Le carceri italiane hanno fallito: ecco il motivo di Francesco Munafò giornalelavoce.it, 3 dicembre 2023 Ne ha parlato il Garante dei detenuti piemontese Bruno Mellano coi ragazzi del Fermi Galilei di Cirié. Due ore per capire come funzionano le carceri italiane. Quali sono i loro limiti, come vivono i detenuti una volta usciti, qual è il tasso di recidiva, cosa si può fare per migliorare la situazione. I ragazzi dell’Istituto Fermi-Galilei hanno trovato risposte a queste e altre domande lo scorso 29 novembre quando, a Cirié, hanno avuto occasione di incontrare il garante dei detenuti del Piemonte Bruno Mellano. Attenzione, però: Mellano non lavora solo con la popolazione carceraria. Il nome completo della sua carica, infatti, è “Garante delle persone private della libertà personale”. E quindi pure gli anziani dentro le Rsa o i migranti dentro i Cpr. Con gli anziani, ad esempio, il lavoro del garante si è fatto sempre più importante durante il covid, quando i residenti nelle case di riposo non hanno più potuto vedere i propri familiari. Ma è sul carcere che gli alunni hanno riflettuto maggiornamente: Mellano ha infatti provveduto a dipingere una panoramica sulla condizione della popolazione carceraria, parlando di sovraffollamento degli ambienti carcerari e dell’altissimo tasso di recidiva (oltre il 70%) che riguarda gli ex detenuti. Insomma, le carceri italiane costano tanto e non funzionano. “Le carceri italiane - ha detto Mellano - sono le più costose e le meno efficienti in Europa”. Una situazione disperata su cui provano a mettere una pezza tanti enti, compreso il Ministero dell’Istruzione. In carcere i detenuti studiano e migliorano le proprie competenze, sperando che un giorno possano essere spendibili sul mondo del lavoro. Alcuni di loro partono da una situazione educativa quasi tragica: in mille su 60mila, questo il dato fornito da Mellano, sono spesso analfabeti. Il carcere di Ivrea - E poi c’è tutto l’aspetto sanitario, di cui si occupa l’Asl To4: la salute del detenuto in carcere, infatti, è spesso compromessa e il detenuto fatica ad accedere alle cure di base. A Ivrea, ad esempio, mancava un dentista che si prendesse cura dei detenuti. E infatti loro hanno protestato, chiedendo i diritti che gli erano stati negati. I ragazzi dell’Istituto ciriacese si sono dimostrati incuriositi dall’incontro. Anche quando si è trattato di toccare temi delicatissimi, come quello dei suicidi. Sia in carcere che fuori. Sia dei detenuti ma pure del personale della polizia penitenziaria. Già, perché il carcere non è un ambiente semplice per nessuno, e non è neanche semplice ripartire da capo una volta usciti dopo cinque, sei, dieci anni. “Ma come si supera questo fallimento del modello carcerario in Italia?” ha chiesto la giovanissima audience. Creando ponti con l’esterno, ha risposto Mellano, e creando lavoro come forma di dignità personale. Sia per mantenere sé stessi sia per mantenere le famiglie dei detenuti. I soldi, peraltro, servono anche per vivere dentro le stesse mura carcerarie, magari per poter pagare un pasto leggermente migliore di quello fornito d’ufficio dal carcere. Qualcuno, dal pubblico, ha anche chiesto incuriosito come si diventi Garante: un buon segno, chissà che qualcuno tra i ragazzi che hanno partecipato alla conferenza non decida di intraprendere questa strada. Quella linea sempre più sottile tra sicurezza e autoritarismo di Angelo Senderi L’Unità, 3 dicembre 2023 Quando tutto diventa pretesto per inventare nuovi reati. Ho come l’impressione che tutto sembra scorrere verso un’idea confusa di sicurezza sociale che, lungi dall’essere realmente perseguita attraverso strutturali riforme interdisciplinari, si riduce a realizzarsi fittiziamente attraverso sempre più nuove e creative norme di rilievo penalistico. Dopo aver assistito all’uso smodato della decretazione d’urgenza per l’introduzione di nuove, quanto inutili, fattispecie incriminatrici, è notizia di qualche giorno fa che il C.d.M. abbia approvato un nuovo disegno di legge che introduce nuove norme in materia di sicurezza pubblica. Ed ecco, quindi, che l’endemico problema della carenza di abitazioni da adibire alle famiglie bisognose e il problema dell’edilizia popolare da riqualificare nelle zone più difficili del nostro Paese, vengono presi a pretesto dal Governo per introdurre una nuova figura di reato, quale “l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che altro non sarebbe se non l’ancora vigente nonna di cui all’art. 633 c.p. con pene però quasi raddoppiate nella forbice edittale, con ogni conseguenza anche in ordine all’esecuzione dell’eventuale condanna che vedrebbe il prevenuto impossibilitato ad avvalersi delle misure alternative alla detenzione. Più carcere, quindi, senza possibilità alcuna da parte del detenuto “scomodo” di protestare contro il degradante trattamento carcerario che, a causa del sovraffollamento penitenziario ingenerato da anni di visione carcero-centrica della pena, gli verrà riservato. Viene, infatti, previsto un cospicuo aggravamento di pena per il “delitto di istigazione a disobbedire alle leggi” se lo stesso viene commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno del carcere, giacché spazi per la socializzazione non ve ne sono e, quindi, guai a chi protesta o pensa di farlo; e che importa se le proteste sono legittime a causa delle condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti! Ma la sottile linea che divide la sicurezza dall’autoritarismo sembra assottigliarsi laddove si fa riferimento a un’ulteriore figura di reato, questa sì solo di matrice autoritaria e slegata da ogni esigenza di sicurezza, quale la previsione della reclusione da uno a sei anni per lo straniero che durante il trattenimento amministrativo presso i CPR (quindi, rivolta a soggetti già privati ingiustamente della libertà) osa opporre resistenza, anche passiva (!!) agli ordini impartiti dall’autorità. Si arriva a punire, per ben due volte, chi in posizione di minorata difesa e di privazione ingiusta della propria libertà, si opporrebbe anche passivamente ai comandi imposti dall’Autorità. Per dare al cittadino l’illusoria idea di sicurezza, inoltre, non solo si è deciso di punire più severamente i “rivoltosi” in vinculis, ma si è previsto, finanche, di modificare uno degli ultimi baluardi di legalità e di dignità che nessuno aveva mai inteso scalfire negli anni, come il rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte e madri di bambini fino ad un anno di età. In forza dell’autoritarismo, quindi, vedremo sempre più mamme e bambini fino ad un anno scontare la loro pena in carcere anche in considerazione del fatto che, al momento, non sembrano essere funzionanti gli istituti a custodia attenuata per le detenute madri. La patologica bulimia in materia di introduzione di nuove fattispecie penali continua a non trovare limiti, laddove le stesse vengono previste, come nel caso dei cosiddetti divieti di “blocchi stradali” al solo fine di punire con pene rigorose i numerosi, ma non troppo, manifestanti, per di più giovanissimi e quasi mai violenti, che protestano per la tutela ambientale. Non bastavano i reati già previsti dal nostro codice per punire eventuali trasgressioni dei manifestanti rispetto ai limiti della protesta civile? No, secondo questo Governo sembrerebbe di no; ogni singola fattispecie sembra debba trovare, per forza, una norma penale che la limiti e che la punisca fino a rendere l’ideale di sicurezza sociale come l’unico fine a cospetto del quale dover sacrificare gli inviolabili diritti conquistati nel tempo. Siamo sicuri che la sicurezza dei cittadini possa essere legittimamente tutelata da norme dal chiaro timbro autoritario? Può bastare qualche biasimevole borseggio nelle metropolitane urbane a giustificare misure repressive così autoritarie? Si può risolvere il conflitto abitativo delle grandi città con norme che, lungi dal favorire l’inclusione dei più deboli, esasperano il futuro degli stessi con pene elevatissime? C’è ancora proporzionalità, tra gli interessi perseguiti dalla collettività e le misure repressive adottate dallo Stato? Ho il fondato timore che, nonostante tutto, incidendo solo sul piano repressivo e non su quello politico e sociale, si aggroviglierà la sottile linea tra sicurezza ed autoritarismo, sì da divenire un soffocante cappio al collo che opprimerà irrimediabilmente, il nostro Stato di diritto. Contromaggioritario e libertà dei giudici di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 3 dicembre 2023 Nella esposizione del ministro Crosetto alla Camera ha assunto un peso centrale la parola “contromaggioritaria” usata nel corso di un convegno di magistrati per designare la funzione propria della magistratura. Non si tratta di termine occasionalmente inventato per chiamare la magistratura all’eversione e alla lotta contro il Governo, ma di una nozione acquisita da lungo tempo nei sistemi di democrazia costituzionale, dove è largamente accettata, anche se pone la cosiddetta countermajoritarian difficulty. La formula inglese è qui adottata proprio per liberare il tema dalle ristrettezze della politica interna. La ricchezza e problematicità della questione sottostante la definizione dovrebbero consigliare prudenza al dibattito politico sorto dopo la nota intervista del ministro ed anche, per altro verso, invitare i magistrati ad altrettanta prudenza lessicale e concettuale nel linguaggio adottato. Il contesto infatti in cui certe parole vengono usate può forzarne e snaturarne il senso, facilitando incomprensioni da cui seguono sia allarmi, sia strumentalizzazioni. Diverso è infatti il senso di un richiamo al ruolo che può risultare contromaggioritario, proprio del giudice che decide la causa, rispetto a quello diverso di una contrapposizione generale al Governo e alla sua maggioranza politica, che sia assunto e rivendicato dalla magistratura nel suo insieme o da un gruppo di magistrati. Quest’ultimo sarebbe tanto improprio quanto il suo inverso, di una sistematica pretesa di sintonia -necessariamente servente - rispetto agli orientamenti e ai provvedimenti del potere esecutivo e della maggioranza che lo sostiene. In questo senso l’assimilazione espressa dal ministro dei magistrati ai prefetti e ai generali è del tutto fuori luogo. Per Costituzione la magistratura è autonoma e i giudici soggetti soltanto alla legge, non i generali o i prefetti. Nell’Occidente democratico i Parlamenti e le maggioranze politiche che vi si creano non dispongono di un diritto senza limiti di legiferare. Le Costituzioni in varie forme sono rigide, sovraordinate alle leggi. Queste devono essere compatibili con le previsioni della Costituzione. Nel sistema italiano, il giudice che per risolvere un caso deve applicare una legge di cui sospetta il contrasto con la Costituzione (dubbio “non manifestamente infondato”) deve sospendere il procedimento e rimettere la questione al giudizio della Corte costituzionale. Se poi la Corte costituzionale ritiene l’incostituzionalità della legge, la dichiara, così determinandone l’inapplicabilità. In tal modo in un percorso giudiziario e con effetto “contromaggioritario”, viene annullata una legge approvata dalla maggioranza in Parlamento. L’attivazione e poi la decisione di quel procedimento non è una facoltà dei giudici, ma un loro dovere costituzionale. In questo è visibile un forte limite alla maggioranza politica, non ostante ch’essa sia legittimata dal voto del popolo, titolare della sovranità. D’altra parte, lo stesso popolo, come dice l’art. 1 della Costituzione, esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Prima di sollevare una questione di costituzionalità della legge il giudice è tenuto a cercare l’interpretazione che la renda compatibile con la Costituzione. Si tratta di un esercizio non facile e produttivo di soluzioni spesso opinabili e legittimamente controvertibili. Il motivo risiede principalmente nel fatto che la Costituzione non è univoca, particolarmente quando riconosce diritti e libertà fondamentali o afferma principi come quello di eguaglianza o di rispetto della dignità delle persone o di “pieno sviluppo della persona umana”. Vari principi e valori costituzionali il più delle volte concorrono e possono entrare in conflitto, richiedendo non facile bilanciamento. La finta guerra tra politica e magistratura: grave squilibrio democratico di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 3 dicembre 2023 È sorprendente come la politica italiana si ostini ad immaginare ciclicamente implausibili complotti orditi dalla magistratura, e si rifiuti di cogliere e risolvere, invece, la vera patologia che da un trentennio affligge il nostro Paese. Immaginare riunioni carbonare di magistrati, o di correnti della magistratura, impegnate a pianificare assalti al governo inviso, serve solo a ridurre a caricatura un problema invece serissimo. Il potere giudiziario ha consolidato un peso anomalo, che condiziona il libero e pieno esercizio di quelli legislativo ed esecutivo. Naturalmente, questo è accaduto per lo stratificarsi di complesse ragioni storiche, sociali e -certamente- anche politiche, che non è questo il luogo per ripercorrere. Siamo però tutti in grado di individuare almeno due anomalie che hanno reso possibile questo grave squilibrio democratico, e dunque siamo -o meglio, saremmo- in grado di intervenire seriamente, se solo lo volessimo, invece di cianciare di complotti. La prima è quella della totale irresponsabilità del potere giudiziario. Mentre il potere legislativo risponde agli elettori e l’esecutivo al Parlamento, il potere giudiziario non risponde mai dei propri atti a nessuno. Nessuna responsabilità civile (legge storicamente e statisticamente disapplicata), nessuna responsabilità professionale (99,7% di promozioni). E appena ti azzardi ad immaginare qualche rimedio, come il fascicolo personale ed il vaglio delle performance, si scatena l’inferno. E subito il potere politico, mentre finge di ringhiare favoleggiando ridicoli complotti, si precipita, mansueto, a sterilizzare la riforma (il controllo, diversamente da quanto previsto dalla Cartabia, sarà ora “a campione”!). La seconda anomalia, di dimensioni planetarie (siamo l’unico Paese al mondo a farlo), è l’esercito di magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo, con un buon centinaio al Ministero di Giustizia, tutti nei posti chiave dove si fa la politica giudiziaria, o nella più moderata delle ipotesi si impedisce che venga fatta, quando sgradita alla casta. Dunque il potere giudiziario invade diffusamente l’esecutivo, condizionandolo in nome della “competenza tecnica”, mentre se ti azzardi ad ipotizzare una riforma del Csm che preveda una percentuale solo paritaria di membri laici (se ne parlò a lungo nella Costituente), ti saltano alla giugulare in nome della indipendenza violata della magistratura. Ed ancora una volta, il mansueto governo si premura di sterilizzare quei pochi ma efficaci interventi previsti dalla riforma Cartabia, affidando la riscrittura delle norme sui fuori ruolo ad una commissione composta per i due terzi… da fuori ruolo! Morale della (triste) favola: non è in corso nessuno scontro tra politica e magistratura. Sono scenette per i gonzi, in favore di telecamera. La politica giudiziaria è saldamente nelle mani del potere giudiziario, per espressa e giuliva volontà politica (anche) di questo governo. E, quando non basta, il Procuratore nazionale Antimafia chiama, ed il governo esegue. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Meloni e la giustizia: “L’Anm tavolta sopra le righe, contro il governo una minoranza di toghe” di Francesco Bechis Il Messaggero, 3 dicembre 2023 Una “piccola parte” della magistratura “rema” contro il governo. La “stragrande maggioranza” no. Giorgia Meloni ne fa una questione di numeri. Da Dubai, tra un vertice e l’altro della Cop28, il summit mondiale sull’ambiente, la premier nega l’esistenza di uno scontro frontale tra maggioranza e toghe. E blinda il “suo” Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio: “È il caso di aspettare una sentenza passata in giudicato per definirlo colpevole”. Prosegue qui, tra i grandi del mondo riuniti nella capitale emiratina, l’operazione del governo per sgonfiare l’ennesima polemica tra poteri dello Stato. O meglio, circoscriverla. Meloni torna sulle parole di Guido Crosetto e il j’accuse del ministro della Difesa contro una magistratura “politicizzata”, poi in parte rientrato, che da una settimana scuote i palazzi della politica e della giustizia. “Non penso ci sia uno scontro tra politica e magistratura”, dice. Il “problema” risiede altrove, in quella “piccola parte della magistratura”, spiega Meloni riafferrando il fioretto, convinta che “i provvedimenti che non sono in linea con una certa visione del mondo debbano essere contrastati”. La stoccata, ma la premier non fa nomi, è per le toghe che nelle scorse settimane hanno preso di mira la riforma costituzionale del premierato e i provvedimenti sulla Giustizia. Ancora Meloni: “Ho trovato francamente fuori misura dire che la riforma costituzionale aveva una deriva antidemocratica, mi sembrano dichiarazioni che vanno bene per la politica”. Di più: “Parole un po’ fuori dalle righe”. A stretto giro arriva la risposta piccata di Magistratura democratica, la corrente di togati al centro del duello con Palazzo Chigi: “L’aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha alcuna giustificazione”. Insomma le posizioni restano distanti in questa nuova sfida tra poteri che vede per ora il Quirinale nel ruolo di arbitro silenzioso. Meloni non schiva i casi che l’hanno inseguita fin nel Golfo persico. Come il processo che presto si aprirà per Delmastro, fedelissimo sottosegretario a via Arenula imputato per aver passato informazioni riservate sul caso Cospito all’amico e compagno di partito Giovanni Donzelli. Il messaggio della premier è fin troppo chiaro: Delmastro non si tocca, a meno che non ci sia una sentenza “passata in giudicato”. Opposizioni avvisate, alleati anche. Sul resto la timoniera del governo smorza, allenta i toni. È il caso della “madre di tutte le riforme”, il premierato targato Fratelli d’Italia a cui perfino il mite Gianni Letta ha mosso una critica, rompendo un lungo silenzio stampa. “Non ci ho visto parole di contrasto, la riforma ovviamente si può criticare”, sospira Meloni. Poi entra nel vivo dell’appunto mosso dall’eminenza grigia di Forza Italia che giovedì ha fatto sobbalzare Palazzo Chigi. Il premierato interverrà sulle prerogative del Quirinale, cioè di Sergio Mattarella? “Su questo non sono d’accordo, la riforma è stata scritta per non toccare i poteri del presidente della Repubblica. Anzi, mi viene contestato proprio questo, di aver lasciato (al Colle, ndr) la nomina dei ministri”. Altro che Letta, “il problema è se l’Anm dichiara che questa riforma è un attacco alla magistratura”, rilancia la presidente del Consiglio. Di nuovo le toghe. Il copione è ormai consolidato: non c’è alcuna guerra, se lo scontro esiste è “con una piccola parte”. C’è spazio per gli altri dossier impellenti. Come il Patto di Stabilità e la quinta rata del Pnrr su cui Meloni preferisce glissare, “sono ore delicate”, confida ai cronisti. E sul Patto: “Noi vogliamo e dobbiamo essere ambiziosi, l’Unione europea deve essere ambiziosa”. La chiosa finale è per la querelle sullo stop al mercato tutelato dell’energia. “Per noi la priorità è impedire che le bollette aumentino”, dice la premier che non risparmia al Pd un ultimo affondo: “La fine del mercato tutelato è stata decisa dai governi Renzi e Gentiloni, prima di dirmi come cambiarla chiedano scusa”. Magistratura democratica: “Dal governo aggressione ingiustificata” Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 L’associazione in una nota: gravi attacchi nei nostri confronti. Si infiamma lo scontro sulla giustizia. Dopo l’intervista del Corriere al ministro Crosetto e le polemiche che ne sono seguite, ora è il Consiglio nazionale di Magistratura democratica a intervenire nella questione. “Negli ultimi giorni Magistratura democratica è stata oggetto di gravi attacchi da parte di esponenti di primo piano del governo e dei media. È stata accusata di avere coltivato “scopi cospirativi” e di voler svolgere un ruolo di “opposizione giudiziaria”. Md respinge con fermezza tali accuse”, si legge in una nota. E prosegue: “L’aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha dunque alcuna giustificazione ma vorrebbe costringerci a rendere conto di una libertà, quella di associarsi e di riunirsi, prevista dalla Costituzione”. “Siamo un’associazione di magistrati, senza legami con alcun partito e senza ambizioni di condizionare in alcun modo il libero confronto delle rappresentanze politiche”, si legge nella nota. “Oggetto della nostra riflessione - sostiene l’associazione di magistrati - è la tutela dei diritti fondamentali della persona; diritti di cui sono `padroni´ gli esseri umani in quanto tali e non le contingenti maggioranze politiche. Di fronte ad essi anche l’autorità della legge incontra dei limiti, trattandosi di diritti riconosciuti fondamentali e inviolabili dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e da altre fonti Ue, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”. Magistratura democratica “si impegna sul terreno della riflessione giuridica e dell’associazionismo giudiziario per ottenere un solo risultato: far sì che i diritti fondamentali affermati dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali non siano diritti teorici ed illusori, ma concreti ed effettivi. Con questo spirito e questi obiettivi lavoriamo negli uffici giudiziari e teniamo viva la nostra associazione. Lo facciamo in modo pubblico e del tutto trasparente, secondo le modalità previste dallo statuto che è liberamente accessibile sul nostro sito, così come lo sono gli esiti e in molti casi anche le registrazioni delle nostre riunioni, tra le quali il recente congresso tenuto a Napoli dal 10 al 12 novembre 2023”. “La pubblicità del nostro agire - sottolinea Md - è la miglior confutazione delle accuse di trame cospirative. Non intendiamo rispondere a questa provocazione. Rivendichiamo la nostra indipendenza dal potere politico, la nostra libertà di pensiero e il nostro impegno giuridico, non solo come un diritto ma soprattutto come un obbligo costituzionale: quello di interpretare l’esercizio della giurisdizione, che è soggetta solo alla legge e ha l’obbligo di rispettare la gerarchia tra fonti sovranazionali e fonti nazionali, sempre di più nel senso della reale e migliore attuazione dei diritti umani e universali di ogni persona”. Opposizione giudiziaria, Crosetto non fa dietrofront: “Toghe politicizzate” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 3 dicembre 2023 Il ministro in Aula riferisce fatti noti e contrattacca, la giustizia super partes è nell’interesse di tutti. Davide Faraone (Iv) rilancia: avanti con riforme di Nordio. “Il governo può essere messo a rischio da una forma di opposizione giudiziaria”: sulle parole del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, sulle quali si è ricamato a lungo, il titolare del dicastero di via XX Settembre ha riferito in aula ieri. E se è stato Benedetto Della Vedova di +Europa, un garantista che viene dalle fila del partito radicale, ad aver richiesto l’audizione urgente del Ministro, c’è da immaginare che volesse andare a vederne le carte più per consonanza che per scetticismo. Perché il tema della magistratura associata che opera per correnti politicizzate è notorio. E l’opposizione giudiziaria un fatto storicamente accertato e difficilmente contestabile: c’è anche un manuale che illustra le istruzioni per l’uso politico della giustizia. Lo ha scritto il capo della magistratura associata, Luca Palamara, nel momento in cui l’ha lasciata. Nel suo bestseller “Il Sistema” ha dettagliato come funziona il bilancino del contropotere giudiziario: con quali accordi interni, per quali vie sotterranee, attraverso quali canali la magistratura associata decida chi mettere nel proprio mirino. Il come, il perché viene dopo. Con l’installazione di decine di trappole, di telecamere, di captatori sui telefonini del politico-target: alla fine qualcosa deve venire fuori, l’obiettivo deve essere raggiunto. Colpito e possibilmente, affondato. Basta l’apertura di un’indagine, e non la sua conclusione, a segnare il cammino di una maggioranza di governo, a silurare l’esperienza di un politico. Ecco che le avvertenze di Crosetto, più che destare preoccupazione, suonano sin troppo scontate all’orecchio dei garantisti. E chi sperava di far risuonare nell’Aula di Montecitorio le circostanze precise di una qualche trama, è rimasto deluso. “C’è un tentativo di mistificazione delle mie parole: le rileggo in italiano come lo saprebbe interpretare un qualunque bambino delle elementari: ‘a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’ Ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni? No”. E Crosetto è andato avanti per diradare ogni polverone: “Io non attaccherò mai la magistratura e quando c’è stata la necessità di rivolgermi a un magistrato per denunciare dei fatti gravi l’ho fatto e se vi ricordate quest’estate anche lì da solo. Se vi ricordate questa estate abbiamo discusso del caso dossier, che è ancora in corso e che mi auguro arriverà alla fine, che parte da una mia denuncia coraggiosa, ai magistrati. C’erano cose di cui sono stato informato da denunciare? Mi sono affidato alla magistratura, perché io ho totale fiducia nella magistratura”. D’altronde, è ancora il pensiero del ministro Crosetto, “Non penso che possa esistere una riforma della giustizia che vada contro la magistratura”. E difatti: “Non si può pensare a un conflitto permanente tra la magistratura e la politica”, ha ribadito. Tuttavia, se richiesto, Crosetto si è detto pronto a “portare in aula decine di frasi che mi preoccupano”. E poi ha incalzato: “Ho sollevato un problema perché non ho paura di nulla, sono pronto a venire altre mille volte in Parlamento. Qualcuno ha detto che ho detto queste cose perché temo le inchieste. No, in 60 anni non sono mai stato sfiorato da nulla”. Racconta di aver ricevuto numerosi attestati di solidarietà: “In questi giorni ho ricevuto dei messaggi: ‘sei un pazzo’, ‘che coraggio’, ‘farai la fine di Craxi’, ‘ti sei reso un obiettivo’… Sono illazioni, non sarò un obiettivo per nessuno”. Poi entra nel cuore della questione: “Io mi chiedo: il ruolo della magistratura è quello di riequilibrare la volontà popolare? È possibile che in questo Paese non si possa fare una riforma della giustizia? Sarà un caso che dal ‘92 - De Mita ‘92, D’Alema nel ‘97 - ci sia stato un sommovimento che ha bloccato ogni tipo di riforma? Io non penso che si possa fare una riforma della giustizia contro la magistratura. Io penso che chi ha responsabilità deve essere terzo”. Crosetto si concede anche una battuta: “Voi mi avete tirato per i capelli che non ho a parlare di questo in un giorno in cui non sto bene, ma non mi sottraggo… Non mi sottraggo, perché ritengo un tema fondamentale non quello della magistratura contro il governo, ma quello di ridefinire gli ambiti in cui costituzionalmente ogni organo dello Stato deve esercitare il suo ruolo e potere…”. Nessun passo indietro, dunque, ma anche una fotografia che inquadra lo stallo in cui versa la riforma della giustizia. E su questo punto i garantisti hanno fatto sentire la loro voce. “Le parole del ministro Crosetto sono da sottoscrivere punto per punto”, ha detto Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. “La domanda però resta la stessa: perché Giorgia Meloni non fa partire le riforme, anche per dare sostanza alle proposte di Crosetto e del guardasigilli Nordio? Il tema degli innocenti stritolati nella macchina della giustizia è sempre più pressante: il governo ha intenzione di muoversi concretamente? Accogliamo con soddisfazione la disponibilità reiterata anche oggi dal titolare della Difesa, di tornare presto in Aula per consentire un dibattito ampio aperto a tutti i gruppi. Servono proposte di legge da votare in fretta, non tesi da convegno”, conclude. Della Vedova non è soddisfatto, alla fine replica: “Non ha risposto nel merito”. Crosetto e Della Vedova si rivedono fuori dall’Aula, alla buvette. Hanno tutti e due la gola secca e davanti a loro, in fila, c’è Elly Schlein. Il deputato di +Europa torna a stuzzicare il ministro, chiedendogli conto anche delle presunte interferenze sulla magistratura del sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, denunciate dal quotidiano ‘Il Domani’. “Hai chiamato in causa me ma in realtà volevi Mantovano”, scherza Crosetto, congedandosi. Il clima torna disteso. Ma la questione dell’opposizione giudiziaria rimane, ed è drammaticamente grave, quali che siano gli obiettivi del momento a Palazzo Chigi. Le pagelle ai magistrati rischiano di renderli timidi e conformisti. Ma c’è chi ci guadagna di Andrea Reale* Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2023 È bello tornare a scuola, perché ci ricorda che non bisogna mai smettere di studiare e imparare, ma anche perché è un’esortazione a restare sempre umili (e l’umiltà è la virtù massima per un magistrato). Altrettanto eccitante è leggere le pagelle. Nel mio liceo esse erano precedute dalla pubblicazione dei “quadri” con i voti per ogni materia: indimenticabile l’ansia da prestazione che essi erano capaci di generare! Alle scuole medie, al posto dei voti, vi erano giudizi sintetici (sufficiente, discreto, buono, ottimo). Proprio come quelli che il nuovo Governo sta per introdurre nei confronti dei magistrati. Ci sono, tuttavia, delle controindicazioni per la categoria, segnalate a tempo debito da tanti rappresentanti associativi, oggi stranamente silenti. Nel caso del giudizio di professionalità non ci sono professori, né ci sono interrogazioni o corsi collettivi. “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”: è un precetto della Costituzione: art. 107, comma 3, della Carta fondamentale. A cosa serve, dunque, il giudizio di professionalità introdotto nel 2006 per i magistrati? Il giudizio verte su parametri relativi all’esercizio della funzione giurisdizionale. Ma essi sono stati introdotti non per creare gerarchie, “modelli” di magistrati, competizioni o selezioni tra di essi, quanto piuttosto per verificare il mantenimento di uno standard di equilibrio, di laboriosità e di capacità, in poche parole la persistente idoneità del togato a svolgere la sua delicatissima funzione. I giudizi differenziati, al contrario, piuttosto che migliorare la qualità del servizio e la professionalità del magistrato, rischiano di rendere il magistrato più timido e conformista, al fine di accattivarsi il dirigente “capo” o per non osare interpretazioni (rectius: applicazioni) della legge troppo ardite, che potrebbero subire modifiche o annullamenti in altri gradi di giudizio. Nei confronti della Politica e dei colletti bianchi, poi, le pagelle possono contribuire a rendere meno autonomi e indipendenti nella decisione o nella libera manifestazione del pensiero i magistrati, per evitare certe gogne che determinano i provvedimenti o comportamenti sgraditi a chi detiene anche il potere mediatico. Il magistrato diventerà un burocrate, più attento ai numeri, alla statistica, al contenuto conformista del suo provvedimento, perché il suo obiettivo non sarà più soltanto quello di rendere la decisione più rispondente ai criteri di legalità, ma anche quello di passare il placet del Presidente del Tribunale o del Procuratore o delle giurisdizioni superiori, nonché degli organi di governo autonomo (locali e centrale). A subirne le peggiori conseguenze saranno i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini, specialmente di quelli dei più deboli e indifesi, sprovvisti di altro genere di reazioni a soprusi e ingiustizie, se non quello di ricorrere ad un giudice tramite un Avvocato. Le pagelle incidono anche sull’indipendenza interna, come già detto, sotto altro versante. Qualche mese fa è stata persino indetta una astensione dal lavoro da parte della categoria dei magistrati, perché questa riforma “rende gerarchicamente ordinati anche gli uffici giudicanti, crea una magistratura alta e una bassa, e aumenterà quell’ansia di carriera che tanto danno ha già fatto, e continuerà a fare”. Oggi, invece, si assiste ad un disarmante silenzio. Perché? Le pagelle consentono al potere interno (leggasi: il “partito” delle correnti che governa il Csm e i Consigli Giudiziari) di incidere ancor più fortemente sulla “carriera” del magistrato. In questo modo esso ha un altro modo per soggiogare la libertà di giudizio e l’indipendenza del singolo alla forza della discrezionalità delle valutazioni di professionalità con voto. Non si spiega altrimenti il silenzio odierno dei gruppi associativi esistenti all’interno della Magistratura. Dopo avere rasserenato con una manifestazione isolata di protesta, nel mese di maggio dell’anno scorso, una “base” sconfortata e arrabbiata, le correnti al comando sanno che la stabilizzazione di questo sistema di giudizio le renderà molto più forti, rafforzando il clientelismo dilagante per ottenere una “promozione” o aggravando la soggezione del singolo magistrato che rischi un giudizio “non positivo” o “negativo”. Si tratta di una conseguenza deleteria alla quale certamente condurrà questa ulteriore, scriteriata, riforma. Nel silenzio, al momento, dell’Associazione dei Magistrati e delle sue anime “culturali”. *Magistrato Gratteri: “Procure ferme? Dopo la Cartabia i pm hanno paura di sbagliare. Nordio fa riforme inapplicabili” di Giulia Merlo Il Domani, 3 dicembre 2023 Intervista al procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, magistrato tra i più esperti nel contrasto alle mafie, che analizza l’evoluzione del fenomeno in Europa e commenta l’attuale situazione italiana, dove le grandi inchieste sembrano essere ferme: “Oggi ai magistrati è stata messa l’ossessione dei termini e c’è la paura di sbagliare, io invece credo che chi è ai vertici debba insegnare con l’esempio che le inchieste si possono ancora fare” La presenza delle mafie, non solo quelle italiane, in tutti i paesi europei è ormai un fatto. Esiste un coordinamento europeo? Certamente. Esistono Eurojust, Europol e Interpol, che facilitano le indagini e i rapporti con i sistemi giudiziari europei. Tuttavia, rispetto al ruolo dell’Italia, il tema è politico. Esiste un organismo internazionale per il contrasto alla ‘ndrangheta. Sa dov’è la sede? Non a Reggio Calabria, dove la ‘ndrangheta è nata, ma a Lione. Non è una questione di pennacchio, ma ciò spiega quanto poco conti l’Italia sul panorama internazionale. Abbiamo una polizia giudiziaria di primissimo livello e gli stranieri vengono in Italia a formarsi, ma sul piano politico siamo stati e siamo deboli. Lei ha fatto centinaia di rogatorie internazionali in tutto il mondo. Quali paesi europei vanno attenzionati maggiormente sul fronte della lotta alle mafie? Ogni paese ha le sue peculiarità. La Spagna, per esempio, è stata trasformata dai colombiani in un grande supermercato, che stocca tonnellate e tonnellate di cocaina. La Spagna ha un sistema giudiziario e una capacità di reazione molto lenta. In Italia, se decidiamo di intercettare un indagato impieghiamo al massimo un quarto d’ora. In Spagna, se tutto va bene, ci vogliono una ventina di giorni e nel frattempo l’indagato ha cambiato utenza tre volte, come spesso accade tra gli appartenenti al cartelli internazionali. È un problema di comprensione e accettazione del fenomeno. Perché parla di accettazione? Glielo spiego con un altro esempio. Io ho iniziato ad arrestare i primi latitanti in Olanda trent’anni fa: dall’Italia indicavamo agli altri Stati i nascondigli dei latitanti e ne consentivamo la cattura. Nell’occasione mi interfacciavo con il procuratore di Rotterdam dicendogli: “Guarda che qui c’è la ‘ndrangheta”. Non sono stato mai ascoltato. Un anno e mezzo fa, sono stati uccisi un giornalista, un avvocato e un collaboratore di giustizia e allora il governo olandese è letteralmente entrato nel panico, ed ha cambiato nettamente atteggiamento. Infatti, sono venuti in Italia, per incontrarmi, due ministri olandesi e ho detto loro che la situazione nel loro paese, da un punto di vista criminale, è nettamente peggiorata. Quando, cercavo di farmi sentire, la mafia era una sola; adesso devono contrastare almeno tre tipologie di organizzazioni mafiose. Quali? Oltre la ‘ndrangheta, la mafia albanese, che sarà la mafia del futuro in Europa. L’organizzazione è diventata molto ricca e proviene da un paese molto corrotto, anche sul piano giudiziario; essa lavora in joint venture con la ‘ndrangheta in America del Sud e in Spagna. Poi c’è la “maffia”, come si chiamava in Italia a fine Ottocento, nei primi documenti giudiziari, ed è composta dalla terza generazione di nordafricani. Come si può combattere il fenomeno in Europa? La questione è a monte: io non credo che l’Europa abbia interesse a contrastare le mafie. Ciò lo si coglie da un dato significativo: in Europa non esiste alcun limite all’utilizzo del contante, così che chiunque può recarsi a Francoforte e comprare un’auto da 100mila euro portando con sé il denaro in una valigetta, senza che nessuno chieda conto della loro provenienza. L’euro è diventata la nuova moneta del narcotraffico. Perché? In Spagna circola il 75 per cento delle banconote da 500 euro e qui si compra la cocaina dal Sud America. Nel mercato nero una banconota da 500 viene pagata 530 euro, ed è preferita rispetto al dollaro per una ragione: un milione di euro in banconote pesa 1,2 kg; lo stesso valore in dollari pesa cinque volte tanto. Il riciclaggio di denaro in Europa non viene contrastato perché non conviene; non limitando la circolazione del contante, i proventi illeciti vengono calcolati nel Pil. Veniamo all’Italia. Il ministro Nordio vuole ridurre il numero di intercettazioni... Dice che costano troppo. La settimana scorsa a Napoli abbiamo sequestrato l’equivalente di 1,8 milioni di euro in bitcoin, li abbiamo convertiti e sono già nella disponibilità delle casse del ministero, pronti per essere spesi. Così accade in altri distretti dove grazie a indagini accurate si riescono a confiscare ingenti profitti. Ebbene, il valore dei beni provento di attività illecite è dieci volte superiore rispetto alla spesa per le intercettazioni. La verità è che non si vuole intercettare chi corrompe, chi fa concussione e chi fa peculato, non si vuole toccare la zona grigia che si frappone tra la politica e le associazioni criminali. Le riforme dell’ordinamento giudiziario proseguono, invece... Ma le scoperture d’organico rimangono enormi. Si sono fatti nuovi concorsi, ma chi li supererà assumerà le funzioni tra almeno quattro anni; nel contempo nessuno spiega come mai continuino ad esserci così tanti magistrati fuori ruolo. Una soluzione sarebbe quella di richiamare al lavoro i magistrati in pensione per ricoprire questi incarichi: nel 2015 si è abbassata l’età pensionabile a 70 anni, ma a quell’età si è ancora in grado di lavorare. Guardi: il ministro Nordio di anni ne ha 75. In tema di garanzie, è al vaglio della Camera l’introduzione di un collegio di tre giudici per decidere sulle custodie cautelari in carcere... Vorrei capire come può essere possibile farlo in un piccolo tribunale con pochi magistrati e con il nostro regime di incompatibilità. E poi a che cosa serve un collegio di magistrati se dopo dieci giorni un altro collegio (il tribunale del riesame) interviene? Si vuole introdurre il collegio? Bene: aboliamo il tribunale del riesame. Invece impegneremo sei giudici (oltre i cinque della cassazione) per una misura cautelare. La verità è che queste riforme vanno fatte da magistrati e da avvocati che stanno nei tribunali, non dai professori che non sono mai entrati in un palazzo di giustizia. In questo momento storico, la sensazione è che le grandi procure siano un po’ ferme sul fronte delle indagini. È così? È un ragionamento complesso. Io penso che oggi ci sia una crisi di vocazione sia per il lavoro di magistrato che per quello di investigatore. Vede: con la riforma Cartabia sono stati introdotti dei termini capestro anche per le indagini. SI figuri che se si superano questi termini, e magari nelle more il Gip sta vagliando una complessa richiesta cautelare, bisogna informare gli indagati, che ben potrebbero fuggire o inquinare la prova, sapendo che potrebbero essere arrestati. Per cui questa vera e propria ossessione per il rispetto dei termini crea una paura di sbagliare, spingendo a non approfondire questioni complesse, preferendo così archiviare il caso. Io invece credo che chi è ai vertici di un ufficio debba dare fiducia ai propri collaboratori, spingendo a fare le indagini. I suoi primi giorni sono stati burrascosi, con uno scontro anche con la Camera penale... Quando sono arrivato a Napoli molti mi hanno suggerito di pesare le parole, prospettandomi di turbare talune sensibilità. Io però sono una persona diretta e anche decisionista. E penso che nel rispetto reciproco dei ruoli ci si debba confrontare in maniera franca e leale e senza pregiudizio. I rappresentanti della Camera penale sono venuti a trovarmi e mi hanno chiesto di collaborare; ma cosa vuol dire? Ripeto, nel rispetto dei ruoli, ciascuno deve fare bene il suo lavoro. Posso anche lasciare alle spalle i giudizi sulla mia persona, espressi prima ancora di insediarmi; ma ho detto loro che a me non interessa il politicamente corretto. Farò sempre quello che ritengo in scienza e coscienza sia più utile perché il territorio sia vivibile e la collettività più sicura. Non mi interessa risultare simpatico ad alcuno. A Catanzaro invece si è chiuso il primo grado del processo “Rinascita Scott”, per cui è stato molto criticato a causa dell’utilizzo delle misure cautelari ma che non ha ricevuto grande attenzione mediatica nonostante le 207 condanne... Ben vengano le critiche. Esse costituiscono uno stimolo per essere più attenti e accorti. Non tollero, però, giudizi basati su dati falsi, espressi con cognizione di causa. Questa non è informazione. Ma ormai la giustizia ha pochissimo spazio sui media. In realtà i giornali ne sono pieni... Non è vero. Si scrive molto di politica giudiziaria ma poco di cronaca. Le notizie come l’inchiesta Rinascita Scott esistono solo se stanno nelle prime pagine dei due o tre quotidiani principali; altrimenti sembra che non esistano. Sono tra i pochi a fare le conferenze stampa. Dovendo rispettare la riforma Cartabia, mi rendo conto che sono perfettamente inutili perché si può spiegare poco o nulla. Ma questa deriva è anche colpa dei giornalisti, che oggi si lamentano perché non riescono a comprendere quali siano i contenuti di una indagine, ovviamente non più riservata. Dove erano i rappresentanti di categoria quando il parlamento approvava le disposizioni sulla presunzione di innocenza? Io certamente non posso rischiare un provvedimento disciplinare al solo fine di fornire elementi di interesse pubblico. Intercettazioni, con la riforma più rigore e giustizia di Alexandro Maria Tirelli* Il Messaggero, 3 dicembre 2023 La lotta alla criminalità è un principio irrinunciabile per ogni Stato di diritto e per il nostro Paese in particolare, che ha pagato in termini di vite umane un tributo pesantissimo alla follia stragista della mafia. Ma questo sacrosanto pilastro di civiltà non può diventare il refugium peccatorum di tutte le distorsioni e di tutti gli abusi del sistema giustizia. Soprattutto per quel che riguarda le intercettazioni, mezzo di ricerca della prova diventato sempre più spesso uno strumento di lotta politica e di regolamento di conti. Per anni abbiamo assistito a promesse vane di riforma delle captazioni che sono diventate, esse stesse, motivo di scontro ideologico. Con l’arrivo del ministro Carlo Nordio, un ex magistrato con grandi doti investigative, sembra sia giunto il momento di trovare un punto d’intesa tra le esigenze di giustizia e il sacrosanto diritto del cittadino (indagato o meno) a non finire nel tritacarne mediatico-giudiziario. Il recente progetto di riforma ha portato a perseguire due obiettivi importantissimi che certamente tacitano l’accusa di un allentamento della tensione investigativa nel contrasto al malaffare: da un lato c’è stata l’estensione dell’uso delle intercettazioni per alcune tipologie di reati particolarmente gravi, con la creazione di un archivio centralizzato dove conservarle; e dall’altro c’è stato finalmente il divieto di trascrizione di quelle cosiddette “irrilevanti”. Ovvero quelle parti che non hanno valore indiziante o che sono completamente fuori contesto. Sembra una banalità ma è una battaglia di civiltà che porta finalmente un argine allo strapotere dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria che, per rimpolpare e rendere più attraente una indagine, spesso ricorrevano a “trucchetti” mediatici che garantivano una certa pubblicità. I cronisti, giustamente, leggendo queste intercettazioni in atti ufficiali, avevano tutto il diritto-dovere di pubblicarle (anche se poi bisognerebbe addentrarsi nel campo minato della “notiziabilità”) contribuendo così a un circolo vizioso per cui i processi si facevano prima in edicola e poi in tribunale, dove spesso gli esiti erano assai diversi dalle spettacolari indagini preliminari. E stiamo parlando non di elementi probatori di interesse, ma di fatti che vengono trascritti e trasfusi in informative e brogliacci nonostante siano del tutto ininfluenti ai fini del procedimento penale. In nome di una fumosa “obbligatorietà di trascrizione”, tutto quello che viene captato finisce in un documento potenzialmente pubblico e, come tale, pubblicabile. Ma troppe volte si sono viste esistenze e reputazioni distrutte per la voglia di spettacolarizzazione di una inchiesta. Troppe volte è stata sacrificata la dignità della persona per il desiderio di pubblicità di qualcuno. La riforma, in questo senso, ristabilisce un senso di giustizia, di doveroso rispetto della privacy che non significa impunità. Il garantismo non è imbrigliare le Procure ma essere aderenti a ciò che dice la nostra Carta fondamentale. Di fatto, è stato dato seguito a ciò che già nel lontano 1973 la Corte costituzionale aveva stabilito sottolineando la necessità di predisporre un sistema a garanzia di tutte le parti in causa per l’eliminazione del materiale non pertinente per il giudizio. Ma anche il Csm, nel luglio del 2016 aveva ribadito il dovere del pubblico ministero, titolare delle indagini, di compiere da filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti per evitarne l’ingiustificata diffusione. Il “sistema” ha fatto finta di non accorgersene ma, ormai, non se ne poteva più. Abbiamo dovuto aspettare altri 7 anni ma, a quanto pare, ci siamo. *Presidente delle Camere penali internazionali Reggio Emilia. Capitale del reinserimento dei detenuti: “Il lavoro prima di tutto” reggionline.com, 3 dicembre 2023 Il Garante dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri ha affrontato il tema della situazione lavorativa nelle carceri dell’Emilia-Romagna confrontandosi con rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, istituzioni, associazioni di volontariato e imprese. “Il lavoro è la chiave per il reinserimento sociale del detenuto: sia perché gli consente di acquisire competenze che potrà spendere una volta libero sia perché si rivela utile per contrastare le recidive”. Così Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, è intervenuto a Reggio durante l’iniziativa sullo stato dell’arte delle carceri in Italia. “Molti non sanno - ha aggiunto - che a ciascun detenuto viene chiesto un contributo economico per ogni giorno che passa in carcere: una cifra non elevata ma che, nell’arco dell’anno, può superare i mille euro. Il lavoro, pertanto, diventa importante per evitare al detenuto di accumulare debiti da estinguere all’uscita dal carcere”. Il garante ha affrontato il tema della situazione lavorativa nelle carceri dell’Emilia-Romagna confrontandosi con rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, istituzioni, associazioni di volontariato e imprese. La riflessione di Roberto Cavalieri, promotore dell’iniziativa, parte dai numeri. “Sono ancora pochi in Emilia-Romagna - ha evidenziato - i detenuti cui è assicurata una mansione lavorativa. Fra i quasi 3.500 reclusi, circa 900 lavorano, seppur in modo non continuativo, alle dipendenze dell’amministrazione carceraria, ad esempio come aiuto cuoco, nelle pulizie e nelle manutenzioni. Molti meno, circa 150, sono, invece, quelli che lavorano, seppur all’interno del carcere, alle dipendenze di aziende esterne, ad esempio in falegnamerie, lavanderie industriali, call center e sartorie. Infine, poco meno di altre 150 persone, godendo di permessi per uscire dal carcere, hanno impieghi all’esterno delle strutture carcerarie”. Per Cavalieri quella del lavoro resta l’unica via per garantire una speranza al detenuto: “Questo strumento, come d’altronde afferma la stessa normativa in materia, deve essere accessibile a tutti i detenuti. Occorre poi, parallelamente, lavorare per favorire l’ingresso nelle strutture carcerarie di un numero crescente di imprese private”. A riprova cita alcuni casi virtuosi: “Le esperienze incoraggianti non mancano, dalla metalmeccanica a Bologna alla lavanderia industriale che si è trasferita nel carcere di Parma, fino all’esperienza dell’Ovile a Reggio Emilia e alle produzioni agricole a Castelfranco Emilia”. A rafforzare l’analisi del garante è Gloria Manzelli, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche: “Rispetto al passato, a livello statistico, sono decisamente meno i detenuti in attesa di giudizio. Sul totale, i condannati in via definitiva arrivano circa a 2.700, di questi poco più di 900 hanno una condanna inferiore ai due anni. Sono persone che potrebbero accogliere offerte di lavoro all’esterno. Il lavoro in carcere è un vero e proprio paracadute sociale, che produce, come contrasto alle recidive, aspetti positivi anche sulla sicurezza delle comunità”. A Reggio sono stati presentati esempi virtuosi. Gianluca Coppi di Libelabor, impresa sociale consortile, racconta l’esperienza nel carcere di Parma: “Il nostro è un progetto particolare che abbiamo chiamato ‘Sprigioniamo il lavoro’. Da quest’anno all’interno del carcere di Parma è attiva una lavanderia industriale nella quale facciamo lavorare insieme detenuti (8) e non detenuti (5) e nel 2024 abbiamo l’obiettivo di coinvolgere ulteriori 8 ristretti (che stanno seguendo ora un percorso formativo)”. Gli fa eco Francesco Pagano, della cooperativa sociale Giorni nuovi, che fa il punto sull’attività nelle strutture carcerarie di Modena e Castelfranco Emilia: “Diamo la possibilità a 15 detenuti di avere un lavoro. Ci occupiamo della produzione di ostie e di pezzi del presepe e vorremmo ampliare il nostro progetto anche all’esterno di queste carceri per garantire ai detenuti impegnati il completamento del loro percorso di reinserimento sociale. Vogliamo che abbiano una vera possibilità”. Il punto di vista delle istituzioni è stato affidato a politici e amministratori. Per Federico Amico, presidente della commissione Parità dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, “il lavoro in carcere ricopre un ruolo fondamentale che ha la funzione di promuovere la reintegrazione sociale, combattere la recidiva, acquisire competenze e aumentare la fiducia nelle proprie capacità. Un ticket da utilizzare una volta fuori”. Sulla stessa linea l’assessore del Comune di Reggio Emilia al Welfare, Daniele Marchi: “È fondamentale coinvolgere il sistema del lavoro, a partire dalle imprese. Diventa centrale accompagnare l’amministrazione penitenziaria, come fanno la Regione Emilia-Romagna e il Comune di Reggio Emilia, in questi percorsi lavorativi rivolti ai detenuti. Il lavoro è importante per il reinserimento sociale del detenuto e anche per garantire più sicurezza all’interno della comunità”. Sul tema della parità in carcere si è soffermata la consigliera regionale Roberta Mori: “La violenza sulle donne, come affermato dallo stesso presidente Mattarella, è un fenomeno ignobile, va contrastato con forza in tutti i contesti. Dobbiamo lottare contro le discriminazioni e una leva è proprio il lavoro, che deve coinvolgere anche le detenute. Purtroppo attualmente i progetti al femminile attivi in carcere sono pochi”. Nel corso del convegno su “Carcere e lavoro: opportunità, realtà e doveri costituzionali. Lo stato dell’arte in Emilia-Romagna” che si è tenuto a Reggio nei Chiostri di San Pietro venerdì 1° dicembre, sono intervenuti anche Federico Bertani, dell’ordine degli avvocati, Maria Letizia Venturini, presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna, Felice Di Girolamo, del ministero della Giustizia, nonché Francesca Bergamini, Marco Melegari e Gino Passarini della Regione Emilia-Romagna. Sulla vita nelle carceri regionali, sempre a Reggio Emilia è stato presentato il volume “Repertorio d’immagini degli spazi trattamentali delle carceri in Emilia-Romagna”, un progetto del garante regionale dei detenuti con la collaborazione del fotografo Francesco Cocco: 1.200 foto che ritraggono spazi comuni, aule, palestre, luoghi di colloquio e campi sportivi. Verona. “Il carcere di Montorio? Meglio di altri, ma pochi educatori” di Chiara Bazzanella L’Arena, 3 dicembre 2023 “La Casa circondariale di Montorio rispetto a molti altri istituti penitenziari italiani strutturalmente è in buono stato, con celle di al massimo tre letti. Vi è però un’evidente carenza dal punto di vista del personale trattamentale”. Lo dichiara l’onorevole Paolo Ciani di Democrazia Solidale, che ieri mattina ha visitato la struttura carceraria veronese accompagnato dal consigliere comunale Lorenzo Didoné e altri esponenti di Demos. Pochi educatori - “Vi sono solo tre educatori per 500 detenuti e nel dovere costituzionale di rieducazione del detenuto si tratta di numeri preoccupanti”. Ciani nutre preoccupazioni anche per l’aspetto sanitario che, anche alla luce dei ripetuti recenti suicidi, necessita di essere organizzato meglio, definendo le competenze di Ulss, azienda ospedaliere e carcere stesso. Nessun incontro con Turetta: “Trattamento uguale per tutti” - “È la prima volta che entro nella struttura di Verona e la visita era stata programmata prima che la casa circondariale finisse sotto i riflettori per l’arrivo di Filippo Turetta”, ha precisato. “Non ho chiesto di vederlo e non gli ho parlato, come faccio solitamente accedo in maniera non rigida e strutturata su particolari richieste, ma cercando di cogliere la generale atmosfera del microcosmo in cui il malessere di qualcuno diventa quello di tutti. Vi è un eccesso di spettacolarizzazione rispetto alla vicenda, e parlando con le persone recluse, non ho percepito che vi sia il malcontento emerso sui media per la presunta divisione tra detenuti di serie A o di serie B”. E prosegue: “I trattamenti sono uguali per tutti, anche nella sezione degli isolati dove si trova Turetta. Piuttosto, come detto, manca personale e l’impegno di Demos è che la persona sia messa al centro, sempre, e che il carcere non sia percepito come una realtà estranea al territorio, a garanzia dei diritti non solo delle persone detenute, ma anche di chi vi lavora, degli educatori e dei volontari che vi accedono. Il mio ingresso nelle strutture vuole proprio garantire che resti acceso un faro istituzionale all’interno di questi luoghi”. L’incontro di Demos - Dopo la visita a Montorio, Ciani si è diretto in piazza del Popolo, all’incontro promosso da Demos per parlare proprio di Diritti in Carcere. All’evento sono presenti anche tre assessori, Stefania Zivelonghi per la sicurezza, Luisa Ceni per il sociale e Italo Sandrini per il terzo settore, oltre al garante delle persone private della libertà, Don Carlo Vinco e ai rappresentanti delle varie associazioni che svolgono attività nella struttura: San Vincenzo, Panta Rei, Il Samaritano, Fraternità, Don Calabria, Sbarre di Zucchero, Acli e l’istituto alberghiero Berti. Prato. L’esperienza dello studio universitario in carcere unifi.it, 3 dicembre 2023 Incontro alla Casa circondariale “La Dogaia”. L’esperienza dello studio universitario in carcere è stata al centro di un incontro presso la Casa Circondariale di Prato La Dogaia, a conclusione della Conferenza nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (Cnupp). Vi hanno preso parte il direttore de La Dogaia Vincenzo Tedeschi e la rettrice dell’Università di Firenze Alessandra Petrucci. Nell’incontro, dal titolo “Il dibattito “in” e “sul” carcere: i detenuti iscritti ai corsi di studio dell’Università di Firenze incontrano i delegati Cnupp e le istituzioni”, sono stati presentati i lavori del Polo Penitenziario toscano, con la partecipazione del delegato dell’Università di Pisa Andrea Borghini. Ha portato un saluto il sindaco di Prato Matteo Biffoni. Gli studenti del Polo Penitenziario hanno dialogato con numerosi interlocutori istituzionali: l’assessora alle Politiche regionali per le questioni carcerarie della Regione Toscana Serena Spinelli, la rettrice Alessandra Petrucci, il direttore Vincenzo Tedeschi, il magistrato di sorveglianza di Firenze Giuditta Merli, il Presidente della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari Franco Prina. Ha moderato l’incontro Maria Paola Monaco delegata all’Inclusione e diversità dell’Università di Firenze. “La tutela dell’effettivo diritto allo studio universitario è, in generale, garanzia di democrazia, mezzo di inclusione e di riabilitazione: per questo, è dovere dell’Ateneo garantirlo anche ai soggetti in esecuzione penale, mediante le attività del Polo Universitario Penitenziario - ha affermato la rettrice Alessandra Petrucci -. L’Ateneo si impegna per trasformare la detenzione da un tempo sospeso a un periodo produttivo, in cui il cittadino ristretto può intraprendere percorsi formativi di alto livello, che gli consentono di investire su se stesso. Lo studio diventa, in questo modo, una medicina efficace, uno strumento fondamentale per aprire altre strade, con benefici sia per il singolo sia per l’intera società”. “L’Università in carcere - ha aggiunto la delegata dell’Ateneo fiorentino all’inclusione Maria Paola Monaco - ha un ruolo fondamentale: da una parte attraverso la formazione permette ai detenuti di reintegrarsi nella società una volta finita la pena e, per altro verso, per coloro che hanno una pena lunga costituisce un’occasione per riflettere sulla propria esperienza e nello stesso tempo per mantenersi in contatto con il mondo”. Attualmente gli studenti iscritti all’Unità fiorentina del Polo Universitario Penitenziario toscano sono 75, di cui 20 matricole. La maggior parte fa capo alla casa circondariale pratese di Dogaia (41 iscritti, di cui 13 matricole). I corsi di laurea con maggiori iscritti afferiscono alla Scuola di Studi Umanistici e della Formazione, alla Scuola di Economia e Management e alla Scuola di Giurisprudenza. Milano. I volti della povertà in carcere di Rossana Ruggiero L’Osservatore Romano, 3 dicembre 2023 Quando si parla della malattia durante la detenzione, si pensa soprattutto a quella psichiatrica che imprigiona la mente, prima che il corpo. In carcere si ammala la mente e il corpo: si soffre e si muore anche di cancro, di leucemia, per patologie cardiache. Si ricevono cure e si affronta la malattia, ritenendola - in alcuni casi - quasi residuale rispetto al vissuto dietro e oltre le sbarre. Come un’ombra sulla propria vita, pesa terribilmente generando un aggravio di sofferenza. La richiesta di incontrare due malati del centro clinico è stata accolta dalla direzione del carcere di San Vittore e il primo detenuto che abbiamo incontrato è Massimo. “Volete un caffè?”. “Beh, non saprei”, rispondo. In verità non so nemmeno se possiamo accettarlo… caffè preparato in cella, in pieno Centro Clinico, che Massimo porta in corridoio in un termos datato. Matteo risponde di sì, io invece guardo l’orologio e soprassiedo: “Grazie, preferisco di no, è già mezzogiorno”. Due ore ininterrotte di storie per raccontare quasi trentacinque anni di carcere, aggravati dalla malattia e dalla solitudine. Restiamo in attesa che gli agenti di polizia penitenziaria portino in biblioteca la tastiera per consentire a Massimo di suonare, mentre altri detenuti fanno capolino, chiedono un’intervista o ci mostrano degli oggetti che hanno imparato a costruire, una situazione surreale che accorcia le distanze. “Non sono egocentrico, non credo nell’apparire e quando in carcere hai la fortuna di scoprire che hai una dignità e la fede, puoi anche non avere niente altro a livello economico che riesci a superare tutto. Ho fatto tantissimi anni di carcere, ho espiato più di 35 anni, poi ho trovato questa ricchezza e ne ho fatto una roccaforte”. Massimo, sessantadue anni, è persona colta, eclettica e molto intelligente. Gli do del “lei” durante tutto il nostro incontro, che inizia esattamente così… parlando della dignità umana. “Visto che mi parla della dignità, me la può descrivere? Cos’è la dignità per lei?”: “La dignità è qualcosa che nessuno ti può prendere, qualcosa che attribuisce l’integrità all’uomo e ai suoi principi. Quando sei un uomo di principi, hai dignità e puoi superare tante cose”. Massimo nasce in una famiglia borghese di Milano, i suoi genitori lavorano entrambi, ma già da bambino è affetto dal disturbo da deficit di attenzione/iperattività (adhd), patologia che accerta però all’età di 58 anni. “In classe, quando sei un bambino iperattivo, la tua attenzione dura 20 minuti su 4 ore… io, difatti, ero sempre fuori dal preside. Oggi è più facile, ma cinquant’anni fa non se la sognavano neanche! Se lo avessero capito, forse non avrei combinato tutto il resto. Velocità di pensiero, velocità di azione, per questo con gli anni, con i reati, mi hanno dato la pericolosità, perché non ero facile da controllare. Mi hanno marchiato a fuoco”. Massimo ritiene di essere fortunato “perché alla fine l’esperienza del carcere non la puoi fare in un altro modo e, se non hai la forza, vieni cancellato nell’animo”. Ogni volta che è uscito di carcere si è scontrato con la povertà nei dormitori di Milano, la solitudine, la mancanza di un lavoro, di un tetto… poi un grave incidente stradale da uomo libero, l’ adhd tardivamente accertata e una patologia cardiaca gli faranno scontare gli ultimi anni a San Vittore, nel centro clinico. “Meglio il carcere?”, gli chiedo. La risposta sarebbe stata una sconfitta e non l’attendo. Guardo verso la testiera e invito Massimo a suonare. La musica è una costante nei nostri incontri e ha la magia di illuminarli e portarci lontano. Rieti. Solidarietà in carcere, i detenuti donano genere alimentari ai poveri Corriere di Rieti, 3 dicembre 2023 La solidarietà non ha volto e forse quanto accaduto alla Casa circondariale di Rieti è l’esempio migliore per dimostrarlo. Qualche giorno fa all’interno del carcere di Rieti sono stati consegnati pacchi di generi alimentari per la raccolta del Banco Alimentare. Oltre un quintale di generi alimentari (pasta, olio, pelati, legumi, zucchero…) sono stati donati e poi distribuiti tra le associazioni che si occupano di assistenza ai più poveri. I detenuti, per dare vita alla raccolta, hanno donato parte della loro spesa settimanale e a loro si sono uniti anche i dipendenti e gli operatori del carcere reatino che hanno raccolto una quantità importante di alimenti che potranno andare sulle tavole di chi non ha nulla. È la prima volta che a Rieti si verifica un evento di questo genere e sicuramente, in un momento difficile per tutti, rappresenta un segnale importante come sottolineato anche dalla direttrice e dagli operatori. La consegna degli alimenti ai referenti reatini del Banco Alimentare Onlus Michele d’Alessandro e Primo Scappa, ha avuto luogo alla presenza del direttore della Casa circondariale Chiara Pellegrini e di Luca Agabiti. Verbania. Il presepe realizzato dai detenuti esposto in mostra in Vaticano di Francesco Rossi sdnews.it, 3 dicembre 2023 Un lembo di Verbania sarà in Vaticano per Natale. È il presepe realizzato da alcuni detenuti della Casa Circondariale di Verbania, da volontari della Parrocchia di San Leonardo e da alcuni agenti della Scuola di Polizia Penitenziaria della città. Il presepe è stato scelto tra quelli che partecipano alla sesta edizione della mostra internazionale “100 Presepi in Vaticano”. “A promuoverla - spiega il parroco di Pallanza, don Riccardo Zaninetti - è il Dicastero della Nuova Evangelizzazione della Città del Vaticano. Sarà l’occasione per celebrare la ricorrenza degli otto secoli dalla prima raffigurazione della Natività, che San Francesco ha realizzato a Greccio nel 1223. A 800 anni dal primo presepe della storia, la tradizione si tramanda nelle case e nelle comunità, racchiudendo in sé un messaggio di speranza e di pace che non sbiadisce”. Il presepe progettato e realizzato a Pallanza farà bella mostra di sé sotto il colonnato della basilica di San Pietro a Roma lungo tutto il periodo del Natale. “È il frutto - prosegue don Riccardo - di un progetto che ha permesso di dare forma concreta al concetto di inclusione nell’ambito detentivo. Un progetto che è partito proprio dall’interno del carcere. Sembrava una proposta azzardata, quasi impossibile: far incontrare, davanti a un presepe, la realtà carceraria, la scuola di agenti penitenziari, gli agenti stessi, l’oratorio e la nostra comunità”. Ivrea (To). “Della mia anima ne farò un’isola”, lettura scenica dal libro di Elvio Fassone di Lisa Gino rossetorri.it, 3 dicembre 2023 Cento persone nella sala polivalente della Casa Circondariale di Ivrea per assistere ad una emozionante lettura scenica. In città c’è un quartiere chiamato Casa Circondariale. Quel quartiere ha molti abitanti ma noi non li vediamo e spesso non li vogliamo vedere. Per fortuna (nostra e loro) ci sono persone che lavorano per metterci in comunicazione e per far sì che ogni tanto possa capitare di incontrarci e stare insieme. Così, alle dieci di un sabato di avvento, la fila fuori dalle mura di quel grande edificio rosso con le sbarre alle finestre, lungo la via che esce dalla città, è alquanto lunga. Siamo in tanti, non credevamo di essere così tanti. Ci guardiamo, ci contiamo e siamo contenti di trovarci insieme, a passare una mattinata insolita. Sappiamo perché siamo lì, ma non sappiamo esattamente cosa aspettarci. Un laboratorio di lettura si è trasformato in un’esperienza teatrale per i detenuti della “Sezione Ristrutturata. Collaboratori di giustizia” della Casa Circondariale di Ivrea e ha coinvolto la cittadinanza, grazie al lavoro dell’Associazione Assistenti Volontari Penitenziari Tino Beiletti, invitata ad assistere allo spettacolo. Il libro che ha dato vita al percorso si intitola “Fine pena ora” ed è stato scritto dal giudice Elvio Fassone, protagonista di uno scambio epistolare durato ben 26 anni con un detenuto che lui stesso ha fatto condannare all’ergastolo per reati di stampo mafioso. Una storia già di per sé davvero incredibile, resa ancora più sorprendente se, per la lettura scenica, a rivestire i panni dei due protagonisti sono due detenuti che scontano una pena senza data di fine per gli stessi reati di cui si è reso colpevole l’ergastolano del libro. È strano dover passare cancelli, lasciare borse e cellulari e trovarsi seduti in una grande sala nel cuore di tanta precauzione. Siamo chiusi, anche noi, per qualche ora. Non è uno spettacolo qualsiasi. Anche questo lo sappiamo. Percepiamo l’elettricità dell’emozione nell’aria, quella sensazione simile a quando sta arrivando il temporale e tutto si ferma per un attimo, prima che cominci il gran frastuono. Siamo in quel momento: stiamo aspettando che l’onda arrivi. L’attesa è quel tempo strano in cui ognuno prepara e si prepara alla reazione, quel momento in cui le antenne sono dritte e i sensi al massimo dell’allerta. Poi, iniziano le rituali presentazioni e i saluti istituzionali, i grazie per essere qui, i grazie a chi tra poco si metterà in gioco. E noi siamo pronti. Lo spettacolo a cui stiamo per assistere, ci spiega Simonetta Valenti che ne è ideatrice e artefice, intervallerà l’interpretazione di brani dello scambio epistolare tra il giudice Fassone e Salvatore l’ergastolano con riflessioni e pensieri dei detenuti, scaturiti dalla lettura del libro ed entrati a pieno titolo nella drammaturgia di questo originale canovaccio che fonde insieme prosa, poesia e note autobiografiche, tessute da piccoli intervalli musicali a cura di Nicola Giglio. Si inizia, infatti, con una poesia, composta da Gaetano, l’attore che interpreta Salvatore, che spiega nella sua bella lingua siciliana, in pochi e incisivi versi, la condizione del carcerato, contribuendo ad instradare noi pubblico verso il giusto stato d’animo. L’attesa ha lasciato il posto alla propedeutica: ora possiamo davvero partire per il nostro viaggio nella tempesta. Ed è una vera tempesta emotiva quella che stiamo per attraversare, un percorso nelle emozioni di chi legge che risuona nel profondo dei sensi allertati di chi ascolta. Mentre il giudice Fassone (Nik) e Salvatore (Gaetano) si svelano l’un l’altro a suon di lettere, Angelo, Ettore, Luigi, Pietro, Nik e Gaetano scoprono le loro carte più intime e segrete e ci permettono di guardare dal buco della serratura della loro anima di uomini rei redenti. Nessuno è uguale a come era il giorno prima, dice Luigi, neanche loro, le cui azioni sembrano avere fermato il tempo per sempre. Difficile rendere a parole quello che noi cento seduti abbiamo vissuto, così come è difficile immaginare quanto è stato duro scriverle, quelle parole. Parole che raccontano un altro mondo e un altro modo di stare al mondo. Parole che, alla fine, diventano un interminabile ringraziamento e che a fatica riescono a fermarsi, dopo aver trovato finalmente una strada libera su cui correre a perdifiato. E poi sono mani che si stringono, complimenti e sguardi dritti e lucidi. Lo sapevamo, ma ora ne siamo certi: non siamo gli stessi di quelli che appena due ore prima hanno varcato la soglia, né lo saremo domani, così come non lo sono loro: “loro perché la speranza li tiene vivi e noi perché crediamo in quel che facciamo, ma entrambi non molliamo”, come hanno scritto sul retro della cartolina di presentazione, messa sulle sedie della sala. Tornando a casa, ad emozione più tiepida, penso al titolo dello spettacolo, nato dai profondissimi versi di Pietro: “della mia anima ne farò un’isola” e cerco di organizzare i pensieri. Mi chiedo che cosa ho apprezzato di più. Mi accorgo, allora, che la lettura delle testimonianze personali è sempre stata asciutta, diretta, senza eccessive vischiosità emotive, nonostante il peso che trasportava, esattamente al contrario del lavoro attoriale, chiamato a riempire e a colorare di veridicità situazioni verosimili ma inventate. A cosa ho assistito, dunque, mi sono chiesta? Ad uno spettacolo teatrale o a qualcos’altro? Pirandello avrebbe detto: “alla vita”! Ho assistito alla vita. E quindi al teatro nella sua massima forma! Genova. Ci sono vite da leggere come un libro di Sara Erriu Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 Arriva a Genova il 5 dicembre la “Biblioteca vivente”. “Le persone sono mondi che si incontrano”: migranti, ex detenuti, malati. Promuovere il rispetto, praticare la solidarietà, incoraggiare il riscatto sociale attraverso la condivisione e l’empatia. I libri di una biblioteca vivente (o umana) fanno proprio questo. Non si sfogliano, ma si interagisce con loro e ci si emoziona insieme. Occhi negli occhi, i libri umani si mettono a nudo per raccontare la propria storia di vita, a contatto con l’emarginazione, la malattia - mentale o fisica -, con orientamenti religiosi o sessuali diversi. Tutto questo grazie a un patto limpido con il lettore: la fiducia. Il coraggio di confidare la propria esperienza a uno sconosciuto deve infatti essere proporzionale alla disposizione all’ascolto, senza pregiudizi. Non bisogna mai dimenticare che di fronte si ha una persona che decide di condividere con un estraneo il proprio vissuto personale, spesso delicato, talvolta persino traumatico. La prima biblioteca vivente è nata con cinquanta “titoli” nella primavera del 2000 a Copenaghen, in Danimarca, a opera di Ronni Abergel, con l’aiuto del fratello e di due colleghi. Consapevole del grande potenziale dell’iniziativa, Ronni - dopo il primo evento - ha fondato la Human Library Organization e portato in giro per il mondo l’iniziativa. Ha contribuito a formare nuovi organizzatori locali, a pianificare altri incontri, a cercare realtà e autorità interessate. In ventitré anni di vita, il progetto è riconosciuto dal Consiglio d’Europa e si è esteso toccando ottantacinque Paesi, tra cui l’Italia, in tutti i continenti - Asia, Africa, Australia, Nord e Sud America, Europa. Milano, Varese, Trento, Pesaro sono state le prime città che hanno aderito all’iniziativa e che, tra questo e lo scorso anno, hanno messo in connessione persone e storie distanti che altrimenti non avrebbero avuto nessuna occasione per conversare così apertamente. I libri umani hanno raccontato la loro esperienza di carcerati, come rifugiati, con la disabilità, ma anche storie di generazioni, con la partecipazione di giovani e anziani. Sull’onda della buona riuscita di queste esperienze, il 5 dicembre arriverà una nuova biblioteca vivente. Sarà allestita nel capoluogo ligure, nell’ambito di Genova Capitale italiana del libro 2023. Il primo appuntamento è alla biblioteca Berio (dalle 17 alle 20) con All - ABCittà Living Library, poi seguiranno altri cinque incontri di “lettura” in diversi luoghi della città tra cui il Mercato Orientale, che ospiterà l’iniziativa conclusiva il prossimo 20 gennaio (dalle 15.30 alle 18.30). Per “sfogliare” i libri umani basterà recarsi nei siti adibiti e prenotare una consultazione scegliendo un titolo disponibile. Tra i precedenti si ricordano: Solo un dettaglio di Stefano, Il figlio raccolto di Fanny, Gli occhi degli altri di Diego. A suggerire dettagli in più su ogni storia sarà una “quarta di copertina” che anticipa la tematica trattata. Come in ogni biblioteca, poi, anche qui si potrà essere aiutati da un bibliotecario, che spiegherà ai nuovi utenti il funzionamento dell’iniziativa e le regole da rispettare o indirizzerà la persona al libro più adatto secondo le proprie sensibilità. Chiunque, in ogni caso, può scegliere se ascoltare una storia più vicina al proprio vissuto personale, così da creare un legame più stretto e intimo con il “libro”, oppure se spaziare tra i “generi”, scoprendo nuove realtà e modi di pensare. Durante l’incontro, che durerà circa mezz’ora, il lettore-ascoltatore potrà porre domande e alla fine scrivere una recensione del racconto. Il progetto è curato dell’assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Genova, dal Teatro Pubblico Ligure ed è guidato dalla direzione artistica di Sergio Maifredi. “Fermarsi a parlare con persone che non conosciamo - dichiara l’assessore Francesca Corso - può contribuire a superare pregiudizi e a formare una coscienza personale libera da banali giudizi e discriminazioni”. Aggiunge Maifredi che è come tornare al teatro originale, “alla sua identità primordiale e più autentica: spogliarsi di tutto e raccontarsi a un’altra persona è la condizione di Odisseo che arriva nudo all’Isola dei Feaci e si presenta, dopo avere perso tutto, ad Alcinoo. Ognuno è salvo finché ha una storia da raccontare”. Portare a Genova una biblioteca vivente significa creare una nuova occasione per connettere persone e promuovere il dialogo, per affrontare gli stereotipi e sfidare i pregiudizi più comuni, oltre che per prevenire i conflitti. Allo scopo di raggiungere questi (ambiziosi) obiettivi vengono coinvolti numerosi volontari che, per diventare libri umani, hanno seguito un corso di formazione specifico con gli esperti di ABCittà, cooperativa sociale attiva in Italia dal 1999. Se abbiamo la pazienza di osservare il resto del mondo, oggi la biblioteca umana - human library -è una realtà consolidata e versatile: per fare soltanto due esempi, negli Stati Uniti gli studenti di medicina della Thomas Jefferson University ne fanno attivamente parte, mentre in Danimarca è considerata parte della formazione per i nuovi assistenti sociali presso l’Institute of Social Work di Copenaghen. Alessandro Piperno: “La colpa non è un’opinione” di Francesca Sforza La Stampa, 3 dicembre 2023 Nelle calpestatissime piattaforme in cui ciascuno ha un’opinione precisa del mondo, difficilmente si incontrerà Alessandro Piperno, che preferisce battere i sentieri poco praticati di altri argomenti, quelli che vanno poi a costruire i suoi libri: la colpa, la vergogna, la denigrazione di sé e della condizione umana. L’impressione è che il lavoro sia quello di arginare la baraonda delle chiacchiere e recuperare una forma di sapienza. Parola antica e altisonante che sicuramente non userebbe, ma che si affaccia, a tratti, nel corso di questa conversazione. Piperno, lo sa che adesso ingenerare il senso di colpa è considerato l’errore degli errori nell’educazione delle giovani generazioni? “Non avendo figli, non ho grandi interessi pedagogici. In linea di massima mi impegno a non giudicare nessuno, se non ogni tanto me stesso. Del resto, se da un lato capisco quanto sia deleterio, dall’altra credo che il senso di colpa possa essere un’efficace forma di civismo. Penso a società proverbialmente civili, e forse per questo così infelici, come quella anglosassone o scandinava, dove la sanzione sociale funge da deterrente. Sei una persona perbene solo se gli altri ti considerano tale”. Insegnare a non sentirsi in colpa le sembra sbagliato? “Non so cosa sia “sbagliato” in termini pedagogici, non me ne intendo. Da un lato ti dicono che non devi colpevolizzare nessuno, soprattutto te stesso, dall’altro sei continuamente sottoposto al severo giudizio degli altri. Ora, che in questo mondo di giacobini e di tribunali del popolo, la colpa venga abolita per editto fa un po’ ridere. Allora capisci perché la gente, pur di non assumersi la responsabilità dei propri errori, sia portata a scaricarla sugli altri. È la soluzione più comoda, la più rassicurante. Dopotutto, ciò che accomuna i populisti di tutte le latitudini è il messaggio subliminale che rivolgono all’elettore auto-indulgente: “non è colpa tua, è colpa loro”“. Si sente più solidale con la filosofia dell’underdog? “È una retorica che non mi appartiene. Come potrebbe? Non ho mai sentito una particolare ansia di riscatto. Forse perché sono cresciuto in un ambiente protetto che mi ha fornito molte opportunità per emergere. In realtà, più divento vecchio, più diffido di chiunque prenda troppo seriamente se stesso e il proprio ruolo nel mondo”. Le capita spesso di essere frainteso da interlocutori privi di ironia? “Continuamente. Oramai vige la dittatura della lettera. Quando faccio lezione all’università trovo sempre più complicato spiegare certe sfumature. Inizio a credere che i capolavori letterari siano troppo ambigui per offrire alla gente ciò di cui ha bisogno: risposte definitive e ricette per vivere meglio”. Colpa dei social? “Anche qui, temo di non essere la persona giusta a cui chiederlo. Ma immagino di sì, almeno quando riducono tutto al grado zero, quando cercano la frase a sensazione o il consenso immediato”. L’insegnamento della letteratura ne risente? “A dispetto di ciò che si pensa, i corsi di letteratura continuano a godere di una discreta popolarità. Le aule sono piene e la frequenza assidua. È in me che è avvenuto un cambiamento, non so quanto positivo: sono portato a semplificare, a evitare i paradossi. Per timore che chi mi ascolta non stia al gioco o che addirittura possa offendersi, ho rinunciato anche alle mie amatissime antifrasi. Che peccato. Senza tutto questo ben di dio, la fruizione di un romanzo si riduce a mero intreccio, ai personaggi, al contesto sociale, troppo poco per apprezzarlo davvero. Va bene identificarsi con un eroe o un’eroina, ma non esageriamo. Come spiegare le ambiguità di Emma Bovary? Chi è Emma? Una figura tragica, uno specchio in cui affogare o la parodia di una casalinga frustrata? Cosa pensa Flaubert di lei? La ama, la odia o la disprezza? Vaglielo a spiegare, alla gente, che se il lettore non si fa carico di questi interrogativi senza risposta non è un buon lettore”. Nostalgia del Novecento? “Non sono un tipo nostalgico e di certo non rimpiango la critica psicoanalitica, sociologica, strutturalista, genetica che mi veniva inflitta quando ero studente. Avverso i metodi e le ideologie che sottendono. Diciamo che le mie nostalgie novecentesche riguardano l’immaginario legato alla mia giovinezza. L’altra sera, dopo trent’anni dall’ultima volta, ho rivisto Film rosso di Kieslowski restaurato. Mi è parso tutto così bello. I colori, le sigarette, le acconciature...” C’entra qualcosa la mancanza di una cultura della vergogna? “Ci andrei piano con le parole. La “cultura della vergogna” suona alle mie orecchie un tantino intimidatoria, roba da regime autoritario. Certo che se con tale espressione intende l’assenza di spirito critico che autorizza chiunque a spararla grossa, a usare toni oracolari e autocelebrativi, a non avere nessun rispetto per le parole, allora temo che lei abbia ragione. Mi viene subito in mente Petrolini: “È la satira efferata al bell’attore stanco, affranto, compunto, vuoto senza orrore di sé stesso”. Lo sa il cielo se in circolazione - in tv, sui giornali, sui social - ce ne sono di attori del genere”. Come mai non scrive mai editoriali o opinioni per il suo giornale? “Non amo condividere le mie opinioni. E trovo quelle degli altri decisamente più interessanti delle mie. Del resto, se non hai messaggi da trasmettere, meglio tacere”. In che senso? “Mettiamola così: non ho mai firmato un appello in vita mia, non ho mai marciato per nessuna causa, la sola tessera che possiedo è quella della Lazio. Mi piace leggere e scrivere, non mi piace altro. Ho diversi amici scrittori che, chiamati a pronunciarsi su qualsiasi argomento, non si tirano indietro, mettendo volentieri le proprie idee al servizio della comunità. Nulla da eccepire, naturalmente, ma non fa per me. Anche se ho le mie opinioni politiche non vedo perché dovrebbero essere di pubblico interesse. In sovrimpressione vedo la famosa battuta di Woody Allen: “Gli intellettuali sono la prova di come si possa essere coltissimi e non cogliere la realtà oggettiva”“. Un esempio? “Be’, prenda il caso della cronaca nera. Mi è capitato di essere interpellato su omicidi efferati, tragedie di famiglia, casi irrisolti, insomma su eventi troppo drammatici, troppo delicati per consentirti uno spazio di manovra. Non puoi mica metterti a pontificare sulle ragioni di un assassino, come forse faresti in un’opera di fiction. E allora te la cavi buttando giù l’ennesimo articolo pleonastico, pensoso, melenso e genericamente indignato. Ci sono cascato un paio di volte in tutto. Da allora mai più”. Esclude la possibilità che la scrittura possa trasformare una banalità in qualcosa di più vero? “Credo che le banalità scritte in modo forbito siano una iattura dell’umanità. È raro che il pezzo di uno scrittore laureato sul conflitto israelo-palestinese sia più efficace dell’analisi circostanziata di un inviato embedded o di un esperto di geopolitica o di tattica militare”. Gli scrittori facciano gli scrittori? “Non ho ricette generali. Ogni caso è a sé. Di recente ho amato molto un articolo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo che raccontava i giorni successivi al 7 ottobre. Era un pezzo accorato, di rara umanità, in cui la capacità affabulatoria di Nevo era messa al servizio di una verità incandescente. Un articolo del genere nasce dalle circostanze, non lo puoi scrivere a comando o per commissione. Nessuno di noi, osservando gli eventi in televisione, avrebbe potuto trasmettere la stessa sensazione di angoscia, resistenza e speranza che Nevo ha saputo infondere al suo racconto. Non avendo niente da insegnare, Nevo ha fatto parlare i fatti. Se è questo che lei intende quando mi chiede se gli scrittori devono fare gli scrittori, la risposta è sì”. Minori colpe e minori vergogne rendono la vita sociale meno interessante? “È chiaro che il cosiddetto “progresso dei costumi” rende il territorio di indagine del romanziere più limitato. Ma non mi pare un buon motivo per rimpiangere i bei vecchi tempi andati in cui ebrei, omosessuali e divorziate venivano discriminati. L’idea che l’adulterio non sia più un reato, come accadeva quando scrivevano Flaubert e Tolstoj, mi sembra un bel passo in avanti. Forse gli scrittori ci hanno rimesso, ma chi se ne importa degli scrittori. Meglio una società libera senza Tolstoj che una società zarista piena di Tolstoj. E comunque non mi lamento. Il campo d’indagine a disposizione di un romanziere è talmente vasto da coincidere con le “Grandi Leggi” di cui parlava Proust: snobismo, vanità, gelosia, amore, bellezza, morte. Questa roba non passa mai di moda. Finché ci sarà un bar in cui ascoltare le conversazioni altrui, lo scrittore troverà il modo di prosperare”. Non la si vede molto in giro per convegni o conferenze, come mai? “Se devo farlo lo faccio, soprattutto per ragioni promozionali. Ma se posso evito. Preferisco ascoltare gli altri e mi annoia sentirmi dire cose che so già. Da quando dirigo la collana dei “Meridiani” Mondadori ho preso a spendermi di più, ma lo faccio per loro. Philip Larkin, Agnon, Samuel Beckett. Meglio parlare di questi giganti che di sé stessi. Poi, vede, un buon oratore è animato da un mix di narcisismo e spirito pedagogico, due impulsi che preferisco indirizzare ad altre attività, come per esempio la scrittura”. Crede alla letteratura come impegno? “Sicuramente non nell’accezione che alla parola davano Sartre e i suoi accoliti facinorosi. A essere sincero, non credo spetti a me definire ciò che faccio “letteratura”. Parlerei più modestamente di scrittura. E allora sì che si tratta di un impegno, di un impegno parecchio oneroso”. Nella scrittura c’è più fatica o più piacere? “Quando decisi che avrei fatto lo scrittore, più di trent’anni fa, mi veniva naturale considerare il mestiere che mi ero scelto in modo competitivo e antagonistico. Ha presente quelle cose che dice Harold Bloom sull’angoscia di influenza? Be’, oggi non è più così. Me ne infischio del mio posto nel mondo letterario. Scrivo per vivere, nel senso che se non lo facessi ogni santo giorno la mia vita non avrebbe scopo. Anche se di solito è tutto molto faticoso e mortificante, so che la felicità è dietro l’angolo: un dettaglio adeguato, un dialogo frizzante, un personaggio minore che sembra prendere vita come il proprietario del mini-market sotto casa. Scrivere un romanzo somiglia molto a certi giochi infantili: tipo il Lego o i Playmobil… Richiede una grande fantasia e parecchia precisione. Il divertimento sta tutto nell’allestimento. Una volta che il libro è finito smette di essere interessante, almeno per chi lo ha scritto. Ha mai notato quanto sono magri i grandi chef? È chiaro che non amano mangiare le loro creazioni”. Il lavoro come religione? “Il lato buono di non prendersi troppo sul serio - le proprie opinioni, la propria reputazione -, è che resta un sacco di tempo per concentrarsi sul lavoro. Da qui a definirlo una religione ce ne passa”. È un perfezionista? “Non lo sono affatto. Anzi, mi piacciono le cose sbagliate, sbilenche e persino i refusi”. Perché la speranza ha senso di Antonio Polito Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 Il rapporto del Censis, il declino del Paese e noi tra incubi e felicità. Siamo pessimisti perché le cose vanno male o le cose vanno male perché siamo pessimisti? Con inesorabile cadenza annuale, il Rapporto Censis ci ha messo un’altra volta di fronte al vero dilemma dell’Italia di oggi. Che, a ben guardare, non se la cava poi così male. Mai stata più sana, mai così occupata, mai più libera. Eppure, se chiedete agli italiani come va, riceverete in risposta un vero e proprio campionario di paure, timori, incubi. Più della metà dei nostri connazionali pensa infatti che il clima diventerà incontrollabile, che povertà e violenza provocheranno il collasso della nostra società, che esploderà la crisi dei migranti, che ci sarà un cedimento finanziario dello Stato, che patiremo la siccità, che ci stiamo infilando in un conflitto globale e non abbiamo le necessarie difese contro il terrorismo. Ma se noi ci aspettiamo tutti questi sfracelli, e soprattutto se nel frattempo non facciamo nulla per scongiurarli, allora essi diventeranno anche più probabili. Da quasi un secolo sociologi e psicologi descrivono il fenomeno della “profezia che si auto-avvera”, a partire dal cosiddetto Teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”. Il valore delle aspettative in economia è ben conosciuto. Se crediamo che i prezzi continueranno a salire, ci accaparriamo le merci al prezzo di oggi, e così domani costeranno di più; al contrario se i prezzi calano, aspetteremo che calino ancora prima di acquistare un qualsiasi bene, provocando così una depressione. Eppure certe volte, in certi momenti della storia, i popoli smettono di pensare in termini individuali, e si comportano come una comunità. Per esempio: non c’era alcuna buona ragione per scommettere sul nostro futuro alla fine della guerra, tra le macerie fumanti di un Paese distrutto e umiliato. Eppure gli italiani si misero a far figli e a far soldi, dando vita a un boom demografico ed economico che lasciò di stucco il mondo. Seppur senza figli, il Covid è stato un momento del genere: ci abbiamo creduto, come dicono gli allenatori di calcio, e ne siamo usciti, nell’ora più buia abbiamo trovato le risorse umane e materiali per farcela. Mentre oggi... L’aspetto più sorprendente dell’analisi del Censis è proprio quello che il rapporto definisce il “sonnambulismo” degli italiani. E cioè: gli incubi notturni non si trasformano in energia al mattino, i presagi funesti non generano iniziativa e forza d’animo. Ma anzi abbattono, deprimono. E qui davvero la profezia rischia di auto-avverarsi. Prendiamo la demografia. Se diventiamo pessimisti sul nostro futuro al punto che nel 2040 solo una coppia su quattro farà figli, l’Italia si restringerà, perderà milioni di cittadini, si rinsecchirà fino a non avere più le forze per resistere alle bufere della Storia. Se i nostri giovani penseranno che il mondo sta per finire, per il riscaldamento globale o per l’atomica o per la siccità o per l’intelligenza artificiale, finirà anche la loro voglia di mettere al mondo. E ancora: se temiamo il collasso finanziario dello Stato, ci metteremo a risparmiare per evitarlo o daremo l’ultimo assalto alla diligenza che trasporta cioè che resta del denaro pubblico? E se il Paese di conseguenza vacilla, saranno di più o di meno gli italiani che cercheranno fortuna all’estero (sono già sei milioni)? E se davvero crediamo di non essere in grado di proteggerci dal terrorismo, o che stia per esplodere addirittura un conflitto globale, rafforzeremo le nostre difese militari o ci consegneremo alla sconfitta o alla conquista? Molto dipende da come si comporteranno le classi dirigenti. Nei due tornanti storici che ho richiamato prima, le abbiamo viste all’opera. Il populismo ci ha insegnato a pensare invece che esse non contino, e conti solo quell’entità indistinta e astratta che loro chiamano ambiguamente “popolo” per ottenerne i voti. Non è un caso se da almeno un decennio i profeti di sventura di solito vincono le elezioni. Salvo poi a diventare inguaribili ottimisti una volta andati al governo, e perderlo poco dopo a vantaggio di chi sa vendere un nuovo prodotto sul mercato delle paure. Classi dirigenti degne di questo nome, e non intendo solo i De Gasperi e i Mattei, gli Olivetti e gli Agnelli, i Borsellino e i Falcone, ma anche quel reticolo di donne e uomini di buona volontà che fanno andare il Paese ogni giorno, svolgono invece il lavoro opposto: trasformano le paure in speranze, lo scoramento in combattimento. Speriamo. Dobbiamo sperare. D’altra parte il Censis ci ha stupito già altre volte in passato nel cogliere, dopo le crisi, i segnali delle riscosse. In fin dei conti non ci vuole molto, per gente come la nostra, a invertire una pericolosa tendenza al declino. Più di nove italiani su dieci dicono di preferire oggi la felicità delle piccole cose, il tempo libero, gli hobby, le relazioni personali. Siamo cambiati, diamo più importanza alla libertà che al sacrificio. Non è certo possibile ricostruire lo spirito dei pionieri degli anni 50. Ma la felicità delle grandi cose può e deve rientrare nell’orizzonte collettivo, se solo qualcuno saprà mostrare agli italiani che il loro destino è comune. La grande fuga dalla scuola è un’emergenza sociale di Gaia Manzini L’Espresso, 3 dicembre 2023 Per disinteresse, apatia, depressione persino. La dispersione aumenta. E ora a lasciare sono anche studenti dei licei più prestigiosi, con famiglie benestanti alle spalle. Gli esperti confermano: il dialogo scuola-ragazzi è in crisi. Ludovico, 20 anni, viveva in una piccola città di provincia in mezzo alla pianura padana. Di quella città ricorda solo la nebbia e i ragazzi come lui che sentivano di non avere obiettivi; e allora molto meglio andarsene in giro per quattro giorni senza dare notizie, invece che entrare in classe tutte le mattine. Ludovico per tre anni non è andato a scuola e quest’anno, invece, darà la maturità a Milano. Riconosce tutti i suoi errori, sa che si comportava male, sa che le bocciature allo scientifico e poi a ragioneria se l’è meritate. Lo sa. “Ho lasciato perché fumavo l’erba, ero impegnato in quello. La scuola mi sembrava secondaria”, dice. Ma sa anche quello che gli è mancato. Ludovico è figlio di una professionista e di un ex dirigente di un’azienda informatica: due genitori laureati e presenti, eppure. I dati Istat parlano di percentuali in ascesa per quanto riguarda la dispersione scolastica. Nel solo 2022 i giovani tra i 18 e i 24 anni che non sono arrivati al diploma si aggirano intorno all’11,6 per cento. La novità è che molti tra questi ragazzi non vivono in periferia, non annaspano nel disagio economico e sociale. Per Nadia Fina psicoanalista, psicoterapeuta, presidente APG (Associazione di Psicoterapia psicoanalitica di Gruppo) le criticità della scuola sono molte. Tutto dipende dalla disponibilità del singolo insegnante a trovare momenti formativi che vadano a integrare il piano didattico. Gli studenti si sentono appiattiti su una sola dimensione, che è sempre una dimensione numerica. “Per me, il professore in classe non dovrebbe imitare il linguaggio giovanile, ma usare sempre un lessico più ricco”, dice Ludovico: “È un modo di tenere più attenti i ragazzi, ma anche di dare loro importanza”. Perché spesso c’è la sensazione di non essere “visti” nella propria peculiarità. I professori a volte si dimenticano i loro nomi. Il nome, prima chiave della nostra identità. “I modelli famigliari hanno avuto negli ultimi decenni una profonda trasformazione”, dice Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, autore di “Sii te stesso a modo mio” (Raffaello Cortina editore): “Siamo passati da una famiglia normativa a una più relazionale”. I ragazzi quando vanno a scuola non sono più solo degli studenti, non portano solo libri, ma molto - moltissimo - di loro stessi. Si confidano con gli insegnanti, mostrano la loro sfera personale. Ma nello stesso tempo la scuola è un luogo con il quale non si identificano, che “li infantilizza e li mortifica”. È come se il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) non si rivolgesse ai suoi utenti, cioè ai ragazzi e alle ragazze, ma al suo milione di dipendenti e ai genitori (a chi va a votare, verrebbe da pensare). Marco, per esempio, un paziente di Lancini, si lamentava che l’unica preoccupazione degli insegnanti fosse il casco che lui preferiva tenere sul banco. Oppure che il telefonino venisse spento. “Il cuore del problema non è il cellulare, ma il coinvolgimento”, ribadisce Lancini.Spesso il punto dolente è la didattica, che qualche insegnante illuminato affronta tuttavia con acume. Come quella professoressa d’italiano che fa svolgere il tema dall’Intelligenza Artificiale e poi lo fa confrontare con i testi dei ragazzi. In classe si discute delle differenze, si cerca di prendere distanza, di cancellare i pregiudizi. Si allena lo sguardo critico, l’unico che ci può salvare dal mondo. Zoe, 16 anni, dopo un periodo di depressione ha deciso di non frequentare più il liceo artistico. A scuola, dove aveva la media del nove, si annoiava; le lezioni erano troppo lente per lei. Molto meglio studiare a casa con gli appunti passati dai compagni e usare il resto della giornata per i progetti artistici che ha in mente. “C’è una scissione netta tra la vita dei giovani, fatta anche di nuove tecnologie, e l’insegnamento” dice Fina: “Gli studenti spesso non trovano una dimensione di senso in quello che viene loro insegnato”. Per Ludovico la sola spiegazione in classe non può bastare. “Gli insegnanti dovrebbero preoccuparsi di più dell’interazione con noi. Fare domande agli studenti, chiedere la loro opinione, in modo che la lezione sia una collaborazione. Ecco, la lezione dovrebbe essere proprio un dialogo”. Marina ha 17 anni, ha frequentato per due anni e mezzo un importante liceo classico. Anche lei in pagella aveva nove o dieci in tutte le materie. Anche in greco, anche in latino. Poi a un certo punto ha deciso che la scuola non faceva più per lei. Non riusciva neanche più ad andarci, per colpa dell’ansia da prestazione. La seconda parte del terzo anno l’ha frequentata a casa in Dad, anche se il Covid non c’era più. I professori si sono molto interessati al suo abbandono, hanno cercato di capire; ma, dice Marina, “se non avessi avuto quel passato scolastico non ci sarebbe stata tanta apertura”. Cercare il perfezionismo estremo, richiedere la performance: sono atteggiamenti incoraggiati da molti istituti. Poi lo studente è lasciato lì da solo, valutato solo al momento dell’interrogazione. Nessuna considerazione alla persona, nessun peso agli aspetti psicologici. Dal Berchet, liceo milanese di grande fama, qualche mese fa se ne sono andati 56 ragazzi. In una lettera al Corriere della Sera hanno parlato di un malessere crescente nella loro vita scolastica. E di una fragilità che ha bisogno di essere riconosciuta. “La scuola di oggi riproduce quello che succede nel mondo del lavoro”, dice Nadia Fina. Invece di formare, si affanna nella ricerca dell’eccellenza, perché l’eccellenza rende un istituto più appetibile di altri: “Naturalmente l’abbandono scolastico è spesso una conseguenza di forme di malessere psicologico e di dolore psichico importante, per il quale i ragazzi necessitano un distanziamento dalla classe e dagli insegnanti”. Per Nadia Fina questo disagio giovanile all’interno di nuclei famigliari borghesi è stato fortemente acuito dalla pandemia, ma è una fragilità che riflette quella delle famiglie, soprattutto della funzione genitoriale. Se da un lato la famiglia è meno solida nel suo essere un rifermento, dall’altro la scuola è sentita come lontana. Il malessere giovanile non viene riconosciuto dall’istituzione scolastica, non viene capito. “I fenomeni di violenza minorile che ci circondano sono espressione di una disgregazione”: la scuola ha perso la funzione di saper e voler contenere un ventaglio ampio di declinazioni dell’adolescenza. Non è in grado di gestire conflittualità; manca ormai la fiducia reciproca con i ragazzi e le famiglie. La didattica a distanza ha prodotto uno scollamento, uno sguardo critico nei ragazzi, al quale non c’è stata una risposta adeguata. Da parte del Ministero non è stata pensata una nuova progettualità. La responsabilità della scuola appare quella di non voler farsi carico delle molte fragilità dei ragazzi, di girare la testa. Di abbandonare prima di essere abbandonata. Giorgio, ora ventiduenne, figlio di un geofisico e di una giornalista, ha una storia di depressione iniziata fin dalle medie. Ha lasciato la scuola a sedici anni e non ci è più tornato, ma non è lui a raccontarlo, ancora non riesce a parlarne: è sua madre Sara. Frequentare un istituto tecnico in una zona periferica della città in cui vive, all’inizio, non gli era sembrato inverosimile, perché lì insegnavano cinema e fotografia. Poi però la scuola ha i suoi problemi e di quel ragazzo all’ultima fila col cappuccio tirato sugli occhi, lo zaino piazzato sul banco come se fosse una barricata, non si vuole curare. Quando ha progressivamente iniziato ad andare male fino a decidere di lasciare, nessun professore, nessun compagno, nessun dirigente hanno mai chiesto notizie. Nessuno se ne è mai interessato. Da quel momento, Giorgio non è più uscito di casa per tre anni. Non voleva incontrare i suoi coetanei, si vergognava. Ha iniziato a invertire il giorno con la notte, a mangiare troppo o a digiunare per giorni. Sara mi fa notare che gli unici due professori che erano soliti rivolgerli la parola erano quelli delle materie, diritto e storia, in cui lui aveva la media del sette. I rapporti umani. Ludovico lo sa bene. Ora non fuma più e vive a Milano da una zia. Al pomeriggio frequenta la scuola di recupero, al mattino lavora con un artigiano. In lui ha trovato un mentore, anche su lessico e buone maniere. La cosa che gli piace più di tutte è il lavoro manuale: “la bellezza di poter toccare le cose che faccio”. L’oggetto di cui va più orgoglioso è una cornice che ha decorato per uno specchio a forma di goccia. Il lavoro gli è servito, gli “sembra di aver imparato meglio la vita”, e il resto è venuto da sé. Anche un ritrovato piacere di imparare e studiare: “Finalmente sento di non essere più un filo d’erba in mezzo a un campo”. Migranti. Rifondazione: “Ora una Commissione d’inchiesta indipendente sui Cpr” di Stefano Montesi Il Manifesto, 3 dicembre 2023 “Quanto sta emergendo dalle indagini sulle condizioni di trattenimento di uomini migranti nel Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano è solo la punta di un iceberg. È il sistema di detenzione amministrativa a essere profondamente illegale. A questo si aggiungono violenze, carenza di servizi, trattenimento di persone vulnerabili in luoghi inadatti, frodi nella loro gestione”, afferma il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo. Che avanza una proposta a tutte le forze democratiche: costituire una commissione di inchiesta indipendente su queste strutture dove i migranti in condizione di irregolarità amministrativa, dunque senza aver commesso alcun reato, sono privati della libertà personale. Un possibile modello sarebbe l’analogo organismo creato nel 2007 e presieduto dal politico e diplomatico Staffan De Mistura. Già allora furono individuate le principali criticità del sistema che permangono fino a oggi (e anzi spesso si sono perfino aggravate). Dai lavori di quella commissione sarebbe dovuto partire un percorso diretto a chiudere gli allora Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta): invece negli anni hanno solo cambiato nome, per due volte. Migranti. Il Naga: “Finalmente crolla il muro di gomma. Ora chiudere tutti i Centri” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 Il presidente Riccardo Tromba: “Denunciamo da anni, finalmente è chiaro che le nostre non erano invenzioni né forzature”. “Finalmente è crollato il muro di gomma”. È passato poco più di un mese da quando il Naga, insieme alla rete “Mai più lager” ha presentato un dettagliato e tremendo dossier sulle condizioni all’interno del Cpr di via Corelli. In precedenza, nel febbraio di quest’anno, anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Francesco Maisto aveva redatto un rapporto allarmato e allarmante. Ma il “muro di gomma” non cedeva. Anche per questo, ora, il presidente del Naga, Riccardo Tromba, più che esprimere soddisfazione, rilancia il tema che l’associazione nata per “promuovere e tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri” solleva da anni: “La chiusura dei Cpr”. Che effetto fa trovare negli atti giudiziari quanto avevate denunciato voi? “Finalmente è chiaro che le nostre non erano invenzioni né forzature, ma erano descrizioni di una realtà della quale non si vuole parlare”. È stato davvero così difficile fare luce sulle condizioni all’interno di via Corelli? “Per anni ci siamo scontrati con resistenze a tutti i livelli, dai gestori alle istituzioni. Prima era difficile anche avere contatti con le persone trattenute, perché venivano tolti loro i telefoni, poi nel marzo 2021, grazie al lavoro dell’Asgi, Associazione studi giuridici immigrazione, il tribunale ha pronunciato una sentenza che intimava di restituirli. E da quel momento abbiamo raccolto molte più informazioni sconvolgenti sulla vita là dentro, con tanto di foto e video”. Per esempio? “La quantità di psicofarmaci utilizzati, le condizioni e le modalità di contenimento delle persone, la qualità del cibo e dei servizi, alcuni dei quali letteralmente impossibili, quindi proposti soltanto sulla carta”. Però non riuscivate a entrare? “Su questo il muro di gomma ha resistito fino al marzo scorso, quando finalmente una delegazione ha avuto accesso in via Corelli, sebbene sia stato impedito ogni contatto con le persone trattenute, ufficialmente “per la nostra incolumità”. Ma già all’ingresso chi c’era ha potuto assistere al violento “contenimento” di una persona”. Quindi è arrivato il vostro rapporto. Che reazioni avete raccolto? “Una manifestazione con 20 mila persone. Ma anche quella rimasta abbastanza ignorata. Sappiamo che di questo tema si fatica a discutere in base ai dati di realtà, ma noi continueremo a fare il nostro lavoro di tutela delle persone, con l’obiettivo di arrivare alla chiusura dei Cpr. Faremo una nuova manifestazione, intanto accogliamo con favore la presa di posizione del Pd milanese e aspettiamo di sapere cosa pensa di questa situazione il nostro sindaco”. Migranti. Cpr di via Corelli, parlano i dipendenti: “Psicofarmaci dati come caramelle” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 Le deposizioni in Procura di chi lavora nel centro di permanenza per rimpatri in vista dell’espulsione: “Mediatori culturali non ne ho mai visti, colloqui a gesti con lo psicologo o attraverso attraverso Google Traslator”. Chi, per definizione, viene portato nel Cpr-Centro permanenza per rimpatri di via Corelli in vista dell’espulsione? Ovviamente stranieri di ogni lingua del mondo, ma siccome “mediatori culturali non ne ho mai visti, con i nuovi giunti nel Cpr mi vedevo costretta come psicologa a fare i colloqui attraverso Google Traslator, che non è una pratica idonea”: incredibile giustificazione consegnata alla Procura che venerdì ha chiesto al gip Livio Cristofano di commissariare il Cpr di via Corelli affidato dalla Prefettura alla società salernitana La Martinina srl in un appalto da 4,4 milioni, al centro dell’inchiesta per le ipotesi di reato di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta, addebitate all’amministratrice Consiglia Caruso e al gestore suo figlio Alessandro Forlenza. E dove non arrivava Google traduttore, si sopperiva col cinema muto, a gesti: “A una psicologa, che ci diceva di parlare solo italiano, chiedemmo come allora facesse a fare il suo lavoro - depone la teste N.B. il 31 ottobre - e lei ci disse che con le persone straniere trattenute si capiva sulla base del feeling”. Le barzellette però non fanno ridere neppure sul tema della qualità del cibo, che, nel capitolato di gara d’appalto in Prefettura, era in teoria promesso di prima qualità e persino biologico: “Ricordo una volta che, poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti - spiega una di loro ai pm il 19 novembre -. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, e 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato”. Anche il teste C.A.L., non pagato in Tfr e tredicesima, depone ai pm di “essere stato assunto per fare le pulizie, in realtà mi occupavo di portare l’acqua, portare il cibo ai trattenuti, fare un po’ da traduttore con i sudamericani. Mi facevano pena, per invogliare i trattenuti a mangiare mostravo che io mangiavo lo stesso cibo, però quando l’ho assaggiato era immangiabile”. Una cosa non mancava mai nel Cpr: gli psicofarmaci. “C’era - ricostruisce una ex dipendente ai pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari - una vera e propria disumanizzazione nel centro: si entra come persona, poi viene assegnato un tesserino e a quel punto si diventa numeri e si esce da zombie imbottiti di psicofarmaci. Era un vero e proprio lager, neanche i cani sono trattati così nei canili. C’è un largo uso di psicofarmaci, come fossero caramelle e ad alti dosaggi. Io adesso lavoro in un ospedale e, di fronte a interventi chirurgici importanti, vedo dare dosi di Lyrica di circa 25 milligrammi al giorno: al Cpr vedevo dare agli stranieri da 75 a 300 milligrammi per 3 volte al giorno…”. Tanto che un ex dipendente, andato via perché non pagato, R.M.T., ricorda: “Vedevo persone entrare in piedi nel centro, e dopo due mesi, dopo aver continuamente assunto psicofarmaci, erano un po’ assenti, rintronati, non erano più loro”. Pieno di psicofarmaci, il Cpr era invece vuoto di medicine per curare davvero i malati: “Nell’ambulatorio - giura la teste M.L. - mancava tutto, non c’erano bende, non c’erano disinfettanti, guanti, non c’era strumentario per dare punti in caso di ferite. Parte di questo materiale veniva portato da fuori o dalle infermiere o da noi a titolo puramente volontario”. Quando l’allora parlamentare Gregorio de Falco si presenta a sorpresa al Cpr nel 2022, lo straniero C.S. gli dice che “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; M.B. che, “pur avendo il piede fratturato, non ha potuto effettuare la visita per il rifiuto del gestore di pagare”; e V.M.S.M.A., “annientato dal mal di denti”, non aveva ricevuto cure in quanto il direttore sanitario del centro aveva detto “Ma ce li abbiamo i soldi per ricostruire i denti a questo ragazzo?”. E anche qui la tragedia confina con la farsa: il parlamentare, che soffre di sbalzi di pressione, durante la visita ebbe un giramento di testa, “e chiesi se vi fosse un medicinale abbastanza comune per abbassare la pressione: i medici mi dissero che non c’erano soldi per acquistarlo e mi diedero un bicchiere d’acqua”. Due settimane fa I.M., rimasto solo due settimane a lavorare nel Cpr prima di scapparne a gambe levate, spiega ai pm che uno di questi medici, di cui non ricorda il nome ma descrive le fattezze, “si rifiutava di far eseguire le visite agli ospiti del Cpr, dicendomi “secondo Lei questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo dissi al gestore, senza alcun esito. A una psicologa che faceva notare che un trattenuto aveva perso 8 chili in una settimana, il medico ha risposto che la bilancia era mal funzionante, e adirandosi ha urlato testuali parole: “Se ti permetti di decidere con la tua testa cosa dobbiamo fare o non dobbiamo fare, sarò io a fare in modo che cancellino il tuo nome dall’albo degli psicologi, ora sparisci dalla mia faccia, vattene”“. E anche per la teste M.L. c’erano due medici “veri e propri razzisti. Durante le visite dicevano agli internati “meglio che muori, torna al tuo Paese”, li chiamavano “animali”. Una volta ho assistito una persona asmatica a cui non era stato consentito di detenere un inalatore, io soffro di asma e so cosa vuol dire”. Medio Oriente. Un nuovo ruolo dell’Onu per uscire dalla trappola di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 3 dicembre 2023 Per riportare la pace a Gaza è necessaria un’intesa tra Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. Il mondo arabo-musulmano sta già tentando una mediazione. Prima tappa: Pechino, poi Mosca, Londra e Parigi. A Gaza è ripresa la guerra e a Doha, in Qatar, si sono bruscamente interrotte le trattative per la liberazione degli altri 180 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. La tregua di sette giorni aveva ridato un certo slancio a movimenti sotto traccia della diplomazia. Ora c’è il rischio di dover ricominciare daccapo. Nell’Amministrazione Biden cresce, in modo palpabile, l’irritazione nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu. E non si fa nulla per nasconderlo, anzi, la nuova strategia politico-mediatica degli americani è di portare alla luce i contrasti. Anche con una nettezza che non si era mai vista dall’inizio della guerra. Ieri la vice presidente Kamala Harris ha detto ai giornalisti che “il presidente Joe Biden è stato molto chiaro con il governo israeliano: bisogna cessare di colpire i palestinesi innocenti”. La numero due della Casa Bianca, però, si è trovata in imbarazzo quando le è stato fatto notare che i bombardamenti israeliani hanno già fatto almeno 200 vittime tra i civili. A Washington i diplomatici pensano, o forse sarebbe meglio dire sperano, che la nuova “stretta” di Biden su Netanyahu possa mitigare il costo in vite umane della guerra. Il presidente americano non vuole condividere con il premier israeliano la responsabilità di altre stragi. Nelle scorse settimane gli Usa sono rimasti isolati all’Onu, come non accadeva dai tempi dell’Iraq, pur di contrastare le mozioni che chiedevano il cessate il fuoco immediato agli israeliani. La Casa Bianca si è dovuta sorbire una grottesca lezione sul rispetto del diritto internazionale persino da Vladimir Putin. A questo Biden vuole un cambio di passo. Al momento non sembra ipotizzabile una rottura traumatica con Netanyahu. O almeno: non finché il conflitto è in corso. Per il leader dello Studio Ovale, però, è necessario stabilire il prima possibile una nuova tregua e riprendere i negoziati con Hamas. La prima preoccupazione resta la liberazione dei prigionieri intrappolati a Gaza. Sempre ieri Kamala Harris ha parlato a lungo con l’Emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Al Thani, amico degli Stati Uniti, ma anche finanziatore di Hamas e, di conseguenza, protagonista “naturale” della mediazione. In parallelo gli americani rilanceranno il confronto internazionale sugli scenari per il dopo guerra. Gli Usa insistono per la soluzione dei “due Stati, due Popoli”: la convivenza pacifica tra Israele e Palestina. C’è molto lavoro politico da fare, perché negli ultimi anni, prima con Donald Trump poi con lo stesso Biden, la leadership statunitense si era disinteressata della questione. Il Segretario di Stato Antony Blinken, intanto, ha già rafforzato la squadra dei suoi funzionari negli Stati arabi più moderati (almeno in politica estera), come Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi, Qatar ed Egitto. Gli alleati tradizionali stanno dando una mano, in particolare i Paesi riuniti nel G7 e quindi, oltre agli Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Giappone e Canada. I contatti, le videoconferenze tra gli sherpa sono costanti. Gli Stati Uniti premono: deve essere l’Autorità palestinese a governare anche Gaza, oltre alla Cisgiordania. Gli europei sono mediamente scettici: il gruppo dirigente raccolto intorno all’anziano leader Abu Mazen (88 anni) è troppo screditato. Inoltre: come scardinare la presa di Hamas sulla popolazione civile? È interessante notare la distinzione fatta dallo stesso Blinken, nella conferenza stampa di Tel Aviv il 30 novembre scorso: “Hamas deve deporre le armi e consegnare i leader responsabili per la strage del 7 ottobre”. Come dire: vogliamo i capi, non siamo qui per eliminare tutti i militanti e tutti i simpatizzanti di Hamas. Questo non significa immaginare che nel futuro di Gaza ci sarà spazio per una parte dell’organizzazione terroristica. Non siamo ancora a quel punto. Si ragiona, inoltre, su un altro schema per la transizione: coinvolgere le Agenzie dell’Onu già presenti nella Striscia. Ci sono diversi problemi pratici da risolvere, dalla sicurezza alla logistica. Ma il più spinoso, forse, è politico: serve una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ciò significa trovare un’intesa tra i cinque membri permanenti: Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. Il mondo arabo-musulmano sta tentando una mediazione. Dopo il vertice su Gaza, promosso dall’Arabia Saudita, l’11 novembre scorso a Riad, una delegazione dell’Organisation of Islamic cooperation è stata incaricata di sondare le capitali dei cinque Paesi chiave dell’Onu. L’Iran fa parte dell’organizzazione, ma non di questa missione esplorativa. Prima tappa: Pechino, poi Mosca, Londra e Parigi. Il 29 novembre c’è stato l’incontro con il Segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres a New York. Ora dovrebbe esserci il passaggio a Washington. Si vedrà se matureranno le condizioni per un accordo tra le grandi potenze nel Palazzo di Vetro. Iran. La lettera di Narges Mohammadi dal carcere: “Perché il mondo resta impassibile?” di Antonella Mariani Avvenire, 3 dicembre 2023 L’attivista iraniana, le cui condizioni di salute sono sempre più precarie, non sarà presente alla cerimonia di Oslo il prossimo 10 dicembre. È la terza volta che avviene nella storia. Il 10 dicembre non sarà a Oslo, a ricevere il premio Nobel per la pace. Nella storia, era successo solo altre tre volte che il vincitore fosse impossibilitato perché in carcere. Dopo quella del tedesco Von Ossietzky (1935), della birmana Aung San Suu Kyi (1991) e del cinese Liu Xiaobo (2010), sarà la sedia vuota dell’iraniana Narges Mohammadi, anche lei in prigione come i suoi tre predecessori, a segnare la celebrazione. “Non potrà uscire dal carcere di Evin”, conferma dall’Italia il movimento Donna Vita Libertà, nato sulla scia dello sdegno per la morte, nel settembre 2022, della giovane Mahsa Amina, arrestata e picchiata perché portava male il velo. Narges non potrà volare in Norvegia non solo perché il regime degli ayatollah, a dispetto dell’invito della presidente del Comitato di Oslo, Berit Reiss Andersen, a “prendere la giusta decisione”, non sembra avere la minima intenzione di rilasciarla, ma anche perché le sue condizioni di salute sono precarie. Narges Mohammadi, 51 anni, giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani, arrestata 13 volte e condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate a causa del suo impegno per la libertà del popolo iraniano e in particolare delle donne, soffre di gravi patologie cardiache. Nei giorni scorsi le autorità, dopo ripetuti dinieghi perché la prigioniera rifiutava di coprirsi la testa con il velo, l’hanno trasportata in ospedale, ma dopo alcuni veloci esami l’hanno riportata in carcere. “È in pericolo di vita, la sua stessa esistenza è sotto il ricatto di un regime dispotico che le vieta cure adeguate”, dice ad Avvenire Parisa Nazari, attivista del Movimento italo-iraniano Donna Vita Libertà. Alla vigilia della consegna del premio Nobel per la pace, Narges è riuscita comunque a far uscire una sua lettera dal carcere di Evin, a Teheran, che Avvenire ha potuto leggere, in cui si dichiara “profondamente scioccata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano”. La stretta del regime degli ayatollah è impressionante: nei giorni scorsi è stato impiccato l’ottavo manifestante del movimento Donna, Vita, Libertà, Milad Zohrehvand; 24 ore dopo è toccato a un ragazzo di 17 anni. “La macchina delle esecuzioni - scrive Narges - ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta”. L’attivista in carcere esprime “grande dolore” per il silenzio del mondo davanti a questa strage: “Che tragica morte è quella nell’oscurità della notte”. E poi dalla cella di Evin alza il suo grido: “Chiedo all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani di intraprendere un’azione urgente e decisiva in nome dell’umanità per fermare le esecuzioni in Iran”. Un appello che viene rilanciato dalle attiviste iraniane che nel nostro Paese portano avanti il movimento Donna Vita Libertà: al governo italiano e alla Commissione Europea chiedono di fare pressioni sul regime degli ayatollah perché fermino il boia e perché rilascino la premio Nobel. L’appello è stato già sottoscritto da Maurizio Landini (Cgil), Elly Schlein (Pd) oltre che dalla Casa internazionale delle Donne e da Amnesty. “Il rifiuto delle autorità iraniane di consentire a Narges di ritirare il premio - dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia - e l’ostinazione con cui la tengono in carcere nonostante le precarie condizioni di salute dovrebbero suscitare scandalo e indignazione a livello mondiale. Ogni giorno in più in carcere è un insulto ai diritti umani e un pericolo per la sua vita”. Su questo fronte si registra una ampia mobilitazione: a quella ormai “storica” di Amnesty, si è aggiunta una petizione di Pen International, l’associazione degli scrittori che annovera la Premio Nobel come membro onorario. Decine di intellettuali - da Salman Rushdie a Arundhati Roy - hanno firmato l’appello perché Teheran consenta alla donna di riunirsi al marito e ai suoi due figli, che non vede da 8 anni, e di volare a Oslo il 10 dicembre “dove il suo lavoro giustamente sarà onorato”. Ma le speranze sono davvero poche. Myanmar. “30mila civili uccisi e persecuzioni religiose” di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 3 dicembre 2023 Parla il direttore di Peace, Democratization and Development. “Oltre 30mila persone. È questa la nostra stima sul numero di civili uccisi dalla giunta militare al potere dal colpo di Stato”, avvenuto in Myanmar il 1° febbraio 2021. Salai Van Biak Thang, direttore di Peace, Democratization and Development (PDD) presso la Chin Human Rights Organization (CHRO), durante il nostro incontro scandisce questo numero più volte. Aggiungendo che tale cifra, secondo questa organizzazione non governativa birmana fondata nel 1995 che dal 2018 gode di uno status consultivo speciale presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite (Ecosoc), potrebbe soltanto “la punta dell’iceberg: crediamo fermamente che gli omicidi effettivi, ovvero quanti civili sono stati uccisi nei raid della giunta - continua il direttore della divisione PDD - possano essere molti di più, rispetto a quanto riportato ad esempio dai media, perché quando raccogliamo i dati, soprattutto per lo Stato Chin, non è facile ottenere numeri esatti a causa di un serie di problematiche, quali le difficoltà di accesso ai territori o dell’interruzione della connessione internet e delle linee telefoniche”. Anche perché spesso i golpisti cercano di nascondere le loro vittime portandole “sulle colline”, quindi fuori dai centri abitati che bombardano costantemente dal cielo, per poi entrare con le truppe di terra. “Un’altra importante questione relativa ai diritti umani che il popolo Chin deve affrontare da generazioni sono le violazioni del diritto alla libertà di religione, che sotto il regime militare si sono trasformate in vera e propria persecuzione”. Nello Stato Chin oltre il 90% della popolazione è cristiana. In un Paese a maggioranza buddista come il Myanmar è oggetto da tempo di discriminazioni sulla base della propria identità religiosa. Già prima del colpo di Stato, con il “nuovo governo civile semi-democratico, il popolo Chin doveva ugualmente far fronte a politiche discriminatorie e pratiche istituzionali che impedivano loro di godere della libertà di culto”. La maggior parte dei cristiani che vivono in questo Stato e in quello di Rakhine, come anche nelle regioni di Magwe e Sagaing, devono affrontare severe restrizioni sulla proprietà legale dei terreni e sulla costruzione o ristrutturazione. In un proprio rapporto, la Chin Human Rights Organization ha denunciato, riportando le parole di un funzionario statale, che “le comunità cristiane nello Stato Chin non potevano possedere terreni per scopi religiosi, usando invece nomi privati o individuali per le registrazioni e per costruire luoghi di culto”. A questo si aggiunge che i militari “conducono visite ufficiali la domenica per interrompere le funzioni cristiane”. Nelle aree liberate e autogovernate dai ribelli e dalle autorità civili Chin che abbiamo visitato, ci assicurano, la libertà di religione è ora garantita. Congo. Gli stupri sono un’arma di guerra. “Ma alla Città della Gioia le donne guariscono” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 3 dicembre 2023 Il Paese africano, distrutto da un conflitto che va avanti da 25 anni, è il posto peggiore in cui essere donna secondo le classifiche internazionali. Ma c’è anche chi dà una speranza, come spiega l’attivista per i diritti umani Christine Schuler Deschryver, direttrice del centro che aiuta le vittime di violenza. Un conflitto che va avanti da oltre venticinque anni. Iniziato per il controllo delle ricchezze del sottosuolo, soprattutto del coltan, fondamentale per l’industria elettronica e il funzionamento degli smartphone. E che nelle ultime settimane è tornato a crescere a causa dei combattimenti tra le forze armate della Repubblica Democratica del Congo e i ribelli, tra cui quelli del gruppo M23, nell’Ituri e nelle province del nord e sud Kivu, nella parte orientale del Paese. Di pari passo con l’intensità del conflitto è cresciuto anche il numero delle persone costrette a scappare dalle proprie case e di quelle che necessitano assistenza umanitaria. E delle donne vittime di violenza. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr, ad esempio, delle oltre 10 mila persone che hanno avuto accesso ai servizi di assistenza per la violenza di genere nel Nord Kivu nel primo trimestre del 2023, il 66 per cento è stata vittima di stupro. Per la maggior parte commessi da uomini armati. I dati sono parziali sia perché raggiungere gli sfollati non è facile per le organizzazioni umanitarie, sia perché sono molte le donne che non denunciano. Per paura di ritorsioni da parte degli autori, per paura di essere stigmatizzate dalle comunità a cui appartengono. “La situazione oggi nell’est della Repubblica democratica del Congo è esplosiva. Lontano dalla luce dei riflettori continuano i combattimenti, gli stupri e le violenze. Ci sono più di 7 milioni di sfollati all’interno del Paese che non ricevono aiuto”, spiega Christine Schuler Deschryver, direttrice della Città della Gioia, che ha fondato insieme a Eve Ensler, l’autrice dell’opera I monologhi della Vagina, grazie al cui operato ha preso vita il V-day, movimento rivolto ad abbattere ogni forma di violenza su donne e bambine. E con loro c’è il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace del 2018 per il suo impegno a favore delle donne vittime di stupri di guerra. “L’idea della città della gioia è nata nel 2007, quando la drammaturga Ensler venne a Bukavu e chiese alle sopravvissute che cosa volessero. La risposta è stata subito chiara: “Un rifugio in cui autodeterminarsi e un posto sicuro per guarire la mente”. E così è successo: abbiamo aperto nel 2012. La città della “Città della gioia” è un posto completamente diverso da quelli a cui siamo abituati, non ha nulla a che fare con l’assistenza. L’obiettivo è la guarigione emotiva e insegnare alle ragazze come riprendere in mano i loro destini, i loro corpi, il loro Paese”. Tra le tante donne che ha incontrato e aiutato, Schuler Deschryver parla soprattutto di Jane, che è anche la protagonista del documentario Netflix “The city of Joy”: “Perché la sua storia è il simbolo del lavoro che facciamo. Non riesco proprio a immaginare la mia vita senza di lei, perché lei è la Città della gioia, è lei che ha sussurrato l’idea di costruire un posto del genere a Eve Ensler. Jane ha trascorso 10 anni in ospedale e ha subito 14 interventi chirurgici come conseguenza delle violenze subite. Sembrava impossibile “ripararla”. Era stretta con il suo dolore, distrutta dai molteplici stupri che ha subito dalle milizie nella foresta. È stato mio fratello a portarla da noi, in fin di vita: aveva 16 anni. Da quel giorno l’ho letteralmente adottata, mi sono presa cura di lei come se fosse stata mia figlia. Adesso lavora con noi, ha un buon stipendio, si è costruita la casa e ha adottato quattro figli”. Come si legge spesso, anche secondo la direttrice del centro di Bukavu, il Congo è il posto peggiore al mondo per essere una donna. A causa dell’elevatissima probabilità di essere vittima di violenza. “Gli stupri vengono usati come arma di guerra. Per terrorizzare la gente. Parlo di terrorismo sessuale da anni, altrimenti come si potrebbe definire un uomo che violenta un bambino di 4 mesi? O una donna di 85 anni?”, si chiede Schuler Deschryver mostrando disgusto al pensiero delle cose che ha visto. Delle storie che ha ascoltato a causa del suo lavoro: “Sono nata nella Rdc da padre belga e madre congolese. A 12 anni ho lasciato il mio Paese per andare a studiare in Belgio. Ma ho sempre saputo che il mio posto era nella Repubblica Democratica del Congo. Così sono tornata. Adoro il mio lavoro, non vorrei fare altro. Imparo cose nuove ogni giorno. Mi sento utile”. Come spiega Schuler Deschryver, “ci sono tante, troppe, donne che non sanno ancora nemmeno di avere dei diritti. Dobbiamo insegnare loro a leggere e scrivere, che cosa sia la giustizia. Come rompere le silenzio. Questo è quello che facciamo alla Città della Gioia. L’educazione è fondamentale. E la solidarietà: nel mondo noi donne portiamo avanti le stesse lotte. Appena c’è una guerra sono i nostri corpi che diventano campi di battaglia. Combattiamo da secoli e ancora non abbiamo gli stessi diritti degli uomini. Dobbiamo unirci, diventare più forti: l’uguaglianza di genere migliorerebbe le società in cui viviamo, siamo noi donne che portiamo avanti il mondo”.