (44,1%) pagati dalle famiglie (erano 9,21 nel 2021, pari al 43,7%). Significa che, rispetto all’anno precedente, le famiglie hanno pagato di tasca propria 704 milioni di euro in più (+7,6%). In sei anni (2017-2022), la spesa farmaceutica a carico delle famiglie è cresciuta di 1,84 miliardi di euro (+22,8%). A sostenere di tasca propria l’aumento sono tutte le famiglie, anche quelle povere, che devono pagare interamente il costo dei farmaci da banco a cui si aggiunge (salvo esenzioni) il costo dei ticket. La salute dei poveri - Rielaborando anche i dati dell’indagine multiscopo sulle famiglie “Aspetti della vita quotidiana”, utilizzati anche nel Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile), giunto nel 2022 alla sua 11ª edizione, Istat. “La principale fonte di disagio e di in- soddisfazione deriva dalla diffusa percezione di avere “risorse economiche scarse o assolutamente insufficienti”. Sono infatti di questa opinione quasi 19 milioni di persone (33% dei residenti in Italia nel 2021) che sperimentano ogni giorno il gap tra i propri bisogni economici e la possibilità di soddisfarli adeguatamente. Le percezioni soggettive sono distanti dai dati sull’incidenza di povertà (assoluta e relativa) rilevata attraverso i parametri “oggettivi” usati convenzionalmente dall’Istat, che comunque offrono un quadro preoccupante, con 8,7 milioni di individui in povertà relativa di cui 5,6 milioni in povertà assoluta”. “Meno allarmante risulta invece la situazione sul versante della salute, considerata buona e molto buona dal 71% dei residenti (42,27 milioni di individui), né buona né cattiva dal 24% (14,27 milioni), cattiva e molto cattiva dal 4,9% (2,92 milioni). In questo caso si potrebbe dire che gli intervistati rifuggono dalla drammatizzazione, preferendo un’autodefinizione più cauta. Questa posizione “diplomatica” perde, però, decisamente terreno laddove sia chiesto agli intervistati se, nell’esercizio delle loro attività quotidiane, soffrano di limitazioni (gravi o non gravi) di durata superiore a cinque mesi, a causa dei loro problemi di salute. La risposta affermativa coinvolge, in questo caso, il 23% della popolazione, ovvero 12,89 milioni di persone. Una quota non piccola che appare più vicina alla realtà effettiva, contrassegnata dalla diffusione di malattie croniche, che compromettono l’autosufficienza e dilatano il bisogno di assistenza socio-sanitaria. È interessante notare che la problematica delle limitazioni colpisce in misura piuttosto simile sia chi ritiene di avere risorse economiche “scarse o assolutamente insufficienti” (25,2%) sia chi le considera “ottime o adeguate” (22,3%) (dati 2021), a conferma del fatto che le condizioni economiche non mettono al riparo dal declino psicofisico. La disuguaglianza economica torna invece a incidere sulla questione della rinuncia, per ragioni economiche, a visite specialistiche necessarie. Questo comportamento è, infatti, molto presente tra chi si considera economicamente vulnerabile, con un’incidenza sei volte maggiore rispetto a chi dichiara di non avere problemi economici (6,1% vs. 1,6%)”. Senza il Terzo settore, la tenuta del SSN sarebbe a rischio - Le non profit attive prevalentemente nei servizi sanitari sono 12.578 (e occupano 103 mila persone). Di queste, 5.587 finanziano le proprie attività per lo più da fonti pubbliche. Tenendo conto di questo solo sottoinsieme, il non profit rappresenta almeno 1/5 del totale delle strutture sanitarie italiane (oltre 27.000), generando un valore pari a 4,7 miliardi di euro. Si conferma, infine, la relazione circolare tra povertà di reddito e povertà di salute: la percentuale di chi è in cattive o pessime condizioni di salute è più alta tra chi si trova in condizioni economiche precarie rispetto al resto della popolazione (6,2% vs. 4,3% nel 2021). La qualità della vita legata a gravi problemi di salute, inoltre, è peggiore per chi ha meno risorse rispetto a chi ha un reddito medio-alto (25,2% vs. 21,7%). Le risorse economiche non preservano, di per sé, da gravi patologie (specie all’aumentare dell’età), ma consentono di fronteggiarne meglio le conseguenze. A compromettere lo stato di salute di chi è economicamente vulnerabile, contribuisce la rinuncia a effettuare visite specialistiche, che è cinque volte superiore al resto della popolazione. “Attraverso il rigore del metodo scientifico dell’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria, vogliamo fornire un contributo di conoscenza su alcuni aspetti essenziali per qualificare la nostra società; in particolare, quest’anno ci preme sottolineare che tante persone in condizioni di povertà non riescono ad accedere alle cure non solo perché non hanno risorse economiche, ma anche perché, spesso, non hanno neppure il medico di base, non conoscono i propri diritti in materia di salute, o non hanno una rete di relazioni e di amicizie che li aiuti a districarsi tra l’offerta dei servizi sanitari. Senza il Terzo settore (e, in particolare, senza le migliaia di istituzioni non profit, di volontari e di lavoratori che si prendono cura dei malati), non solo l’SSN sarebbe meno sostenibile, ma il nostro Paese sarebbe umanamente e spiritualmente più povero”, ha dichiarato Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico Ets. Migranti spostati in Albania, sui ricorsi deciderà il tribunale di Roma di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 dicembre 2023 Alle 16 il Cdm. Oggi il governo vara la legge di ratifica: coperture finanziarie e prime norme attuative. Ieri Piantedosi a Bruxelles per preparare il rush finale dei negoziati sul patto Ue Migranti spostati in Albania, sui ricorsi deciderà il tribunale di Roma. Il Consiglio dei ministri convocato oggi alle 16 approverà il testo del disegno di legge che il governo presenterà in parlamento per dare attuazione al protocollo d’intesa con l’Albania sui centri di identificazione e trattenimento al di là dell’Adriatico. Al centro della norma le coperture finanziarie e le prime norme attuative per realizzare e gestire le strutture extraterritoriali. Ieri è trapelata la notizia che saranno i giudici di Roma a decidere sui ricorsi dei migranti delocalizzati nel paese guidato da Edi Rama. Dopo le rivelazioni del manifesto su un documento interno che circola tra i ministeri coinvolti nel progetto e parla di 720 posti per un costo di quasi 100 milioni solo il primo anno, si attendono maggiori dettagli dall’esecutivo. Quei numeri, infatti, non sono ancora definitivi ma rendono bene l’idea del piano su cui si sta muovendo il governo. Se saranno confermati segneranno una grande distanza, almeno in una prima fase, dalle dichiarazioni della premier Giorgia Meloni sui tremila cittadini stranieri detenuti contemporaneamente in Albania, per un totale di 36mila all’anno. Sull’accordo permangono ancora molti punti oscuri di natura economica, logistica e giuridica. Il ddl ne chiarirà alcuni, ma per avere un quadro completo si dovranno comunque attendere dei mesi. L’obiettivo di Meloni è realizzare almeno i primi trasferimenti prima di giugno 2024, quando si terranno le elezioni europee. Resta anche da capire cosa pensa davvero Bruxelles: la presidente della Commissione Ursula von der Leyen non si è ancora espressa ufficialmente, anche se nell’Ue nessuno ha alzato le barricate contro il protocollo. Al contrario sembra destare il favore della Commissione e l’interesse di altri paesi membri. Su tutti la Germania: il cancelliere tedesco Olaf Scholf ha aperto all’esternalizzazione dell’iter per l’asilo nei paesi terzi ritenuti sicuri. Questo tassello rappresenta una delle principali scommesse del governo italiano nell’ambito dei negoziati sul nuovo patto asilo e immigrazione. Che ormai è giunto al rush finale. Ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato a Bruxelles il “gruppo di Berlino” - composto dai rappresentanti di Germania, Francia, Italia, Repubblica Ceca, Svezia, Spagna e Belgio - per affinare la strategia in vista del trilogo tra gli organismi comunitari previsto per il 7 dicembre. Consiglio Ue, Europarlamento e Commissione concordano sul fatto che il Patto vada chiuso prima delle europee, ma restano alcuni punti di disaccordo. I negoziatori degli eurodeputati chiedono maggiori tutele per i soggetti vulnerabili come donne e minori stranieri non accompagnati, una “solidarietà obbligatoria” per la redistribuzione delle persone nei momenti di maggiore afflusso e soprattutto puntano a ridurre l’applicazione delle procedure accelerate di frontiera per l’asilo. Possibile che il Consiglio recepisca le richieste in merito al primo punto, improbabile faccia lo stesso sugli altri due. Rispetto alla “solidarietà” saranno previste strade alternative al ricollocamento degli stranieri, principalmente il sostegno economico, mentre le procedure accelerate, come detto, hanno assunto rilevanza strategica. Su questo aspetto il governo Meloni si gioca anche una partita tutta interna. Il 30 gennaio si terrà l’udienza in Cassazione sui ricorsi presentati dall’Avvocatura dello Stato contro le decisioni del tribunale di Catania. I giudici etnei hanno liberato, disapplicando la normativa nazionale a favore di quella europea, i cittadini tunisini che secondo la “legge Cutro” avrebbero dovuto svolgere l’iter accelerato di frontiera in detenzione. Migranti in teleconferenza dall’Albania ma sui Centri pesa il rischio ricorsi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 dicembre 2023 Due pezzi di Albania dichiarati territorio italiano, l’hotspot di Shengjin e il centro di trattenimento e Cpr di Gjader come se fossero ambasciate, una commissione per vagliare le richieste di asilo insediata in loco, il foro competente per la giurisdizione (quello di Roma) con giudici e migranti collegati in videoconferenza tutte le volte che sarà necessaria un’audizione, ad esempio in caso di ricorso. Nel tentativo di rendere praticabile l’applicazione del protocollo e di contenere gli oneri di spesa già enormi e stimati attorno ai 92 milioni solo per il primo anno, più i 16,5 da versare entro i primi tre mesi all’Albania e il deposito di 100 milioni come cauzione per spesa extra. Ecco il cuore del disegno di legge di ratifica del protocollo d’intesa Italia-Albania che oggi il consiglio dei ministri varerà per consentire di accelerare i tempi per la realizzazione delle strutture destinate ad ospitare prima dell’inizio dell’estate i richiedenti asilo salvati da navi militari italiane e destinati ad una probabile espulsione perché provenienti da Paesi sicuri: “non più di 3.000 insieme”, dice l’accordo ma, almeno nei primi tempi, i posti saranno solo 720. Le deroghe alle norme nazionali - Il provvedimento, assai corposo, è filato liscio ieri pomeriggio in preconsiglio dopo che la bozza era stata affinata in un’ultima riunione tecnica dai capi degli uffici legislativi dei ministeri degli Esteri, Interno e Giustizia. Un testo che l’esecutivo ritiene blindato e che deroga in maniera importante al quadro normativo nazionale. Centri con 4 metri di filo spinato - I centri, come annunciato, saranno due: a Shengjin un hotspot da 300 posti, con recinzioni di filo spinato alte 4 metri, dove i migranti, uomini e donne (ma non quelle incinte, i minori e le persone fragili) verranno identificati e potranno avviare le procedure per la richiesta d’asilo. Uno dei punti più controversi visto che la legislazione prevede che l’asilo possa essere chiesto solo nel territorio dello Stato membro, alla frontiera o nelle acque territoriali e di transito, luoghi che nulla hanno a che fare con l’Albania, ma che le nuove norme consentiranno come se l’hotspot fosse un’ambasciata italiana. Dopo l’identificazione i migranti verranno portati nel centro di Gjader (10 edifici fatiscenti da ristrutturare per un totale di 2.000 metri quadri) che, almeno all’inizio, vedrà attivati 300 posti per i richiedenti asilo sottoposti alle procedure accelerate di frontiera e 120 di vero e proprio Cpr. Qui verranno rinchiusi (per un periodo massimo di 18 mesi) coloro che, non avendo ottenuto il permesso di soggiorno, dovranno essere rimpatriati: e saranno sostanzialmente tunisini ed egiziani, gli unici per i quali l’Italia ha un accordo con i Paesi d’origine. I ricorsi valutati dai giudici di Roma - Nel centro da 300 posti di Gjader verranno trattenuti (per un massimo di 28 giorni) i richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri da sottoporre a procedure accelerate di frontiera. E qui è previsto il primo intervento dei giudici chiamati a convalidare il provvedimento di fermo. Giudici del foro di Roma, secondo la legge visto che i presumibili ricorsi dei migranti saranno contro il ministero dell’Interno. Nel caso di audizioni, è previsto l’uso di collegamenti in videoconferenza per consentire ai migranti (nonostante le evidenti difficoltà legate alla lingua e alla loro condizione) di poter essere ascoltati dai giudici. Il tutto con l’incognita del verdetto della Cassazione che il 30 gennaio prenderà in esame il ricorso del Viminale contro le sentenze di diversi giudici delle sezioni immigrazione che ritengono illegittime le nuove norme sul trattenimento dei richiedenti asilo previsto dal decreto Cutro e che, di fatto, sono il pilone su cui si fonda tutta l’operazione Albania. Migranti. Minori non accompagnati, il “piano freddo” non basta di Sara De Carli vita.it, 5 dicembre 2023 A fine ottobre sono saliti a 23.798 i minori migranti soli presenti in Italia. Milano è la città che accoglie di più: 1.300. I posti nella rete di prima accoglienza sono solo 400, per il resto il Comune li colloca in comunità educative. Che però da tempo sono piene: il 20% dei Msna è già collocato fuori regione. Davvero pensiamo che bastino dei posti letto nel “piano freddo” (che pure ci sono)? Collocati vengono collocati, ma “con fatica e sempre più spesso fuori regione, dopo ore e ore passate al telefono per trovare un posto”, dice l’assessore al welfare Lamberto Bertolé. A Milano non ci sono minori stranieri soli e non collocati, nel senso di minori per cui il Comune non sia riuscito a trovare una collocazione: “Abbiamo invece sul territorio minori che abbandonano le comunità educative, magari perché sono coinvolti in qualche attività illecita o magari perché arrivano a Milano attratti dalle opportunità economiche, tutti sappiamo quanto pesa su di loro la volontà di mandare dei soldi a casa: le comunità non sono carceri, spesso sono i minori stessi che decidono dove andare. Quanti sono per strada? Se sapessimo quantificarli, non sarebbero irreperibili. Noi passiamo le giornate a cercare posti in comunità, la domanda - mi spiace - va fatta alla Prefettura”. Il piano freddo non basta - Lamberto Bertolé non ci sta a parlare ancora una volta di minori stranieri non accompagnati - anzi di minorenni migranti soli - con i toni dell’emergenza: “Nel “Piano freddo” i posti ci sono, non è questo il punto. Il punto è garantire a questi ragazzini dei percorsi di inclusione, non possiamo certo accontentarci di tenerli dentro il “piano freddo”, dice. Il problema è a Milano il sistema dell’accoglienza è saturo e non da oggi. L’ultimo allarme in ordine di tempo risale a quest’estate, quando gli sbarchi mostrarono alte percentuali di minori non accompagnati a bordo. Quando il 20 agosto la Geo Barents attraccò al porto di Bari, i minori erano 43: quattro su cinque avevano meno di 18 anni, il più piccolo appena 14 anni. “La nave dei ragazzi”, la ribattezzarono i volontari di Medici senza frontiere. Nessuna emergenza numerica, si disse già allora: il problema dell’Italia è che manca un sistema di accoglienza per i minori, che non è mai stato avviato in maniera adeguata. A cominciare da quei “centri governativi” destinati alla prima accoglienza che nessun governo ha mai creato: luoghi protetti dedicati a ricostruire l’identità, l’età e la storia del minore, in cui rimanere al massimo 30 giorni. I Msna così vengono accolti quasi indistintamente nei Centri di accoglienza straordinaria-Cas, nei centri Sai o nelle comunità individuate dai Comuni, saltando del tutto la distinzione tra prima e seconda accoglienza. “Serve una regia nazionale. Se ci fosse una prima accoglienza in carico allo Stato e una seconda accoglienza in carico ai comuni, le cose funzionerebbero. Ma non è così. A Milano i posti nella rete Sai autorizzati dal governo sono 400. In tutto il resto della città metropolitana sono 32. E noi abbiamo 1.300 minori”, fa i conti Bertolé. I conti sono preso fatti. Esauriti i posti nella rete Sai, il Comune si è rivolto alle comunità educative convenzionate: già da un po’ però anche quelle non hanno più posto. Che succede allora? “Li mandiamo fuori regione: Udine, Genova, Pordenone, Benevento. I titolari del progetto siamo noi, l’assistente sociale da Milano deve seguire il percorso di un minore che sta dall’altra parte d’Italia. È una follia, serve un sistema di redistribuzione nazionale, per affidare poi ai Comuni il compito della seconda accoglienza”, dice Bertolé. Lo dice da due anni, in verità, come pure Anci. Oggi il circa il 20% dei Msna in carico al Comune di Milano sono in comunità fuori regione. Al 31 ottobre 2023 sono 23.798 i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia. L’Egitto è la prima nazionalità (20%), l’Ucraina ancora la seconda (17%). Il 26% è accolto in Sicilia, il 12% in Lombardia. L’88% sono maschi. Quelli entrati nel mese di ottobre sono 1.472: per il 53% si tratta di sbarchi, per il 42% di ritrovamenti sul territorio, per il 4% di identificazioni ai valichi terrestri. Il 24 novembre 2023 la Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del Lavoro in collaborazione di Anpal servizi S.p.A, ha pubblicato i Rapporti sulla presenza di migranti nelle Città metropolitane. Milano si conferma, tra le Città metropolitane, quella che accoglie il maggior numero di minori stranieri non accompagnati: il 5,8% del totale nazionale. Al 30 giugno 2023 sono 1.211 i Msna accolti. Si tratta in prevalenza di maschi ma con una percentuale (il 73%) inferiore a quella che il fenomeno ha a livello nazionale e in tempi “ordinari”: il dato infatti è influenzato dal fatto che a Milano c’è un’importante presenza di minori provenienti dall’Ucraina, cosa che le femmine presenti in città a raggiungere un’incidenza doppia a quella rilevata complessivamente in Italia (27% a fronte del 13,4%). Rilevante la quota di Msna accolti con meno di 15 anni: il 41%, a fronte del 18,5% registrato sul piano nazionale. Anche qui impatta la fascia dei minori ucraini, molto più piccoli della media. Poco più della metà dei minori stranieri non accompagnati a Milano sono stati accolti da privati, un dato che contraddistingue il territorio e che fa registrare un’incidenza di tale forma di accoglienza decisamente superiore a quella rilevata sul piano nazionale: 51% a fronte del 20,3%. Si tratta di un valore legato alla forte accoglienza dei profughi ucraini. La presenza dei Msna nelle Città Metropolitane, secondo lo stesso report, vede sempre in testa Milano, nonostante un calo del 13% rispetto all’anno precedente. Roma, con 804 minori accolti al 30 giugno 2023, risulta seconda tra le Città metropolitane, per numero di minori stranieri non accompagnati. Reggio Calabria accoglie 692 Msna, Catania ne ha 675 in accoglienza, Genova risulta quinta con 570. La Città metropolitana di Messina ne ha 547 (+34,7% rispetto all’anno prima, in analogia con la media nazionale). La Città metropolitana di Bologna ne accoglie 490, il 10% in meno rispetto all’anno precedente. A Napoli sono 462 i minori stranieri non accompagnati; la città metropolitana di Torino ne accoglie 443; nella Città metropolitana di Firenze sono 343; a Palermo a fine giugno i Msna accolti erano poco più di 300. Bari ne accoglie 171 minori (un numero più che raddoppiato rispetto all’annualità precedente, a Cagliari sono 117, a Venezia sono 162. Le misure del Governo - Fu proprio quest’estate, sull’onda della (presunta) emergenza, che il Governo Meloni decise le nuove misure per i Msna, con misure più rigide per l’accertamento dell’età e la previsione della possibilità che un minore di 16 anni possa permanere in un centro per adulti. “Due misure sbagliate. Noi l’età la verifichiamo da 5 anni e su 1.300 solo 17 sono risultati falsi minorenni. Abbiamo piuttosto il problema opposto, cioè di ragazzini che sono minorenni ma che dichiarano di essere maggiorenni per avere meno tutele”, chiosa Bertolé.