Amnistia e indulto: parole eretiche che bisogna tornare a pronunciare di Francesco Petrelli* L’Unità, 31 dicembre 2023 Anche se la frequentazione degli istituti carcerari, per chi fa di professione l’avvocato penalista, è comunque un’esperienza dolorosa, devo dire che coloro che si occupano assiduamente di carcere fanno un’esperienza diversa, perché testimoniano di quella speciale sofferenza che è la sofferenza inflitta da un uomo a un altro uomo. Una sofferenza inflitta “a fin di bene” diversa da tutte le altre sofferenze che, al contrario, l’uomo patisce per malattia, per calamità, o anche per crudeltà, per la natura belluina dei suoi simili. Chi conosce e sperimenta questa particolare forma di sofferenza inflitta dall’uomo sull’uomo a fini di giustizia, sa che, per quanto noi possiamo dirla necessaria, si tratta di una sofferenza terribile. E sa che terribile è la responsabilità di chi la infligge. Chi fa il nostro lavoro di avvocati, chi frequenta il carcere da operatore conosce quella sofferenza e sa di doverla spiegare alla collettività nella quale vive. Ma non è facile trasferire quel senso di frustrazione e di impotenza che la pena in questa forma e in questi luoghi inevitabilmente produce. L’idea di una giustizia applicata in una forma irrimediabilmente ingiusta diviene allora ancor più insopportabile per il numero delle privazioni e dei disagi fisici e morali. A partire dalla terribile realtà del sovraffollamento, dell’insufficienza delle risorse, della mancanza tanto degli operatori che delle figure dirigenziali, del personale amministrativo e di quello della polizia penitenziaria. Anche l’ordinamento penitenziario è insufficiente, reduce di quella riforma mutilata degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Insufficiente è la sorveglianza sotto il profilo strutturale della mancanza di un reale contraddittorio e di una effettiva progettualità nella formazione dei percorsi alternativi. Senza dimenticare le carenze della sanità, dell’igiene, dell’assistenza psichiatrica dell’affettività obliterata, a fronte di una popolazione afflitta dal disagio e dalle dipendenze. Per non dire di quella atroce conta dei suicidi che il carcere colpevolmente produce o altrettanto colpevolmente non è in grado di evitare. Il principio contenuto nell’articolo 27 della Costituzione, che sancisce la finalità rieducativa della pena, ha cominciato da tempo ad essere percepito dalla collettività come un principio in qualche misura antistorico, frutto di un “buonismo” fuori luogo. Ci si chiede come sia possibile pensare che, in una società assediata dal crimine, la pena non debba avere un contenuto esclusivamente afflittivo e contenitivo nei confronti del condannato. Ma si dimentica che gli anni in cui fu scritto quell’articolo erano quelli terribili della fine del conflitto mondiale, nei quali si era appena usciti da una terribile guerra civile. Anni nei quali il conflitto aveva lasciato nel Paese una enorme disponibilità di armi, con una criminalità resa più brutale dai tempi della guerra. Le rivolte nel carcere in quel periodo erano all’ordine del giorno. Eppure in un simile contesto i nostri padri costituenti scrissero quelle parole, cogliendo quell’unica ragione giustificatrice che può avere una pena inflitta da un uomo a un altro uomo, che non può che essere quello del fine della risocializzazione. Io ringrazio gli amici e compagni di viaggio di Nessuno tocchi Caino, per essere stati i nostri giovani maestri della difesa degli ultimi; abbiamo marciato insieme per l’amnistia e per l’indulto, parole che oggi suonano come un’eresia e che dovrebbero invece, in questa situazione drammatica, tornare a circolare. È vero che in questo contesto, nel quale c’è nel Paese un evidente impoverimento della cultura dei diritti e delle garanzie, è difficile recuperare i valori dei nostri padri costituenti, quelle prospettive ideali. Se noi dovessimo tuttavia immaginare che questi valori e questa nostra cultura sono destinati a rimanere inevitabilmente minoritari, saremmo in errore. Perché una cultura minoritaria può dirsi minoritaria se può vantarsi di essere una vera cultura, se ha in sé un fondamento autentico di verità. E, se così è, quella verità non può che essere comunque al fondo della coscienza di ciascuno di noi. E attende solo di essere con fatica portata alla luce e riconosciuta come un valore condiviso. Se questo è vero, è allora compito di tutti noi cercare in fondo alla coscienza della nostra collettività spaventata e disorientata quel principio secondo il quale l’essere umano non può essere mai trattato come un mezzo. Come scriveva Beccaria, la legge non deve trattare mai l’uomo come una cosa, perché sarebbe la fine della libertà di tutti noi. E allora, se così è, culture minoritarie destinate a rimanere tali non possono esistere se non per una nostra responsabilità e per la nostra inerzia, perché vuol dire che non siamo stati capaci di cercare ciò che era nostro dovere trovare. *Presidente UCPI, sintesi dell’intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Milano Opera “Case di reinserimento per gli ultimi dodici mesi di pena. Così si evita il collasso” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 31 dicembre 2023 Con questo sistema di nuove strutture si potrebbero ridurre le presenze in carcere del 18%. La proposta di legge elaborata da Riccardo Magi, di +Europa. Il deputato: “Contiamo anche sull’attenzione del ministro Nordio”. Le carceri italiane sono “al collasso”, non è possibile andare avanti con l’attuale sovraffollamento ed è il momento di pensare a soluzioni come le “strutture di reinserimento” per chi deve scontare non più di un anno di pena. Riccardo Magi, segretario di Più Europa, presenta una proposta di legge che prevede appunto “Case di reinserimento sociale” che consentano ai detenuti vicini al fine pena di poter trovare contesti che facilitino il ritorno alla vita in società. Un testo firmato da tutte le opposizioni: oltre a Magi ci sono le sigle di Benedetto Della Vedova (Più Europa), Denis Dori e Luana Zanella (Verdi-sinistra), Enrico Costa (Azione), Roberto Giachetti (Iv), Federico Gianassi e Debora Serracchiani (Pd). Con queste norme, spiega Magi, si potrebbe ridurre l’affollamento delle carceri di “quasi 8 mila persone” e, al tempo stesso, “avviare percorsi di reinserimento”. Perché, ricordano i promotori della legge, “al 31 dicembre 2022 i soggetti che stavano espiando una pena detentiva non superiore a 12 mesi risultavano essere 7. 259 unità, il 18% del totale”. Non solo, ma tra queste ci sono “1.471 persone condannate a una pena inferiore a dodici mesi di reclusione, che li stanno scontando in carcere”. Persone che sono in prigione per reati di lieve entità e che con queste norme verrebbero “automaticamente ammesse alle case di reinserimento”, senza passare per il carcere. Del resto, ricordano ancora i firmatari della proposta, anche l’ex garante dei detenuti Mauro Palma nella relazione 2023 al Parlamento parlava della “opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere, adibite ad accogliere persone che abbiano commesso reati di minore rilevanza”. Spiega Magi: “Ho lavorato molto a questa proposta con Franco Corleone, abbiamo ripreso l’idea di Alessandro Margara, magistrato, tra gli autori dell’attuale legge sull’ordinamento penitenziario”. Con queste norme, “vogliamo rendere strutturale un principio: chi arriva a meno di un anno di pena da scontare - ad eccezione di chi è pericoloso - non sta più in carcere ma in altre strutture”. Si parla di “piccole strutture finanziate con l’aiuto dei Comuni e dello Stato, ciascuna per 5-10 persone”. Fondamentale, aggiunge Magi, il coinvolgimento del “Terzo settore, del volontariato e anche del mondo delle imprese. Ma i promotori della legge contano di trovare orecchie attente anche nella maggioranza, a cominciare dal ministro della Giustizia Carlo Nordio che a marzo per combattere il sovraffollamento carcerario aveva parlato di “riadattare le ex caserme dismesse” in modo da consentire ai detenuti “due cose fondamentali, lo sport e il lavoro”. E il Guardasigilli aveva anche in qualche modo aperto all’ipotesi di “case di reintegrazione extra-carcerarie”. Le toghe di Area: “Sovraffollamento? Politica giustizialista del Governo peggiorerà situazione” giustizianews24.it, 31 dicembre 2023 Il sovraffollamento carcerario è un fallimento per le istituzioni ma il governo guidato da Giorgia Meloni non se ne cura e, anzi, la politica securitaria e giustizialista che sta mettendo in campo peggiorerà la situazione. Non ci sono mezzi termini nell’analisi che le toghe progressiste di Area Democratica per la giustizia fanno del fenomeno carcerario e delle sue emergenze. Con un lungo documento stigmatizzano le principali questioni e le preoccupazioni per quello che accadrà. Nel 2023 si contano 68 suicidi in carcere. “La scelta di porre fine alla propria vita da parte di una persona detenuta non può spiegarsi semplicemente come mero esito di dolorosi percorsi personali, ma - dice la nota di Area - rappresenta un fallimento per lo Stato e le sue istituzioni. Un suicidio in carcere non è perciò una vicenda privata o un problema del carcere, ma è un fatto di rilevanza sociale e politica”. Non v’è dubbio che tra le prime cause del fenomeno vi sia l’attuale condizione di sovraffollamento carcerario. Sappiamo che “alla data del 30 novembre scorso le persone detenute presenti nelle carceri italiane erano 60.116, a fronte di una capienza regolamentare di 51.272 posti, con un tasso medio di sovraffollamento carcerario pari al 120% e con punte drammatiche del 160% in alcune realtà come quella della Puglia. Sono dati che suscitano una profonda preoccupazione anche perché destinati nel futuro a crescere rapidamente, come dimostra il tasso progressivo di occupazione che dal 2020 ad oggi non si è mai fermato e dà anzi segnali di forte accelerazione (53.364 nel 2020; 54.134 nel 2021; 56.196 nel 2022; dato parziale a novembre 2023: 60.116)”. Il sovraffollamento carcerario pone “a rischio i diritti fondamentali dei detenuti, perché li priva dello spazio minimo vitale; li relega ad una maggiore intollerabile promiscuità nell’uso dei servizi e nella fruizione delle risorse; limita e comprime l’accesso al trattamento ed alle opportunità che esso deve offrire; aggrava le profonde carenze del sistema sanitario carcerario comprimendo ulteriormente diritto alla salute dei detenuti mettendo a repentaglio la loro incolumità ed il loro benessere psicofisico”. Il sovraffollamento, poi, “espone il personale di Polizia penitenziaria, già gravemente carente per le gravi scoperture di organico, a situazioni di stress e di sovraffaticamento, acuendo la conflittualità all’interno degli istituti penitenziari e la sicurezza di chi nel carcere lavora”. Le cause del sovraffollamento carcerario sono certo molteplici, ma - attaccano le toghe progressiste - “sono parte della più generale e profonda crisi che vive l’intero sistema dell’esecuzione penale, ad oggi sul baratro del fallimento. Tutti, i detenuti, gli affidati e i liberi in sospensione, e da quest’anno anche molti di coloro che sono sottoposti alle pene sostitutive introdotte dalla Riforma Cartabia sono in carico ad una Magistratura di Sorveglianza ed a Servizi che - spiega Area - con organici assolutamente inadeguati e senza risorse faticano a dare una risposta tempestiva ed efficace”. A fronte di una situazione la cui “gravità e drammaticità sono evidenti, le politiche governative continuano a perseguire una linea securitaria e giustizialista, che sta aggravando e non potrà che peggiorare il sovraffollamento carcerario. Con il Ddl approvato dal C.D.M. il 17 novembre scorso, il Governo ha previsto l’introduzione di “Nuove norme in materia di sicurezza pubblica, tutela delle forze di polizia e delle vittime dell’usura e dei reati di tipo mafioso”, ma che nei fatti si traducono in un complessivo inasprimento del sistema punitivo che favorisce, quando non impone, l’ingresso in carcere”. Sono previste, infatti, ben tre nuove ipotesi di reato, riassume l’associazione che riunisce le toghe progressiste, “tutte con pena superiore ai sei anni e con arresto obbligatorio in flagranza, cinque previsioni di aggravamento delle pene, già pur severe, previste per alcuni reati, si abolisce il rinvio obbligatorio della pena per donne incinte e madri con figli di età inferiore all’anno”. Si disegna in tal modo un “complessivo meccanismo di automatismi e di cause ostative ai benefici penitenziari che spingono le persone in esecuzione pena dentro il carcere sulla base di presunzioni legali di pericolosità sociale, non preventivamente verificabili nella loro realtà e concretezza dal magistrato. E ciò anche a costo di sacrificare diritti fondamentali delle persone più vulnerabili come sono i bambini: se il ddl verrà approvato le donne incinte potranno essere costrette a trascorrere la gravidanza in un ambiente niente affatto salubre, come è il carcere, con rischio per la salute del nascituro, mentre anche i bambini di età inferiore ad un anno, saranno costretti a condividere il destino di carcerata della loro madre, proprio in un periodo della vita delicatissimo e in cui l’interazione con la realtà e l’ambiente libero sono fondamentali”. Se oggi le madri detenute con i loro bambini, grazie a norme di tutela dell’infanzia, sono 22, domani anche questi numeri cresceranno. Per affrontare seriamente la crisi dell’esecuzione penale e con essa quella, intimamente collegata, del sovraffollamento carcerario, e così dare il corretto contenuto a quella ‘certezza della pena’ spesso strumentalmente e impropriamente sbandierata, non occorrono nuove pene e nuovi reati che, al contrario aggravano la crisi in atto senza assicurare alla collettività una reale maggiore sicurezza, ma occorrono interventi strutturali, di innovazione e di organizzazione, che diano all’Italia un moderno sistema di esecuzione penale in attuazione del disegno che in materia di pena è tracciato nella Costituzione”. Il congresso di Nessuno tocchi Caino e la gatta che i detenuti credono sia Pannella di Rita Bernardini e Sergio D’Elia* L’Unità, 31 dicembre 2023 Il nostro X Congresso nel Carcere di Opera si è appena concluso. È stato il Congresso del Trentennale della fondazione di Nessuno tocchi Caino, questa splendida creatura che con Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia abbiamo concepito per temperare la Giustizia col balsamo della grazia e affrontare il Potere con la forza gentile della nonviolenza. Quest’anno abbiamo celebrato il Trentennale di Nessuno tocchi Caino, l’anno prossimo celebreremo quello di Mariateresa, la sua fondatrice, a settant’anni dalla sua nascita e a trenta da quando è venuta a mancare. Anche se nessuno può onestamente dire che Mariateresa come Marco ci abbiano lasciati o che abbiano lasciato un vuoto. Tanti sono quelli che della loro mancanza hanno fatto in questi anni una presenza, tanto è quello che dopo la loro morte è diventato vita: vita del diritto per il diritto alla vita. Noi, che non siamo mai stati “chiesa”, ma “opera”, una bottega artigiana del Diritto e dei Diritti umani, a ben vedere, in questi 30 anni, siamo stati un grande laboratorio di conversione ecologica della vita, della politica, della società. Una conversione - a partire da noi stessi, ogni giorno - dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza, dall’odio all’amore, dal potere costituito all’ordine fondato sul dialogo, l’amore e le relazioni umane. Convinti come siamo che nessuno può essere espulso dalla comunità umana, che non esistono gli irredimibili, i dannati per sempre, i banditi dalla società e dallo Stato. Tutti - ma proprio tutti! - hanno il diritto alla speranza. È stato un Congresso straordinario come non se ne vedevano da anni nella nostra storia di assemblee radicali. Nel corso delle tre sessioni principali dei lavori su “Pena di morte e pena fino alla morte”, “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”, “La fine della pena” e una piccola ma non meno importante sessione sulle misure di prevenzione dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, hanno partecipato oltre 300 persone, detenuti e “detenenti”, giuristi, avvocati e magistrati, garanti e volontari, parlamentari e imprenditori, dei quali hanno preso la parola 110 congressisti. Anche di questo Congresso faremo un libro che doneremo a tutti i nostri iscritti. Come i precedenti, anche questo Congresso si è svolto nel Teatro del carcere intitolato a Marco Pannella. Era “compresente” Marco, secondo noi, ancora nella forma della speranza che lui voleva vedere incarnata proprio nei luoghi di privazione della libertà, dell’amore e della speranza, e non attenderla come una concessione pietosa, magari del potere. Era “presente” Marco, secondo i detenuti, anche nella forma reincarnata di una gatta di nome “Opera” che da quando lui è venuto a mancare non è mai mancata ai nostri Laboratori, alle assemblee e ai Congressi di Nessuno tocchi Caino in questo carcere. È stato anche il Congresso dei 3.000 iscritti a Nessuno tocchi Caino, un numero mai registrato nella nostra storia e raggiunto con il nostro modo d’essere radicalmente nonviolento, inclusivo, come dicevamo, “ecologico”. Non abbiamo posto in mezzo ostacoli, fissato limiti e pietre di confine al di fuori dei quali decretare la fine del mondo, della cittadinanza e ogni possibilità di salvezza. Il settarismo, la reductio ad unum, non corrispondono alla natura delle cose, non collimano con la vita dell’universo, il quale vive secondo un ordine che si fonda sulle relazioni e tende a creare interdipendenze tra cose ed esseri diversi. È la forza di relazione che tiene insieme le nostre vite, la nostra vita interiore, la nostra famiglia, il nostro paese, il nostro mondo. Nessun pianeta, nessun popolo, nessuna comunità, nessun individuo vive se non in relazione ad altri pianeti, altri popoli, altre comunità, altri individui. Noi siamo determinati a continuare a operare in tal modo e in questo senso per assicurare all’Associazione radicale nonviolenta, transnazionale e transpartitica “Nessuno tocchi Caino” una dimensione di risorse umane e finanziarie adeguata a sostenere la necessità e l’ambizione della nostra azione. Un’azione sempre volta ad affermare democrazia e Stato di diritto, a superare tutti i regimi autoritari e illiberali vigenti in Italia e nel mondo, quelli penali e penitenziari, ma anche quelli detti “di prevenzione”, che spesso si rivelano essere più illiberali e punitivi di quelli processuali penali. Ti chiediamo di esserci anche per l’anno che sta arrivando. L’augurio è che sia - per noi, per te e per le persone che ci vogliono bene e a cui vogliamo bene - un Anno di Vita, di Diritto, di Libertà. *Nessuno Tocchi Caino “Il bavaglio non esiste, lo dice anche il capo dell’Anm”, intervista a Enrico Costa di Angela Stella L’Unità, 31 dicembre 2023 “Santalucia ammette che si potrà ancora rendere pubblico il contenuto delle ordinanze. Quale giornale che le pubblica dalla A alla Z fa il contropelo al giudice? La mia norma è il miglior bilanciamento tra diritto all’informazione e presunzione di innocenza”. Ieri per la prima volta ha parlato in una lunga intervista il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia in merito all’emendamento del deputato di Azione Enrico Costa che vieterà la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. La commentiamo con il diretto interessato. Onorevole Costa, per il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia il suo emendamento “impedirebbe una conoscenza compiuta e corretta di ciò che è accaduto”, ha detto a Repubblica. Come replica? Preferisco non parlare di casi specifici, anche perché il dibattito su questo emendamento è acceso, ma prescinde da singoli procedimenti penali. Tengo invece al fatto che si discuta giuridicamente della modifica e del tema che ho posto. Sempre riguardo all’intervista al dottor Santalucia non condivido diverse cose, ma apprezzo che abbia fatto una ricostruzione corretta. In che senso? A differenza di suoi molti colleghi ha ammesso che il contenuto delle ordinanze potrà continuare ad essere reso pubblico, che c’era una diversa disciplina prima e ne ha spiegato le ragioni. Cosa non condivide invece? Il fatto che lui ritenga che questa innovazione del 2017 dell’ex Ministro Orlando sia a tutela dell’indagato: lei conosce un giornale che pubblica per filo e segno, dalla A alla Z una ordinanza di custodia cautelare e fa il contropelo al giudice? Si tratta di un macigno che viene scagliato nei confronti di chi non è stato ancora interrogato e non ha avuto ancora modo di ricorrere al tribunale del riesame. Sempre per Santalucia “ancora una volta il passaggio attraverso l’interpretazione del singolo giornalista, che gioco forza potrà enfatizzare alcuni passaggi, minimizzarne o addirittura ometterne altri, non significa affatto rendere un buon servizio ai diritti dell’indagato”... Le ordinanze di custodia cautelare sono atti molto delicati, pieni di intercettazioni, di sommarie informazioni, di accuse nettissime perché devono spiegare i gravi indizi di colpevolezza. Obiettivo dello Stato deve essere quello di svolgere le indagini e offrire tutti i mezzi necessari per portarle avanti, ma anche quello di garantire che se una persona esce innocente da un’indagine o da un processo, deve essere la stessa persona che era quando è entrata nell’ingranaggio giudiziario. Oggi non è così. L’emendamento è il miglior bilanciamento possibile per garantire il diritto all’informazione salvaguardando la presunzione di innocenza. Alcuni procuratori stanno dicendo: “faremo obiezione civile e continueremo a fornire le ordinanze”. Ma la sua norma non vieta questo... C’è una norma per cui chiunque abbia un interesse può ottenere copia di determinati atti. Il punto è capire se si tratti di un interesse nell’ambito del procedimento oppure, come dicono alcuni procuratori, si tratta di un interesse molto più ampio e anche esterno al procedimento penale. Questo emendamento va riletto anche in combinazione con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, che spesso non è rispettata. Ieri c’è stata bagarre in Aula. De Raho del M5S, Serracchiani del Pd e poi Bonelli di AvS hanno chiesto una informativa al Ministro Salvini sul caso del figli di Verdini perché sarebbero coinvolte persone del suo dicastero. Lei si è opposto? Perché? Quando si parla di processi in aula, non bisogna confondere quella del Tribunale con quella del Parlamento. Noi siamo perché le inchieste ed i processi si svolgano in Tribunale, non sulla piazza, sulla stampa o alle Camere. Non è che ogni volta che c’è un procedimento penale si deve scatenare il tifo da stadio in Parlamento. Avrei detto le stesse cose pronunciate ieri alla Camera anche a parti invertite: non conta la casacca politica di chi è coinvolto, ma i principi costituzionali. La mia tesi è monotona: la politica deve fare le norme, il Parlamento e la politica devono approvare le leggi, non commentare, né rafforzare né indebolire le inchieste. Purtroppo tanti, troppi politici sono garantisti con gli amici e forcaioli con gli avversari. Occorre riportare le questioni nel perimetro costituzionale: i politici devono evitare di commentare le sentenze e i magistrati non devono interferire con l’iter normativo. Lei ieri ha fatto un tweet o meglio un X ironico sul Fatto Quotidiano che ha pubblicato sul sito il pdf dell’ordinanza cautelare. Ci spiega meglio? Ha pubblicato l’ordinanza con nomi, cognomi, intercettazioni e tutti i dettagli, ma ha sbianchettato luogo e data di nascita degli indagati. Il rigorosissimo rispetto della privacy: si comincia dalle basi (dice ironicamente, ndr) speriamo che piano piano evolvano anche loro. Lei ha dedicato un messaggio su X anche all’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che al Dubbio ha rilasciato una intervista dal titolo “Con la “norma Costa” le persone spariranno nel nulla come in Cina”“. Come replica? Albamonte è una persona simpatica e considerato anche un magistrato equilibrato. Ogni tanto quando fa politica di corrente si lascia un po’ prendere dalle estremizzazioni. Vorrei dirgli che vengo da Cuneo e non dalla Cina (chiude sempre ironicamente, ndr). La legge “bavaglio” non è censura ma carenza di professionalità di Catello Vitiello Il Riformista, 31 dicembre 2023 La disputa tra garantisti e giustizialisti nasconde il vero conflitto. Si dovrebbe ricordare che il fine ultimo del processo penale non è la ricerca della verità perché questa è già presunta dalla Costituzione (la “non colpevolezza”), bensì la verifica dell’ipotesi accusatoria. Montesquieu diceva: “Quando l’innocenza dei cittadini non e? garantita, non lo e? neppure la liberta?”. Eppure, a distanza di secoli e dopo un’evoluzione democratica che ci ha condotto all’attuale Stato di diritto, ci ritroviamo ancora oggi ad assistere al dibattito tra garantisti e giustizialisti, nonostante questa divisione sia stantia e certamente anacronistica perché, dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale e del codice del 1988, non essere garantisti significa essere contro uno dei diritti dei cittadini ampiamente riconosciuto dalla nostra Costituzione. Questa disputa, in realtà, è utile solo a mascherare il vero conflitto, quello tra poteri dello Stato. Fomentato dalla volontaria abdicazione della politica ad esercitare il suo ruolo e dalla graduale sfiducia nei partiti da parte dei cittadini, il ruolo di supplenza della magistratura (iniziato già prima del 1992) ha portato a ritenere che questa abbia una funzione politica, slegata dalla mera interpretazione della legge. Suggestione alimentata dall’attuale governance della magistratura perché il numero dei magistrati presenti nei ministeri, sommati ai membri togati del CSM, porta a una forma di “autogoverno totale” che non corrisponde al modello costituzionale e che trasforma l’indipendenza in autoreferenzialità. Ma, continuando così, si rischia che la legge diventi un “accessorio” superabile, perdendo la sua funzione di garanzia e, di conseguenza, portando a chiedersi - come ha fatto il Ministro Crosetto la settimana scorsa - “chi sorveglierà i sorveglianti”. In realtà, la magistratura non ha una funzione “antimaggioritaria”, perché la nostra democrazia presuppone la netta divisione dei poteri e perché non sono in atto tentativi di eversione dell’ordine costituito che possano giustificare una reazione del sistema. E men che mai ha una funzione “moralizzatrice”, perché - ha ragione Luciano Violante - i magistrati non sono guardiani dei costumi e non hanno un generico mandato “a conoscere” un individuo per scoprire se ha commesso un reato, bensì solo ad accertare la commissione di un fatto di reato già avvenuto. Allo stesso modo, non è corretto consentire la cd. “tribunalizzazione” della politica per trasferire verso le corti giudiziarie temi politici e sociali di grande rilievo per fare da contrappeso alle ritenute inefficienze del potere legislativo o di quello esecutivo, perché la politica deve riappropriarsi della sua funzione tipica (scrivere le leggi), perché l’interpretazione della legge non può spingersi oltre i margini della norma scritta e perché questo è il ruolo tipico della Consulta, che di recente ha finanche preferito far prevalere la funzione compulsiva rispetto a quella additiva, mettendo in mora il Parlamento ancor prima di colmare d’imperio il vuoto normativo. Le fake sulla legge “bavaglio” - I recenti interventi in tema di divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare, di intercettazioni e di prescrizione, come anche quelli relativi alla separazione delle carriere e alla modifica dell’abuso d’ufficio, lungi dall’essere attacchi alla magistratura né tanto meno tentativi di un complotto antidemocratico, rappresentano - peraltro sin troppo timidamente - la necessità sia di ripristinare l’accusatorietà del modello processuale (sin troppe volte mortificata da riforme cervellotiche e da giurisprudenze altalenanti, all’insegna di una presunta primazia dell’efficienza anche a scapito dei diritti fondamentali dell’individuo) sia di modernizzare un codice penale ancora legato a un “pentagramma” inquisitorio (visto che è ancora quello firmato dal Guardasigilli del 1930 e che vuole lo Stato preordinato rispetto all’individuo). Anche la polemica innescata da alcuni organi di informazione, secondo i quali il divieto di pubblicare l’ordinanza cautelare realizzerebbe una ipotesi di “bavaglio” volto a censurare i mass media, non trova alcun fondamento non solo perché ripropone una regola modificata solo nel 2017, che in precedenza non ha mai impedito alla cronaca giudiziaria di fare il suo dovere di “cane da guardia” del potere giudiziario, ma anche e soprattutto perché la libera pubblicazione di interi stralci o anche brevi passaggi di questi provvedimenti - non fondati su una istruttoria dibattimentale ma solo su investigazioni non verificate - rappresenta una indebita intrusione nella vita di cittadini travolti da una indagine (peraltro, non necessariamente da indagati) e sottoposti ai raggi X. Non si tratta di censura, ma la carenza di professionalità manifestata in troppe occasioni, sol se si pensi ai trafiletti in ventottesima pagina dedicati alle archiviazioni e alle sentenze di assoluzioni a fronte di prime pagine con “condanne cautelari” e paginate di illazioni e sospetti dati per provati, avrebbe necessitato di una seria autoregolazione da parte della categoria che non c’è mai stata, perché si è ritenuto incredibilmente e indebitamente che la lesione alla reputazione sia solo un danno collaterale. E allora, ripartiamo dal nostro principio costituzionale che opera sia come regola di trattamento da riservare all’imputato durante il processo sia quale regola di giudizio per la prova e per la decisione. Dall’art. 27 Cost. discendono poche direttive, ma chiare: è preclusa radicalmente la possibilità di sottoporre la persona che non sia stata condannata con sentenza divenuta irrevocabile a qualsivoglia regime punitivo; è vietata ogni assimilazione fra indagato/imputato e colpevole; grava sul pubblico ministero l’onere di provare la responsabilità dell’imputato al fine di ottenere una sentenza di condanna; è escluso, per converso, qualsiasi onere probatorio a carico dell’imputato circa la propria innocenza. Dalla linearità di siffatto principio dovrà, poi, dipendere la cultura giuridica del Paese, laddove non sia più consentito all’interprete anche solo di pensare che il suicidio di un indagato provochi solo il rammarico di aver perso una fonte di informazioni, restituendo umanità a un sistema basato sulla regola in dubio pro reo secondo cui l’eventuale inadempimento da parte del pubblico ministero impone al giudice di pronunciare una sentenza di assoluzione. In realtà, l’interprete che applica la legge, i mass media che fanno informazione e il cittadino comune dovrebbero ricordare che il fine ultimo del processo penale non è la ricerca della verità perché questa è già presunta dalla Costituzione (la “non colpevolezza”), bensì la verifica dell’ipotesi accusatoria e della capacità dimostrativa di chi detiene la pretesa punitiva dello Stato. Il bavaglio ai giornalisti? Sì, c’è: sui morti in mare. di Piero Sansonetti L’Unità, 31 dicembre 2023 Lettera aperta a Giancarlo Caselli. Carissimo dottor Caselli, Lei sa che, sebbene io molto raramente condivida quel che lei scrive o dice, la stimo. Perché penso che lei sia una persona onesta e coerente. E sono due doti mire. Quasi del tutto assenti nel giornalismo. Rarissime nella magistratura. Però - dopo aver letto la sua intervista al Fatto - la voglio invitare a ragionale sulla questione della cosiddetta legge-bavaglio che impedisce la pubblicazione dell’integrale o di una selezione delle ordinanze di imprigionamento degli indagati (che come lei ben sa sono innocenti fino a prova contraria). Perché, chiedo, parla di bavaglio, come ha fatto anche il dottor Paolo Maddalena, ex vicepresidente della Consulta, e addirittura (lo ha detto Maddalena) di norma incostituzionale e che mette a rischio la democrazia? Lei, quando era Procuratore a Palermo, e poi a Torino, ha lavorato con una legge esattamente uguale a quella proposta da Costa e che ora chiamate “bavaglio”. Eppure non mi pale che il lavoro della magistratura fu silenziato. Persino la campagna tv e dei giornali sulla trattativa (la quale poi s’è rivelata essere una mezza bufala, o forse una bufala totale) avvenne con una legge identica a quella che sta per essere approvata. E allora? Non ve ne eravate neppure accolti. Le voglio far osservare un titolo del Corriere di ieri: Caso Verdini: “così padre e figlio pilotavano gli appalti”. Processo chiuso: li pilotavano. Punto. Sono colpevoli e basta. Cosa salva il Corriere? Le virgolette. Dice il Corriere: ci sono le virgolette, io non sottoscrivo, è la tesi del Pm... Ammetterà che è un gigantesco imbroglio. Ed è un linciaggio che viola i diritti degli indagati. Colpevoli o innocenti che siano. Tranquillo comunque: quando la legge sarà in vigore, via le virgolette e dentro, al massimo, un condizionale. Oltretutto il rischio per gli editori coraggiosi che violeranno la legge è una ammenda di 250 curo. Non la fucilazione. No, dottor Caselli. Non c’è bavaglio. Notavo invece in questi giorni che quasi nessun giornale (forse solo noi e l’Avvenire) scriveva del naufragio in mare e dell’annegamento, il 15 dicembre, di 61 profughi. Lì la colpa delle autorità italiane è evidentissima. Potevano salvarli. Invece hanno rimandato i soccorsi. E hanno permesso che altri 25 profughi fossero deportati illegalmente nei lager libici. Qualcuno ha aperto un’inchiesta? E i giornali? I giornali erano presi da Verdini e da Ferragni. Pagine e pagine. Non c’era spazio per 61 neri. Amico Caselli, il bavaglio c’è, ma non è quello che dice lei. De Lucia: “La mafia non è finita: tutti uniti e più risorse” di Diego Motta Avvenire, 31 dicembre 2023 Il procuratore di Palermo: dopo Messina Denaro, non ci siamo fermati. Ma se vogliamo continuare a contrastare i loro piani criminali, tutto deve funzionare. Lo Stato non si è fermato a Palermo, quella mattina del 16 gennaio 2023 in cui è stato catturato il latitante più pericoloso di Cosa nostra. “L’arresto di Matteo Messina Denaro era un dovere per le istituzioni”, spiega oggi il procuratore Maurizio de Lucia, che di quell’operazione fu il regista. “La mafia non è finita allora, d’altra parte 160 anni di storia non si possono chiudere in poche settimane. Però siamo riusciti a indebolirla e abbiamo in testa una strategia chiara per continuare a colpirla, perché questa volta sappiamo dove i clan vogliono andare”. La capacità del crimine di mimetizzarsi, di creare legami pericolosi e insondabili, di inabissarsi per poi riapparire improvvisamente, è ciò che maggiormente preoccupa. “Se vogliamo continuare a contrastare con efficacia i loro piani, ogni cosa deve funzionare. La macchina della giustizia ha bisogno di maggiore personale e di maggiori risorse” sottolinea ad Avvenire il magistrato che guida la Procura del capoluogo siciliano. Procuratore de Lucia, l’arresto di Messina Denaro ha segnato una linea di confine, un prima e un dopo, nella lotta alla mafia. Cosa è accaduto da allora? Non ci siamo mai fermati. Diversi soggetti sono stati individuati e posti in custodia cautelare. Altre indagini sono in corso e riguardano l’organizzazione di Cosa nostra nel Trapanese, con il coinvolgimento di altri soggetti riferibili all’area di influenza dello stesso Messina Denaro. Sono stati tanti i processi conclusi e le indagini che hanno portato alla cattura di esponenti mafiosi. Oggi magistratura e forze dell’ordine sono in grado di individuare gli associati mano mano che assumono posizioni più rilevanti. Attenzione, però: Cosa nostra per continuare a esistere ha bisogno di un vertice e ora non ce l’ha più. Ha la necessità di dare ordine a quello che succede nelle città, per questo tende a una ristrutturazione costante della sua organizzazione, con un obiettivo su tutti: tornare a essere ricca, ad avere risorse, per riuscire a riacquistare forza sul piano militare e politico, ridiventando così un punto di riferimento per quella che viene chiamata la borghesia mafiosa. Perciò dobbiamo perseguire non solo i mafiosi, ma anche i patrimoni dei mafiosi. Come si finanzia oggi Cosa nostra? Registriamo un forte interesse verso il traffico degli stupefacenti. Le cosche stanno cercando di reperire fondi dal mercato della droga e per questo hanno iniziato a lavorare con l’organizzazione che da trent’anni ha il monopolio del settore: la ‘ndrangheta. Da una posizione servente, di collaborazione, Cosa nostra vuole diventare socio di minoranza in business come questi, che sono largamente i più redditizi. Può spendere il suo brand, che esercita ancora un forte richiamo soprattutto verso i cartelli del narcotraffico sudamericano, e insieme ha a disposizione un mercato importante come la Sicilia, dove la cocaina è richiesta anche nei palazzi delle famiglie del ceto medio. Nel libro “La cattura”, che ha scritto per Feltrinelli con Salvo Palazzolo, lei cita tra gli altri un vecchio capomafia, Nino Rotolo, intercettato nel 2005, quando dichiarava: “Noi campiamo per il popolino”. A che punto è l’erosione del consenso sul territorio per la mafia, soprattutto al Sud? Quelle parole, così come ha poi dimostrato in questi mesi l’inchiesta sulla rete che proteggeva Messina Denaro, dimostrano che superare la soglia dell’omertà in determinati territori resta estremamente difficile: c’è gente che è abituata a ragionare con la mafia, c’è chi è indifferente e fa finta di non vedere, chi infine riesce ad opporsi. Poi abbiamo esempi luminosi come quello di don Pino Puglisi, che ha sacrificato la sua vita per difendere i ragazzi dalla trappola dei clan. Penso che paura, connivenza e convivenza si superino solo con due fattori: sviluppo economico e sviluppo culturale, che però devono camminare uno insieme all’altro. L’impegno dei giovani di Addiopizzo è un segnale, ad esempio. Dal punto di vista invece dell’impatto sull’opinione pubblica, la risposta più importante data dallo Stato alla mafia è stata senza dubbio il maxiprocesso, un fatto che ha segnato la storia di questo Paese e che è costato la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In questi giorni è riemersa una fotografia, quella di Messina Denaro e Giuseppe Graviano in platea al “Maurizio Costanzo Show”. Che impressione le ha fatto? Quella foto (un frame di un video) in realtà era nota agli investigatori da molto tempo. Ma il vero volto dei due mafiosi ritratti è quello che emerge da anni di processi e dalle sentenze che li hanno condannati . Certo, la cattura di un superboss che non era il capo dei capi, ma una persona così carismatica da dettare le strategie seppur malato, non basta oggi per dire che si sia messa per sempre una pietra sopra la stagione della mafia stragista, il biennio terribile 1992-1993. Le Procure di Caltanissetta e di Firenze, coordinate dal Procuratore nazionale antimafia Melillo, su quel periodo continuano a indagare. Il lavoro non è finito. Cosa serve adesso? In terra di mafia, Procure e Tribunali distrettuali non possono concedere vantaggi alle strutture criminali. Eppure, in un settore fondamentale della nostra vita pubblica come la giustizia, mancano persone e mancano risorse. Tutti gli uffici giudiziari italiani hanno organici inferiori a quel che sarebbe necessario. La Procura di Palermo ad esempio dovrebbe avere 61 pubblici ministeri, ma ne abbiamo soltanto 47. Quattordici pm sono tanti, se si pensa che con le nostre forze copriamo le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Come Dda del capoluogo siciliano, in questi giorni, abbiamo deciso di mettere a concorso due dei 13 posti mancanti, ma si tratta sempre di strumenti d’emergenza. Lo stesso vale per le procedure avviate per assumere i nuovi magistrati in tutta Italia. Sono in corso concorsi per 500 posti e ne sono assai opportunamente previsti altri: benissimo, ma entreranno in servizio solo tra qualche anno. Nel frattempo, cosa si fa? Per combattere contro un nemico senza scrupoli, tutto deve funzionare. Invece scontiamo tanti errori fatti in passato. Non servono, ad esempio, più tribunali, ma tribunali attrezzati. Collaboratori di giustizia e intercettazioni restano strumenti indispensabili... Certamente. Teniamo alta la guardia, ma devo dire che su questi fronti arrivano segnali confortanti. Le intercettazioni ci hanno permesso di conoscere le dinamiche più riservate dei clan, il 41 bis è prezioso per impedire che i capimafia continuino a comunicare con l’esterno. Non è purtroppo saltato il tappo di tutte le connivenze e di tutti gli affari illeciti trattati dai boss, in realtà economicamente depresse. Figurarsi laddove c’è ricchezza. Dove ci sono tanti soldi, c’è tanta mafia: si fanno pochi omicidi e molti affari. Pensi al Nord Italia: Luciano Liggio venne arrestato a Milano nel 1974, a testimonianza del fatto che la presenza mafiosa anche nelle grandi città settentrionali non è mai mancata, soprattutto nei posti dove è possibile confondere i profitti illeciti con altre ricchezze. Per questo, guardiamo con grande attenzione all’arrivo dei fondi del Pnrr: Cosa nostra ha tutto l’interesse a entrare nel business dei cantieri e noi dovremo vigilare, in particolare sui subappalti. Servono controlli preventivi, indagini a tappeto. Poi toccherà agli imprenditori e alla società civile muoversi: la mobilitazione positiva degli ultimi mesi deve continuare. Piemonte. Per le carceri 166 milioni, ma nessun intervento previsto per quelle piemontesi di Marco D’Agostino vconews.it, 31 dicembre 2023 Nascono anche dubbi per il progetto del minorile Ferrante Aporti, per cui sono già stati accantonati 25 milioni di euro. Il 6 novembre 2023 il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha approvato uno stanziamento di 166 milioni di euro per far fronte agli interventi di ristrutturazione di alcune carceri italiane. La decisione è stata presa dal comitato interministeriale sull’edilizia carceraria, dando il via libera alla ripartizione effettuata dai tecnici del dicastero, guidato dal vicepresidente del Consiglio e ministro Matteo Salvini. Nonostante le criticità strutturali e logistiche presenti nelle carceri piemontesi, denunciate dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, nessun intervento sarà previsto in Piemonte. “Nulla dei fondi stanziati arriverà sul territorio Piemontese - ha dichiarato Mellano. È difficile non leggere questa decisione come una mancata sensibilità sul nostro territorio”. Nel carcere di Torino Lorusso Cutugno l’Ufficio del Garante della città, dopo numerose visite nell’istituto, ha rilevato forti criticità strutturali: una condizione di inagibilità dei locali doccia, in molte sezioni le pareti sono coperte di muffa, non funzionano i soffioni e c’è un forte problema di spreco d’acqua dovuto al malfunzionamento degli accessori di rubinetteria. “A causa della mancata manutenzione siamo di fronte a uno spreco folle di acqua - ha dichiarato Monica Cristina Gallo, garante comunale delle persone detenute di Torino - Il carcere Lorusso Cutugno ha rallentato molto, registriamo la presenza di numerosi detenuti con problemi psichiatrici elevati, ma totalmente ignorati dal sistema sanitario poiché non godono di una particolare attenzione”. Non solo a Torino ma in tutto il Piemonte nascono forti criticità riguardo gli istituti penitenziari: il Piemonte è l’unica regione ad avere un Garante per ogni istituto di detenzione. “C’è una forte carenza di personale nel carcere di Asti che non garantisce piena sicurezza e vigilanza - ha commentato Paola Ferlauto, garante comunale delle persone detenute di Alba e Asti - Molti detenuti non hanno l’acqua calda nella loro cella e ci sono numerevoli problemi di infiltrazione oltre che molti problemi legati al sovrapopolamento del carcere”. “Alessandria ha due istituti che sono sotto la stessa direzione - ha dichiarato Alice Bonivardo, garante comunale delle persone detenute di Alessandria - servono interventi di ristrutturazione per i cornicioni dell’edificio, ma ci sono anche problemi legati alla sicurezza, molti detenuti hanno già provato a salire sul tetto”. “Soffriamo di un aumento costante di 50 detenuti annui che sono destinati ad aumentare a causa della presenza della sezione per il 41 bis - ha spiegato Alberto Valmaggia, garante comunale delle persone detenute di Cuneo - Nel nostro istituto ci sono più agenti di base rispetto ad altri istituti, ma mancano gli psicologi e quindi una figura importante per la qualità di vita dei detenuti”. Un importante investimento riguarderà il carcere minorile di Torino: saranno 25 milioni di euro quelli stanziati per la ristrutturazione del complesso demaniale Ferrante Porti di Torino. Ma c’è chi ha poca fiducia anche in questo progetto, come Cesare Burdese architetto e autore del progetto di riorganizzazione spaziale: “Un investimento multimilionario che non riscatta il carcere minorile architettonicamente al limite della incostituzionalità”. “Al momento si è da poco conclusa la fase della progettazione definitiva e si è avviata la fase della progettazione esecutiva - continua a spiegare l’architetto Burdese - che svilupperà è completerà i contenuti del progetto definitivo, a cui seguirà una gara europea per l’affidamento della realizzazione delle opere. Solo allora il progetto sarà di dominio pubblico, quando i giochi però saranno chiusi”. Roma. I fantasmi di Regina Coeli, il carcere senza futuro che non vuole morire di Viola Giannoli La Repubblica, 31 dicembre 2023 Viaggio nella struttura che ha quasi quattro secoli e ospita mille detenuti nel centro di Roma. Anche Nordio ne invoca la chiusura. Ma non sarà facile. “Lo senti ‘sto rumore? Questa è la voce di Regina Coeli”. Comincia fuori, in via delle Mantellate, nelle chiacchiere affumicate delle donne in fila per i colloqui, o al parlatorio del Gianicolo da dove il mondo di fuori urla e spara botti per farsi sentire dal mondo di dentro. Dentro, appunto, la voce diventa assordante. “È la prima cosa che ti resta addosso”, dice un agente della penitenziaria in servizio da oltre 10 anni. È un rumore incessante di metallo, il tintinnio delle chiavi, l’apri-chiudi dei lucernari, la battitura sulle brande, le sbarre, i cancelli, la pioggia sulle gelosie delle finestre, il su e giù per le scale. E poi le grida, i lamenti, i richiami dello spesino, i piatti, i fischi, il mormorìo, la musica, il furgoncino dei nuovi giunti, i fuochi d’artificio a ogni compleanno che in media sono tre al giorno. Chissà se tacerà mai la voce di Regina Coeli, se poi lo chiuderanno il carcerone di Trastevere. Sono passati 369 anni e non ci crede quasi nessuno. Non ci credono i detenuti: “Ci mandano alle pene alternative? Ma quando mai”. Non ci credono gli agenti della penitenziaria: “Magari un pezzetto, per farne un bel museo”. Non ci crede la direzione. E nemmeno il quartiere che fischia e si lamenta, scrive lettere contro il baccano di dentro, ma poi come nel gioco della torre, che se sfili un tassello crolla tutto, dice: “È la memoria nostra”. Solo i napoleonici e il Regno d’Italia ci son riusciti, eppure ci hanno provato in tanti a incatenare per sempre il cancello di via della Lungara, tre metri sotto al lungotevere, davanti allo scalino che per detto popolare dà la patente di romano. “È una topaia, lo chiudo”, tuonò nel 1994 il ministro della Giustizia Raffaele Costa. “Un magazzino di carne umana”, 2013, presidente della Camera Laura Boldrini. “Va riconvertito”, 2016, ministro Andrea Orlando. “È incompatibile con una struttura carceraria moderna, ne andrebbe fatto un museo”, 2023, ministro Carlo Nordio. Nato convento ne11654, monumento agli intrecci immobiliari e dinastici delle famiglie romane - i Colonna, i Barberini, i Pamphili da11890 ospita solo anime in pena. È stato carcere femminile, sede della scientifica, archivio criminale, luogo di detenzione degli oppositori al fascismo, dei trucidati delle Fosse Ardeatine, dei deportati nei campi di concentramento prima di diventare tali. Ha visto evadere Saragat e Pertini, pezzi di Banda della Magliana e stranieri meno celebri. A entrare oggi nelle aree comuni, in una visita dai molti paletti imposti ai giornalisti dal ministero di Giustizia, non si direbbe nemmeno che è così vecchio. Poi però arrivano l’umidità nelle ossa, l’aria di fiume che porta topi e zanzare, l’acqua calda che non va, le docce ferme e quando si rompe qualcosa la manutenzione costa. Non può essere moderno un carcere con quasi quattro secoli, costruito peraltro, con “spazi angusti, condizioni sanitarie allarmanti, una struttura inidonea non in grado di offrire concrete forme di speranza”, recita la mozione, l’ennesima, proposta dalla consigliera Pd Cristina Michetelli e approvata in Campidoglio per impegnare il sindaco Gualtieri a convincere Nordio a chiuderlo. “È invivibile, pure il cibo non è granché, mica come a Opera che ci stanno i fritti” dice Cicoria, ex detenuto nei video su TikTok. Quando entriamo il sovraffollamento è al 170%. Nella rotonda che affaccia sulle prime quattro sezioni la penitenziaria dirige il traffico, ogni agente si porta appresso 5-6 reclusi. Gli uomini e le donne in divisa sono 359, dovrebbero essere 516. Gli amministrativi 33 invece che 47. Gli educatori 3, se ne aspettavano 11. I detenuti stranieri più della metà, i mediatori insufficienti. Su 68 suicidi dietro le sbarre 5 son morti qui. C’è un centro medico, i ricoverati sono 56. “Ma le visite programmate all’esterno spesso saltano perché manca la scorta per arrivare in ospedale, 750 metri dal carcere - racconta Valentina Calderone, Garante dei detenuti di Roma - Scarse anche le occasioni di lavoro per i condannati in via definitiva che dovrebbero essere inseriti in percorsi di reinserimento”. Aree verdi niente, campi sportivi nemmeno. “Venite vi mostro i passeggi”, ci accompagna la direttrice Claudia Clementi che tenta di governare l’ingovernabile da un anno e mezzo. Il passeggio della prima sezione è un trapezio strozzato su cui è dipinto un campo da gioco impossibile, la porta sul muro, due centrocampi a terra che segnano la metà di nulla, un pallone di cuoio spellato in un angolo, trenta falcate sul lato lungo, tutto qui. Ogni spazio viene rosicchiato per aule che diventano teatro, palestra, sala preghiera. Nella biblioteca vanno via Follett, Grisham, King, i libri di animali “per disegnarli”, le poesie “per scrivere le lettere”, dice la bibliotecaria del Comune, e i fumetti di Zerocalcare. C’è fame di aria e di spazio. Ma come si fa a chiuderlo? Dove si mettono mille detenuti se le carceri sono tutte sovraffollate? Come si fa con gli uffici giudiziari a due passi? Poi chiuderlo per farne cosa? “Spero non mini-appartamenti”, sussurra un’agente. Progetti se ne son fatti svariati e milionari. Una parte è intoccabile, vincolata dai Beni culturali: la terza sezione, la prigione dei nazisti. Lì sorgerebbe il museo storico. Ma di alleggerire il carcere lo dice pure Nordio, mentre il suo governo vara norme opposte. “Dovremmo lavorare per far uscire le persone da qui - dice Calderone - Allora sì, Regina Coeli potrebbe essere altro, una casa circondariale per 400 persone, un’eccellenza del percorso trattamentale. Chiuderlo per costruirlo altrove invece non ha senso, significa solo toglierlo dallo sguardo. E invece Regina Coeli serve a ricordarci che è un pezzo di città e che di carcere non dobbiamo smettere di occuparci”. Ordine e manganelli: un 2023 di violenze di Stato di Susanna Rugghia L’Espresso, 31 dicembre 2023 Repressione in divisa contro studenti, persone trans, migranti, manifestanti. E nelle carceri detenuti pestati. Nell’anno del pacchetto sicurezza che tutela gli agenti. Colpire la piazza a costo di inasprire il livello dello scontro. Colpire chi si oppone e reclama diritti: studenti, persone trans, migranti, centri antiviolenza. Gli episodi di repressione violenta da parte delle forze dell’ordine non sono mancati negli ultimi dodici mesi. A dimostrazione di un vento cambiato. A novembre il Consiglio dei ministri non ha perso tempo nell’approvazione del cosiddetto “pacchetto sicurezza”: un corposo ventaglio di misure a tutela di forze di polizia e forze armate voluto fortemente da Fratelli d’Italia, che oltre all’inasprimento delle pene per chi commette violenza o cagiona lesioni agli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, “liberalizza” la detenzione di armi. Gli agenti di sicurezza sono infatti autorizzati a detenere un’arma da fuoco privata diversa da quella d’ordinanza. Vengono punite le rivolte nelle carceri - teatro di altre manifestazioni di legittimo dissenso legato alle condizioni detentive - introdotto il reato di blocco stradale contro le attiviste e gli attivisti per il clima e attaccate le occupazioni abitative. Così per strada e oltre i recinti di prigioni e uffici di polizia nel 2023 gli episodi di repressione in divisa sono di un numero considerevole e spesso toccano categorie marginalizzate, per profilazione sessuale, razziale, sociale e politica. Gli studenti manganellati a Montecitorio - Il 22 dicembre a Roma un corteo di studenti liceali è stato caricato dalla polizia davanti alla Camera dei Deputati. Gli studenti protestavano contro il silenzio delle Istituzioni sulle loro rivendicazioni: “una scuola transfemminista”, “l’educazione sessuale e all’affettività”, “un presidio di operatori antiviolenza”, “la carriera alias”, “uno sportello psicologico”, “un ruolo centrale dell’istruzione nella gestione dei fondi statali”. Il Coordinamento autonomo romano a LaPresse ha dichiarato che “manganelli e repressione sono l’unica risposta che riceviamo”. Condanne sono arrivate da tutta l’opposizione per l’intervento delle forze dell’ordine. Fratoianni (SI): “Quello che è accaduto a Montecitorio con quei minorenni manganellati è la manifestazione dell’educazione affettiva che ha in testa questo Governo”. Sgomberi e repressione delle occupazioni abitative di Bologna - A Bologna ci sono stati diversi sgomberi di occupazioni abitative per studenti e famiglie - nate per affrontare il caro prezzo degli affitti e la difficoltà di trovare casa - in cui alcuni occupanti e manifestanti sono rimasti feriti negli scontri con le forze dell’ordine. Il 16 dicembre sono state sgomberate “Radical housing 2.0” in via Corticella, organizzata da Plat (piattaforma di intervento sociale), e “Glitchousing” in viale Filopanti, nella quale il Cua (collettivo universitario autonomo) era entrato all’interno dell’ex istituto Zoni, vuoto dal 2020. Durante lo sgombero uno degli occupanti dello stabile ha avuto necessità di assistenza medica, uscendo dalla palazzina sulla barella. E due mesi prima, il 17 ottobre 2023, una ragazza era stata ferita in testa da un colpo di manganello durante lo sgombero dell’Istituto Santa Giuliana. Il pestaggio di un giovane tunisino dentro la questura di Milano - La profilazione razziale è uno dei dati più ricorrenti quando si parla di violenza delle forze dell’ordine in Italia, così ha deliberato il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (Committee on the elimination of racial discrimination, Cerd) nelle sue osservazioni conclusive pubblicate lo scorso 31 agosto. È il caso del pestaggio di un 20enne tunisino da parte di alcuni agenti della Questura di Milano, il 5 ottobre 2023. Le violenze sono state riprese dalle telecamere di videosorveglianza e otto poliziotti sono indagati, a seguito di una segnalazione interna alla Questura. Gli agenti sono stati immortalati nel video mentre consumavano la violenza sul giovane che era destinato a un centro per il rimpatrio. Lo sgombero di un consultorio e di uno studentato a Catania - Alle prime luci dell’alba del 5 dicembre, a dieci giorni di distanza dalla manifestazione per la giornata internazionale contro la violenza di genere, a Catania è stato sgomberato il centro antiviolenza Mi cuerpo es mio e lo Studentato95100. “Noi, che lì viviamo e attraversiamo quello spazio quotidianamente, curandolo e coltivando lotte e solidarietà, siamo stati/e fatti/e fuoriuscire in modo coatto, brutale, spintonati/e a forza. Ci sono stati sottratti i telefoni cellulari, a lungo non ci è stato permesso di contattare un avvocato”, hanno dichiarato attiviste e attivisti. Le cariche della polizia sulle manifestanti di Non Una di Meno - Il 25 novembre, durante il corteo organizzato da Non Una di Meno in occasione della giornata internazionale contro la violenza di genere, ci sono state cariche da parte della polizia davanti al portale Pro Vita e Famiglia in Viale Manzoni. Il corteo si era fermato davanti alla onlus chiusa per parlare di diritto all’aborto e dei diritti delle persone trans. Dagli agenti di una camionetta di polizia posta all’angolo della strada sono partite le manganellate ai danni delle manifestanti. Una di queste, rimasta ferita sul volto, è stata soccorsa dall’ambulanza. Le botte durante le manifestazioni per la Palestina - In piazza Carlo Felice a Torino, in occasione di un corteo di solidarietà per il popolo palestinese e contro la riforma della scuola del 17 novembre, ci sono stati tensioni e scontri tra studenti e poliziotti sfociati in cariche della polizia. L’idea dei manifestanti era quella di arrivare in piazza Castello. Come però ormai regolarmente avviene, la polizia impedisce il passaggio, circonda gli studenti e partono gli scontri. L’aggressione di una donna trans a Milano - Una donna a terra sull’asfalto, scalza e con le mani alzate, circondata da tre agenti della polizia locale che la prendono a calci, le spruzzano in faccia lo spray al peperoncino e la colpiscono ai fianchi e in testa con un manganello. La violenza va avanti per quasi un minuto, e finisce solo quando gli uomini in divisa riescono ad ammanettarla. Questa scena è avvenuta a Milano il 24 maggio del 2023, di fronte alla biblioteca dell’università Luigi Bocconi, ed è stata filmata da un residente che ha ripreso tutto dalla sua abitazione. L’uomo arrestato e picchiato alla testa a Livorno - Un calcio in faccia a un giovane già fermato e in terra, un caso simile a quello di Milano avvenuto a pochi giorni di distanza, questa volta a Livorno, immortalato in un video del 25 maggio diventato virale, mostra un fermo in strada operato da due carabinieri: uno dei due sferra un calcio in faccia al ragazzo già bloccato dal collega. I due carabinieri ripetono al giovane più volte la parola ‘Fermo’ mentre è a terra. Il giovane, mentre viene ammanettato e un militare lo tiene per il collo, urla: “Mi fa male la gamba”. E poi: “La gente mi guarda, così mi fanno le foto”. Le violenze nella questura di Verona - Venticinque poliziotti della questura di Verona sono stati accusati, con diverse responsabilità, di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio. A seconda delle diverse posizioni sono stati arrestati o indagati per aver picchiato e torturato alcune persone, perlopiù di origine straniera che erano in custodia all’interno della questura, per non aver denunciato avvenimenti di questo tipo di cui erano a conoscenza o per non averli impediti quando ne avevano avuto l’occasione. Nell’anno in cui Fratelli d’Italia ha proposto l’abolizione del reato di tortura - introdotto nel codice penale italiano solo nel 2017 in ottemperanza all’obbligo inderogabile che il nostro Paese aveva assunto quasi trent’anni prima con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Gli arresti sono avvenuti a giugno del 2023 e le indagini sono ancora in corso. Pace, la marcia nella città di frontiera. Gorizia, laboratorio d’Europa di Paolo Lambruschi Avvenire, 31 dicembre 2023 Nella notte il percorso unirà simbolicamente Italia e Slovenia con l’arrivo a Nova Gorica. L’omaggio a monsignor Bettazzi, scomparso a luglio, da sempre protagonista dei cortei. Nel tempo cupo in cui la guerra non pare avere alternative, arriva dalla frontiera di Gorizia la lezione di pace dell’Europa. Città carica dei simboli delle guerre del secolo scorso, è oggi simbolo di convivenza tra nord e sud e tra est e ovest d’Europa. E per questo, insieme alla gemella slovena Nova Goriça, con la quale sarà capitale europea della cultura nel 2025, ospita il 31 dicembre la 56esima edizione della marcia nazionale della pace voluta da san Paolo VI, organizzata dalla Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Cei, l’Azione Cattolica, Caritas Italiana, il Movimento dei Focolari Italia e Pax Christi Italia. Il tema di quest’anno è “Intelligenza artificiale e pace” mentre la caratteristica della marcia goriziana, che si snoda per 7,5 chilometri di percorso, è l’essere transfrontaliera. La manifestazione di fine anno si svolgerà infatti a cavallo di un confine che divise dolorosamente una città nel dopoguerra divenendo uno dei simboli della separazione politico-ideologica tra Europa occidentale e orientale e che venne smantellato 20 anni fa con l’ingresso della Slovenia nell’Ue e si concluderà con la Messa nella concattedrale di Nova Goriça. “Gorizia - spiega l’arcivescovo e presidente di Caritas Italiana, Carlo Roberto Maria Redaelli - ha vissuto da vicino la prima guerra mondiale, è stata coinvolta nella seconda ed è stata uno dei posti in cui era evidente la divisione della guerra fredda con un vero e proprio muro che la divise. Ma qui ogni famiglia ha componenti italiane e slovene e questo mix di popoli e culture ha aiutato a superare contrapposizioni e a perdonare. Grazie a questa capacità di ricostruzione della convivenza e all’Europa unita che ha tolto i confini, questa terra può essere un laboratorio di pace. Da qui si lancia un messaggio importante di speranza in un momento in cui l’odio e la violenza della guerra sembrano prevalere”. Attualmente Gorizia è uno dei terminali della rotta balcanica, luogo di arrivo di molti stranieri. “Le guerre in altre parti del mondo - conclude Redaelli - segnano il movimento di popoli anche nelle nostre terre. La nostra città è ricca di simboli e richiami toccati dalla marcia”. Li illustra don Nicola Ban, parroco della cattedrale, uno dei coordinatori. “Partenza alle 16 dal Sacrario di Oslavia, simbolo della prima guerra mondiale, poi le tappe di riflessione con un passaggio davanti alla sinagoga che non è più luogo di culto perché 80 anni fa la comunità ebraica goriziana venne cancellata dai nazifascisti con le deportazioni. Si affronterà il tema della fuga dalle guerre davanti al convitto salesiano di San Luigi, che accoglie i minori non accompagnati provenienti dalla rotta balcanica. Qui ascolteremo testimonianze e la riflessione di padre Giovanni Lamanna, direttore della Caritas diocesana di Trieste. Quindi tappa in piazza della Vittoria dove il professor Grion dell’università di Udine interverrà sul tema della amrcia “Intelligenze artificiali e pace” e nella piazza Transalpina, dove passava il confine della guerra fredda che separava le città, oggi luogo di incontro non solo di due mondi. Da qui fino a Vladivostok si parla infatti slavo e da qui verso ovest fino a Lisbona si parlano le lingue latine. E di “Europa Unita e pace” parlerà Silvester Gaberšèek, sociologo ed etnologo. Poi concluderemo nella concattedrale di Nova Goriça costruita dal regime comunista jugoslavo a condizione che sotto fosse costruito un rifugio antiatomico per la cittadinanza. Qui si ascolteranno le testimonianze da Ucraina, Palestina, Israele e verrà celebrata la Messa presieduta dall’arcivescovo Redaelli”. Sarà la prima marcia della pace senza un grande protagonista, il vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi, morto il 16 luglio scorso a 99 anni, già presidente di Pax Christi Italia ai tempi della lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare e poi di Pax Christi international. Lo ricorderà il suo successore alla presidenza di Pax Christi, Giovanni Ricchiuti, che un anno fa lo invitò alla marcia del 31 dicembre ad Altamura, la diocesi pugliese di cui da poco è diventato amministratore apostolico. “Era un autentico costruttore di pace e un profeta - spiega Ricchiuti. L’anno scorso era indeciso se venire fino in Puglia, poi quasi presagendo che quella sarebbe stata la sua ultima marcia volle essere presente. Oggi ci manca una figura come la sua in un momento cupo, in cui siamo intristiti e a volte ci sentiamo impotenti davanti alle guerre. Invece la Chiesa ribadisce ancora una volta anche con questa marcia il no alle armi e alla violenza come strumento di risoluzione dei conflitti. E come ha ripetuto il papa, la guerra non può più essere considerata giusta”. Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, pone l’accento sul rapporto disumanizzato tra le armi di oggi e l’intelligenza artificiale, tema della marcia. “Il fatto che non vi sia una guida umana su diversi armamenti pone diversi interrogativi etici, come ricorda il Papa nel discorso per la giornata della pace 2024. Ma il punto è che la guerra, avventura senza ritorno e viaggio senza meta, come è stata definita dai pontefici, è resa possibile dalla produzione e dal commercio delle armi. La marcia deve aiutare la chiesa italiana dire no alla produzione e alla vendita di armi”. Sul rapporto tra intelligenza artificiale e conflitti, tema dell’evento, ha riflettuto don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei. “Il nodo sta nel rapporto tra intelligenza artificiale e umanità. Il confronto in ogni ambito, non solo quello bellico, ma anche economico e sociale, se disumanizzato può degenerare. Se l’ intelligenza artificiale potenzialmente può risolvere i problemi, senza umanità può diventare molto pericolosa. L’intelligenza artificiale consente al pilota ad esempio di bombardare i nemici con i droni da remoto, al sicuro, come se fosse un videogame mentre sta uccidendo altri esseri umani. Il papa ci ricorda nel suo lungo e preoccupato discorso che siamo arrivati a uno snodo fondamentale della storia”. Se le guerre sono sempre più disumanizzate e disumane, don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, ricorda che altri eventi di mobilitazione contro la guerra e le logiche che la determinano si terranno a gennaio, mese della pace. “Ormai sembriamo esserci abituati, quasi rassegnati alla guerra. La marcia di Gorizia ci darà forza e unità anche nella preghiera, per ribadire insieme il no alla violenza e alla risoluzione dei conflitti con le armi e provare a scuotere le coscienze”. Migranti. Arrivi saliti del 50%, raddoppiati i morti in mare di Adriana Pollice Il Manifesto, 31 dicembre 2023 Il governo vara una stretta dietro l’altra, l’effetto è nullo mentre taglia l’accoglienza. Sono sbarcati nel 2023 in 155.754 (erano 103.846 nel 2022); scomparse 2.678 persone. Due decreti Cutro, accordi con Libia, Tunisia e adesso anche Albania, fondi dirottati dall’accoglienza alla detenzione nei Cpr, il risultato è nei dati del “cruscotto statistico” del Viminale: dal primo gennaio al 29 dicembre 2023 sono sbarcati in Italia 155.754 migranti, nel 2022 erano stati 103.846, nel 2021 67.040. Per usare uno degli slogan cari alla destra, “la sostituzione etnica” ha accelerato il ritmo durante il governo Meloni: gli arrivi sono cresciuti del 50%. Le politiche feroci, quindi, non sono servite a bloccare i flussi ma solo a rendere più difficile l’inserimento nel tessuto sociale. D’altro canto l’Istat ha appena pubblicato il censimento del 2022, ribadendo che l’Italia è nel pieno della spirale demografica verso il basso, con la popolazione che è calata sotto i 59 milioni. Anche quest’anno il picco degli arrivi è stato ad agosto con 25.673 persone. Tra le nazionalità dichiarate, 18.204 hanno detto di venire dalla Guinea, 17.304 dalla Tunisia, 16.004 dalla Costa d’Avorio, 12.169 dal Bangladesh, 11.071 dall’Egitto. Sono i nuclei più numerosi, seguono Siria, Burkina Faso e Pakistan. I minori non accompagnati sono stati in totale 17.283, nel 2022 erano 14.044, nel 2021 10.053. Anche per loro il governo ha provveduto a cambiare l’accoglienza: con un emendamento alla legge di bilancio, ha stabilito che nella fascia 16/18 anni non avranno più diritto al percorso protetto riservato ai minorenni ma saranno equiparati agli adulti. La mossa ha permesso un taglio di 45 milioni dirottati sul fondo per forze armate, polizia e vigili del fuoco. Se gli sbarchi non si sono fermati, la stretta imposta alle Ong ha avuto il prevedibile effetto di lasciare che proseguano le tragedie in mare. Come raccontato nel video di Emergency e Ogilvy “Uomo in mare”, il Mediterraneo continua a essere un cimitero: provando ad attraversarlo, nel 2023 sono morte o scomparse almeno 2.678 persone. Dal 2014 ad oggi, le vittime sono state più di 28mila. Donne, uomini, bambini e famiglie annegati cercando di raggiungere l’Europa. Secondo l’Oim, nel 2022 i morti e dispersi erano stati 1.417: l’incremento è stato di oltre l’80%. Le Ong, nonostante fermi amministrativi e multe, proseguono i salvataggi. La nave Ocean Viking è arrivata ieri a Bari con 244 naufraghi provenienti da Eritrea, Sudan, Bangladesh, Pakistan e Siria. “Ci sono due donne incinte e minori non accompagnati - ha spiegato il medico di bordo -. Sono stati salvati in tre diverse operazioni. La prima è avvenuta su richiesta della Guardia costiera libica”. Altri 60 scenderanno dalla Open Arms a Civitavecchia: era stata inviata dalle autorità verso la lontana Genova (“Seicento miglia di distanza, quattro giorni di navigazione, una sofferenza inutile per le persone a bordo” aveva denunciato l’ong), ma causa maltempo il porto è stato cambiato. La Geo Barents invece, con 336 naufraghi, dovrà arrivare a Ravenna il 2 gennaio. Approdi pure a Lampedusa: una motovedetta di Frontex ha messo in salvo 79 persone su tre diverse imbarcazioni. Tra loro, quattro migranti con ustioni da carburante, due dei quali anche con asma; una donna al quarto mese di gravidanza, nove con scabbia e un bambino con un occhio di vetro. Sono salpati da Zuwarah in Libia e da Zarzis e Al Chebba in Tunisia. Altri tredici sono invece sbarcati nel sud della Sardegna e alle autorità hanno dichiarato di essere tunisini: tra loro dodici uomini e una donna, tutti privi di documenti d’identità e arrivati poco prima su un’imbarcazione di fortuna. Alle 17 di ieri nuovo alert da Alarm phone: “Siamo stati chiamati da un’imbarcazione con 110 persone in pericolo nella zona Sar di Malta. Segnalano problemi al motore. Le autorità erano state allertate 11 ore fa ma 3 ore fa la gente ci ha chiamato nuovamente, erano ancora in mare”. Migranti. Centri di identificazione e Cpr: la strategia per affrontare il 2024 di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 31 dicembre 2023 Sei strutture pronte nelle prime settimane. Si rafforza la collaborazione di tunisini e libici. Albania e Ue: si aspettano gli effetti dell’intesa con Tirana e del Patto tra i Paesi europei sui migranti. La strategia 2024 per affrontare le ondate di migranti che potrebbero ancora una volta investire le coste italiane (ma anche la frontiera terrestre orientale, dove termina la rotta balcanica) si muove su due canali: l’apertura effettiva dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e gli stessi rimpatri di profughi, ai quali non sarà riconosciuta la richiesta di asilo: se ne annunciano molti, vista la stima del 90% di domande presentate da persone che provengono da Paesi considerati sicuri, in base alle norme europee. Con la convinzione di poter contare sul Patto europeo, che potrebbe segnare una svolta a favore dei Paesi di primo approdo, come l’Italia appunto, anche con una più efficace ed equa redistribuzione a livello Ue, combinato con l’entrata in servizio dei due centri di identificazione ed accoglienza sul territorio albanese - in attesa della decisione il 18 gennaio prossimo dell’Alta Corte di Tirana, che ha sospeso il via libera all’accordo -, il Viminale si prepara ad affrontare un anno decisivo, in uno scenario internazionale sempre più complesso e carico di tensioni. Calo di sbarchi anche per le condizioni meteomarine avverse - Il calo deciso di sbarchi nell’ultimo trimestre 2023 - addirittura con numeri inferiori a quelli del 2021 -, a fronte comunque di un aumento del 50% a livello annuale rispetto al 2022, viene messo in relazione non solo alle condizioni meteomarine stagionali - che tuttavia nel biennio precedente non hanno impedito agli scafisti di salpare con il loro carico di disperati - ma soprattutto all’aumento della collaborazione da parte delle autorità tunisine e libiche di contrastare le partenze verso l’Italia con maggiore efficacia rispetto al passato. Tenendo presente che solo a settembre proprio dalla Tunisia era arrivato il 360% di profughi in più. Nei centri di accoglienza ci sono oltre 140 mila migranti - Ecco perché dal Viminale non si nasconde la soddisfazione per i risultati ottenuti negli ultimi 90 giorni: la partnership con Tunisi e Tripoli continuerà anche nel 2024 perché comunque a fronte di un sensibile aumento delle partenze di migranti, le loro motovedette ne hanno bloccate molte rispetto al passato. Fra le strategie dei prossimi mesi ci sarà dunque l’applicazione del progetto di sviluppo con questi Paesi - nell’ambito del nuovo Piano Mattei in Africa e nel Mediterraneo - perché questa viene considerata l’unica valida strada per contenere gli sbarchi, il rischio di nuove tragedie in mare e stabilizzare il sistema di accoglienza nazionale che, al 15 dicembre scorso, assisteva oltre 140 mila migranti, solo 35 mila dei quali inseriti nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), a fronte di più di 155 mila persone sbarcate nel 2023. Due centri di prima identificazione - Un quadro impegnativo che già nelle prime settimane del prossimo anno potrebbe vedere l’apertura di due nuovi centri di trattenimento e identificazione, dai quali far scattare espulsioni veloci, sull’impronta di quello in funzione da quattro mesi a Pozzallo (Ragusa), ma anche di almeno quattro Cpr in altrettante regioni (la dislocazione è ancora riservata). Si tratta delle prime strutture delle oltre dieci che il Viminale vuole aprire fuori dai centri urbani: l’idea è dotare ogni regione di una struttura e all’appello oggi mancano Liguria, Veneto, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Campania e Calabria. Il nodo rimpatri è delicato: ad agosto ne erano stati eseguiti poco più di 3 mila, con migliaia di casi ancora da esaminare. Il Paese terzo sicuro - Il decreto Cutro - ora anche il Patto europeo sui migranti, che su molti aspetti riprende la strategia italiana - prevede uno snellimento delle procedure che però, come si è visto in autunno, si è scontrato con le decisioni di alcuni giudici. E ora si punta sul riconoscimento Ue del ruolo di un “Paese terzo sicuro”, come l’Albania, dove trasferire i profughi e sulla riduzione da 24 a 12 mesi della responsabilità di un Paese di primo approdo per i migranti salvati in mare che si allontanano senza permesso verso altri Stati membri. Migranti. Piantedosi: “Ancora troppi sbarchi, non abbiamo centrato il nostro obiettivo” di Francesco Grignetti La Stampa, 31 dicembre 2023 Bilancio di fine 2023 del ministro dell’Interno: “Ma va detto grazie a Libia e Tunisia. Se non ne avessero fermati più di 120 mila, ci sarebbe stato il doppio di arrivi”. A Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, piace parlar chiaro. Anche a spese del politicamente corretto. E se deve fare un bilancio di fine anno, per dire, sull’immigrazione ringrazia sentitamente la Guardia costiera della Libia come quella della Tunisia perché hanno bloccato “molte decine di migliaia di altri arrivi”. Il ministro ha sul tavolo anche un numero preciso: sarebbero stati 121.883 migranti fermati quest’anno in mare o a terra in Tunisia e in Libia. Ministro, gli sbarcati sono oltre 155 mila. Si dice sempre di smantellare le reti di trafficanti di uomini e questo governo ha innalzato ulteriormente le pene ed esteso la giurisdizione anche oltre il territorio nazionale. Risultati? “Il numero degli arrivi di quest’anno non coincide certo con l’obiettivo delle politiche che il governo ha avviato in molteplici direzioni con il fine di contrastare e sconfiggere il traffico di esseri umani, ma va detto che ne sarebbero arrivati ancor di più se non avessimo adottato le misure varate in questi mesi che hanno già dato risultati concreti. Basti pensare che la collaborazione con le autorità tunisine e libiche ha consentito di bloccare molte decine di migliaia di altri arrivi, 121.883 persone, un numero non molto lontano da quello delle persone arrivate, e di arrestare centinaia di trafficanti. Oltre a questo, le iniziative che abbiamo adottato hanno fatto sì che il nostro sistema dell’accoglienza abbia retto l’urto di un afflusso straordinario che, voglio ricordarlo, è stato determinato da crisi politiche o socio-economiche avvenute in Paesi stranieri le cui cause sono state del tutto indipendenti da noi. Mi lasci dire, poi, che è quantomeno singolare che, talvolta, le critiche sul numero delle persone arrivate quest’anno pervengano dagli stessi soggetti che, al contempo, sostengono che dovremmo favorire l’arrivo indiscriminato di tutti coloro che si presentano alle nostre frontiere”. Anche se negli ultimi giorni se ne parla meno, ed è doveroso attendere la Corte costituzionale albanese, a che punto è il progetto dei Cpr in Albania? “Il Viminale e tutto il Governo sono al lavoro per concretizzare al più presto l’intesa con l’Albania, un indiscutibile successo diplomatico del presidente Meloni. È interesse di tutti che questo avvenga perché la realizzazione all’estero di centri per le procedure accelerate alla frontiera e per i rimpatri avrà un impatto importante nel contrasto all’immigrazione irregolare anche sul piano della dissuasione di quanti intendono partire. Le sottolineo che gli accordi con i Paesi terzi sicuri, come il nostro con l’Albania, sono al centro dell’attenzione delle future iniziative in ambito europeo quali possibili ulteriori soluzioni per contrastare il traffico di esseri umani”. La Tunisia resta la rotta principale dell’immigrazione clandestina. Che cosa intendete fare, in concreto? “Nel rispetto delle istituzioni tunisine che già molto hanno fatto e stanno facendo, continueremo a dare un supporto ed una collaborazione che non riguardi solo il contrasto all’immigrazione irregolare. L’Italia intende fornire sostegno anche in campo socioeconomico per risolvere alla radice le cause profonde dell’emigrazione. Una prospettiva molto importante a cui stiamo lavorando è quella di aiutare Tunisia e Libia, anche con le organizzazioni umanitarie internazionali, ad offrire programmi di rimpatri volontari assistiti alle tante persone presenti sui loro territori e che si affidano ai trafficanti con il miraggio di una migrazione senza prospettive”. Quanto alla rotta balcanica, verrà ripristinata la libera circolazione con la Slovenia? “La sospensione della libera circolazione sul versante orientale è temporanea e determinata soltanto da esigenze contingenti e straordinarie. È interesse dell’Italia avere facilità di scambi e di movimento con Slovenia e Croazia, due importanti partner europei con i cui rappresentanti mi incontrerò ancora una volta il 15 gennaio per condividere le modalità di una misura che durerà fin quando necessaria ma che finora non ha comportato problemi di circolazione transfrontaliera”. Il mondo delle Ong impegnate nella tutela dei diritti dei minorenni migranti vi critica. La norma che prevede una coabitazione nei centri di accoglienza tra migranti adulti e i “quasi maggiorenni” da 16 anni in su non viola le convenzioni internazionali? “È una misura prevista soltanto in presenza di situazioni eccezionali e che tiene conto comunque dell’esigenza di un trattamento in ogni caso differenziato per i veri minorenni. Ricordo che nella storia recente del nostro Paese ci sono stati momenti in cui si sono registrati in poche ore migliaia di arrivi che rendevano di fatto inattuabili le astratte misure differenziate di accoglienza dei minori. A fronte di tale constatazione, anche per venire incontro alle sollecitazioni che ci venivano dai Comuni, è stato inevitabile prevedere procedure emergenziali da attivare in tali casi, ma sempre nel rispetto della condizione di minore età. Quando si hanno responsabilità di concreta gestione di un fenomeno cosi complesso, si deve coniugare pragmatismo ai bei principi”. Senza una migrazione ordinata, l’altra faccia della medaglia è il degrado urbano. Pensa che le norme esistenti siano adeguate oppure, visto che si sta per affrontare in Parlamento il vostro Pacchetto Sicurezza, occorre cambiare qualcos’altro? “È stato proprio l’obiettivo di conciliare l’accoglienza con le imprescindibili esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica che ha ispirato tutte le iniziative normative adottate dal governo fino ad ora. Molte delle norme e delle iniziative adottate produrranno i loro effetti sul medio e lungo periodo. Penso, ad esempio, ai risultati che già intravediamo in termini di rafforzamento del sistema delle espulsioni dei soggetti pericolosi. Dovrebbe essere interesse di tutti contrastare l’immigrazione irregolare e i riflessi problematici che comporta sul territorio in termini di insicurezza e degrado”. Questo Capodanno verrà festeggiato nel pieno di due guerre. Il Comitato nazionale per la sicurezza ha chiesto una “particolare vigilanza” per i siti sensibili. Avete segnali di possibili atti terroristici? “Non ci sono elementi per un allarme specifico, ma la situazione è tale da richiedere la massima attenzione. Fin dall’inizio della crisi in Medio Oriente è stato innalzato al massimo il livello di attenzione sul fronte della prevenzione. La cornice internazionale è complessa e preoccupante per i possibili riflessi. Siamo in una situazione di allerta, ma senza che questo porti a un inutile allarmismo”. La sicurezza è in palese affanno per le carenze di organico. Riuscirete a colmare il turn-over in pochi anni come promesso ai sindacati di settore? “Potrei risponderle che, con riguardo a diversi specifici indicatori, in realtà la sicurezza in Italia è tutt’altro che in affanno. Sovente si presta, a buona ragione, molta attenzione al verificarsi di fatti. Al contempo, con minore ragione, si da poco riguardo all’efficacia e alla sollecitudine della risposta degli apparati di sicurezza. Questo perché molto spesso si riconducono a problematiche di sicurezza tematiche che, in realtà, riguardano fenomeni sociali diversi per quanto correlati. Ciononostante non siamo mai sfuggiti alle nostre responsabilità ed infatti, il governo ha avviato già a partire dalla prima sua legge di bilancio un percorso di rafforzamento degli organici che ha invertito un trend, consolidatosi negli ultimi anni, caratterizzato da un calo costante del numero di operatori del comparto sicurezza. Con il nostro governo finalmente i neoassunti tra le forze di polizia sono più di quanti vanno in pensione e questo saldo positivo ci sarà anche negli anni a venire. Inoltre, abbiamo incrementato il contingente dei militari per le operazioni di “Strade sicure” di 1800 ulteriori unità, con una aliquota importante dedicata alla sicurezza delle stazioni ferroviarie. È solo una delle promesse mantenute nei confronti di tutti i cittadini. Potrei aggiungere le significative risorse messe a disposizione del miglioramento delle retribuzioni dei poliziotti e, più in generale, per il funzionamento dell’intero sistema di sicurezza”. Lei ricorderà, qualche settimana fa, i commenti di tante donne che lamentavano di non essere state prese sul serio dalle forze di polizia. Non mi risponda che il bicchiere è mezzo pieno e che si fa già tanto; mi dica che cosa fare per il bicchiere mezzo vuoto... “Sarebbe ingrato non sottolineare l’impegno e la professionalità delle donne e degli uomini delle nostre forze di polizia che operano con particolare attenzione sul fronte della prevenzione dei femminicidi e della violenza di genere, reati particolarmente odiosi e allarmanti. Molti operatori delle forze di polizia si stanno specificatamente formando frequentando corsi dedicati alla preparazione ed all’aggiornamento per migliorare la capacità di gestione di questi casi. Miglioreremo sicuramente in tale direzione anche perché l’obiettivo principale resta quello di intercettare e comprendere le situazioni critiche prima che queste degenerino. Nella pratica non è sempre facile ma su questo c’è il massimo impegno del governo: abbiamo varato un pacchetto di misure, frutto in particolare del lavoro con i colleghi Nordio e Roccella, che comincia già a dare i primi risultati in termini di capacità di intervento”. Alla luce dell’ultimo scandalo che riguarda l’ex senatore Denis Verdini, teme un arrembaggio ai fondi pubblici, segnatamente quelli del Pnrr? “La massima attenzione che poniamo all’importante tema della prevenzione dell’inquinamento dei circuiti dell’economia legale precede e prescinde da alcuni indagini in corso, i cui esiti bisognerà verificare, che sono all’attenzione degli organi di informazione e che, per mia abitudine, non sono solito commentare. Ciò premesso gli investimenti sono fondamentali e irrinunciabili soprattutto se orientati alle infrastrutture che servono al sostegno allo sviluppo dei territori. E anche su questo il governo non arretrerà di un millimetro”. Strage di migranti, sui 61 morti in mare non possono esserci segreti di Ammiraglio Vittorio Alessandro* L’Unità, 31 dicembre 2023 Non avremmo saputo neanche degli annegati del 15 dicembre se la notizia non fosse stata diffusa da una fonte non istituzionale, come non accade mai per qualunque altro navigante. Parlo da ufficiale in congedo delle Capitanerie di porto (ma non ci si congeda mai da un impegno che ha segnato la propria vita) e da cittadino modestamente impegnato a mantenere alta l’attenzione sul soccorso in mare. Non capisco l’imbarazzo e il silenzio sui soccorsi in favore dei migranti: il celebrato comandante Todaro testimoniò la prevalenza delle ragioni etiche sul rigore degli ordini ingiusti. E se anche esistessero incertezze applicative sulle convenzioni e sulle leggi (così non è), chi ha scelto la missione di salvare vite umane non può che agire sempre in direzione più favorevole al soccorso, qualunque conseguenza ciò comporti e senza compromessi con possibili contrarie ragioni di Stato. Secondo Flavio di Giacomo, portavoce dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, quest’anno nel Mediterraneo centrale sono morte 2.271 persone, il 60% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: cifra approssimata per difetto, poiché di molte morti non sappiamo e non sapremo mai nulla, lontane come sono, anche se a poche miglia da qui, silenziose e terribili. Non avremmo saputo neanche dei 61 annegati del 15 dicembre se la notizia non fosse stata diffusa da una fonte non istituzionale, come non accade per qualunque altro navigante dovesse naufragare nel corso di un viaggio diretto in Italia. Sulla strage continua di uomini, donne e bambini non possono esserci segreti o tentennamenti. In occasione del Natale, la premier ha augurato “serenità e orgoglio”, ma - se le parole hanno un senso - quale serenità, quale orgoglio? *Ex portavoce della Guardia Costiera Afghanistan. La resistenza delle donne: “L’istruzione è la nostra unica arma per cacciare i talebani” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 31 dicembre 2023 Parla la fondatrice di una rete di scuole clandestine nel Paese che sta portando avanti una sistematica persecuzione di genere. “Non possiamo più fare niente, siamo escluse dalla vita sociale. Per questo rischiamo la vita pur di imparare”. “Sapevo che sarebbe andata così. Quando nell’estate del 2021 i talebani sono entrati a Kabul - mentre gli americani completavano il disordinato ritiro delle truppe e migliaia di persone cercavano disperatamente di lasciare l’Afghanistan- hanno usato proprio le stesse parole che avevano già detto nel 1996: che avrebbero reso il Paese sicuro seguendo i dettami della Sharia. E che le donne avrebbero potuto frequentare scuole e università”, ricorda Parasto Hakim, con la voce che ancora trema. E l’emozione che ogni tanto le fa mancare il respiro necessario a mantenere un tono stabile. “Mentono, dicevo tra me e me”. E così è stato. Oggi in Afghanistan le donne non possono fare più niente. Non possono frequentare la scuola se hanno più di 12 anni. Non possono lavorare, non possono andare al parco, non possono percorrere più di 72 chilometri se non sono accompagnate da un uomo. Non possono uscire se non indossano l’hijab in “modo adeguato”. Non possono prendere un aereo. Non possono andare al centro estetico. Un progressivo, inarrestabile, deterioramento dei diritti di oltre 20 milioni di cittadine, la metà della popolazione totale del Paese. La maggior parte minori, visto che l’età media è di 17 anni. È una vera e propria persecuzione di genere quella che i talebani stanno portando avanti nei confronti delle donne, una discriminazione sistematica, sessuale, economica e sociale in continuo peggioramento. Per proteggere le donne vittime di violenza le imprigionano, svela un recente rapporto delle Nazioni Unite. Perché la detenzione è la migliore forma di protezione per chi ha subito abusi, secondo i talebani. “Si tratta di gender apartheid”, ripete tante volte Hakim, delusa dall’occidente che ha abbandonato il popolo afghano in balia di persone a cui “nessun americano o europeo lascerebbe mai i propri figli. Perché noi dovremmo farlo?”, si chiede. “Con i talebani non si può parlare. Non conoscono il dialogo. Per farsi ascoltare usano armi, tortura e morte”. Hakim, che sceglie di far conoscere il suo vero nome nonostante le conseguenze a cui questo potrebbe portare, è tra le fondatrici di Srak, un network di scuole clandestine: “14 fino ad ora. Per permettere a più di 900 ragazze di accedere al sistema di istruzione. E a chi avrebbe voluto frequentare l’università di seguire i corsi online, di nascosto. Insegniamo anche attività pratiche, come cucire, tessere tappeti. Affinché le ragazze possano costruirsi la propria indipendenza e sfuggire ai matrimoni forzati”. Le scuole segrete sono stanze nascoste. In cui, strette l’una accanto all’altra, le alunne si siedono a terra e rischiano la vita pur di imparare. Tra queste ci sono anche donne adulte che avevano lasciato la scuola nel’96, quando i talebani hanno governato il Paese la prima volta. Stanche delle giornate vuote, di trascorrere il tempo senza far nulla. Dell’aver perso ogni speranza nella costruzione di un futuro migliore tanto che, dimostrano gli studi, il numero dei suicidi e di chi soffre di depressione è cresciuto molto tra le adolescenti da quando il divieto di frequentare la scuola è attivo, settembre 2021. Ancora più grande è il pericolo che vivono le insegnanti: “Se ci scoprono ci mettono i prigione o ci riempiono di botte. Ma non possiamo smettere. L’educazione è l’unica arma che abbiamo per contrastare il regime talebano, sperare che la realtà nel nostro Paese cambi. La conoscenza è l’unico strumento che abbiamo per comunicare con chi verrà dopo di noi. Se mai dovesse succedere di nuovo quello che sta succedendo oggi, le prossime generazioni devono sapere quanto stiamo facendo e dalla nostra esperienza trovare la forza per portare avanti la loro resistenza. Ecco perché anche se è rischioso voglio dire il mio vero nome”, sottolinea Hakim. Che non si rassegna. Vuole che dell’Afghanistan si parli. Delle condizioni in cui sono costrette a sopravvivere le donne. Del coraggio che ha chi si ribella. Della crisi sociale e umanitaria che devasta il Paese: “Sono trenta milioni le persone che necessitano assistenza, su 40 milioni abitanti. Manca il cibo. Già prima dell’agosto 2021 anni di siccità avevano devastato l’agricoltura. Le banche non hanno liquidità. L’area di Herat, nell’ovest, è stata colpita da tre terremoti solo quest’anno”, spiega Stefania Piccinelli, responsabile dei programmi internazionali dell’ong WeWorld che ha ricominciato a operare nel Paese subito dopo il ritorno dei talebani. “Diamo supporto alle donne capofamiglia. Sole che con figli a carico in un paese che non le considera. Sono più di due milioni. Vorremmo contribuire alla loro formazione, insegnare loro un mestiere. Ma non possiamo farlo visto le restrizioni del governo. Così diamo loro un contributo mensile da spendere come ritengono opportuno. Vediamo che la somma più grande viene utilizzata per comprare da mangiare, al secondo posto c’è la spesa per l’istruzione dei figli”, racconta Piccinelli sulla base dei dati che WeWorld ha raccolto. “Non possiamo lavorare direttamente nell’educazione soprattutto se vogliamo mantenere un approccio di genere. Ma cerchiamo di supportare le organizzazioni locali che operano per garantire l’accesso all’istruzione di tutti. Come fa Hakim. E di mantenere alta l’attenzione della comunità internazionale affinché non dimentichi che la possibilità di andare a scuola dovrebbe essere garantita anche nei territori in cui ci sono conflitti o crisi, perché accedere all’istruzione è un diritto umano che non ammette limitazioni. Necessario per la costruzione della pace”.