Rems, la lunga lista d’attesa del disagio mentale di Valentina Furlanetto Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2023 Quando poche settimane fa è stata uccisa a Milano Marta Di Nardo è emerso che la persona accusata dell’omicidio, Domenico Livrieri, era “affetto da schizofrenia” e avrebbe dovuto stare in una Rems. Invece è stato mandato in carcere. Il problema è che, come spiega il garante dei detenuti Mauro Palma, nelle 32 Rems in Italia si trovano ospitate 654 persone, tuttavia ben 796 sono in lista di attesa. Di questi una piccola parte si trova impropriamente in carcere, gli altri affidati ai servizi territoriali. Molti ad esempio si trovano ricoverati nei reparti di psichiatria, a fianco a malati psichiatrici che non hanno compiuto reati, con evidenti problemi per i pazienti e per i sanitari come spiega Emi Bondi, presidente della società italiana di psichiatria. Secondo Giuseppe Nicolò, direttore della Asl5 di Roma, da cui dipendono alcune Rems quella di Di Nardo è stata una tragedia annunciata perché la riforma prevista dalla legge 81 è una riforma realizzata solo in parte. Pietro Pellegrini, psichiatra sub commissario sanitario dell’Azienda Usl di Parma e coordinatore del comitato informale di coordinamento Rems, allarga il tema e dice che è sbagliato ritenere non imputabili i malati mentali. Il problema della riforma della giustizia di Costanza Scozzafava La Discussione, 4 dicembre 2023 Della riforma della giustizia, in generale, si parla da sempre e, per quanto riguarda il settore civile, le riforme si sono succedute nel tempo con un ritmo forse eccessivo. Basta pensare alle riforme che negli ultimi anni hanno avuto ad oggetto il codice di rito, per rendersi conto che in questo caso la classe politica ha potuto dare libero sfogo all’ansia riformatrice, che, però, non sempre ha consentito l’acquisizione di buoni risultati. Le norme si sono sovrapposte nel tempo e, sovente, gli operatori giuridici trovano difficoltà ad individuare la norma applicabile. Considerazioni diverse merita il problema della riforma del settore penalistico; l’esigenza di riforma di questo settore si è posto con urgenza da quando è stato riformato il codice di procedura penale ed è stato abbandonato il vecchio sistema inquisitorio ed al suo posto è stato adottato un sistema accusatorio. L’adozione di quest’ultimo sistema ha chiaramente comportato un’amplificazione del ruolo del pubblico ministero. Prima a quest’ultimo sostanzialmente spettava solo la conduzione dell’istruttoria sommaria, che, peraltro, il più delle volte veniva trasformata in istruttoria formale, la quale veniva condotta dal giudice istruttore, che, per l’appunto, era un giudice. Adesso le cose stanno diversamente, poiché la competenza ad effettuare l’istruttoria è del solo pubblico ministero sia pure con il controllo di determinati atti da parte del giudice delle indagini preliminari. Il problema della riforma della giustizia penale, ovviamente, si è posto anche per il Governo in carica, il cui Ministro di Grazia e Giustizia non a caso è un ex magistrato di sicuro prestigio. Ma volontà di riformare questo settore sembra essere andata scemando, poiché pare la il premier ritenga più urgente l’adozione della riforma costituzionale. Ma il Ministro Nordio sembra avere idee molto chiare al riguardo: in un’intervista apparsa sul Corriere della Sera del 29 settembre 2023 egli ha giustamente dichiarato, ad esempio, di non essere contrario ai test psicoattitudinali. E, infatti, tenuto conto delle delicate funzioni che sono assegnate ai magistrati è essenziale acclarare la loro condizione psicoattitudinale. Vi è, poi, il tema delle intercettazioni, che probabilmente deve essere rivalutato, non dimenticando che è assolutamente da evitare che esse siano pubblicate dalla stampa, in particolar modo quando esse contengono vicende personali dell’indagato. Vi è, poi, il problema della separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri. Orbene, non vi è dubbio che tale separazione debba essere realizzata, se si considera che, con l’adozione del sistema accusatorio, le differenze di funzioni tra queste due figure si sono del tutto accentuate. L’ipotesi più accreditata, giustamente, vuole che questa riforma si debba realizzare, prevedendo un organo di autogoverno anche per i pubblici ministeri (scongiurando così che essi vengano controllati dall’Esecutivo). È evidente che, per realizzare quest’ultimo progetto, sarà necessaria l’adozione di una legge costituzionale, ma tale circostanza non può costituire un ostacolo all’adozione di una riforma, che oramai appare indifferibile. Premierato e attacchi alla magistratura, così si rischia di tornare indietro di 100 anni di Donatella Stasio La Stampa, 4 dicembre 2023 Le pressioni di Meloni sulle toghe vanno oltre anche quanto successo negli anni di Berlusconi. I giudici devono essere indipendenti e difendere i diritti dei cittadini, non la maggioranza al potere. Il 19 giugno 1925 il ministro della Giustizia Alfredo Rocco si alzò dal suo scranno in Parlamento e disse: “La magistratura non deve fare politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista - assicurò - ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista”. La magistratura doveva essere “apolitica”, parola molto in voga anche oggi, e soprattutto non doveva remare contro il regime ma interpretarne lo spirito. E così fu, salvo rare eccezioni, anche a furia di intimidazioni. Insomma, guai a “contrastare le misure del governo”: stavolta le virgolette si riferiscono alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che da Dubai proprio di questo torna ad accusare “una piccola parte della magistratura”, le solite “toghe rosse” (Magistratura democratica), cioè di andare “fuori dalle righe” perché politicizzate. La stessa accusa lanciata dopo la decisione della giudice Apostolico sui migranti e dopo l’imputazione coatta ordinata dalla Gip di Roma nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Delmastro (poi rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio), e via via rilanciata da altri esponenti del governo, come i ministri Salvini e da ultimo Crosetto, che ha parlato di “opposizione giudiziaria”. È come fare un salto indietro nel tempo, non solo al ventennio berlusconiano ma addirittura a quello fascista. Hai voglia a fare dell’ironia, a scandalizzarsi per il riferimento! Sono i fatti di questo primo anno di governo a riportare indietro le lancette. Passi falsi? Non convince la linea del “gettare il sasso e poi nascondere la mano”, per cui, da Meloni a Crosetto, dopo aver aggredito si cerca di minimizzare e di passare per aggrediti. C’è, purtroppo, un’inquietante assonanza di linguaggio, di concezione del potere e di visione del ruolo degli organi di garanzia che ci riporta ad anni bui. E poi ci sono le politiche messe in campo. Troppi sbandamenti populisti, sovranisti, per certi aspetti anche autoritari. Basti pensare all’insofferenza verso i limiti al proprio potere, di cui il “premierato all’italiana” è uno specchio impietoso poiché, al di là del dato testuale, punta ad accentrare e rafforzare il potere del governo e a rimpicciolire quello dei contrappesi, a cominciare dagli organi di garanzia. Tra i quali c’è la magistratura. La sua indipendenza è la prima garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini. Non è irresponsabilità. È funzione vitale di uno stato di diritto. Ecco perché la magistratura può, e deve, avere una funzione “contro-maggioritaria” qualora le leggi mettano a rischio i diritti fondamentali. La sua bussola è la Costituzione e l’ordinamento internazionale ed europeo. Non la politica dei governi di turno. Lo ha spiegato magistralmente ieri, su questo giornale, Vladimiro Zagrebelsky. Ed è di lezioni così che l’opinione pubblica ha bisogno per emanciparsi dagli inganni di una narrazione frutto di analfabetismo costituzionale, di superficialità oppure di una precisa cultura politica. Una cultura antisistema. Ma torniamo al ventennio fascista, a quel nostro passato che, purtroppo, tanto ci racconta del presente. Il giudice doveva essere “bocca della legge” - ruolo rivendicato di recente anche dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, ex magistrato ma della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente - e interpretare solo lo spirito politico dell’epoca. Una tentazione di molti governi. Nel 1955, di fronte alla mancata attuazione della Corte costituzionale e del Csm, Piero Calamandrei accusò la maggioranza di “disfattismo costituzionale”. “Anche se i giudici non se ne accorgono, la giurisprudenza è fortemente influenzata dal clima politico generale - scrisse -: quando nell’aria si respira il disfattismo costituzionale, è difficile che i giudici riescano ad assumere su di sé il compito faticoso, e spesso pericoloso, di difendere la Costituzione contro gli arbitrii del Governo. A consigliare alla magistratura questa prudenza, in momenti in cui liberamente circolano liste di proscrizione contro i magistrati sospetti di ‘criptocomunismo’, può aver contribuito anche, in questi anni, la mancata attuazione delle norme costituzionali sul Csm, che avrebbe dovuto dare ad essa quella piena indipendenza dal potere esecutivo che finora essa organicamente non ha”. Anche oggi si respira aria di disfattismo costituzionale (tra l’altro, con la separazione delle carriere si propone di aumentare la componente politica nel Csm). Chi rivendica, alla luce del sole, di avere come faro la Costituzione e le Carte sovranazionali è considerato eversivo, un nemico del “governo democraticamente eletto”. E queste accuse che non risparmiano neanche i media non allineati. Una nuova forma di maccartismo, lo ripeto, che prende di mira proprio i contrappesi, vitali in una democrazia costituzionale, pluralista, antifascista. Caduto il fascismo, ma prima della Liberazione, il ministro della Giustizia del secondo governo Badoglio, Vincenzo Arangio Ruiz, volle dare subito un segnale di cambiamento. Il 6 giugno 1944 cancellò il divieto, imposto dal regime ai magistrati, di esprimere liberamente il proprio pensiero, di svolgere attività politica e persino di iscriversi ai partiti politici. Da vero liberale qual era, spiegò che “dentro o fuori i partiti, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci quanto più nascoste”. Dopo un ventennio di conformismo giudiziario al fascismo, restituire ai magistrati il diritto di esprimere idee e opinioni, e di manifestarle liberamente, era indispensabile per assicurare la loro libertà e autonomia, necessarie a lavorare in condizioni di effettiva indipendenza e imparzialità. Non può esistere un magistrato “apolitico”, senza idee, credi religiosi o politici, interessi sociali e culturali, sensibilità diverse. La sua imparzialità va ricercata altrove, fece capire Arangio Ruiz, non nelle opinioni politiche, che non si possono cancellare nei cittadini magistrati, ma nella libertà di coscienza del giudice che decide. Libertà da qualunque condizionamento, interno ed esterno. Sine spe ac sine metu, si usa dire. E una classe dirigente davvero responsabile, che abbia a cuore la democrazia costituzionale, dovrebbe anzitutto farsi carico di non intimidire i giudici, come invece avviene ciclicamente in Italia. Tira aria di guinzagli e di bavagli. Eppure, che i giudici abbiano il diritto di partecipare al dibattito pubblico lo hanno riconosciuto sia la Corte costituzionale sia le alte Corti europee con riferimento ai giudici turchi e polacchi perseguitati dai rispettivi governi. L’opinione pubblica dovrebbe esserne informata di più e meglio. Dovremmo prendere esempio dalle piazze di Israele, che, prima della guerra, si sono riempite per mesi di cittadini ai quali giuristi e giudici hanno spiegato perché bisognava contrastare la riforma della giustizia del governo Netanyahu e il suo disegno di addomesticare la Corte suprema, famosa per la sua coraggiosa giurisprudenza a tutela dei diritti, formatasi anche grazie all’interpretazione evolutiva delle leggi fondamentali israeliane, aperta al diritto internazionale. Non certo “bocca della legge”. Israele e tanti paesi del mondo ci raccontano del rischio incombente di regressioni democratiche. La prima avvisaglia è l’attacco alle Corti costituzionali e ai giudici. Quel che è accaduto in Turchia, Ungheria, Polonia è agghiacciante e lo ha raccontato, proprio al Congresso di Md il 10 novembre scorso, Mariarosaria Guglielmi, presidente di Medel, Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés. In prima fila, seduto ad ascoltarla, c’era il presidente del Senato Ignazio La Russa, invitato e ascoltato a sua volta. Tutto alla luce del sole. Compresi gli applausi di La Russa. E si può solo sperare che fossero sinceri. Nuova prescrizione, Nordio non risponde alla lettera dei giudici di Liana Milella La Repubblica, 4 dicembre 2023 Il ministro sceglie il silenzio, sgarbo ai presidenti delle Corti d’Appello. L’input di Azione e Forza Italia per non toccare la riforma sui processi. Carlo Nordio non risponde neppure, uno sgarbo istituzionale a tutti gli effetti. Forse perché sa già che sulla nuova prescrizione voluta da Azione e Forza Italia deve obbedire ai partiti e non ha margine d’autonoma iniziativa. Su una norma transitoria per un avvio soft dell’ennesima legge sul tempo concesso alle toghe per chiudere un processo la sua maggioranza non è disposta a fare alcuna apertura di credito ai presidenti delle 26 Corti d’Appello italiane. Che - come ha raccontato Repubblica sabato - hanno scritto al Guardasigilli che, pur sempre loquace, questa volta tace, forse distratto dal solito weekend nella casa di Treviso. Ma prim’ancora di raccontare che, con assoluta nettezza, dicono no alla richiesta dei giudici sia Forza Italia che Azione, riveliamo che in realtà proprio in via Arenula l’ufficio legislativo, ovviamente composito da magistrati, quando Nordio ha messo il suo cappello politico sulla futura legge in quota ad Azione - tant’è che Enrico Costa ne è il relatore - aveva ipotizzato l’esistenza di una norma transitoria, cioè un ingresso non dirompente dell’ennesima riforma, la quarta in sei anni. L’ufficio diretto da Antonello Mura aveva pure previsto varie ipotesi, ma si sarebbe fermato perché, come dice una fonte a Repubblica, “non c’era un interesse politico ad affrontare la questione”. Cioè i tecnici del ministero erano consapevoli che la nuova prescrizione avrebbe costretto le Corti d’Appello a rifare tutti i calcoli, processo per processo, tirandoli fuori dagli scaffali manualmente. Ovvero proprio quello che scrivono adesso i 26 presidenti nel loro disperato messaggio. Tant’è. Quando c’è stato l’incontro in via Arenula tra Nordio e i partiti per chiudere il testo della prescrizione - era il 25 ottobre - di norma transitoria, quella sollecitata dai giudici, non ha parlato nessuno, anche se l’ufficio legislativo ne aveva già ipotizzato la necessità. Il niet reciso - che oggi si ripropone - di Azione e Forza Italia aveva già escluso l’ipotesi. All’appello delle alte toghe Costa ha reagito con un tweet in cui definisce la lettera “l’ennesimo tentativo di condizionare il legislatore con una norma che anestetizzi la legge”. Adesso s’infuria pure: “Innanzitutto il nostro è uno stimolo a fare il processo, senza la tagliola dei due anni previsti dall’improcedibilità di Cartabia. Quindi le Corti d’Appello dovrebbero respirare di più. Devono solo organizzarsi. Non ha nessun senso chiedere la norma transitoria visto che da tre anni siamo senza la prescrizione sostanziale a scapito del diritto di difesa, della presunzione d’innocenza, della ragionevole durata del processo, cioè i principi garantiti dalla Costituzione”. Reciso niet dall’avvocato forzista Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia della Camera e autore di una proposta di legge sulla prescrizione per tornare alla sola ex-Cirielli di Berlusconi. Che dice: “La norma transitoria non è stata introdotta né per la legge Bonafede né per la Cartabia, mi chiedo perché adesso si avverta questa necessità. La preoccupazione dei 26 presidenti è eccessiva e riguarda una questione tecnica su cui loro stessi devono intervenire. Il loro timore non ha alcun fondamento”. E ancora: “Le riforme non devono soddisfare né il magistrato né l’avvocato, ma tutelare i diritti del cittadino che non può restare in eterno in balia della pretesa punitiva dello Stato”. Se il problema è la lentezza dei processi “tocca al ministro Nordio risolverla”. Tanti saluti ai presidenti delle Corti d’Appello italiane. Un pm a favore della separazione delle carriere: Gaetano Bono racconta la riforma più odiata di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 4 dicembre 2023 Il volume offre interessanti spunti di riflessione su un argomento oggetto di discussione da oltre trenta anni, contribuendo a sfatare alcuni miti secondo cui, ad esempio, con la separazione delle carriere il pm sarebbe controllato dal politico di turno, oppure si trasformerebbe in una specie di super poliziotto. I magistrati, come è noto, sono da sempre contrari alla separazione delle carriere. L’unicità della giurisdizione è uno dei cardini del nostro sistema processuale e separare le carriere fra pm e giudici, ripetono spesso, significherebbe mettere in crisi “lo stato di diritto”, aprendo a scenari quanto mai rischiosi per la democrazia, soprattutto per la tutela dei diritti e delle garanzie del cittadino. Fa indubbiamente un certo effetto allora leggere un libro scritto da un pubblico ministero che si dichiara “favorevole” alla separazione delle carriere. “Meglio separare” è il titolo dell’ultima fatica letteraria di Gaetano Bono, sostituto procuratore generale a Caltanissetta. Edito da Le Lettere ed in vendita anche su Amazon, il volume offre interessanti spunti di riflessione su un argomento oggetto di discussione da oltre trenta anni, contribuendo a sfatare alcuni miti secondo cui, ad esempio, con la separazione delle carriere il pm sarebbe controllato dal politico di turno, oppure si trasformerebbe in una specie di super poliziotto. Scritto con un linguaggio agevole e di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori, il punto di partenza di “Meglio separare” è ovviamente l’articolo 104 della Costituzione: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Qualsiasi riforma, scrive l’autore, dovrà tenere ben saldo questo principio. Il pm “separato”, in altre parole, dovrebbe avere le stesse garanzie di autonomia ed indipendenza del giudice, realizzabile prevedendo due differenti Csm con le medesime prerogative. Solo in questo modo si eliminerebbe in radice l’eventuale sospetto che in caso di indagini delicate e che riguardano politici, le stesse possano essere in qualche modo oggetto di condizionamenti esterni. Il libro passa poi in disamina l’assetto delle procure, oggi caratterizzato da una “gerarchizzazione” con molte ombre e poche luci. La separazione delle carriere, ricorda Bono che ha discusso dell’argomento durante l’ultimo congresso di Magistratura indipendente, non va comunque considerata come “una panacea, ma rappresenta un’opportunità di modernizzare il sistema giustizia solo se venisse accompagnata da ulteriori interventi, tra cui la riduzione e rimodulazione delle procure, l’incremento della specializzazione dei magistrati requirenti e giudicanti, la diminuzione dei procedimenti civili e penali, l’ammodernamento delle infrastrutture informatiche, la riduzione dei tempi dei processi”. La riforma dovrebbe prevedere inoltre una significativa riduzione dei reati, potenziando le sanzioni amministrative senza ricorre alla giustizia penale. A favore della separazione delle carriere, Bono cita nel libro un illustre precedente, quello di Giovanni Falcone, magistrato che certamente non può essere accusato di aver voluto limitare il ruolo del pm. Critiche vengono infine mosse al progetto di riforma in discussione in Parlamento e che prevede la parità dei componenti laici e togati all’interno del Csm. Su un punto, però, Bono si dimostra un po’ di parte quando afferma che non esiste “sbilanciamento” fra pm e giudici. Purtroppo, e siamo sicuri l’autore ci perdonerà, non siamo così conviti. In questi anni abbiamo raccontato tanti casi di provvedimenti dei giudici che altro non erano che “copia e incolla” di quelli dei pm. A riprova che prima di qualsiasi riforma è necessario un cambio di passo culturale. Valutazione dei magistrati, si rischia l’effetto boomerang di Elisa Pazé* Avvenire, 4 dicembre 2023 Capita spesso, nello scrivere le leggi, che si diano risposte semplificate a questioni complesse, con il risultato non solo di non risolvere i problemi ma di peggiorare il quadro preesistente. L’istituzione di “pagelle” per i magistrati, licenziata pochi giorni fa sotto forma di decreto legislativo dal Consiglio dei ministri con l’intento proclamato di migliorare la qualità del servizio-giustizia, rischia di rientrare in tale filone e di costituire l’ennesima operazione di facciata, tanto suggestiva (monitorare il rendimento degli appartenenti a una categoria che non timbra il cartellino) quanto inadeguata. Gli obiettivi perseguiti attraverso la tenuta presso il Csm di un apposito “fascicolo del rendi-mento” per ciascun giudice e pubblico ministero sono tre: verificarne la laboriosità registrando annualmente le statistiche dell’attività svolta; accertare il rispetto dei termini previsti per il compimento degli atti; valutare l’esito finale delle richieste e dei provvedimenti. Sussiste però il concreto pericolo che la fotografia del magistrato restituita dal fascicolo sia parziale e distorta. Anzitutto, il giudizio sulla produttività e sul rispetto dei termini presuppone l’esistenza di una macchina giudiziaria efficiente, dotata di personale amministrativo adeguato che provveda ad effettuare tempestivamente le comunicazioni e le notifiche. Chi frequenta le aule di giustizia sa che così non è. Negli anni si è accumulata una cronica carenza di cancellieri e assistenti che, non solo è una concausa della celebrazione delle udienze in tempi biblici, ma fa sì che molti fascicoli, dopo essere stati istruiti, giacciano negli armadi per tempi irragionevoli. D’altro canto, il freddo dato statistico non rende comunque giustizia, stante l’impossibilità di fare emergere le peculiarità dei procedimenti e dei casi concreti. In sede civile, una causa per colpa medica non vale, in termini di impegno, quanto quella scaturita da una lite condominiale; analogamente un giudice penale intento a celebrare un dibattimento per un grave disastro, con la necessità di sentire decine di testimoni e di consulenti, farà fatica a smaltire i procedimenti per reati minori. Ancora, le statistiche non registreranno se non in minima parte le inerzie dei pubblici ministeri che avrebbero potuto, indagando seriamente, scoprire i responsabili di un reato e non lo hanno fatto, perché molto di rado i giudici respingono le richieste di archiviazione per essere ignoto l’autore di un fatto; così come non saranno verificabili le omissioni di chi avrebbe dovuto chiedere misure cautelari e, con la sua negligenza, non ha tutelato le vittime, protraendo ruberie, maltrattamenti o altre condotte efferate. Poi c’è il tema della qualità dei provvedimenti e del rilievo delle “gravi anomalie” giudiziarie. Ad essere censiti nel fascicolo del magistrato saranno ordinanze, sentenze, richieste di archiviazione, di misure cautelari e gli altri atti significativi che contrassegnano le varie fasi dei procedimenti, verificando le discrepanze fra le richieste dei pubblici ministeri e le pronunce dei giudici, fra i provvedimenti dei giudici di primo grado e quelli di appello e fra questi ultimi e quelli emessi dalla Corte di cassazione. Quanto alla attività delle Procure, capita con una certa frequenza che il pubblico ministero faccia istanza di archiviazione e che il giudice per le indagini preliminari la respinga e gli imponga di mandare a giudizio l’indagato. Se all’esito del processo l’imputato viene assolto, della difformità fra il chiesto e il pronunciato dovrà rispondere il giudice che ha disposto l’imputazione coatta o essa entrerà a pieno titolo nelle statistiche delle difformità addebitabili al pubblico ministero? Magari registrando separatamente la doppia reiezione, per essere stata chiesta una archiviazione non accolta e per il successivo esercizio senza successo dell’azione penale? E, per finire, la considerazione delle anomalie fra richieste e pronunce potrebbe spingere i pubblici ministeri ad una eccessiva prudenza: per evitare che non venga accolta un’istanza di misura cautelare, sarà molto più semplice non chiederla o, nel dubbio, chiederne una meno adeguata alla gravità dei fatti ma che si presume non possa essere respinta. E così l’istituzione di fascicoli sul rendimento dei magistrati, oltre a creare distorsioni, rischia di portare ad effetti opposti rispetto a quelli auspicati. *Sostituto presso la Procura della Repubblica di Torino, membro della Commissione esaminatrice del concorso per la magistratura Ergastolano da estradare ma la Germania non si fida delle carceri italiane: “C’è il bagno in cella?” di Marco Cribari lacnews24.it, 4 dicembre 2023 Sarà estradato dalla Germania solo previa dimostrazione che ad attenderlo, in Italia, non vi siano condizioni carcerarie “inumane e degradanti”. Le diciassette domande rivolte dai giudici tedeschi alla Procura generale di Catanzaro per sincerarsi che una volta rimpatriato il detenuto non sia sottoposto a condizioni carcerarie “inumane e degradanti”. È la motivazione con cui i giudici tedeschi hanno bloccato il rimpatrio dell’ex latitante originario di Paola (Cs), già riconosciuto colpevole di un omicidio di ‘ndrangheta, quello di Pietro Serpa, avvenuto nel 2003. Seppur condannato in via definitiva all’ergastolo il 20 novembre del 2020, Crivello era riuscito a sottrarsi all’arresto in circostanze rocambolesche, rendendosi invisibile per i successivi tre anni. Gli investigatori lo acciufferanno poi nello stato dello Schleswig-Holstein, al confine con la Danimarca, dove si nascondeva sotto mentite spoglie. Lavorava in una struttura alberghiera della città di Keitum e stava anche per sposarsi, ma il 5 settembre del 2023 il blitz dell’Interpol manda all’aria i suoi piani. A quel punto, la sua estradizione sembrava solo una formalità. Alla richiesta delle autorità italiane, infatti, si associa subito il parere favorevole della Procura generale tedesca, quasi un preludio al via libera del Tribunale che, invece, non arriverà. A indurre i giudici a “escludere la prospettiva di una rapida decisione” sono stati i difensori di Crivello - l’avvocato cosentino Alessandra Adamo e il suo collega tedesco Christopher Scharf - con un ricorso incentrato proprio sul rischio che il nostro sistema penitenziario non sia pronto ad accogliere anche il loro cliente. Il problema del sovraffollamento, le emergenze sanitarie, lo scarso personale in servizio negli istituti di pena, sono alcune delle criticità evidenziate dai due legali. A ciò si aggiunge poi il focus sul trattamento sanzionatorio tutto italiano - l’ergastolo ostativo, le aggravanti mafiose e il il periodo di isolamento diurno - già censurato dalla Corte europea. Il risultato è che i giudici dello Schweing-Holstein hanno dato ampio credito a queste tesi, tanto da predisporre un vero e proprio questionario per sottoporlo alla Procura generale di Catanzaro. Diciassette domande in tutto, molte delle quali destinate a suscitare più di qualche imbarazzo. Tra le altre, si chiede di specificare se la cella di Crivello sarà singola o condivisa, quanto sarà grande questa cella e se i servizi igienici “siano inclusi oltre che separati dalla vista altrui”. E ancora: temperatura e ventilazione a che livello saranno? Il detenuto potrà lavorare in carcere? Avrà accesso a tv e giornali? Gli esercizi all’aria aperta saranno consentiti? Quanti pasti riceverà giornalmente? E così via. Quesiti che tradiscono ancora una volta la percezione che si ha all’estero del nostro sistema Giustizia, con particolare riferimento all’ordinamento penitenziario. Percezione, va da sé, tutt’altro che lusinghiera. Che si tratti di diffidenze giustificate o no, sarà la Procura generale di Catanzaro a dirlo. Nell’attesa, vige una certezza: che le domande non sono mai indiscrete. Le risposte, a volte sì. Dopo l’arresto, Crivello ha rilasciato dichiarazioni spontanee, spiegando di essersi dato alla macchia per sfuggire a quella che riteneva “una sentenza ingiusta”. L’uomo, infatti, si professa innocente. Sostiene di non aver commesso quell’omicidio. Dalla sua, tra le altre cose, ci sarebbero uno stub, eseguito nell’immediatezza e dall’esito negativo, le dichiarazioni controverse di alcuni pentiti e il mancato esame in aula di un testimone. Per far riaprire il suo processo, l’avvocato Adamo si è rivolta alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Il ricorso è ancora pendente. Quanto controverso sia il tema estradizione e dintorni alle nostre latitudini, lo dimostra un’altra vicenda che riguarda la Francia, passando ancora dalla Calabria: quella di Edgardo Greco, già affiliato del clan Perna-Pranno di Cosenza arrestato a Saint-Etienne lo scorso febbraio dopo una latitanza quasi ventennale. Anche lui stava fuggendo da una condanna all’ergastolo incassata per un delitto di mafia commesso negli anni Novanta e la sua estradizione, inizialmente stoppata da un errore procedurale, è ancora in sospeso a causa dell’opposizione del difensore francese. Pure in questo caso, a ispirare la sua contrarietà è la profonda sfiducia nei confronti dell’ordinamento giudiziario italiano. A dirimere la questione in modo definitivo, il prossimo 5 dicembre, sarà la Corte di Cassazione transalpina. Campania. Il Garante dei detenuti: “Stop a discorsi ideologici sulla salute mentale” Il Mattino, 4 dicembre 2023 In Italia ci sono 32 Rems che ospitano 594 persone. La visita del Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello alla Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Calvi Risorta in provincia di Caserta. “Sulla salute mentale, basta discorsi ideologici”, dice Ciambriello. “In mattinata - continua - sono stato a fare visita ai venti detenuti nella residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza di Calvi Risorta. In Italia ci sono 32 Rems che ospitano 594 persone, di cui quaranta presenti nelle Rems di Calvi Risorta e san Nicola Baronia. Mentre, in attesa di entrare in Rems ci sono 675 persone di cui 93 in Campania. Questi dati oltre a indignarci invitano le istituzioni ai vari livelli a portare a compimento la riforma che ha abolito gli Opg. Bisogna completare questo percorso con uno sforzo di concretezza e di coraggio e mettere al centro la salute mentale nella sua complessità socio-sanitaria”. “C’è la necessità, visto il tempo medio di attesa per l’accesso alle Rems - continua Ciambriello - le richieste infinite di accesso e la scelta del Consiglio Regionale di aprire sia una nuova Rems a Napoli di aprire nuove progettualità sull’argomento. Occorre verificare anche con le Sir e le Comunità di accoglienza altre risposte e nuove prospettive per la soluzione del problema è anche sulla cura e il reinserimento sociale delle persone con disturbi psichici presenti nelle carceri. Farlo ora già è tardi”. Milano. L’appello della Sottocommissione Carceri: “Il Comune si schieri per la chiusura del Cpr” di Enrico Spaccini fanpage.it, 4 dicembre 2023 Il presidente della Sottocommissione Carceri del Comune di Milano Daniele Nahum ha chiesto al Consiglio di prendere posizione per la chiusura del Cpr di via Corelli. In merito aveva già stato presentato un odg nel 2022 insieme ad Alessandro Giungi che, però, non è mai stato discusso in assemblea. “Sono convinto che per il Comune di Milano sia giunto il momento di una formale presa di posizione che si esprima per la chiusura del Cpr di via Corelli”. A sostenerlo è Daniele Nahum, presidente della Sottocommissione Carceri di Palazzo Marino, che già nel 2022, insieme al suo vice Alessandro Giungi, aveva presentato un ordine del giorno in merito mai discusso dall’assemblea. In questi giorni, però, le sorti del Centro per il rimpatrio milanese sono tornate a essere un argomento centrale nel dibattito pubblico e politico, dopo che la Procura ha avviato un’indagine per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta nei confronti degli amministratori di La Martinina srl, la società che gestisce il Cpr di via Corelli. “In questa legislatura abbiamo fatti diversi sopralluoghi all’interno denunciandone le condizioni vergognose”, continua Nahum, “e abbiamo interloquito anche con le realtà che si occupano di monitorare la situazione”. Tra queste, l’associazione Naga, convocata in commissione lo scorso 22 novembre per la presentazione del loro rapporto Al di là di quella porta, e prima ancora Altreconomia per il loro lavoro sull’abuso degli psicofarmaci all’interno della struttura. L’odg della Sottocommissione Carceri sarà riproposto domani, lunedì 4 dicembre, in Consiglio comunale. Lo assicurano Alessandro Capelli e Filippo Barberis, rispettivamente segretario milanese e capogruppo a Palazzo Marino del Partito democratico: “A Milano è inaccettabile che ci sia un luogo dove i diritti umani vengono calpestati e dove le condizioni sono ben oltre i limiti accettabili della vivibilità”, hanno scritto in una nota congiunta. Infatti, non si tratta solo di presunte irregolarità commesse per l’ottenimento e la gestione dell’appalto da parte degli amministratori di La Martinina srl. Al centro delle indagini della Procura milanese ci sono anche le condizioni sanitarie pessime nelle quali sono costretti a vivere i migranti che si trovano al Centro di via Corelli in attesa del rimpatrio. Secondo gli inquirenti, alcune persone non sarebbero state sottoposte a cure mediche e a prestazioni sanitarie specialistiche a causa della mancanza di fondi. In altri, casi, invece, ospiti affetti da “epilessia, epatite, tumore al cervello, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti” sarebbero stati considerati idonei alla vita in comunità ristretta a causa di visite valutate come carenti. Milano. Inchiesta sul Cpr. “Richieste d’asilo mai trasmesse e persone chiamate con i numeri” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 dicembre 2023 Il contratto d’appalto? Coperto da “segreto industriale”. Le accuse della Procura alla società che, nel 2022, ha vinto l’appalto per la gestione del Centro: frode nelle pubbliche forniture e turbata libertà degli incanti. “Sono il numero…”, segue una cifra, “e vorrei parlare con qualcuno di voi”: quando uno dei migranti nel Cpr-Centro permanenza rimpatri milanese di via Corelli ha esordito così, i militari della Guardia di Finanza, che venerdì scorso insieme a tre pm stavano svolgendo l’ispezione a sorpresa nel Cpr, si sono guardati in faccia. Poi, però, vedendo che su una lavagna alla parete le prescrizioni di giornata erano abbinate agli ospiti indicati con dei numeri, hanno capito: chi entra nel Cpr è da lì in poi chiamato con il numero del tesserino abbinato all’ingresso. E anche senza avventurarsi in improponibili paragoni con quello che di analogo è accaduto nella Storia in altri campi di trattenimento, questa spersonalizzazione finisce per sposarsi subito a una compressione dei diritti. Basti considerare le conseguenze dell’assenza ad esempio di uno dei servizi (quello di informazione legale) che, pur assicurato dalla società privata salernitana La Martinina srl per vincere nell’ottobre-novembre 2022 l’appalto della Prefettura da 4,4 milioni per un anno di gestione del Cpr, in realtà non erano erogati, difformità alla base ora dell’inchiesta della Procura per le ipotesi di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta. Che non fosse un lusso, o uno sfizio, lo fa capire l’episodio messo a verbale da un teste, I.M., che ha lavorato per poche settimane nel Cpr: “Una volta negli uffici di Alessandro Forlenza (il gestore del Cpr, indagato insieme alla società e alla madre amministratrice Consiglia Caruso), ho visto tutta la documentazione di A.E.E. (uno straniero trattenuto nel Cpr, ndr) che attestava le torture che aveva subito nel suo Paese. Senza dire nulla a nessuno, ho contattato l’avvocato di A.E.E. per sapere se fosse stata inviata tutta la documentazione inerente alla sua richiesta di asilo, e solo allora sono venuto a conoscenza che Forlenza non l’aveva trasmessa, e che di conseguenza la richiesta di asilo politico era stata rigettata dalla Commissione territoriale della Prefettura di Milano”. Quanto poco il tema dell’informazione legale fosse tenuto in conto lo fa capire anche la deposizione dell’attivista del Naga che nel marzo 2023 aveva avuto l’autorizzazione a una visita con preavviso nel Cpr: “Abbiamo chiesto se vi fossero informative legali e mi pare che nessuno comprendesse, i pochi che capivano la domanda ridevano. Faccio inoltre presente che al direttore del centro è stato chiesto chi facesse l’informativa legale, e ha risposto che provvedeva lui. Richiesto in cosa consistesse, si è limitato a rispondere che faceva quanto previsto dalla legge. Gli abbiamo chiesto dove fosse questo opuscolo informativo” da distribuire per legge nel Cpr, “e anche in questo caso non ci è stata data nessuna risposta”. Anche in seno alla Prefettura si dovrà capire come non sia stata percepita la fittizietà (persino con firme di persone morte da due anni o di società chiuse da un anno) delle convenzioni che la Martinina srl per aggiudicarsi l’appalto fece figurare come apparentemente sottoscritte con tutta una serie di enti in teoria fornitori di altrettanti servizi per il Cpr. Il teste Lorenzo Figoni è stato il coautore mesi fa con Luca Rondi di una inchiesta di Altraeconomia sull’uso di psicofarmaci condotta attraverso richieste di accesso civico agli atti, e la sua deposizione il 16 novembre ai pm Giovanni Cavalleri e Paolo Storari sembra tratteggiare una sorta di sudditanza psicologica della Prefettura nei confronti della società privata che gestiva il Cpr: “Proposi l’istanza di riesame al responsabile trasparenza del Ministero dell’Interno, sottolineando che sul sito della Prefettura era presente lo schema di contratto di appalto (quindi non sottoscritto dalle parti e cosa ben diversa dal contratto vero e proprio), e che anche il modello di offerta tecnica presente sul sito era non compilato. La Prefettura ha chiamato, in opposizione, la società La Martinina. E quest’ultima comunicò che si opponeva alla trasmissione dell’offerta tecnica per questioni di segreto tecnico industriale”. Al funzionario della Prefettura, di cui fa il nome, Figoni aggiunge di aver “chiesto ulteriori spiegazioni rispetto alla non ostensibilità della documentazione richiesta, ritenendo io che un contratto pubblico debba essere pubblico. Lui mi disse che La Martinina srl aveva chiesto di non trasmettere l’offerta tecnica in quando soggetto privato che partecipa a bandi di gare, e aggiunse anche che la società La Martinina sosteneva che, se l’offerta tecnica fosse stata resa pubblica, sarebbero stati ‘rovinati’, riferito comunque al know-how”. In prima battuta, peraltro, La Martinina era arrivata seconda nell’appalto, battuta dall’offerta del Consorzio Hera Soc. Coop. per 97,11 punti a 93,75: entrambe le offerte risultarono però anomale, partì quindi la “verifica di congruità e sostenibilità” che si concluse il 10 ottobre 2022 con l’esclusione di Hera per “offerta anomala”, e l’aggiudicazione all’offerta “congrua e sostenibile” di La Martinina srl. Venezia. Tenta il suicidio in cella, nel carcere esplode la sommossa di Eugenio Pendolini La Nuova Venezia, 4 dicembre 2023 L’episodio sabato sera nell’istituto di Santa Maria Maggiore. Materassi dati alle fiamme dopo le urla del detenuto che accusava di essere stato picchiato. Quando lo hanno visto con la corda intorno al collo, sono riusciti a tagliare il cappio e a salvargli la vita. Nel parapiglia successivo, l’uomo ha iniziato a urlare contro gli agenti: “Aiuto, mi stanno picchiando”. Le urla sono rimbombate per tutto il carcere, al punto da sollevare un principio di sommossa all’interno dell’istituto, con materassi dati alle fiamme e detenuti fatti spostare per evitare l’intossicazione da fumo. È quanto capitato sabato sera nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Allarmati i sindacati, con la Cgil che denuncia: “Siamo di fronte a una polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento”. Secondo le prime ricostruzioni, sabato sera due agenti di sorveglianza si sono accorti che un detenuto, all’interno della sua cella, era riuscito ad appendere una corda per suicidarsi. Intuita immediatamente la gravità della situazione, gli agenti sono intervenuti tagliando il cappio e salvandogli la vita. Nel momento in cui il detenuto ha messo a terra i piedi, si è impossessato di un manico di scopa con cui ha iniziato a picchiare gli agenti, tra cui un coordinatore della polizia penitenziaria. Gli agenti hanno cercato di calmarlo, tenendolo con forza, ma il detenuto ha iniziato ad urlare, accusando gli agenti di volerlo picchiare. È a quel punto che dentro il carcere è scoppiato il caos, come riportano i sindacati. Alcuni detenuti, infatti, hanno provato a dare fuoco ai materassi (ignifughi). Poco dopo, gli agenti hanno fatto spostare quindici altri detenuti che si trovavano nei paraggi per evitare che si intossicassero con il fumo. Il detenuto che ha provato a suicidarsi è stato in seguito visitato in infermeria dove, secondo quanto viene riferito, non gli sono state trovate ferite o altro. L’uomo è stato portato dagli agenti in psichiatria. “I detenuti con problemi psichiatrici non devono stare in carcere”, attacca Gianpietro Pegoraro, coordinatore Fp Cgil Veneto Polizia Penitenziaria, “Venezia ha bisogno di un incremento di personale, finora non è mai stato fatto nulla in questo senso. Le promesse non sono state mantenute, i sottosegretari dovrebbero visitare Venezia per capire le difficoltà che si riscontrano nella casa circondariale. Venezia non può essere lasciata sola, è una polveriera che può esplodere in qualsiasi momento”. Da inizio anno, tre sono stati i suicidi all’interno del carcere. A inizio luglio, il brasiliano Alexandre Santos De Freitas, 45 anni, arrestato pochi giorni prima all’aeroporto Marco Polo è morto suicida in carcere dopo aver ingoiato un tappo di plastica e una pallina da calcio balilla. Quest’ultima lo ha ucciso perché si è fermata nella glottide impedendogli di respirare. Il tappo di plastica invece si era incastrato nell’esofago. Prima di lui, in giugno nel giro di dieci giorni, si erano suicidati Bassem Degachi, 38 anni, tunisino destinatario, nell’ambito dell’operazione su via Piave, di un’ordinanza di custodia cautelare, per reati commessi nel 2018. E poi era stata la volta di Alexandru Ianosi, che il 23 settembre 2022 aveva ucciso con 68 coltellate la moglie Lilia Patranjel a Spinea. Como. Rivolta al carcere: agenti aggrediti e celle in fiamme, devastata un’intera sezione di Anna Campaniello Corriere della Sera, 4 dicembre 2023 La denuncia del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa: “Nella classifica dei penitenziari super affollati, quello di Como è al terzo posto, con 421 detenuti rispetto al limite previsto di 226”. Protesta domenica sera nel carcere del Bassone di Como. Alcuni detenuti avrebbero tentato una rivolta, aggredito gli agenti della polizia penitenziaria e poi appiccato un incendio. Cinque agenti sono stati soccorsi e portati in ospedale, fortunatamente non in gravi condizioni. Sono intervenuti i mezzi di soccorso e i vigili del fuoco, oltre a polizia e carabinieri. L’allarme per i disordini è scoppiato attorno alle 20.30. Alcuni detenuti avrebbero aggredito gli agenti e tentato una rivolta. Altri reclusi avrebbero quindi appiccato il fuoco in una cella. Le fiamme si sono propagate ed è stato necessario l’intervento urgente dei vigili del fuoco. Attorno al carcere si sono intanto schierati polizia e carabinieri per garantire una maggiore sicurezza. Gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a bloccare la rivolta e riportare la calma, ma cinque hanno avuto bisogno di cure. La Uilpa Polizia penitenziaria era intervenuta poche ore prima sul problema del sovraffollamento delle carceri della Lombardia. “Solo oggi pomeriggio avevamo lanciato l’allarme sovraffollamento nelle nostre carceri che a novembre, con 60.116 presenze, ha sforato di gran lunga la soglia psicologica dei 60.000 detenuti, a fronte di 51.272 posti regolamentari, ma non tutti disponibili - l’allarme del sindacato -. Como, nella classifica dei penitenziari super affollati si colloca al terzo posto, con 421 detenuti all’appello a fronte di 226 posti (più 186%)”. “Proprio a Como in serata si sono registrati gravissimi disordini - denuncia la Uilpa Polizia penitenziaria -. Alcuni detenuti avrebbero devastato un’intera sezione appiccando anche fuoco a materassi e suppellettili, tanto da rendere necessario l’intervento dei vigili del fuoco”. “Con grande professionalità, la polizia penitenziaria intervenuta anche con operatori richiamati in servizio dal riposo o dopo aver espletato il turno di lavoro, ha ristabilito l’ordine - aggiunge il sindacato -. Vi sarebbero tuttavia alcuni agenti intossicati e almeno cinque di loro che sarebbero dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso cittadino”. Terminato l’intervento dei vigili del fuoco, alcuni detenuti della sezione coinvolta dalla rivolta e dall’incendio sono stati spostati in altre aree del carcere. Sanremo (Im). Il pestaggio di Scagni in carcere sarà ricostruito in 3D di Danilo D’Anna Il Secolo XIX, 4 dicembre 2023 Il criminologo Spoletti ricaverà al pc un filmato per chiarire la dinamica dell’aggressione. Usate le fotografie scattate in cella. Scagni è stato massacrato da due compagni nel carcere di Sanremo, doveva essere controllato ogni 20 minuti. L’aggressione subita da Alberto Scagni nel carcere di Valle Armea, a Sanremo, una decina di giorni fa, sarà ricostruita in 3D dal criminologo forense Gianni Spoletti. Questa mattina Scagni, che si trova in coma farmacologico dopo l’aggressione a colpi di sgabello da parte di due compagni di cella (cittadini di origine nordafricana, che nel frattempo sono stati trasferiti), sarà sottoposto a un nuovo intervento nell’ospedale di Sanremo dove è ricoverato. Ad eseguirlo il chirurgo plastico del Santa Corona di Pietra Ligure Giuseppe Pizzonia. In attesa dell’esito chirurgico, si spera che i rilievi di Spoletti possano dare una svolta alle indagini. Spoletti è il consulente che la famiglia ha affiancato all’avvocato Fabio Anselmo per una contro-indagine sulle eventuali negligenze di polizia e responsabili del dipartimento di salute mentale, che secondo i genitori non avrebbero ascoltato i loro allarmi sulla pericolosità del figlio. Il criminologo ha già acquisito le foto scattate nella cella dove Scagni è stato picchiato e dove era stato trasferito dopo che aveva subito una prima aggressione nella casa circondariale di Marassi. Le immagini saranno inserite in una app in grado di ricostruire i momenti in cui il quarantaduenne, condannato in primo grado a 24 anni e sei mesi per aver ucciso la sorella Alice il primo maggio 2022 sotto la casa della donna, è stato massacrato. Le fotografie messe a disposizione di Spoletti sono state scattate la settimana scorsa durante gli accertamenti tecnici richiesti dalla Procura di Imperia, che sta indagando sull’episodio anche in virtù di un esposto presentato dai legali di Alberto, gli avvocati Alberto Caselli Lapeschi e Mirko Bettoli. I quali hanno chiesto al procuratore Alberto Lari di fare luce sia sull’aggressione a Valle Armea sia su quella avvenuta a Genova. Scagni a Sanremo avrebbe dovuto essere controllato ogni 20 minuti, ma secondo difensori e familiari, si tratta di un arco di tempo insufficiente per ridurre in quelle condizioni una persona. Spoletti è stato chiamato in causa proprio per questo: dall’analisi della posizione in cui sono stati trovati gli arredi della stanza dove è avvenuto il pestaggio e, soprattutto, delle tracce di sangue trovate sulle pareti e sul pavimento della cella, il criminologo ricaverà un filmato virtuale dell’aggressione costata quasi la vita al killer di Quinto. Resta da capire se gli scatti effettuati durante l’accertamento tecnico saranno sufficienti a dare un responso attendibile (il perito per dirlo deve prima inserire i file nel computer). Se così non fosse, è possibile che Anselmo, il legale dei genitori di Alberto Scagni, chieda di poter svolgere un altro sopralluogo. Con l’utilizzo di uno speciale scanner mobile, già usato da Spoletti in occasione di altri episodi di cronaca che lo hanno visto in prima linea come consulente delle parti. “Vediamo se le fotografie che sono state già scattate saranno sufficienti - dice il criminologo forense - altrimenti sarà necessario eseguire nuovi e più approfonditi rilievi nella cella”. Nessuna ricostruzione 3D, invece, per l’aggressione a Marassi: i difensori di Scagni, però, attendono ancora il rapporto che la direzione ha fatto dopo quanto era successo. Massa Carrara. Cesare Battisti chiede di essere ammesso alla mediazione penale di Lirio Abbate La Repubblica, 4 dicembre 2023 Grazie alla riforma Cartabia, l’ex terrorista mai pentito ha chiesto di essere ammesso alla mediazione penale, che alla fine porterebbe anche a misure alternative alla cella. Per accelerare il riconoscimento di benefici penitenziari, di misure alternative al carcere, e permessi premio, il terrorista Cesare Battisti, condannato definitivamente all’ergastolo per quattro omicidi, ha avviato un progetto per chiedere di essere ammesso alla mediazione penale, che fa parte della giustizia riparativa. Secondo l’iter di questo procedimento Battisti dovrebbe incontrare i familiari delle sue vittime, alla presenza di un mediatore, e intraprendere un percorso di “redenzione” alla fine del quale potrebbe ottenere anche misure alternative alla cella. I familiari delle vittime non sono obbligati a partecipare e quindi possono anche respingere la proposta di mediazione. Per il terrorista, però, non cambierebbe quasi nulla, perché la linea di condotta “riparativa” che voleva intraprendere, anche se non conclusa, farebbe “curriculum” durante la detenzione e di tutto ciò potrebbe tener conto il giudice di sorveglianza al quale verranno rivolte le richieste di permessi premi o altri benefici penitenziari. Tutto ciò rientra nella nuova riforma Cartabia che prevede che siano i centri territoriali a svolgere i percorsi di giustizia riparativa, richiesti dal detenuto e concordati con i responsabili del progetto. Battisti, vista la lunga pena che deve ancora scontare, potrebbe attendere la creazione definitiva dei centri da parte delle commissioni locali, che avverrà già nei prossimi mesi. Intanto lui prepara il terreno. L’ergastolano, che da un anno è stato “declassificato” da regime di alta sicurezza a “detenuto comune” che gli lascia ampi margini di manovra per i benefici penali, poche settimane fa ha fatto il suo ingresso nel carcere di Massa, una struttura ben gestita e organizzata, dove vi sono in prevalenza persone che devono scontare condanne definitive. Trasferimento del Dap: e la magistratura non ne sa niente - È stato Cesare Battisti a chiedere ed ottenere direttamente dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziario) di essere trasferito dal carcere di Parma a quello di Massa. Il Dap, “vista l’istanza presentata” l’ha accolta. Alla base della richiesta del terrorista c’è il fatto che il carcere in cui si trova adesso è vicino a Grosseto dove vive la sua compagna brasiliana e il figlio di dieci anni. In questo modo la breve distanza facilita i loro colloqui e gli incontri. I responsabili del Dap si sono dati da fare per facilitare questa situazione familiare. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari che si occupano di terrorismo, il trasferimento sarebbe stato disposto senza alcun nulla osta della magistratura. Nel carcere di Parma Cesare Battisti aveva iniziato a lavorare al progetto per la richiesta di “mediazione”, ma il trasferimento lo ha interrotto e adesso si prepara a ripresentarlo alla direttrice del carcere di Massa. Nel frattempo, è stato sistemato in una “camera di detenzione” che divide con un’altra persona, e questa nuova situazione in cui si trova non lo avrebbe soddisfatto, perché Battisti era abituato ad avere una cella tutta sua, con i suoi libri e pure un computer e una stampante a portata di mano e solo per lui. Adesso nel carcere toscano il computer gli è stato messo a disposizione ma si deve spostare in biblioteca. Nel frattempo rivede alcuni testi scritti, su cui sta lavorando per una casa editrice, e la sera si rilassa leggendo Kafka. Il gruppo terrorista Proletari armati per il comunismo - Cesare Battisti ha 69 anni, è stato un membro del gruppo terrorista Proletari armati per il comunismo (Pac). Dopo il suo arresto, avvenuto a gennaio del 2019 con 37 anni di latitanza, davanti ai pm di Milano ha ricostruito la scia di sangue che risale alla fine degli anni Settanta, partendo dai quattro delitti, di cui due materialmente commessi da Battisti: quello del maresciallo di polizia penitenziaria Antonio Santoro, da lui ucciso a Udine il 6 giugno 1978 in quanto “perseguitava i detenuti politici”; quelli del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Movimento sociale, uccisi entrambi il 16 febbraio 1979 il primo a Milano e il secondo a Mestre. Infine, quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, al quale ha sparato a Milano il 19 aprile 1978. Il “rifugiato politico” - All’ex terrorista dei Pac devono essere ricondotte pure alcune rapine effettuate all’epoca per finanziare il gruppo eversivo, durante le quali sono stati gambizzati Giorgio Rossanigo, un medico del carcere di Novara, Diego Fava, medico dell’Alfa Romeo e Antonio Nigro, agente nel carcere di Verona. Oggi in carcere continua a sostenere che lui per 37 anni non è stato latitante ma “rifugiato politico” e tuttavia, pur riconoscendo la sua precedente militanza nella lotta armata, fatto da cui non si è mai dissociato o pentito, nel 2009 dichiarò la sua estraneità a essi, e affermò di non avere mai sparato a nessuno. Adesso, con un ergastolo definito sulle spalle, punta ai benefici premiali per uscire dal carcere. In effetti è già nei termini per ottenere i permessi, e la mediazione penale potrebbe accelerali. Rivederlo fuori potrebbe fare impressione ai familiari delle sue vittime. Firenze. Giustizia creativa: i graffiti come strumento di emancipazione sociale di Tommaso Gori buonenotizie.it, 4 dicembre 2023 Dialogo, prevenzione, ripartizioni: di fronte alle ingiustizie del nostro tempo, si sentono spesso evocare queste parole come formule ideali da perseguire. Eppure la realtà, come diceva Platone, è corrompibile e imperfetta e spesso dobbiamo fare i conti con una giustizia mancata o parzialmente ottenuta. Mentre il mondo tenta di mitigare le ingiustizie, nel caso migliore con la diplomazia delle leggi, nel peggiore con la violenza delle armi, un mezzo spesso sottovalutato passa attraverso l’utilizzo dell’arte. E questo è il caso della giustizia creativa. Cos’è la giustizia creativa? La giustizia creativa è particolarmente efficace nel dare voce a coloro che potrebbero sentirsi emarginati o ignorati dal sistema legale tradizionale. In tal senso, il processo artistico diventa una forma di terapia poetica, un antidoto a un abuso sociale o a una discriminazione subita. Utilizzare l’arte a scopo di giustizia sociale non è una trovata dell’ultima ora. Basti pensare che in Siria la ‘primavera araba’ sbocciò da un graffito che recitava: ‘È il tuo turno, dottor Bashar Al-Assad’. Suggerire che la dittatura Baathista sarebbe stata la prossima a cadere dopo le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, fu un’idea che si rivelò politicamente mobilitante. Offuscando la linea tra arte e vandalismo i graffiti sfidano le convenzioni dominanti, portando la società a mettere in discussione ciò che è moralmente giusto e ciò che è socialmente considerato sbagliato. I graffiti come mezzo di giustizia creativa hanno viaggiato dalle zone di guerra alle periferie delle zone metropolitane, fino ad arrivare negli spazi di isolamento sociale, come i centri di detenzione preventiva e le carceri. Questa forma di street art si è rivelata un linguaggio visivo efficace per aiutare a confrontare situazioni sociali turbolente. A tal proposito, tra il 2020 e il 2023, Il progetto GAP - Graffiti Art in Prison - ha convinto la giunta comunale fiorentina a investire in un laboratorio creativo all’interno del carcere di Sollicciano. Il capoluogo toscano ormai vanta 10 anni di collaborazioni con artisti della street art, promuovendo i graffiti a strumento di riqualificazione socio-urbanistica. L’obiettivo di GAP è stato quello di processare l’emarginazione sociale dei detenuti attraverso l’arte dei graffiti, stimolando un riscatto individuale e facilitando il reinserimento sociale. GAP: un esperimento dal comune di Firenze - Il carcere di Sollicciano, come molte strutture correttivo-disciplinari, si trova ai margini della zona metropolitana. Questo isolamento geografico comporta uno stato di invisibilità che tende a marginalizzare ed escludere i detenuti. In questo contesto, il progetto GAP ha permesso di riallacciare un legame tra chi vive dentro e chi vive fuori le mura di reclusione penitenziaria. Come afferma lo stesso David Mesguich, artista di arti visive incaricato di facilitare il laboratorio nel centro di detenzione di Sollicciano: “La nostra idea era quella di collocare l’arte al centro di un dialogo tra il passato e il presente, tra individui spesso dimenticati e le possibilità di redenzione attraverso l’espressione artistica” GAP è stato caratterizzato da installazioni temporanee e murales condotti in maniera collaborativa tra artisti, detenuti e la polizia penitenziaria. La giustizia creativa insita nella natura del progetto ha da subito cercato di abbattere le differenze sociali tra un detenuto e un cittadino ‘libero’. Sorprendentemente, è emerso un rapporto rispettoso tra guardiani e detenuti, portando all’inclusione di alcuni poliziotti nel processo creativo. Dopo intense negoziazioni con le autorità carcerarie, è stata concessa l’autorizzazione per posizionare due installazioni di grande scala sulla recinzione del carcere, rappresentando il volto di un poliziotto del penitenziario vicino a quello di un detenuto. Il successo del progetto risiede nel fatto di essere testimone di un momento in cui le differenze sono state temporaneamente cancellate - una testimonianza del potere dell’arte di sorvolare i confini e creare connessioni in luoghi inaspettati. La giustizia creativa, come riflette il progetto GAP, non si limita solo a fornire una forma di espressione artistica, ma funge da catalizzatore per un miglioramento delle nostre relazioni sociali. In un’epoca in cui la giustizia tradizionale mostra limiti e imperfezioni, la giustizia creativa, sfruttando il potere trasformativo dell’arte di aprire dialoghi, sfidare pre-concezioni culturali e costruire connessioni umane significative, emerge come un approccio socialmente riconciliante. Nelson Mandela, l’uomo che piegò l’apartheid con la resistenza non violenta di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 4 dicembre 2023 Dieci anni fa moriva l’uomo che ha liberato il Sudafrica dal regime razzista: una lotta pazzesca, coraggiosa ed esemplare. Il suo nome in lingua xhosa era Rolihlahla, che vuol dire “colui che taglia i rami dall’albero”, più confidenzialmente “il piantagrane”, quasi una premonizione per l’uomo che per oltre mezzo secolo ha sfidato il regime segregazionista sudafricano con la forza incrollabile delle proprie idee, che hanno resistito ad ogni avversità. Ispirato, testardo, paziente, Nelson Mandela è il simbolo universale della lotta all’ingiustizia e della disobbedienza civile, l’indomito profeta dei diritti politici e sociali della popolazione nera sotto il cupo mantello dell’apartheid, una biografia, la sua, che coincide con quella della “nazione arcobaleno” e della sua complicata ma luminosa metamorfosi in una democrazia moderna. “Non sono né un santo né un profeta, nella mia vita ho commesso tanti errori, ho tante insufficienze, sono una persona comune” dirà quando, nel 1993, ottiene il Nobel per la pace assieme a Frederik de Klerk e il pianeta intero si spertica per celebralo e ricoprirlo di allori, più di Gandhi, più di Martin Luther King. In fondo aveva ragione, “Madiba” ha semplicemente incarnatola resistenza e il riscatto di un intero popolo e in un certo senso è stato anche lui un ostaggio della Storia che, per le sue insondabili traiettorie, lo ha destinato al sacrificio e alla grandezza. Rolihlahla Mandela nasce a Mvezo, un villaggio in provincia di Cape Town il 18 luglio 1918; è il primo membro della sua famiglia a ricevere un’istruzione e sarà l’insegnante della scuola missionaria metodista britannica a chiamarlo “Nelson”: “Era un’usanza assegnare nomi inglesi ai ragazzini neri, non so perché mi abbia chiamato in quel modo”. Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza abbraccia il cristianesimo, una fede che non lo abbandonerà mai e lo guiderà nella lotta alla segregazione, neanche quando sposa le idee comuniste più radicali, più uno slancio spirituale che l’adesione alla chiesa organizzata o a un programma sociale definito: “La religione deve rimanere un fatto privato, un rapporto tra l’individuo e Dio e mai entrare in conflitto con le credenze delle altre persone”. Da giovane ama molto lo sport e l’attività fisica, la corsa e soprattutto la boxe anche se come ammise lui stesso non aveva il livello per combattere con i migliori: “Non ero abbastanza veloce per compensare la scarsa potenza e abbastanza potente per compensare la scarsa velocità”. Però si allena intensamente, tutti i giorni: “Invece di battermi con i razzisti usavo il punching-ball per sfogare la mia rabbia e la mia frustrazione”. A 19 anni si iscrive alla facoltà di legge dell’università di Fort Hare, l’unica che accetta studenti neri e incontra Oliver Tambo, amico e compagno di una vita: sono due giovani brillanti e motivati con la passione per la politica. Nel 1943 si iscrivono all’African national congress (Anc) e si occupano della sezione giovanile all’università. Negli anni successivi oltre alla laurea in giurisprudenza Mandela diventa un dirigente ascoltato, capace di risvegliare la coscienza politica dei ragazzi neri e di incitarli a disobbedire alle regole ingiuste e disumane dell’apartheid, a scioperare contro lo sfruttamento dei datori di lavoro bianchi: alla popolazione di colore non è concesso il diritto di voto, non è consentito possedere terre se non all’interno di minuscole riserve indigene (appena il 7% della superficie coltivabile), confinata senza diritti nei ghetti urbani, quartieri poverissimi dove la popolazione di colore vive segregata. Una situazione che peggiora con le elezioni del 1948 che vedono la vittoria del Partito nazionale, guidato da afrikaner (i bianchi non anglo sassoni che nel XVII Secolo colonizzarono il Sudafrica): come prima misura impongono il divieto di matrimoni misti. Nel 1952 assieme a Tambo apre a Johannesburg il primo studio legale diretto da due avvocati non bianchi, forniscono assistenza a basso costo ai neri che non possono pagare le parcelle: il sistema giudiziario, per quanto iniquo, garantisce ancora in quegli anni una relativa equità a differenza del potere politico. Nel 1955 Mandela partecipa all’elaborazione della Carta della libertà, vera e propria Bibbia della lotta all’apartheid fino al 1991, riconosciuta anche dalle Nazioni Unite: “Il popolo deve governare” recita il primo articolo. Uno dei principi che guidano l’azione del giovane Mandela è la non-violenza, una pratica che mutua dall’indiano Mohandas Gandhi, anche lui rivoluzionario, anche lui avvocato. È dopo il terribile massacro di Sharpeville, un sobborgo poverissimo a cinquanta chilometri di Johannesburg, che la fede nella non violenza comincia a vacillare. Il 21 marzo 1960 a migliaia scendono in piazza per contestare il famigerato pass, il passaporto interno che la popolazione di colore deve portare con sé per poter accedere alle zone controllate dai bianchi, uno dei tanti marchi dell’infamia razziale che verrà abolito nel 1986. I manifestanti si riuniscono davanti al commissariato locale dove bruciano simbolicamente i propri pass, gridano slogan duri contro il regime ma il sit-in è pacifico, ci sono donne, anziani e bambini. La polizia “ha perso la testa” diranno le autorità per giustificare la strage: decine di raffiche sparate ad altezza d’uomo per oltre due minuti lasciano senza vita 69 persone con quasi duecento feriti, decenni più tardi un’inchiesta stabilirà che quel massacro fu un atto deliberato, gli agenti spararono per lo più alla schiena dei manifestanti in fuga e non vennero mai accerchiati dalla folla. I fatti di Sharpeville scatenano la rabbia dei neri delle township che assaltano gli edifici pubblici. La repressione del regime è brutale, migliaia gli arresti arbitrari, mentre l’Anc e il Partito comunista sudafricano vengono dichiarati fuori legge. Mandela contribuisce a fondare il Umkhonto we Sizwe, gruppo clandestino che tra le forme di lotta prevede la resistenza armata, sostenuto anche dall’Urss e dai Paesi del patto di Varsavia. Tra gli uomini più ricercati dal regime lascia il Sudafrica, in Marocco, Algeria e Tunisia incontra militanti e guerriglieri anti-colonialisti; legge i libri di von Clausewitz, Mao Zedong, Che Guevara e si occupa della formazione di milizie paramilitari, ma senza bellicoso fanatismo: “Lo scopo della lotta non è premere su un grilletto, ma creare una società giusta”. Sono gli anni del grande isolamento, in cui Usa e Gran Bretagna considerano l’Anc un’organizzazione terrorista e, grazie a una soffiata della Cia, Mandela viene arrestato nel 1962, il pubblico ministero chiede la pena di morte, alla fine è condannato all’ergastolo e ai lavori forzati per alto tradimento e sedizione nel processo farsa di Rivonia, definito “illegale” dallo stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nel ‘64 è trasferito nella prigione di Robben Island con il numero di matricola 46664 come detenuto di classe D (il rango più basso), il regime spera così di seppellirlo nell’oblio della cattività, ma paradossalmente, il nome di Mandela prigioniero politico comincia a circolare ai quattro angoli del globo. Robben Island è un istituto di pena concepito per fiaccare e distruggere la volontà dei detenuti, diventerà un laboratorio di coscienza politica e disobbedienza; Mandela organizza scioperi della fame, si rifiuta di chiamare “capo” le guardie carcerarie come impone il regolamento, fa costante attività fisica per rimanere in forma e non crollare di fatica mentre durante il giorno è costretto a spaccare pietre. La sua prigionia è così scomoda per i segregazionisti che il regime organizza un complotto per farlo evadere e poterlo uccidere durante la fuga. Nel 1976 il governo gli offre addirittura la libertà in cambio della rinuncia a qualsiasi attività politica ottenendo un secco rifiuto. Stessa musica nel 1985 con il presidente Willelm Botha, libertà condizionata e esilio nel suo villaggio natale. Altro rifiuto: se l’Anc rimane illegale nessuna possibilità di accordo. Ormai il Sudafrica è uno stato canaglia e la sua economia affonda sotto il peso delle sanzioni internazionali: il mondo intero chiede la liberazione di Nelson Mandela senza condizioni. Nel luglio 1988 a Wembley viene organizzato un concerto per i suoi settant’anni che viene seguito da settecento milioni di telespettatori. Nel frattempo Mandela è tornato a predicare la non violenza e soprattutto la “riconciliazione nazionale”, un’idea che ha sviluppato dialogando con l’arcivescovo di Cape Town, Desmond Tutu. Sacerdote, diplomatico e attivista politico, Tutu ha sostenuto in tal senso una vera e propria “teologia della riconciliazione”. È stato con lui che Nelson Mandela ha istituito nel 1995 la Commissione per la verità e la riconciliazione. Essa offriva l’amnistia ai responsabili degli abusi durante l’apartheid, a condizione che rivelassero la verità sui loro misfatti e che il crimine commesso fosse motivato politicamente. La svolta avviene nel 1989 quando il presidente Botha è colpito da un ictus cerebrale ed è sostituito dal ministro dell’educazione Frederik de Klerk “il più onesto e coraggioso leader bianco che abbia mai conosciuto” dirà Mandela. Il nuovo presidente rompe tutti i ponti con il passato segregazionista del suo partito, annuncia il ritorno alla legalità per l’Anc e mette fine alla detenzione di centinaia di prigionieri politici tra cui Nelson Mandela che il 2 febbraio 1990 torna un uomo libero. Nel 1994, a seguito delle prime elezioni multirazziali della storia sudafricana, l’Anc trionfa con il 62,6% dei suffragi e Mandela è il primo capo di Stato nero del Paese. Il suo discorso di insediamento è un pezzo di storia del 900, una pietra miliare della lotta per la giustizia che rinuncia al rancore e alla vendetta che sancisce la vera nascita della “nazione arcobaleno”. L’altra rivoluzione: con la giustizia riparativa nasce una “Nazione arcobaleno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2023 La politica di riconciliazione nazionale avviata da Mandela ha segnato uno spartiacque nella cultura giuridica internazionale. La possibilità di ricevere assoluzione ammettendo le proprie colpe: questa è stata la ‘rivoluzione giuridica’ di Nelson Mandela. Il suo impegno per trasformare un Paese dilaniato dal segregazionismo in una “Nazione Arcobaleno” è narrato nel film di Clint Eastwood Invictus, che racconta il ruolo svolto dai mondiali di Rugby vinti dalla nazionale sudafricana, gli Springboks, sostenuti appunto da Mandela (i neri africani avevano sempre preferito il calcio al rugby, considerato uno sport “bianco” secondo loro). Mandela perseguì una decisa politica di conciliazione nazionale, senza mai rinnegare il suo passato da guerrigliero. L’idea fondamentale di Mandela presidente era che i neri dovessero perdonare i bianchi per quello che avevano fatto. Attraverso la commissione speciale per la verità e la riconciliazione, molti Afrikaner colpevoli di delitti di segregazione razziale confessarono, vennero giudicati colpevoli, condannati e successivamente ricevettero l’amnistia. Mandela gettò le basi del primo modello di giustizia di transizione di tipo riparativo, inteso a contenere e trasformare le emozioni di chi aveva commesso crimini contro l’umanità e di chi li aveva subiti, attraverso la funzione riparatoria e salvifica della narrazione. Con la fine della segregazione negli anni Novanta, il Sudafrica si trovò di fronte a una necessità cruciale: trovare un compromesso stabile tra due posizioni politiche diametralmente opposte, entrambe orientate a plasmare il futuro del Paese. In questo contesto delicato, l’istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione emerse come mediatore tra le due fazioni principali: da un lato, il governo sudafricano deciso a voltare pagina e dimenticare gli anni dell’apartheid per costruire un nuovo Sudafrica; dall’altro, l’African National Congress e altre organizzazioni di liberazione, che insistevano nel ricordare e propendevano per la creazione di Tribunali speciali, simili a quelli di Norimberga, per processare coloro che avevano violato i diritti umani durante il regime segregazionista. È essenziale sottolineare che molte delle ragioni che hanno spinto verso la scelta della riconciliazione tra le parti sono di natura economica e politica. Gli Afrikaner, discendenti dei coloni olandesi, avevano gestito gran parte delle risorse e delle attività economiche del Sudafrica fino a quel momento. Nel caso di un miglioramento delle condizioni sociali della popolazione nera e di un possibile esodo della popolazione bianca dal Paese, si prevedeva inevitabilmente una lunga e dolorosa crisi economica. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, pertanto, si configurò come uno strumento cruciale per gestire questo difficile periodo di transizione. La sua funzione di mediatore consentì di bilanciare gli interessi contrastanti, cercando una via che portasse a una riconciliazione nazionale senza ignorare le gravi violazioni dei diritti umani avvenute durante l’apartheid. Inoltre, il contesto economico contribuì a motivare entrambe le parti a trovare un terreno comune, evitando una crisi che avrebbe potuto minare la stabilità del paese. In questo modo, la ricerca di un compromesso divenne essenziale per forgiare un futuro condiviso e scongiurare scenari di tensione e declino economico. Ma la peculiarità di tale commissione è quella di perdonare se il carnefice ammette ed elenca le proprie colpe davanti alle vittime. Nel caso c’era l’amnistia. La scelta di concederla, offrendo la possibilità al carnefice di non pagare una pena, è stata un’azione razionale rispetto allo scopo, che si presume abbia dato la possibilità di raccogliere quanta più verità possibile, affinché la società potesse risollevarsi dal trauma subito, cercando di superarlo collettivamente. Analizzando il termine ‘amnistia’, si nota come esso abbia la stessa radice di ‘amnesia’. Lo Stato che decide di dimenticare. Paradossalmente, nel caso del Sudafrica, la concessione dell’amnistia ha rappresentato l’esatto contrario: è stata una delle fonti più importanti per ampliare la conoscenza dei fatti ed è una dimostrazione di come l’oblio possa essere evocato attraverso il lavoro della memoria, guidato dal perdono in modo pacifico e senza rancore. Non è stato un percorso facile: l’accertamento della verità, l’ammissione delle colpe, il perdono, l’amnistia. Dal rapporto della Commissione del 1998 consegnato a Mandela emergono 21.800 terribili testimonianze rese da vittime e familiari, con 1.163 persecutori amnistiati. Non è stato semplice, ma grazie al processo di riconciliazione, la strada verso la pace è stata macchiata di molto meno sangue di quanto fosse lecito attendersi dopo una storia di atroce razzismo e feroce crudeltà. Al di là di aver evitato il bagno di sangue e di aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione ha segnato uno spartiacque soprattutto nella cultura giuridica internazionale. Non è un caso che nel 2015 l’Onu abbia adottato gli standard minimi di tutela in materia di trattamento penitenziario dei detenuti, le ‘Mandela Rules’, in onore proprio di Nelson Mandela. E non è un caso che alla seconda pagina del documento approvato compaia anche la ‘giustizia riparativa’. Cosa significa educare ai diritti di Elisabetta Camussi La Repubblica, 4 dicembre 2023 Nel dibattito sulle pari opportunità e sugli stereotipi di genere capita spesso di sentir obiettare da persone comuni ma anche talvolta da esperti di diversa formazione che in realtà si tratta di un problema “culturale”, affermazione di solito accompagnata dalla constatazione che non è dunque possibile porvi rimedio. Non è difficile comprendere cosa si vuole intendere, dato che il cambiamento culturale non ha sempre le tempistiche che desidereremmo: ma al tempo stesso è inarrestabile, e soprattutto può essere promosso ed accelerato. L’altra questione che viene frequentemente posta è la necessità di “partire dalla scuola, altrimenti tutto è inutile”. Il che è vero solo in parte: partire dalla scuola è fondamentale, da oltre due decenni abbiamo completamente disinvestito sul ruolo degli insegnanti e sul valore della formazione, ed è stata una pessima idea. Motivo per il quale indicare ad oggi la scuola come unica soluzione alle diseguaglianze tra i generi e alle ricadute in termini di discriminazione e violenza che da queste derivano significa cogliere solo in parte il problema. Non a caso nel Piano Colao, consegnato alla Presidenza del Consiglio in vista della stesura del Pnrr, veniva indicata la necessità di Piani Nazionali che prevedessero l’obbligatorietà su questi temi di percorsi formativi dalla scuola dell’infanzia all’università. La cui efficacia era però da mettere in relazione alla contemporanea formazione degli adulti: insegnanti, genitori, professionisti, pubblici decisori, classe dirigente e quant’altro. Donne e uomini che con i loro atteggiamenti e comportamenti sono nella condizione di favorire o contrastare la diffusione di visioni stereotipate del femminile e del maschile e degli obblighi di ruolo che ne derivano. Ma se replicare stereotipi è semplice ed automatico, acquisire la consapevolezza dei loro effetti richiede un aiuto esterno, quale potrebbe essere una formazione dedicata, da svolgersi ad esempio nei luoghi di lavoro. Del resto la grande partecipazione emotiva ai recenti episodi di violenza di genere segnala un diffuso bisogno di risposte e insieme una domanda di equità, trasversale ai generi e alle generazioni. A parziale risposta, come noto, è stata annunciato dal Ministro Valditara il progetto pilota del Mim di educazione alle relazioni, che parte proprio dalla scuola. E che può essere considerato l’avvio di una “buona pratica”, a patto che vengano rispettate alcune condizioni. Tra queste, oltre ad una adeguata dotazione di risorse, una formazione preliminare dei docenti che permetta loro di svolgere bene il proprio lavoro anche su queste tematiche. Quando si trattano temi così sensibili come l’educazione al rispetto invece che al possesso, il riconoscimento del punto di vista dell’altro, la libertà e autonomia di entrambi i partner come elemento fondante le relazioni sane, temi che riguardano il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti statisticamente molto diffusi, è necessario anche considerare che in classe potranno esserci ragazze e ragazzi coinvolti in situazioni di discriminazione e violenza sia agita che subita. Per questo è indispensabile che siano a disposizione psicologhe e psicologi in ogni scuola o comunque sul territorio in grado di fungere da riferimento non solo formale per studenti e studentesse, per genitori ed insegnanti. Siamo all’inizio di un percorso, con l’auspicio che nel tempo l’educazione alle relazioni e più in generale l’educazione affettiva da attività extracurricolare divenga un progetto di formazione ordinaria, adattato alle diverse fasce d’età mediante metodologie e strumenti, e previsto per tutti. I giovani sono senza orientamento, serve un Robin Hood dell’educazione di Vito Mancuso La Stampa, 4 dicembre 2023 Il Censis descrive una generazione di esuli che non lottano più, perché sentono di non poter cambiare nulla. Ma la speranza non può morire: “Togliamo i soldi ai milionari del mondo del divertimento per darli agli insegnanti”. “All You Need is Love”, “Tutto ciò di cui hai bisogno è l’amore”, cantavano i Beatles affermando il primato dell’amore nell’esistenza umana. Dicevano bene ma non del tutto a mio avviso, perché in realtà ciò di cui tutti noi abbiamo veramente bisogno è l’orientamento. “All You Need is Orientation”: la vita è un viaggio in regioni sconosciute e richiede costantemente una bussola. L’amore naturalmente lo è, è una forma di orientamento tra le più forti ed efficaci perché concerne sia la mente sia il cuore, sia la ragione sia i sentimenti, ma lo è veramente quando è “vero”. Altrimenti può essere una trappola, persino una dannazione, come quotidianamente insegnano i numerosi femminicidi e suicidi e tragedie di ogni tipo a esso connesse. Per questo la più preziosa risorsa per un essere umano è l’orientamento, e una società è tanto più forte quanto più ha e conferisce orientamento. Proprio l’orientamento però è ciò che manca alla nostra società quale viene fotografata dal nuovo rapporto del Censis. L’assenza di orientamento si palesa nel modo più clamoroso laddove la società esprime la sua natura più sincera, cioè nei giovani. I giovani, infatti, sono la cartina di tornasole di quell’esperimento chimico che si svolge in continuazione nella storia e che chiamiamo società, in quanto manifestano nel modo più chiaro gli effettivi valori della società degli adulti. Quando ero ragazzo tutto era “politica”, e tutto lo era perché tutto era “impegno”, e tutto era impegno perché la generazione dei miei genitori era “impegnata” a ricostruire il Paese dopo la distruzione a cui il fascismo l’aveva condotto. Si andava a scuola coi giornali sottobraccio, si discuteva di politica e di economia, si voleva cambiare il mondo, ma si faceva così precisamente per quella corrente di impegno che si respirava in famiglia e nelle strade, ovviamente reinterpretata secondo la radicalità e l’esuberanza che da sempre contrassegna la gioventù. Guccini cantava: “Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata”, e tutti noi, ognuno a modo suo, eravamo abitati da quel sogno di un mondo diverso, nutriti da una neonata speranza. E quindi avevamo orientamento. Come l’abbiamo utilizzato? Male, perché l’abbiamo finalizzato solo al divertimento e alla “dolce vita”, il cui vero profeta da noi non fu certo Federico Fellini che ne fece un film, quanto piuttosto Silvio Berlusconi che sul divertimento e sulla dolce vita ha costruito il suo lucroso impero. Ma è un grande inganno far credere che la vita sia dolce, perché essa non lo è. Essa è piuttosto ciò che scaturisce dal mischiare insieme in una tazza zucchero, sale, aceto, peperoncino, assenzio e chissà che altro: il sapore indistinto che ne scaturisce, dolce amaro salato acido e piccante al contempo, è la vita. L’educazione consiste nel saper assaporare e sopportare e riconoscere tutto questo. L’educazione cioè è orientamento. Il Censis descrive i nostri giovani come “esuli in fuga”, affermando che a loro appartiene “un dissenso senza più conflitti”, che cioè essi dicono di no ma senza più lottare. Hanno perso la speranza di poter cambiare qualche cosa, non solo non credono più di poter avere il mondo nuovo che cantava Guccini, ma neppure di migliorare un po’ il mondo vecchio che stiamo lasciando loro. Il Censis continua parlando di “sonnambulismo” della nostra società, lamentando il fatto che essa è “precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante”. A me pare, in realtà, che i calcoli siano l’unica cosa che nella nostra società veramente viene esercitata: tutti li fanno, dalle famiglie per arrivare alla fine del mese, alle aziende per raggiungere il budget. Numeri e ancora numeri, solo numeri: non mancano per nulla i calcoli in quest’epoca nella quale tutto mira a essere digitale, vocabolo che etimologicamente significa esattamente questo, “numerico” (dall’inglese “digit”, “cifra”, probabilmente perché per calcolare si contava sulle dita, che in questo caso l’inglese deriva dal plurale latino “digita”). Oggi non mancano i calcoli, mancano gli ideali. Ma sono solo gli ideali che motivano e orientano. Ciò di cui un essere umano ha bisogno, soprattutto quando è giovane, è la motivazione e l’orientamento. Ha scritto al proposito Dante: “Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Inferno, XV, 55-56). Per non fallire occorre avere una stella e avvertire il desiderio di seguirla. Le società infatti fioriscono quando gli individui hanno una stella comune da seguire e seguendola diventano tra loro “soci” formando appunto una “società”. Al contrario, le società falliscono quando gli individui non hanno più una stella in comune e camminano ognuno per sé indirizzati solo verso ciò che Guicciardini chiamava “particulare”. Perché oggi non si fanno più figli? Perché entro il 2040 solo una coppia su quattro avrà figli? Viene spontaneo rispondere che è a causa delle difficoltà economiche, ma nel passato si era molto più poveri e ciononostante si facevano molti più figli, come avviene ancora oggi in non poche parti del mondo. Si può rispondere solo affrontando quest’altra domanda: cosa significa fare figli? Un tempo era chiaro, significava espletare il compito principale per il quale si era venuti al mondo, oltre che avere braccia a disposizione per il benessere economico (da qui il detto “auguri e figli maschi”, perché i maschi andavano da subito a lavorare contribuendo al benessere della famiglia, mio padre iniziò ad andarci a sei anni nel pomeriggio dopo la scuola). La famiglia era percepita come più importante del singolo, il cui compito era di servirla, e servendo la famiglia si serviva la società, e da qui la nazione e lo Stato. Giusto? Sbagliato? Un po’ giusto e un po’ sbagliato, come quasi tutto nella vita. Di certo però, se quel modello è venuto meno, aveva dei limiti, il principale dei quali era la strumentalizzazione dei singoli alla struttura sociale. Ovvero i cosiddetti “sacrifici”. Quanti sacrifici, quante vite sacrificate! Elton John diede voce alla ribellione cantando “No Sacrifice”, giusto, chi gli dà torto? Oggi però siamo caduti nell’estremo opposto con la vittoria di una filosofia di vita egoista e calcolante espressa a suo tempo così da Max Stirner: “Non c’è nulla che mi importi più di me stesso”. Questa è la più immediata rappresentazione di ciò che in filosofia si chiama “morte di Dio”: il fatto che è rimasto solo l’Io. Prima si cantava il “Te Deum”, ora risuona solo il “Me Deum”. E il nuovo comandamento è: “Non avrai altro Dio all’infuori dell’Io”. Come può una società di questo tipo educare e offrire orientamento? Si ha educazione infatti quando si pone la coscienza al cospetto delle tre domande che secondo Kant riassumono il compito dell’esistenza: “Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?” (Critica della ragion pura, 833 B). Ovvero: dimensione intellettuale + dimensione etica + dimensione spirituale. Un essere umano ben educato è chi ha attivato in sé queste tre dimensioni, a prescindere poi da come singolarmente risponda. Io penso che ci possiamo salvare dalla triste decadenza verso cui stiamo precipitando solo tornando a educare. Lo devono fare le famiglie, le aziende, la scuola. Occorre che soprattutto la scuola torni a dare ai nostri giovani orientamento. Non solo cioè istruzione (prima domanda kantiana), ma anche motivazione e gioia di vivere (seconda e terza domanda kantiana). Togliamo un po’ di denaro a tutti i plurimilionari del mondo del divertimento e diamolo agli insegnanti e a tutti gli educatori. C’è bisogno di un Robin Hood dell’educazione. È intollerabile la sperequazione tra chi fa divertire e chi lavora per educare, e uno Stato degno di questo nome non può assistere a questa morte della speranza nei propri giovani, descritti dal Censis come “esuli in fuga”, senza fare nulla. In che modo attuare tutto questo non lo so, non sono un politico né un economista, ma so che è urgente investire a piene mani nell’impresa educativa, perché “All You Need is Orientation”. “W la scuola”, perché riportare in classe “gli irraggiungibili” è possibile di Gianna Fregonara Corriere della Sera, 4 dicembre 2023 Il progetto della Comunità di Sant’Egidio che intercetta migliaia di studenti che hanno abbandonato. Come rimuovere gli ostacoli. Il libro e il convegno a Roma. Ci vuole coraggio a intitolare un progetto contro la dispersione scolastica “W la scuola”. Ma la comunità di Sant’Egidio l’ha fatto. E, a sentire i racconti degli studenti che in questi due anni si sono riavvicinati alla scuola grazie al contatto con i volontari, Evelina Martelli, che ha coordinato il progetto, ha avuto ragione: sono tornati in classe più di duemila studenti a Roma, dal Covid in poi, e altre centinaia in tutte le città in cui la comunità è presente: Genova e Napoli innanzitutto. Il progetto - L’obiettivo del progetto è diretto: raggiungere gli irraggiungibili, quegli studenti, molti ancora bambini, che la scuola si è persa per le ragioni più varie, spesso anche banali. Non a caso i volontari sono dei facilitatori, dei mediatori chiamati alle volte dai dirigenti scolastici, altre dagli insegnanti, altre ancora dai genitori stessi, per riallacciare i contatti con i prof e la classe, per far la pace tra lo studente e la scuola. Chi sono i facilitatori? Lo spiega la mamma di Daniele, 13 anni, che dopo l’ennesimo colloquio burrascoso con i professori e la prospettiva della bocciatura già chiara alla fine del primo quadrimestre incontra Davide. E lo definisce così: “una persona di cui ti puoi fidare”, un gancio sicuro a cui attaccarsi. Inutile dire che la mediazione ha portato i suoi frutti e Daniele è tornato in classe. Il libro - Se ne è parlato il 28 novembre nella Biblioteca della Comunità a Trastevere con il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, che ha ricordato come questo progetto si inserisca nella visione educativa che va da don Milani a Mario Lodi e alle “scuole della pace”. Con lui anche il rettore di Roma Tre Massimiliano Fiorucci, Barbara Romano, ricercatrice della Fondazione Agnelli, e Marco Rossi Doria, presidente dell’impresa sociale “Con i bambini”, che ha spiegato come i “dispersi” non sono dispersi per niente, ma sono lì davanti a noi e a volerlo, come dimostra il progetto W la scuola, si possono raggiungere e aiutare. Pare incredibile ma spesso gli ostacoli che portano all’allontanamento da scuola possono anche essere difficoltà ad avere informazioni, a completare le iscrizioni - che oggi si fanno con lo Spid - oltre che a raggiungere gli insegnanti e la scuola. Senza arrivare al paradosso in cui vivono molte delle famiglie di migranti, ben descritto da Stefano Orlando nel libro: “Sono spesso molto motivate nel mandare i figli a scuola” perché lo vedono come una possibilità di riscatto, di far fare un ultimo passo avanti ai bambini, ma poi si trovano di fronte a ostacoli burocratici o pratici che diventano insormontabili. A partire dalla mancanza di professori formati per insegnare l’italiano lingua 2. Gli irraggiungibili - Il progetto - come ha spiegato Evelina Martelli - va avanti e si sta allargando ma intanto aver raccolto i dati e spiegato il progetto con particolari e testimonianze nel libro “W la scuola, un programma per contrastare la dispersione scolastica”, edizioni Scholé, ha il pregio di renderlo misurabile nei suoi risultati e di renderlo replicabile. Fine vita mai: aumentano i casi di malati costretti a ricorrere al suicidio assistito in Svizzera di Valentina Petrini La Stampa, 4 dicembre 2023 La “sentenza Cappato” non trova ancora piena applicazione in Italia. Ora anche i familiari si autodenunciano: “Ho disobbedito per mia sorella Margherita”. “Il 27 novembre è stata la nostra ultima notte insieme. La mattina dopo, mia sorella ha ingerito da sola il farmaco letale e in pochi minuti si è addormentata ed è morta. È finita, così, in Svizzera, la sua esistenza terrena, lontana da casa, dagli affetti più cari, lontano dai luoghi in cui siamo cresciuti”. Paolo Botto non trattiene le lacrime mentre racconta chi era sua sorella Margherita Botto e perché il 28 novembre è morta a Zurigo e non nel suo letto a Milano. Classe 1949, insegnante di Lingua e Letteratura francese in varie università, traduttrice sin dalla fine degli anni Settanta di Emmanuel Carrère, Alexandre Dumas, Stendhal, Fred Vargas e molti altri, Margherita è l’ennesima cittadina italiana condannata all’esilio della morte a causa dell’assenza nel nostro paese di una legge organica sul fine vita. Il Parlamento tace da decenni. Idem il governo Meloni. Eppure, lo ha confermato anche il Censis nel 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese: il 74% dei cittadini italiani è favorevole all’eutanasia. Margherita è arrivata in Svizzera grazie a suo fratello e ai volontari di Soccorso Civile, associazione fondata nel 2015 da Marco Cappato, insieme a Mina Welby e che oggi conta più di trenta volontari che offrono appoggio alle persone che hanno bisogno di informazioni, assistenza logistica e finanziaria, per ottenere aiuto medico alla morte volontaria. Chi disobbedisce accompagnando qualcuno a morire all’estero rischia un processo e una condanna, fino a 12 anni per istigazione e aiuto al suicidio. Ma la vera novità politica dei casi che stiamo raccontando è che a disobbedire non sono più soltanto attivisti e volontari, in prima fila ci sono i parenti dei malati terminali. Comuni cittadini pronti a farsi carico delle conseguenze legali della loro disobbedienza pacifica e nonviolenta per amore. Per Margherita Botto è andata così: 74 anni, ad agosto scorso si sveglia con uno strano gonfiore al collo. Trombosi molto estesa alla giugulare destra. La causa è in realtà una massa di linfonodi particolarmente gonfi che premono appunto sulla giugulare. A settembre il referto istologico: adenocarcinoma, tumore aggressivo al terzo stadio, non operabile. “Margherita mi ha guardato e mi ha detto: “Non voglio accanimento terapeutico. Voglio morire senza soffrire”. Margherita ai medici non chiede nemmeno qual è la sua aspettativa di vita. È ben informata. Inoltre ha già preso una decisione: vuole staccare la spina. Ma in Italia non può morire quando decide lei. Non può sottrarsi all’agonia. Per questo, scrive alla Dignitas, tra le più note associazioni internazionali che ammettono per l’aiuto alla morte volontaria a Zurigo anche persone provenienti dall’estero. Paolo contemporaneamente contatta Marco Cappato e con l’aiuto di Soccorso Civile, organizza il trasferimento in ambulanza privata da Milano a Zurigo per sua sorella. Nel frattempo Margherita fa la prima e la seconda dose di chemio. “Da cui esce devastata. Con i globuli bianchi sotto la soglia di sicurezza”. Non cammina più, non dorme, non riesce a stare sdraiata, solo seduta, giorno e notte. Si becca pure il Covid. Lei esausta ripete: voglio morire serena. “La ragione per cui sin dall’inizio ho detto a Marco Cappato che ero disponibile alla disobbedienza civile - spiega Paolo - era proprio per il fatto che se fosse stato possibile Margherita si sarebbe congedata dalla vita tranquillamente a casa sua. Ho anche pensato a tutte quelle persone nello stesso stato di mia sorella calpestate da questa nazione, repubblica delle banane casualmente finita in Europa”. Per consentire a Margherita di morire a Zurigo, Paolo versa 12 mila euro, “chiaramente una cifra non alla portata di tutti”. Ma non c’era alternativa: “Né lei e né io avevamo speranza di poter ottenere l’aiuto alla morte volontaria a Milano. In quei giorni, infatti, era uscita la notizia di Sibilla Barbieri e della battaglia persa da questa donna per farsi riconoscere a Roma i suoi diritti civili”. Sibilla Barbieri romana, scrittrice, produttrice, sceneggiatrice, malata oncologica terminale con metastasi in varie parti del corpo, è morta a Zurigo il 31 ottobre dopo aver trasformato la sua fine in un atto politico. Il 6 novembre suo figlio Vittorio Parpaglioni, varca la soglia della caserma dei carabinieri e si autodenuncia per aver accompagnato insieme a Marco Perduca, ex senatore dei radicali, membro dell’Associazione Luca Coscioni, sua madre a morire in un paese straniero. Vittorio è stato il primo parente in Italia ad aver compiuto un gesto simile, di fatto aprendo la strada alla disobbedienza di Paolo e a chissà quanti altri in futuro. “Mi sono autodenunciato come Vittorio - racconta Paolo - per aver organizzato il trasferimento di mia sorella in un altro Paese in cui i suoi diritti sono stati rispettati. Non me ne pento. Ringrazio Cappato e Cinzia Fornero di Soccorso Civile che ha disobbedito con me accompagnando in ambulanza mia sorella a Zurigo”. Insomma due donne, Sibilla Barbieri e Margherita Botto, che muoiono a distanza di due settimane, entrambe in una clinica Dignitas, tramite suicidio assistito. Due donne che avrebbero invece voluto congedarsi dalla vita nella loro casa. Un figlio e un fratello che con la loro disobbedienza hanno lanciato una sfida allo Stato: arrestateci, condannateci. La nuova stagione di disobbedienze di cui stiamo parlando nasce per un motivo specifico: rendere evidente che in diverse regioni d’Italia oggi la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, sul caso Cappato/Antoniani che ha introdotto il diritto, per le persone in determinate condizioni di malattia, di ottenere, a seguito delle verifiche mediche effettuate dal Sistema sanitario nazionale, l’aiuto alla morte volontaria, non è rispettata. Margherita e Sibilla sono solo gli ultimi casi. Federico Carboni è stato il primo a chiedere, nel 2020, la verifica delle sue condizioni ed è stato anche il primo a scontrarsi con un sistema palesemente impreparato, disattento, a tratti violento. “L’Asur Marche disse a Federico che la sentenza costituzionale Cappato/Antoniani aveva solo depenalizzato un fatto di reato ma senza una legge il suicidio assistito non era praticabile in Italia. Falso” spiega Filomena Gallo, segretaria nazionale della Luca Coscioni, nonché legale di Margherita, Sibilla, Federico e tutti i malati che si sono rivolti a loro. “Le sentenze della Corte Costituzionale hanno valore di legge e vanno rispettate. Punto. Invece Federico ha dovuto lottare quasi due anni tra diffide, ricorsi, esposti”. Dopo Federico stessa sorte è toccata a Fabio Ridolfi. “Nonostante fosse in possesso di tutti i requisiti e nonostante le verifiche del Servizio sanitario nazionale avessero avuto esito positivo - è sempre Filomena Gallo - a causa di ostruzionismi burocratici, è morto come non avrebbe voluto, cioè tra spasmi dinanzi alla sua famiglia come racconta il fratello, per l’ennesimo ritardo della sua Asl”. E poi c’è Gloria in Veneto, Anna in Friuli Venezia Giulia, Laura Santi in Umbria. In Friuli Venezia Giulia e in Umbria, in particolare, “è stato necessario ricorrere ai Tribunali anche solo per ricevere le verifiche delle proprie condizioni”. Cioè le Asl si rifiutano in alcuni casi anche solo di valutare le domande che ricevono. Nel Lazio, infine, nessuno è stato ad oggi mai autorizzato ad accedere al suicidio assistito. Solo il Veneto è un caso a parte: la prima regione in Italia ad aver dato applicazione completa alla sentenza costituzionale senza la necessità di un ordine del Tribunale e senza discriminazioni tra tipologie di malati, quindi accogliendo anche le richieste di pazienti oncologici. Nonostante Sibilla Barbieri abbia rivolto - prima di morire - un appello pubblico a Parlamento e Governo affinché le discriminazioni in atto fossero rimosse, ad oggi né Giorgia Meloni né Elly Schlein hanno raccolto il testimone e detto chiaramente cosa pensano in merito. Solo Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, è stato costretto a riferire in Consiglio regionale sul caso di Sibilla Barbieri. Rocca ha difeso la commissione aziendale della Asl Roma 1 che ha negato a Barbieri il permesso al suicidio assistito anche quando le sue condizioni stavano peggiorando motivando i vari perché in una relazione. “La relazione presentata è controversa, manipolatoria e fuorviante - commenta Francesca Re, avvocata che insieme a Filomena Gallo difende i familiari di Sibilla che hanno denunciato per questo diniego la Asl Roma 1 -. Rocca dice che Sibilla Barbieri avrebbe interrotto i trattamenti nel 2023 senza però specificare che questa interruzione non nasce da un capriccio di Sibilla. È stata decisa di comune accordo con i suoi medici curanti per assenza di prospettive di guarigione. Rocca riferisce anche che la terapia antalgica non è un trattamento di sostegno vitale. Non spiega perché la Asl non abbia valutato la progressione veloce della malattia e perché non si è precipitata a verificare il peggioramento delle condizioni di salute di Sibilla. Perché non ha tenuto in considerazione che il Comitato etico aveva invece dato parere favorevole al suicidio assistito di Sibilla Barbieri”. Vedremo come finirà. Ad oggi l’unica certezza è l’indifferenza della politica, per paura certamente di dover prendere una posizione pubblica su un tema scottante su cui i partiti non hanno mai, nemmeno a sinistra, dimostrato di essere indipendenti e laici. Cibo sicuro e lavoro per tutti ecco i volontari per i diritti di Luca Liverani Avvenire, 4 dicembre 2023 Alla vigilia della Giornata Onu del volontariato del 5 dicembre, la XXXI edizione del riconoscimento della Federazione delle Ong di sviluppo cristiane (Focsiv) che premia cinque progetti di cooperazione Premiati progetti di sicurezza alimentare in Africa, inserimento lavorativo dei disabili in America centrale, emancipazione femminile in Marocco, reinserimento sociale dei detenuti in Camerun e ricerca e soccorso in mare. Affermare a ogni latitudine i diritti umani, inalienabili e indivisibili, significa anche lavorare per la sicurezza alimentare delle popolazioni rurali in Kenya, per l’inserimento lavorativo dei disabili in Guatemala, per l’emancipazione femminile in Marocco, per l’inclusione sociale dei detenuti in Camerun, per salvare chi fugge da violenze e miseria nel Mediterraneo centrale. È la “pace mondiale a pezzi” che pazientemente costruiscono i cooperanti delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. E alla vigilia del 5 dicembre, Giornata mondiale del volontariato voluta dalle Nazioni Unite, il XXXI Premio del Volontariato Internazionale Focsiv 2023 sceglie cinque progetti tra i tanti delle 95 ong che operano in oltre 80 paesi, associate nella Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana. Quest’anno il Premio Progetto Cooperazione Internazionale Focsiv è andato ex-aequo a Building for future di ACCRI in Kenya e Alma de colores di COE in Guatemala (vedi i box in basso, ndr) ; il Premio Società Civile dal Sud è stato assegnato ad Halima Oulami, Presidente dell’Association El amane pour le developpement del la femme partner CO.P.E. in Marocco; poi il Premio Servizio Civile Universale Focsiv 2023 a Michele Scolari, ex volontario del Servizio civile universale svolto per COE in Camerun per il reinserimento sociale dei detenuti; infine il Premio Difensore dei Diritti Umani Focsiv 2023 a ResQ - people saving people, la ong di soccorso in mare, nata da un piccolo gruppo di professionisti di varia natura - giornalisti, ricercatrici, avvocati, operatori umanitari - cresciuto negli anni grazie a migliaia di cittadini e tante associazioni, aziende, fondazioni. Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, ha voluto inviare un messaggio di sostegno all’iniziativa, mettendo in evidenza come la “cooperazione, che della politica estera è parte integrante e qualificante, svolge il suo fondamentale ruolo di promozione di uno sviluppo sostenibile, basandosi sulla centralità della persona, sulla solidarietà e sul dialogo interreligioso”. Tajani ha assicurato che “nel promuovere la pace, la giustizia e lo sviluppo, il Governo vuole mettere a sistema l’impegno corale del nostro Paese: amministrazioni centrali e locali, settore privato; mondo accademico e Terzo settore oggi rappresentato in questa Assemblea” Per Ivana Borsotto, Presidente Focsiv, “il Premio è un riconoscimento a tutto quel mondo di donne e uomini di tante lingue e fedi, che ogni giorno lavorano insieme a costruire la Casa comune della giustizia e della pace, che ci regalano un arcobaleno che annuncia fiducia. E se ci chiediamo “ sentinella quanto resta della notte?” - dice la presidente Focsiv - la luce del mattino possiamo intravederla nelle donne, vita e libertà dell’Iran, nello sciopero delle tessitrici del Bangladesh, nelle comunità indigene che proteggono Pacha Mama e le foreste, negli operai delle fabbriche che lottano per un giusto salario e contro la precarietà, nelle giovani e nei giovani che combattono per l’ambiente, nelle barche che salvano vite nel Mediterraneo, nelle associazioni e nelle persone che si prodigano per i migranti nella rotta balcanica, nelle piazze e nelle strade che si dipingono di fucsia, nei volontari nei villaggi più isolati e nelle periferie più ribollenti di vita, nel dialogo interreligioso. Come donne e uomini Focsiv, siamo parte di chi lavora per alleviare le sofferenze e contrastare alla radice le cause profonde delle disuguaglianze, dell’oppressione, della guerra. Cooperazione - sottolinea Borsotto - che è al centro della Campagna 070, che richiama il Governo affinché destini lo 0,70 del PIL alla cooperazione internazionale, come sottoscritto 50 anni fa in sede ONU”. Il Premio ha ottenuto la Targa del Presidente della Repubblica, il Patrocinio dell’Assessorato alle Politiche sociali di Roma, di RAI per la Sostenibilità ESG, AOI, Forum del Terzo Settore e Fondazione Missio. Gli immigrati diventano volontari: l’impegno per il non profit è un modo per integrarsi di Paola D’Amico Corriere della Sera, 4 dicembre 2023 Indagine di Mèdi-Migrazioni nel Mediterraneo sugli stranieri che donano: raccolte fondi e attività di solidarietà. Il caso della Comunità Monsignor Romero. Maurizio Ambrosini: “Ancora troppi stereotipi”. Sono cittadini “di fatto”, contribuiscono attivamente alla società di cui fanno parte. Anche sotto l’aspetto della solidarietà. E il loro atto del donare va letto come una domanda implicita di riconoscimento sociale. Partecipare - consegnando i pasti ai fragili, promuovendo donazioni di denaro, di beni materiali, di sangue - esprime un senso di appartenenza alla comunità in cui vivono. È quando emerge dalla inedita fotografia della popolazione di origine immigrata impegnata nel volontariato, scattata tra la pandemia e l’emergenza profughi con la guerra in Ucraina, grazie alla ricerca di “Medì-Migrazioni nel Mediterraneo” di Genova con i Centri di servizio per il volontariato e Csvnet che la presenta oggi sui propri canali YouTube e Facebook. In particolare, lo studio suona come un invito a mettere all’angolo molti stereotipi come quelli “che gli immigrati sono parassiti o persone da assistere”, sottolinea il sociologo Maurizio Ambrosini, docente all’Università Statale di Milano, che di “Medì” è il direttore scientifico. La testimonianza - Julio Paredes, 38 anni, coordinatore di una delle associazioni coinvolte nella ricerca, e cioè la Comunità Monsignor Romero presso il Centro Schuster di Milano, aggiunge qualche dettaglio a questa istantanea: “So cos’è la povertà e come me tanti altri. Sappiamo cosa vuole dire non avere nulla, avere fame e non avere niente da mangiare. È quello che ci muove. Io sono arrivato in Italia dal Salvador a 19 anni, ho trovato lavoro dopo 3 mesi e non mi sono più fermato: i miei obiettivi, con fatica, li sto raggiungendo. La Comunità è stata fondata dalle tante donne arrivate per lavorare all’inizio degli anni Ottanta, quando nel mio Paese c’era la guerra: allora era il loro punto di incontro, oggi è un luogo aperto a tutti”. Il volume curato da Ambrosini e Debora Erminio parte da un focus su 330 volontari scelti in diverse organizzazioni presenti su tutto il territorio nazionale, cui si aggiungono un’ottantina di interviste. Traccia un identikit del volontario: più donne (59%) che uomini; in Italia da più di 20 anni; 43 anni di età, uno su due ha la cittadinanza, il 42% una occupazione stabile e il 52% una laurea. E in sostanza identifica una “classe media che attesta la sua integrazione anche mediante le pratiche di solidarietà”. Riscontra, tra le altre cose, la capacità di tutti coloro che ricadono sotto la definizione di “immigrati”, inclusi i neocittadini italiani e le seconde e terze generazioni cresciute in Italia, di “aggregarsi in forme più o meno organizzate per attivarsi e prestare aiuto”. Dice ancora Ambrosini: “Siamo partiti dalle notizie emerse durante la fase più drammatica della pandemia. Per esempio nella mia città, Vercelli, la comunità di senegalesi ha raccolto e donato diecimila euro a chi era impegnato a gestire l’emergenza. Lo ammetto, non avrei mai pensato che fossero capaci di tanto. Ma come questo ci sono decine di esempi di donazioni anche ingenti alle istituzioni, non solo collette spedite al loro Paese di origine. Quindi, abbiamo deciso di studiare il ruolo attivo di queste persone, la loro capacità di aggregarsi in forme più o meno organizzate”. Ed ecco i volontari in prima linea nella raccolta e distribuzione di aiuti, nella traduzione e diffusione di informazioni sui comportamenti da adottare, nella mediazione con i servizi sanitari, nella collaborazione in rete con servizi e organizzazioni italiane per aiutarle a cercare di raggiungere i residenti stranieri, fino ai più marginali e invisibili. Una dimensione indagata è quella del dono in termini di tempo, più vicina all’esperienza del volontariato. Ed emerge che “chi ha ricevuto qualche tipo di sostegno mostra livelli di pro-socialità più alti, cioè partecipazione a iniziative solidali”. I solidali di origine immigrata sono spesso impegnati in attività di sostegno ai diritti degli stranieri: istruiti e talvolta naturalizza possono mediare i rapporti con la burocrazia. “È emersa anche una dimensione politica di questo impegno, una domanda di riconoscimento, di ascolto”. Specialmente da parte di gruppi stigmatizzati: comunità musulmane, associazioni di immigrati del Sud del mondo. “Finita la pandemia, questo ruolo attivo - continua Ambrosini - è finito nell’oblio, le loro domande sono state dimenticate. Ricordarle è uno degli obiettivi della ricerca”. Gli immigrati che fanno del bene sono visti come una eccezione. “Contraddicono la nostra visione e poiché siamo pigri nel cambiare mentalità preferiamo rimuoverli. Occorre una contro-narrazione”. Il mondo del volontariato “è per vocazione laboratorio di esperienze di sviluppo della comunità. L’indagine offre alle realtà di Terzo settore - conclude Maria Luisa Lunghi, presidente Csv Lombardia Sud e consigliera Csvnet - sollecitazioni e motivazioni per individuare piste di lavoro innovative”. Stati Uniti. Telefonate dal carcere gratuite e illimitate in Massachusetts cnn.com, 4 dicembre 2023 Il Massachusetts è diventato il quinto Stato degli Usa a consentire ai detenuti di telefonare gratuitamente, grazie a una nuova legge firmata dal governatore Maura Healey. La nuova legge è entrata in vigore venerdì e comprende tutti i 14 istituti penitenziari dello Stato, secondo un comunicato stampa del Massachusetts Department of Correction. Il cambiamento “fornirà un accesso equo a una comunicazione duratura tra i detenuti e i loro cari” e “non c’è limite al numero di chiamate che ogni detenuto può effettuare”, si legge nel comunicato stampa “Il Dipartimento di Correzione del Massachusetts riconosce l’importanza che i detenuti mantengano i legami con i loro cari”, ha dichiarato il commissario del Dipartimento di Correzione Carol Mici nel comunicato. “Le chiamate gratuite allevieranno l’onere finanziario e rimuoveranno gli ostacoli che impediscono alle persone detenute di rimanere in contatto con il loro sistema di supporto esterno. Un forte sostegno familiare aiuta a far progredire il processo riabilitativo, riduce la recidiva e contribuisce al successo del reinserimento al momento del rilascio”. L’organizzazione no-profit Equal Justice Works Fellow, specializzata in questioni di consumo per conto di persone a basso reddito, ha descritto la legge come “un potente precedente che altri Stati sono invitati a seguire”. “Per anni, le compagnie telefoniche carcerarie hanno approfittato delle spalle di alcune delle famiglie più vulnerabili del Massachusetts”, ha dichiarato Caroline Cohn. “Ci congratuliamo con il Massachusetts per essersi unito alla lista crescente di Stati che non costringono più i loro residenti a scegliere tra pagare l’affitto o parlare con i loro cari incarcerati”. Nel 2019, New York è diventata la prima grande città a offrire ai detenuti chiamate gratuite dal carcere. Il Connecticut è diventato il primo Stato a rendere gratuite le telefonate per i detenuti nel 2021. Le organizzazioni non profit e i gruppi di difesa hanno richiamato l’attenzione sull’elevato costo delle chiamate in carcere, che potevano arrivare a 14 dollari al minuto prima che la Commissione federale per le comunicazioni stabilisse un tetto massimo per le tariffe nel 2015. Ucraina. Kiev è sempre più allo stremo per l’”invasione” degli sfollati di Giacomo Gambassi Avvenire, 4 dicembre 2023 Il freddo e gli attacchi russi sul fronte del Dnepr fanno aumentare i profughi nella capitale: inflazione, lavoro scarso e un sussidio statale di soli 50 euro rendono difficile trovare alloggi. Ha visto morire davanti ai suoi occhi i vicini di casa. “Erano appena rientrati dopo essersi rifugiati all’estero. Un missile russo ha colpito la loro abitazione. Tutta la famiglia è stata uccisa. E non ce l’ho più fatta”. Se n’è andata Liudmyla Hritsenko. Lei con le due figlie: Tetyana di 15 anni e Victoria, 11 mesi, nata durante la guerra. Ha lasciato la campagna intorno a Kryvyi Rih, la città dell’Ucraina meridionale a cinquanta chilometri dal fiume Dnepr lungo cui corre il fronte. “La situazione sta peggiorando. I razzi ti volano sopra la testa. Gli allarmi antiaerei non hanno il tempo di entrare in funzione. Allora eccomi qui”. E Liudmyla è arrivata a Kiev. Da profuga. Senza più nulla. Era fine luglio. “Qui è più sicuro ma è davvero dura vivere”, confida. Come lei, centinaia di rifugiati che giorno dopo giorno continuano ad approdare nella capitale. Una città nella città: il volto più povero e fragile della metropoli. “Chi era giunto all’inizio del conflitto abbandonando gli abitati occupati dall’esercito russo intorno alla città è rientrato a casa, seppur tra mille difficoltà. Ma il flusso degli arrivi non si è mai interrotto: anzi, adesso si sta intensificando soprattutto dalle regioni del sud e dell’est più a ridosso della linea di combattimento e quindi nel mirino costante delle truppe di Mosca”, racconta il direttore della Caritas latina di Kiev, padre Rostyslav Pecheniuk. Il popolo dei nuovi sfollati, bersaglio dell’escalation militare russa ma anche vittima dell’esplosione della diga di Kakhovka, il “Vajont ucraino” dello scorso giugno che ha costretto decine di migliaia di persone a fuggire. Famiglie, bambini, anziani che “sono stati per mesi negli scantinati”, spiega Julia Klymentyeva, coordinatrice del settore emergenza. E spesso non sanno neppure di avere l’epatite, il Covid, la tubercolosi. “Perché hanno vissuto in condizioni igieniche precarie, magari bevendo acqua avariata o condividendo ambienti angusti”, aggiunge. L’unico modo per ripararsi dalle bombe. Kiev è la salvezza ma anche una disgrazia. “Devi trovare la casa. L’inflazione è alle stelle. Il lavoro non c’è: le fabbriche e le aziende sono in gran parte chiuse. Mancano le medicine. E lo Stato assicura a ciascun profugo di guerra soltanto 2mila grivnia al mese: circa 50 euro. Impossibile sopravvivere, soprattutto in una capitale”, dice padre Pecheniuk. Con il saio da frate minore francescano, dà il benvenuto a chi bussa alle porte della sede di Caritas-Spes fra i quartieri residenziali lungo la riva sinistra del Dnepr, il fiume che divide in due Kiev. “La gente non ha più molta fiducia nelle autorità pubbliche - spiega il religioso -. Sarebbe un dovere dello Stato accompagnare i rifugiati, ma le risorse vengono drenate per il comparto militare tralasciando l’ambito sociale. E allora in tanti si rivolgono alla Chiesa”. Per il cibo. Per i vestiti. Per i pannolini o il latte in polvere del figlio neonato. Per pagare l’affitto di un appartamento. “Prima della guerra avevamo una vita meravigliosa. C’era la nostra casa. C’era la dacia in campagna. La casa è stata distrutta da un missile e il cottage allagato dopo il disastro della diga. A 38 anni io e mio marito siamo rimasti senza niente”, si sfoga Kateryna Zaveriukha, originaria di Kherson, tre lauree e la figlia Veronica partorita durante l’assedio della città che al di là del fiume è ancora sotto il controllo del Cremlino. “Qui a Kiev - prosegue - non abbiamo nessuno: né parenti, né conoscenti, né amici. Talvolta ho l’impressione che nessuno ci voglia. Per di più con una figlia piccolissima”. Poi ci sono i disabili. O gli anziani: quelli fuggiti dalle regioni ancora in mano russa o quelli rimasti soli nella capitale perché tutta la famiglia si è trasferita in Europa. “Ogni mese siamo in grado di assistere fino a cinquecento nuclei. Anche se molto dipende dalle risorse”, sottolinea il francescano. “Le donazioni - fa sapere Natalia Shylovska, referente amministrativa della sede - sono calate a fronte di necessità sempre maggiori e di una miseria che cresce. Perciò siamo costretti a limitarci a rispondere ai bisogni più urgenti”. In due stanze del presidio Caritas è stato ricavato anche un asilo. “Due gruppi di dieci bambini si alternano”, riferisce l’assistente sociale Olena Sapranova-Voronina. E una manciata di gradini portano nel seminterrato trasformato in bunker. “È a disposizione di chiunque in caso di allarme. A cominciare dagli alunni della scuola dall’altro lato della strada”. Nel frigo gli alimenti “salvagente”. Sulle mensole le candele se l’elettricità non c’è. “Il Vangelo della carità - conclude il religioso - ci chiede anche di realizzare un rifugio. E di pregare sia per la pace, sia per l’accoglienza di un popolo ferito e provato”. Il Medio Oriente è stanco di guerre, la via dell’economia per uscire dallo stallo di Lucia Annunziata La Stampa, 4 dicembre 2023 Lo scontro con Hamas ha mostrato le falle nella macchina bellica israeliana, già emerse contro Hezbollah. Lo Stato ebraico è ora ricco e hi-tech e i vicini arabi vogliono imitarlo: è questa la maggiore chance per la pace. Nel 59esimo giorno -16.000 palestinesi morti, di cui 5.600 bambini, secondo Hamas, e 1.200 morti Israeliani nell’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas - la guerra di Gaza dopo la fine della tregua ha già un nome: “Fase Due”. La definizione indica che l’interruzione anche solo di pochi giorni ha cambiato alcune delle carte in tavola e che, dunque, occorreranno nuovi piani per fermare la guerra. L’idea di avere un’altra pausa - la seconda - sa molto di guerra “a singhiozzo”, il che coprirebbe di ridicolo sia i protagonisti del conflitto che i loro alleati. Stati Uniti da una parte e mondo arabo dall’altro. Lo scambio e le ragioni per cui la tregua è stata interrotta, hanno rivelato i rapporti di forza in campo - Israele non ha recuperato con questa operazione le proprie divisioni interne, mentre Gaza e il West Bank si sono ricoperti di drappi verdi, simbolo di Hamas. La rottura delle trattative è stata preceduta in Israele da una continua frizione dentro il governo perché non si rinviasse troppo la sospensione della guerra; viceversa nel mondo palestinese anche la parte della popolazione sospettosa di Hamas non ha problemi a dire ora che solo questa organizzazione ha trovato modo “di svuotare le galere di Israele”. Una frase di ringraziamento che abbiamo sentito più volte sulle labbra degli scarcerati - che sono quasi tutti giovani in “detenzione amministrativa”, cioè prigionieri non incolpati di crimini gravi come l’assassinio, e la cui pena in galera è rinnovata, senza processo, ogni sei mesi. La sensazione di forza e debolezza gioca dunque a favore di Hamas soprattutto perché l’organizzazione terrorista ha saputo mantenere in questa trattativa la conduzione del crudele gioco sugli ostaggi, sostenendo di non avere più altre donne e bambini, e rifiutando l’idea di rilasciare militari. Suggerendo così altri orribili scenari. La pausa dunque non ha portato a un ulteriore desiderio di pace. Anzi, stando ai pareri di testimoni, politici, diplomatici e commentatori, fra i due popoli è svanita anche quel minimo di fiducia che c’era, e non importa quanto scarsa fosse. Il corollario di queste considerazioni è che la prossima pausa dovrà essere l’inizio di un vero percorso, o nessuno sarà disponibile. Israele perché non può disperdere la dissuasione della forza, e Hamas perché non può perdere il vantaggio di chi guida il gioco. Vista così la situazione appare disperata. Eppure, come sempre, le guerre si vincono o si perdono anche e proprio per le dinamiche di cambiamento che muovono. Sollevando lo sguardo da questo sfortunato quadrato di pochi chilometri, si vedono infatti altre tendenze in gioco. Che spacchettano differentemente i dilemmi dei due fronti. La superiorità militare di Israele, da sempre la sicurezza della sua esistenza in Medio Oriente, ha ricevuto in questo ultimo conflitto un grave colpo. Ma il processo di indebolimento militare è da anni in corso. La prima data risale al 2006, alla seconda avventura del governo di Gerusalemme in terra libanese contro Hezbollah, iniziata in maniera facile e finita dopo 34 giorni con una frettolosa ritirata. La rapidità salvò la vita dei soldati e la faccia della nazione, ma mise sul tavolo il logoramento del suo maggior potere. Netanyahu e i ministri della destra oltranzista sanno tutto questo. Il cambiamento non è necessariamente indebolimento, ma parte di un’evoluzione del Paese, che nei decenni scorsi ha cambiato profilo: da Stato sotto assedio a culla di un grande sviluppo hi-tech, di un forte arricchimento, e di una cultura molto integrata col resto del mondo. In altre parole, il raggiungimento di una quasi normalità, all’insegna di una forte dialettica politica, sia pur dentro il quadro di tensioni fisiologiche in Medio Oriente. Anche Hamas che ora canta vittoria, non ha un percorso facile per diventare una forza politica di peso, legittimando il terrorismo come metodo. Su questa strada infatti dovrà misurarsi con soggetti molto più forti, i Paesi arabi, i grandi Stati le cui agende non sono più compatibili con i metodi di Hamas. Il caso più rilevante è quello dell’Arabia Saudita, che lavora indefessamente da anni ormai per poter essere legittimato come il più importante player della regione nelle relazioni internazionali. Bin Salman, sulla cui reputazione ci sono molte ombre, lavora con molta convinzione a costruire un indubbio successo, provato dalle speciali relazioni stabilite con Washington - in continuità fra Trump e Biden - e dalla sua indubbia capacità di esercitare il soft (ma in questo caso sarebbe meglio dire hard) power del denaro: dalle reti di lobbysti sviluppata, alle vittorie che infiammano il suo e gli altri popoli, quale la campagna di conquista nel territorio del calcio e - come Roma ha scoperto - in tutti gli altri campi, incluso l’expo 2030. Da anni l’Arabia Saudita ha anche un ottimo rapporto con Israele, basato su significativi scambi commerciali. In questa tregua ha giocato infatti un importante ruolo. L’altro paese di peso dell’area, l’Iran, ha esso stesso una molto meno visibile ma altrettanto chiara relazione con i sauditi. I due colossi dell’estrazione petrolifera, rimangono feroci antagonisti, rappresentanti di due tradizioni religiose diverse del Corano, ma quella di oggi è soprattutto una frizione che ha a che fare proprio con il ruolo sulla scena globale. È chiaro proprio dalle dinamiche da cui è scaturito l’ultimo conflitto con Israele: la esclusione dagli accordi di Abramo ha causato molta preoccupazione a Teheran, e lo ha spinto quasi sicuramente ad aiutare il terrorismo di Hamas. Ma nello sviluppo della guerra, l’Iran ha tenuto fuori dalla rissa i suoi Hezbollah. Guadagnandosi con questa semplice operazione l’apertura di un forte credito con Washington e l’Occidente. Un credito che gli potrebbe valere in futuro anche sullo scenario della guerra in Ucraina, dove si è schierato al fianco di Putin. Nel caso di un accordo anche su questa guerra, l’Iran potrà dire di aver ottenuto molto con “solo” qualche stratagemma. Hamas ha ricevuto un messaggio forte e chiaro, e ai tavoli dei grandi forse in futuro il messaggio servirà. Insomma, forse l’era del terrorismo (almeno quello mediorientale) visto su scala larga, potrebbe non essere più una opzione tanto utile. Nel mondo largo del turbocapitalismo, forse far esplodere bombe e uccidere innocenti potrebbe diventare meno importante del guadagnare molti soldi, e contare nelle decisioni globali. Una sorta di adeguamento delle nazioni all’etica pubblica dei grandi arricchimenti. Queste ultime righe sono, come avrete capito, decisamente ironiche, ma non per questo sbagliate. Se è vero che siamo di fronte al disordine della fine della fine della Guerra fredda (finalmente la desiderata fine degli anni Sessanta), dobbiamo anche cominciare a immaginarci un mondo in cui anche la politica estera, e i desideri delle nazioni, cambiano motivazioni, e dunque azioni.