Carceri: Ha da passà ‘a nuttata… ma se quella nottata non finisce mai? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2023 Ci siamo illusi per anni, noi volontari che operiamo nelle carceri, che “dovesse passare la nottata”, sentivamo che “il malato era grave” ma speravamo che qualche cosa di buono potesse però ancora succedere. Papa Francesco ha affermato con forza che non ci può essere pena senza una finestra di speranza, sarebbe importante che dicesse anche quanto è doppiamente sadico socchiudere quella finestra, e poi richiuderla brutalmente. E invece è successo e succede di continuo per le carceri, è successo con l’ergastolo ostativo cacciato dalla porta dalla Corte Costituzionale e rientrato dalla finestra in una legge, che rende quasi impossibile l’accesso ai benefici per gli ergastolani ostativi che non hanno collaborato con la giustizia. È successo con il sovraffollamento, per cui la Corte europea ci aveva imposto di dare delle risposte, e delle risposte, per quanto parziali, erano state date, ma ora il sovraffollamento sta montando senza sosta e di risposte non se ne vedono. Scrive la madre di un detenuto “Sono la mamma di G. in carcere a Verona, da due anni e mezzo riflettevo che queste festività in questo periodo della mia vita mi farebbero un gran favore se sparissero dal calendario. Le accompagna una tristezza infinita!”. Ecco, in questi giorni di festa, che in carcere per le persone detenute, e fuori per i loro famigliari significano solo “una tristezza infinita”, mi viene in mente che nella prima sentenza della Corte Europea rispetto al sovraffollamento nelle carceri italiane, Sulejmanovic contro Italia, il giudice spagnolo Sajó aveva rilevato che, nel caso in esame, “non è stata la mancanza di spazio nella cella a costituire di per sé un trattamento inumano e degradante, quanto la mancata adozione da parte dello Stato membro di misure compensative supplementari volte ad attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla situazione di sovrappopolazione del carcere”. Possibile allora che nelle nostre carceri non si possa per lo meno pensare a delle “misure compensative”? Ricordo che alcuni anni fa l’allora direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano, in un incontro nella redazione di Ristretti Orizzonti, ci aveva detto che nel suo istituto lei applicava l’Ordinamento “allargando al massimo le maglie di quello che è consentito”. Ecco, in questo finale dell’anno drammatico, abbiamo letto analisi importanti sulla catastrofe delle carceri, sulle politiche che puntano a cercare consenso con l’illusione che più galera equivalga a più sicurezza. La situazione è pesantissima, e proporre piccoli rimedi sembra velleitario, ma il Volontariato ha il coraggio di continuare a combattere, con insistenza quasi ossessiva, non in nome di grandi sogni ma per “maglie della rete dell’Ordinamento allargate al massimo”, che riguardano prima di tutto gli affetti. Misure che potrebbero essere concesse da subito, senza dover cambiare la legge: - la telefonata quotidiana per tutti, anche per i detenuti di Alta Sicurezza, che è una boccata di ossigeno e una “protezione” concreta dal rischio suicidio (a Padova il direttore della Casa di reclusione alla fine ha deciso di mantenere, anche nel dopo Covid, la telefonata quotidiana per i detenuti comuni, ed è già un primo passo importante); - i colloqui con le cosiddette “terze persone”, che ora sono concessi a discrezione del direttore, sulla base di “ragionevoli motivi”. Ma perché una persona adulta in carcere deve far decidere a un estraneo se i suoi motivi per incontrare un amico, una persona cara, uno che è stato suo collega di lavoro sono “ragionevoli”? E perché chiamare “terza persona” una persona che, come mi ha detto un giovanissimo detenuto, “per me è la persona prima e più importante”? Non è ora di liberalizzare i colloqui con le “persone care”, chiamiamole così, che non sono “parenti entro il quarto grado”, ma contano nella mia vita, e delle quali voglio essere io detenuto a stabilire l’importanza? - Concedere tutti i colloqui in più che è possibile, oltre alle sei misere ore mensili, e per esempio l’opportunità di pranzare insieme alcune volte all’anno, e di avere quindi dei momenti di impagabile “quasi normalità”. L’arcivescovo di Milano Mario Delpini, nel suo tradizionale discorso alla città, quest’anno ha invitato a essere non “seminatori di paura”, ma “seminatori di fiducia”. Io in questi anni ho sentito molto parlare di speranza, ma oggi rispetto a queste carceri e a queste politiche per la sicurezza, invitare a sperare sembra un esercizio sterile di ottimismo incosciente. Parlare di “fiducia” invece è diverso, perché impone a ognuno di noi di fare la sua parte, di assumersi le sue responsabilità, di avere un atteggiamento fiducioso anche quando l’esperienza ti porterebbe ad avere uno sguardo più disincantato e più cinico. Nella Giustizia riparativa, si usa spesso il termine “equiprossimi”: il mediatore non è “equidistante”, è piuttosto “equiprossimo” rispetto alla vittima e all’autore di reato. È una parola che voglio prendere a prestito per fare un augurio: che il Volontariato diventi davvero “seminatore di fiducia” e che riesca ad avvicinare, a far sentire quindi un po’ “equiprossima” a chi abita le carceri, quella società dove tutti pensano di poter essere vittime di un reato, e quasi nessuno vuole riconoscere che la possibilità di sbagliare, di fare del male, di tradire la fiducia è di tutti, e nessuno si dovrebbe sentire del tutto e sicuramente innocente. Agnese Moro, a cui hanno ucciso il padre negli anni bui della lotta armata, ci ricorda sempre che “Non c’è nessuna persona che noi vogliamo che si perda, il cuore della nostra Costituzione è la preziosità di ogni persona”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti “Sono un essere umano, nulla di ciò che è umano mi è estraneo” di Rebecca Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2023 Lettera di una studentessa dell’Istituto Newton Pertini di Camposampiero (PD). Cara persona detenuta, uso un sostantivo così generale per cercare di racchiudere chiunque si trovi in uno stato di detenzione, e non una singola persona. Durante il 2023 ho avuto l’opportunità di avvicinarmi molto al tuo mondo anche grazie al progetto scuola/carcere proposto dalla mia scuola. Prima di questi progetti non mi ero mai preoccupata di cosa potesse significare passare il tempo in carcere e nemmeno di come quest’ultimo fosse organizzato, e penso di poter estendere questa mia noncuranza ed ignoranza a gran parte della società. Purtroppo la tendenza delle persone al di fuori della prigione è quella di distinguersi dai detenuti, come se la nostra mente si rifiutasse di credere che in fondo apparteniamo alla stessa specie; il fatto che voi siete dentro e noi fuori ci fa sentire potenti. Questo comportamento umano è già stato esaminato in particolare dopo la seconda guerra mondiale dove ha raggiunto il suo culmine, sono stati scritti anche numerosi libri a riguardo tra cui il più famoso “La banalità del male”, dove viene descritto con che facilità anche l’uomo più comune, se posto in condizione di poter far male ad un suo simile senza ripercussioni, trae godimento nel farlo. Da qui nasce il mio consiglio per poter migliorare queste credenze, penso che se venisse mostrata alla società l’umanità dei detenuti, questa non potrebbe essere ignorata e verrebbe riconosciuta. Molto significativa per me è stata una testimonianza di un ragazzo omicida che quando è uscito per un permesso premio dopo anni di carcere la prima cosa che ha fatto è stata quella di accarezzare un cane, e mi ha fatto pensare a quanto fosse banale tale azione. Come può un uomo con il “male” dentro voler accarezzare un cane? Presto però mi sono accorta dell’assurdità del mio pensiero, è infatti necessario, al fine della consapevolezza, riconoscere che ogni uomo possiede al suo interno una parte di bene e una parte di male, ciò che fa la differenza è il contesto. Se una persona cresce in un ambiente nel quale viene stimolato il male questo cresce nel tempo, sicuramente la volontà di commettere il reato è personale, ma le situazioni che hanno portato al momento del reato quelle non sono personali; l’ignoranza non è una scelta personale, se si viene mandati a lavorare dai genitori in giovanissima età. È tanto spontaneo e comodo puntare il dito contro di voi, detenuti, ci permette di crederci migliori, è più difficile ammettere che l’essere umano è una specie unica, se uno solo di noi arriva tanto in basso può arrivare chiunque altro. È ipocrita pensare che noi posti in una situazione simile non avremmo fatto le stesse cose per le quali sono state condannate, o meglio sono sicura che se in questo momento mi dessero una pistola in mano per uccidere una persona io rifiuterei anche per tutti i soldi del mondo, non parlo di questo, ma se fossi cresciuta in un ambiente dove le sparatorie avvenivano con normalità, e a scuola non avessi mai sentito parlare dell’importanza della vita, come farei ad attribuire un valore alla vita umana? In quel caso uccidere o non uccidere una persona risulterebbe indifferente, e se oltre tutto ricevessi un compenso cosa mi tratterrebbe dal premere il grilletto? La società non fa altro che nascondere questo male umano, forse per paura di affrontarlo e di riconoscere che in fondo ci appartiene. In questi ultimi anni però la situazione sta cambiando, ora in tanti hanno iniziato a capire che forse è più produttivo lavorare per tirare fuori il bene all’interno di ogni persona, per fornirgli la possibilità di migliorare. Un saluto, ciao. Dalla voragine del carcere vi racconto del nostro abbandono di Luigi Travaglia* Il Manifesto, 30 dicembre 2023 Il dibattito sulla detenzione lo seguiamo anche da qui, dalla tv. Hanno vinto le idee di vendetta e punizione perché soddisfano meglio gli istinti della piazza. Quando poco prima di mezzanotte rientro in carcere dopo una giornata di lavoro, in cella le luci sono già spente. L’unico chiarore che mi aiuta nel buio a evitare di inciampare e svegliare gli altri arriva dalla televisione che qualcuno si è dimenticato di spegnere la voce dei conduttori tv viene fuori dalle celle e raggiunge i corridoi, affianca i miei passi al secondo piano, evidentemente i miei compagni non sono gli unici a seguire l’attualità. La televisione è lo strumento principale attraverso cui i detenuti seguono le notizie, anche i dibattiti sul carcere. Nei programmi televisivi si parla poco della Costituzione Italiana, che ha imposto ai suoi rappresentanti di agire nell’interesse della collettività e di prevedere per i detenuti condannati un trattamento il meno degradante possibile e tendente alla rieducazione, mirante al reinserimento sociale. Se di questi principi possiamo ancora parlare è per lo più grazie al coraggio e alla volontà di educatori, mediatori, volontari, agenti e tante altre colonne portanti del sistema, che ogni giorno combattono e risignificano l’idea di pena e punizione; dall’interno e dall’esterno delle prigioni. Oggi, nonostante gli obblighi vincolanti, i governi si ostinano a non investire quanto dovrebbero per gli istituti penitenziari. Tale gravissima mancanza si trasforma in un abbandono consapevole di principi etici e costituzionali: nelle carceri si spalanca un’immensa voragine spazio temporale dove le istituzioni non hanno più memoria dei loro principi fondativi. All’interno della maggior parte degli istituti gli individui vengono più o meno abbandonati per tanto tempo quanto è giusto che sia e la presa in carico dello Stato si rivela carente sotto ogni punto vista. La privazione della libertà perde ogni possibilità di riscatto perché è stata scambiata come luogo sicuro dove parcheggiare le persone. Il lavoro che nel corso degli anni è stato fatto dagli istituti di reclusione come il carcere di Bollate a Milano è la prova che ripensare il carcere è una possibilità concreta, che ripaga sotto ogni punto di vista, tagliando di netto la recidiva. Implementare modelli più efficienti e funzionali, per il bene del paese, con nuove risorse, deve essere la strada. Non ce ne sono altre. Il principio della rieducazione deve essere reale e non la foglia di fico ormai lacera dietro la quale nascondersi, riformando tutto per far sì che nulla si riformi veramente. In carcere non succede nulla, si aspetta. Individuando ed isolando lo Stato sottrae il carnefice al linciaggio della folla. Il meccanismo dell’occhio per occhio dente per dente, tanto efficace quanto arcaico, in linea di principio non è ammesso dalle istituzioni che proprio per eludere questo funzionamento si arrogano il diritto contrattuale di imprigionare e rieducare. La giustizia non ragiona come gli individui ma come un organo di un’istituzione sovrana. Il principio della vendetta dovrebbe essere abolito o quantomeno addomesticato in virtù degli interventi da mettere in atto, dal e nel carcere. Ne hanno parlato Patrizio Gonnella e Mauro Palma sul manifesto negli ultimi due giorni. Tra la miriade di motivi per i quali questi interventi non riescono ad essere realizzati, uno tra i tanti è che intorno al discorso carcere si è finito per accettare, come dato di fatto, che al reinserimento sia stato sostituito l’abbandono. È stata favorita l’idea della vendetta e della punizione, che sicuramente soddisfa maggiormente gli istinti della piazza. Tra questi elementi, si innesta un corto circuito violento la cui scossa calcifica lo stato delle cose. Il carcere nella sostanza, è una vendetta, pensata non da un’istituzione sovrana che agisce nel bene dei cittadini, ma da un insieme di individui teoricamente rispondenti solo ai principi costituzionali ma praticamente influenzati dalle vicissitudini e dagli umori elettorali. La politica viola così platealmente i suoi doveri. La giustizia, che esce ed entra dai tribunali, sembra oscillare tra impunità, esemplarità e spettacolarizzazione: è morbosa la spettacolarizzazione delle traduzioni in carcere, dei luoghi del delitto, dei volti degli imputati. La strumentalizzazione del rapporto tra giustizia e carcere strizza l’occhio agli istinti giustizialisti della folla. Sotto questa luce l’esemplarità delle condanne in Italia, rafforzata dai nuovi decreti sicurezza, è la risposta più ovvia e più inutile alla richiesta di prevenzione. In un certo senso la recidiva sembra essere sistemica, un circolo vizioso volutamente ignorato perché in fin dei conti offre sempre nuovo materiale da sacrificare sugli altari elettorali dai quali si ergono nuovi paradigmi securitari all’insegna della criminalizzazione della povertà. Fino a che non riconosceremo l’ipocrisia dei governi, dello sberleffo alla Costituzione, la repressione resterà lo strumento principe per portare ordine. Dividendo con brutalità i figli sani della società da quelli malati. *Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 60.045 detenuti nelle carceri italiane. La società e la rendita materiale e culturale della galera di Adriano Sofri Il Foglio, 30 dicembre 2023 Fra i meccanismi che hanno storicamente portato al sistema carcerario, alla sua ipertrofia e alla sua irriducibilità al senso di umanità e al buonsenso pratico c’è l’interesse di una vasta gamma di categorie che del carcere vivono: e non sono soltanto né tanto i carcerieri. Uno che avesse il talento di Jonathan Swift potrebbe raccontare, piuttosto che la galera come specchio della società, la società come rendita materiale e culturale della galera. Si potrebbe raccontare il sovraffollamento della società come una vorace funzione del sovraffollamento della galera. Non è il numero di criminali, veri o presunti, e di detenuti, veri, a giustificare il numero di carcerieri giudici avvocati poliziotti impiegati giornalisti preti fornitori assistenti geometri fabbri ferrai legislatori e usufruttuari psicologici, ma viceversa. La società dei liberi si nutre di galera come i vetrai dei vetri rotti, e non di rado paga qualche scugnizzo perché la preceda a tirare sassi. (Scritto trent’anni fa, venti, dieci, oggi, domani). (Buon anno: 1964, 1984, 2004, 2024, eccetera). Il 2023 delle carceri italiane di Enrico Cicchetti Il Foglio, 30 dicembre 2023 I punti critici sono sempre gli stessi: tasso di crescita dei detenuti, sovraffollamento, istituti fatiscenti. Ci sono stati 68 suicidi dietro le sbarre nell’anno appena trascorso. Migliorano percorsi formativi e istruzione. Un rapporto di Antigone. Dopo avere partecipato alla messa del 24 dicembre nel penitenziario della sua Treviso, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha ribadito che occorre “potenziare le occasioni di lavoro per i detenuti” e investire “sul reinserimento”. Ancora però non si vede all’orizzonte nessun progresso del piano che il guardasigilli aveva avanzato quest’estate in risposta all’emergenza sovraffollamento nelle carceri. Un piano che avrebbe dovuto guardare anche al riuso delle caserme dismesse come luoghi di detenzione per i detenuti a bassa pericolosità oltre che al lavoro formativo e professionalizzante per chi è dietro le sbarre. Del resto, già ad agosto Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, l’associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, aveva detto al Foglio che la proposta di Nordio, “non sta in piedi né sul piano teorico né su quello pratico”. Da un lato perché un carcere ha bisogno di un’architettura pensata appositamente, “in grado di rispettare gli standard internazionali riguardanti gli spazi della detenzione”. Nella pratica perché “si tratta di un processo lungo e costoso”. Ora Antigone ha pubblicato un nuovo micro rapporto sulla situazione carceraria. I punti critici sono sempre quelli che vengono segnalati da anni: il tasso di crescita della popolazione detenuta è allarmante, il tasso di affollamento degli istituti è in aumento, lo spazio a disposizione dei detenuti, in carceri sempre più fatiscenti, diminuisce. La popolazione detenuta cresce sempre più velocemente, dice la onlus. “A fronte dei 51.272 posti ufficialmente disponibili (anche se in realtà ce sono circa 3.000 in meno perché, nei fatti, a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione, la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale), erano 60.116 le persone detenute il 30 novembre. L’attuale tasso di crescita è estremamente allarmante. Nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) i detenuti sono aumentati di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si era registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. Insomma, non solo la popolazione detenuta cresce, ma cresce sempre di più. Se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con il ritmo attuale tra un anno saremo oltre le 67.000 presenze, come ai tempi della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma appunto, c’è da aspettarsi che questo ritmo di crescita acceleri ulteriormente, e che a quei numeri si arrivi ancora prima”. In questo contesto il tasso di affollamento ufficiale è oggi del 117,2 per cento, ma a fronte di questo valore medio in Puglia siamo ormai al 153,7 per cento (4.475 detenuti in 2.912 posti), in Lombardia al 142 per cento (8.733 detenuti in 6.152 posti) e in Veneto al 133,6 per cento (2.602 detenuti in 1.947 posti). La situazione in molti istituti è poi gravissima. A Brescia Canton Mombello l’affollamento è ormai al 200 per cento, a Foggia al 190 per cento, a Como al 186 per cento e a Taranto al 180 per cento. Numeri che rispecchiano condizioni invivibili ma che nei prossimi mesi sono destinate a peggiorare. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia. Sono stati 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022. Ad oggi nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 68 persone. Gli istituti in cui si sono registrati più suicidi sono Torino, Terni, Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano. In ognuno di questi istituti quest’anno si sono uccise 4 persone. Quasi tutti si sono tolti la vita impiccandosi, una piccola percentuale asfissiandosi con la bombola del gas e per sciopero fame. Se non aumenta lo spazio, aumentano almeno le altre risorse necessarie per gestire il carcere? Per esempio il personale? “Confrontando i dati raccolti durante le nostre visite”, scrive Antigone, “parrebbe di sì se si guarda ai funzionari giuridico pedagogici (educatori). Erano in media uno ogni 87 detenuti nel 2022, sono diventati uno ogni 76 detenuti nel 2023. Ma restano forze del tutto inadeguate in rapporto alle presenze. Se si guarda invece al personale di polizia penitenziaria si registra invece un calo in rapporto alle presenze. C’era in media un agente ogni 1,7 detenuti nel 2022, ed uno 1,9 detenuti nel 2023”. “Sembrano invece finalmente aumentare le opportunità di formazione professionale. Gli iscritti sono stati 3.359 nel primo semestre del 2023, contro i 2.248 del primo semestre del 2022. Impressionanti le disparità per regione. In Lombardia (8.733 detenuti) ci sono stati 840 iscritti. In Campania (7.303 detenuti) solo 130. In crescita anche le persone coinvolte nei percorsi di istruzione. Sono stati 19.372 nell’anno scolastico 2022-2023, e i promossi 3.946, contro rispettivamente i 17.324 e 3.192 dell’anno scolastico 2021-2022”. Sul carcere un anno di sole promesse. “Servono più misure alternative” di Fulvio Fulvi Avvenire, 30 dicembre 2023 Nel 2023 sono aumentate le presenze: 12.715 i detenuti in più rispetto ai posti disponibili nei 192 istituti di pena. Ora l’Italia rischia una condanna della Corte Europea dei diritti umani. Il garante Mauro Palma: “Nessun piano di rieducazione è possibile per i circa 10mila ristretti che devono scontare in prigione pene minime, il territorio deve interagire e offrire opportunità”. Gonnella (Antigone): “È allarme: governo e parlamento mettano il tema della riforma penitenziaria come priorità” Nuovi delitti, inasprimento delle pene, più strumenti di controllo: ma il “pugno di ferro” di governo e parlamento contro la criminalità per garantire “sicurezza sociale” non è servito finora a fermare la crescita della popolazione carceraria che ha raggiunto in Italia livelli mai visti con la possibilità di una nuova condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo “per trattamenti inumani e degradanti” in violazione dell’art. 3 della Convenzione. E sulla riforma del sistema penitenziario ancora troppi silenzi e promesse non mantenute. Presenze in rapida ascesa - Il sovraffollamento delle carceri (con un tasso che ha raggiunto quest’anno il 117,2%) è un’emergenza destinata a produrre molteplici effetti negativi sulla società civile. In base ai dati del ministero della Giustizia, ieri mattina le persone ristrette nei 192 istituti di pena presenti nel Paese risultavano 60.046 a fronte di 47.331 posti effettivamente disponibili: 12.715, dunque, le unità in “esubero”, con un incremento medio di 400 al mese. E si tratta di quasi tremila detenuti in più rispetto a quelli registrati il 31 dicembre del 2022 che erano 56.349. “Ma il problema vero, e preoccupante, è che dal 1° settembre ad oggi - precisa Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale - non c’è stato un aumento costante ma un’accelerazione: in quattro mesi i ristretti sono cresciuti di 1.700 unità. E non si tratta di un maggior numero di persone entrate in cella in questo periodo ma di meno uscite, ed è anche diminuito il numero dei detenuti in attesa di giudizio”. Cosa accadrà nei prossimi mesi? Un problema politico - Il fenomeno delle “carceri polveriera” pronte ad esplodere da un momento all’altro con aggressioni e rivolte rischia di diventare davvero ingovernabile se non ci saranno iniziative legislative in grado di rendere i luoghi di detenzione più vivibili e a dimensione umana. Le strutture sono in gran parte fatiscenti e inadeguate, gli organici della polizia penitenziaria ovunque carenti. “È un problema politico che non interroga direttamente il carcere, non è di sua competenza - dice Palma - perché nessun piano di rieducazione è possibile per reclusi che devono scontare pene brevi o brevissime: sono poco più di 9mila, infatti, quelli con condanne da un mese a 3 anni, per i quali, semmai, il periodo di detenzione è soltanto una sottrazione di vita”. Tanto più che per la maggior parte si tratta di persone povere economicamente, senza fissa dimora, con problemi di salute mentale, privi di difesa legale o stranieri con difficoltà di comprensione. “Il carcere a loro non può dire “non ti voglio”, se li deve tenere, anche se non riuscirà mai a far fronte da solo alle conseguenze nefaste del sovraffollamento. Deve essere il territorio, invece, a intercettare le difficoltà esistenti nel contesto sociale, le debolezze e le fragilità, a interagire a livello culturale - sostiene il Garante - rispetto alla dispersione scolastica, per esempio, non con misure penali però, come è stato fatto per Caivano (in carcere i padri che non mandano i figli a scuola, ndr) ma con i maestri di strada, con gli oratori, i centri di aggregazione, la presenza delle istituzioni, degli operatori sociali, delle associazioni di volontariato, assegnando più risorse ai centri di salute mentale”. Le soluzioni necessarie - Ma c’è bisogno, innanzitutto, di portare altrove i detenuti che devono espiare pene brevi, creare apposite strutture di riabilitazione che formino al lavoro e al senso civico. Altrimenti quando tornano nella società civile rischiano di diventare peggiori di prima. “E non bastano le misure alternative - conclude Palma - a cui sono state sottoposte nell’anno che si sta per concludere 84.023 persone. Bisogna preparare i ritorni per quei 48mila che sono destinati a rimanere dentro fino alla fine della pena”. Ma per farlo serve una rivoluzione culturale basata su un presupposto: “La parte sana della società deve saper leggere la parte malata”. E sulle soluzioni da adottare di fronte all’”emergenza carceri”, concorda anche l’Associazione Antigone. “Lanciamo oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. La politica ponga il tema al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte” dichiara il presidente Patrizio Gonnella. In base alle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in 25 istituti (33%), c’erano celle in cui non erano garantiti 3 metri quadrati calpestabili per ogni persona detenuta. A destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti edifici carcerari: il 31,4 % è stato costruito prima del 1950. La maggior parte addirittura prima del 1900. Nel 10,5% le celle erano riscaldate e nel 60,5% non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. E, ancora, nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia e nel 34,2% non esistono spazi per lavorazioni, nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante, nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. “Le politiche governative dell’ultimo anno non hanno di certo aiutato il sistema penitenziario. Abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone, soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico, all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione”. Il carcere non sia più l’unica risposta al crimine e la detenzione rispetti sempre la dignità umana di Guido Stampanoni Bassi* Avvenire, 30 dicembre 2023 I recenti suicidi in cella e la grande lezione del Pontefice: puntare al reinserimento dei condannati. Poche settimane fa, durante il secondo atto della prima della Scala “diffusa” nella casa circondariale di San Vittore a Milano, un detenuto si è impiccato ed è poi morto nella notte. Più o meno nelle stesse ore, un altro detenuto si è impiccato nella casa circondariale di Verona Montorio (ed era il terzo, in quel carcere, nell’ultimo mese). Sebbene il tragico problema dei suicidi in carcere si sia accentuato negli ultimi anni - sono stati addirittura 84 nel 2022 e 68 nel 2023 (numero che non si toccava dal 2001) con un’età media di appena 40 anni - si tratta di un fenomeno che affligge la nostra società ormai da decenni e sul quale, come ha recentemente ricordato Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone), è giunto il momento che le buone intenzioni si trasformino in atti concreti. Altrimenti, come scriveva De André in Don Raffaè, continueremo ad assistere aduno Stato che, all’ennesima ingiustizia sulle prime pagine dei giornali, “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. Per comprendere la portata del problema, credo sia molto utile rileggere le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione di due discorsi tenuti, nel 2014 e nel 2019, a favore dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale. Nel primo intervento, il Pontefice avvertiva i penalisti sui pericoli del “populismo penale” e ricordava quanto si sia diffusa, negli ultimi decenni, la convinzione che attraverso la pena si possano risolvere i più disparati problemi sociali - “come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandatala medesima medicina” - sulla base della credenza di poter così ottenere, quasi si usasse una bacchetta magica, “quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale”. Tra i danni causati da questa grave forma di populismo, il Pontefice annoverava anche lo snaturamento del sistema penale (con il rischio di mettere in discussione anche la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato), l’allontanamento dal principio secondo cui il diritto penale dovrebbe essere invocato come extrema ratio e, non ultimo, l’affievolimento del dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. La missione dei giuristi - ricordava Papa Francesco - deve essere quella di limitare o contenere tali tendenze, compito non facile se si considera che “molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione di mezzi di comunicazione di massa, politici senza scrupoli e pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”. Se a questo compito sono chiamati in primo luogo i giuristi, tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà dovrebbero impegnarsi al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà (impegno che il Pontefice ricollegava anche alla pena dell’ergastolo, definita una “pena di morte nascosta” e, per questo, non più presente nel codice penale del Vaticano). Quanto alle condizioni dei detenuti e al tema della carcerazione preventiva, da un lato, si poneva l’attenzione sulle deplorevoli condizioni detentive (le quali “costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante”) e, dall’altro, si osservava come il trattamento riservato a determinati detenuti - caratterizzato da mancanza di stimoli sensorial1 impossibilità di comunicazione e mancanza di contatti con altri esseri umani - “finisca col provocare sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso che incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”. Cinque anni dopo, il Pontefice ribadiva alcuni di questi concetti e si soffermava anche sul tema della giustizia riparativa (di cui tanto si sta parlando in queste settimane, non sempre in termini corretti). Partendo dal presupposto che in ogni delitto c’è una parte lesa ma due sono i legami danneggiati - quello del responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la società - Papa Francesco ricordava come il compimento di un male non debba mai giustificare l’imposizione di un altro male come risposta, dovendosi perseguire l’obiettivo di “fare giustizia” e non quello di “giustiziare” l’aggressore. Nella visione cristiana del mondo, il modello della giustizia dovrebbe ispirarsi - ricordava il Pontefice - proprio alla vita di Gesù che, dopo essere stato trattato con disprezzo e violenza, ha portato un messaggio di pace, perdono e riconciliazione. Allo stesso modo, osservava Papa Francesco riprendendo le parole della professoressa Severino, le carceri devono avere sempre una “finestra” (un orizzonte) e devono guardare ad un reinserimento del detenuto. Nonostante gli anni passati, i numeri del 2023 ci confermano come l’odierna società sia caratterizzata dalle stesse identiche caratteristiche individuate dal Pontefice nei suoi interventi: il sistema penale è fuori controllo e, in spregio alla sua natura di extrema ratio, si continua a proporre una versione quasi esclusivamente “carcerocentrica” (“facciamoli marche in galera e buttiamo via la chiave”). Inoltre, un determinato modo di fare (e di “comunicare” la) politica finisce inevitabilmente con l’alimentare sensazione di insicurezza e voglia di vendetta - più che di giustizia - come risulta dimostrato dal fatto che più del 40% degli italiani sarebbe favorevole alla pena di morte per determinati delitti. Oltre tante belle parole, non sembra si stia intervenendo concretamente per risolvere il problema. Basti pensare che, in questa legislatura, al di là dei nuovi reati e dell’innalzamento del trattamento sanzionatorio di quelli già esistenti, è stata presentata una proposta di legge che, modificando Part 27 della Costituzione, punta a consentire al giudice l’applicazione, per esigenze di difesa sociale, di “pene esemplari sito di proporzionalità della pena) e, recentemente, si è pensato di criminalizzare la “resistenza passiva” adottata in carcere come forma di protesta. l’allineamento delle condizioni detentive a standard conformi al senso di umanità passa, oltre che dalla riduzione del cronico sovraffollamento, dal riconoscimento di diritti (proprio in questi giorni si discute di quello alla affettività) e maggiori possibilità di interazioni (telefonate, permessi premio, colloqui...) nel rispetto, naturalmente, di tutte le opportune valutazioni in punto di sicurezza. Ne ha ricordato l’importanza la Corte Costituzionale in una sentenza del 2018, osservando come “anche chi si trova ristretto deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. In questo contesto, le parole di Papa Francesco risuonano quanto mai attuali e dovrebbero fungere da monito -per giuristi e non - per la diffusione di una cultura che, rifuggendo dal ricorso al carcere quale unica soluzione, tenga ben saldi i principi scolpiti nella nostra Costituzione, tra i quali, in particolare, quello secondo cui le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. *Avvocato e direttore della rivista “Giurisprudenza Penale” Contro la barbarie nuove carceri per garantire dignità ai detenuti di Giovanni Salvi* La Stampa, 30 dicembre 2023 Quando si parla di sovraffollamento il problema sono le strutture, non l’alto numero di prigionieri. I nuovi penitenziari dovranno essere pensati con spazi di inserimento al lavoro. Sulla Stampa del 28 dicembre Donatella Stasio, a fronte del drammatico sovraffollamento nelle carceri, indica la scelta cui si avvicinò nel 2013 la Corte costituzionale, il numero chiuso. La Corte non fece il passo decisivo e demandò la soluzione al Legislatore. La Corte Suprema degli Stati Uniti impose invece, nel 2014, proprio quel meccanismo. Nella celebre sentenza La Plata, infatti, essa stabilì che la dignità del detenuto prevale sulle esigenze securitarie e indicò nel 135% il limite massimo rispetto alla capienza, oltre il quale lo Stato ha l’obbligo di scarcerare - secondo criteri di sua scelta - i detenuti in eccesso. Il giudice conservatore Antonin Scalia, in una opinione dissenziente molto decisa, arrivò a scrivere che la Corte metteva in libertà tre divisioni di delinquenti (46 mila detenuti oltre il limite). Il principio affermato non è diverso da quello che portò la Procura generale, durante il Covid, a indicare alle Procure della Repubblica, competenti per l’esecuzione delle misure restrittive, la via della prevalenza del diritto alla salute sulla sicurezza. È difficile fare paragoni. Gli Stati Uniti ricorrono alla carcerazione con estrema facilità, tanto da essere al sesto posto al mondo nel rapporto tra detenuti e popolazione. L’Italia, invece, non è affatto il Paese del carcere, come sembrerebbe dal senso comune diffuso negli interventi di questi giorni. Questo punto è però, a mio parere, centrale. Il sovraffollamento non dipende affatto da un elevato numero di detenuti, ma dalla inadeguatezza delle strutture carcerarie. L’Italia è attualmente al 150° posto nella graduatoria mondiale per rapporto tra detenuti e popolazione e segue di molto Paesi europei come la Francia, la Gran Bretagna, il Portogallo e la Spagna, secondo i dati al 31 ottobre di quest’anno del World Prison Brief. Eppure, nessuna di queste nazioni ha un livello di criminalità endemica paragonabile a quello italiano. È vero che i grandi successi nel contrasto alla criminalità organizzata dal 1992 hanno portato a una radicale diminuzione degli omicidi. Ma questo risultato si è ottenuto anche al prezzo di un gran numero di detenuti di alta sicurezza, oltre 10 mila, in massima parte membri di associazioni mafiose. Questo dato altera le comparazioni internazionali, perché reati per noi ormai bagatellari e procedibili a querela sono altrove considerati gravi. Dunque, l’Italia non è il Paese del carcere e lo sarà ancor meno quando si vedranno gli effetti delle ulteriori misure previste dalla riforma Cartabia. L’Italia è invece il Paese dove vengono detenuti soprattutto i marginali. Sono infatti oltre il 30% i detenuti di origine straniera, mentre pochissimi quelli per reati tipici dei colletti bianchi. Una detenzione ben mirata, che colpisce prevalentemente gli emarginati. Tra questi, più di mille sono doppiamente discriminati. Essi scontano pene brevi, ma non possono beneficiare di misure alternative in quanto privi di domicilio, perché immigrati o perché rifiutati dalle famiglie. Che fine ha fatto il programma ministeriale avviato qualche anno fa, fortemente stimolato dalla Procura generale, per la ricollocazione di questi detenuti in alloggi controllati, messi a disposizione dalle Regioni? Vi erano stati primi risultati molto positivi, con effetti anche deflattivi. Si procede su questa strada? Un approccio non ideologico al tema del carcere vorrebbe dunque che si realizzasse un numero di posti negli istituti penitenziari rapportato alle effettive esigenze, adeguato a un Paese civile per qualità degli alloggi e per disponibilità di strutture volte al reinserimento sociale o alla cura. Le esigenze, poi, vanno rilevate non sui propri desideri, ma sulla realtà di un Paese con livelli diffusi di criminalità, anche grave. Meglio un posto in più che molti in meno. E non se ne abbia paura, perché - si afferma da taluno - se aumentano i posti in carcere, aumenterà anche il numero di detenuti. Non si possono far soffrire coloro che scontano la pena oggi, in vista di un futuro migliore. Inoltre, le misure alternative al carcere sono ormai fortemente radicate nel nostro ordinamento e farle funzionare vuol dire anche far sì che esse non svolgano una impropria funzione deflattiva, ma quella per cui sono nate: rapportare la specie della pena a colui che la deve espiare, realizzando quotidianamente il principio del carcere come ultima ratio, volto al reinserimento sociale del reo. Solo questo, credo, contrasterebbe efficacemente il rischio del pendolo dell’opinione pubblica, pronta a ritornare alla richiesta di più carcere sotto la pressione di politiche securitarie, di cui si avverte già il peso, con la creazione di nuovi, fantasiosi reati. Questo pernicioso approccio si contrasta prendendo la sicurezza sul serio, coniugandola con i valori costituzionali. I nuovi istituti dovranno essere concepiti avendo come stella polare il reinserimento sociale, con spazi adeguati ai percorsi di risocializzazione e alla possibilità di lavorare. È questo il nodo da affrontare: non far pagare alla persona privata della libertà scelte politiche sbagliate e fare invece prevalere nell’immediato la tutela della sua dignità; lavorare al contempo, con determinazione e con le risorse necessarie, per creare nuove strutture, concepite sin dall’origine per garantire il rispetto della dignità e dunque il diritto al lavoro e ai percorsi di risocializzazione. *Già Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Nuovi (inutili) reati e pene esemplari: crolla il Pil del diritto penale liberale di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 30 dicembre 2023 Se esistesse un PIL del diritto penale liberale e del giusto processo, credo che con l’anno che si chiude saremmo scesi a livelli di crisi piuttosto preoccupanti. Anziché procedere sulla strada del diritto penale minimo, caposaldo di un diritto penale liberale, abbiamo assistito ad una superproduzione normativa di nuove fattispecie di reato. Dentro e fuori il pacchetto sicurezza si contano credo una quindicina di nuove ipotesi di reato: riguardano i contesti sociali e criminali più disparati e trovano nei fatti di cronaca i loro spunti opportunistici. Dai rave, alla rivolta carceraria, dall’imbrattamento dei monumenti all’intralcio stradale, dall’accattonaggio all’omicidio navale, dall’occupazione abusiva di immobili all’uso delle armi in luogo pubblico, dal piccolo spaccio all’abbandono scolastico. Ma a preoccupare non è solo il numero degli interventi ma la nuova tavola valoriale che li modella. L’uso delle pene al di fuori dei criteri di proporzionalità. Il punire comportamenti che non erano mai stati ritenuti offensivi, come la resistenza passiva (tipica forma di protesta non violenta), trasformata addirittura in elemento costitutivo di ben più gravi reati, come quelli di rivolta. L’estensione dei reati di opinione come l’indistinta e obliqua figura di illecito che colpisce i presunti istigatori: il richiedere, il sostenere e il sollecitare il rispetto dei diritti dei detenuti come potenziale fonte di responsabilità penale. Inquieta il proliferare di misure straordinarie che incidono sulla libertà personale, come l’arresto differito nei reati di stalking, e il Daspo da luoghi e mezzi destinati al trasporto comminato ai presunti autori di reati contro il patrimonio. Si va manifestando con queste forme un nuovo rapporto fra cittadino e autorità, nel quale le soglie di pena anche per offese minime nei confronti delle forze dell’ordine sono moltiplicate, a favore di una indistinta criminalizzazione che finisce con il coinvolgere ogni forma di dissenso e di disagio sociale. Così come accade per i CPR, luoghi di privazione della libertà senza colpa, dove a fronte di condizioni sub- umane dei trattenuti, l’unico intervento è l’estensione dei rimedi repressivi. Si introduce così sia nelle carceri che nelle città un principio di obbedienza che sembra sostituirsi al principio del rispetto reciproco, della tolleranza, della mitezza, della proporzione. In questo ribaltamento valoriale, la tutela della maternità e dell’infanzia divengono recessivi rispetto alla presunta difesa da reati di strada bagatellari spropositatamente insufflati e pubblicizzati dai media. Nonostante l’atroce realtà del numero dei suicidi in carcere e delle condizioni di sovraffollamento in alcune realtà prossime al collasso, carcere e pena restano al centro della scena normativa. L’inumanità e il degrado della condizione carceraria non bastano a far comprendere l’urgenza di un’inversione rapida di rotta, verso l’elaborazione di un progetto di riforma radicale dell’esecuzione penale ben diverso da quello ossessivamente riproposto della edificazione di nuove carceri. Giace d’altronde minaccioso il disegno di riforma costituzionale dell’art. 27 con la quale si vuole mettere all’angolo, oscurandolo, il principio di rieducazione scritto in quell’articolo della Costituzione, al fine di far invece brillare di luce propria la funzione intimidativa e retributiva della pena e di consentire al giudice di comminare “pene esemplari”. Il che significa l’infliggere una pena che non è commisurata alla responsabilità personale del singolo, magari un poveraccio scelto per caso, la cui esperienza sia di monito per la collettività intera. D’altronde lo stesso Ministro Nordio ha più volte ribadito che aumentare le pene non riduce affatto il numero dei reati, ma è utile a dare un segno di attenzione e di presenza dello Stato. Il che significa che la sicurezza dei cittadini è affidata a questo segnale simbolico di vicinanza. Per non dire - dovendosi accontentare dei simboli - di quell’unico reato che si sarebbe dovuto abrogare, l’abuso d’ufficio, che invece è ancora vivo e vegeto sostenuto da tali e tante voci interne alla magistratura da potersi attendere prima o poi una triste palinodia governativa. Al tempo stesso lo schema della pena senza prova e senza processo delle misure di prevenzione dilaga ovunque, indifferente ai segnali della Cedu, nei contesti più disparati. Ma se per il diritto penale si chiude un annus horribilis, per il processo penale il quadro non è migliore, perché il suo volto esce alterato nei suoi tratti essenziali dell’oralità e dell’immediatezza, dalla riforma Cartabia. Ne esce profondamente modificato il rapporto stesso fra difensore e processo, disarticolato in molteplici sottosistemi sanzionatori che spingono verso una nuova figura di avvocato- mediatore, nonché anche il rapporto del difensore con il suo assistito. Qui il difensore è collocato in un ruolo subalterno che ne umilia la funzione sottraendogli il potere di impugnare una sentenza ingiusta. Se è vero che, come insegna il nostro giudice delle Leggi “al riconoscimento della titolarità dei diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere”, quando il diritto in gioco è un diritto fondamentale come quello di impugnare una sentenza ingiusta, questo potere non può essere limitato da formalismi sproporzionati al bene oggetto di tutela, che è quello della libertà personale. Se poi è lo Stato stesso a conferire il mandato al difensore d’ufficio, quel mandato non può che essere pieno ed incondizionato e non può essere subordinato ad ulteriori irragionevoli adempimenti formali. La rimozione di questi ostacoli è urgente e fondamentale ma deve essere solo l’inizio di un più ampio progetto riformatore. L’avvocatura consapevole del proprio difficile ma indispensabile ruolo sociale di difesa delle libertà e delle garanzie di ogni cittadino non farà mancare la sua voce e l’autorevolezza della propria azione. L’indifferibile rifondazione del modello accusatorio passa infatti evidentemente attraverso un lavoro più ampio e più complesso, ma al quale occorre dare impulso con tutte le energie e gli strumenti disponibili. Si apre dunque per i penalisti italiani un anno di impegno straordinario, perché non si tratta solo di difendere, in un confronto serrato con il Governo ed il Parlamento, le fondamenta del giusto processo e del diritto penale liberale da un assalto massiccio, ma anche di ricostruire faticosamente le basi di un nuovo rapporto fra la cultura del Paese e la cultura del processo penale, attraverso un dialogo costante con la società, con la politica e con tutte quelle voci all’interno della magistratura che hanno a cuore la difesa dei diritti e delle garanzie dell’imputato come valori democratici irrinunciabili. Si tratta di una riedificazione che passa inevitabilmente attraverso la difesa dei valori costituzionali posti a tutela delle libertà fondamentali del cittadino e del diritto di difesa, ma questo implica evidentemente anche un richiamo diretto ed inequivoco al ruolo dei giudici che saranno chiamati ad applicare quelle leggi ed al ruolo della Corte costituzionale, che si ricordi di essere ultima garante nella salvaguardia della legalità sostanziale e del giusto processo. *Presidente Ucpi Trecentosessantacinque giorni di gogna giudiziaria di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 dicembre 2023 Dalla “trattativa stato-mafia” al Ruby-ter, dall’ex calciatore Michele Padovano ai vertici di Monte dei Paschi di Siena, dalla loggia Ungheria ai genitori di Matteo Renzi. Anche nel 2023 sono stati numerosi i processi e le indagini crollati in sede di giudizio, spesso dopo inchieste eclatanti, arresti preventivi e sputtanamento mediatico dei malcapitati. Torna la rassegna del Foglio sui principali casi emersi nel corso dell’anno che sta per concludersi. Gennaio Ribaltando la sentenza di condanna in primo grado a undici anni di reclusione, la corte d’Appello di Roma assolve dall’accusa di corruzione, con formula piena “perché il fatto non sussiste”, il consigliere di stato Nicola Russo. L’inchiesta della procura di Roma aveva destato scalpore mediatico, portando nel 2019 il magistrato ai domiciliari. “Per me e la mia famiglia è la fine di un incubo, la fine di lungo, brutto sogno”, commenta Russo. La corte d’appello di Torino assolve Michele Padovano, ex calciatore della Juventus e della Nazionale italiana, dall’accusa di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. L’ex attaccante fu arrestato nel 2006 con l’accusa di aver prestato soldi a un suo amico, ritenuto capo di un gruppo dedito al traffico internazionale di droga. In primo grado Padovano venne condannato alla pena di 8 anni e 8 mesi di reclusione, ridotti a 6 anni e 8 mesi in appello. Nel gennaio 2021 la Cassazione annullò le condanne, disponendo un nuovo giudizio d’appello, giunto a gennaio a distanza di 17 anni dall’arresto: assoluzione. A causa dell’inchiesta, Padovano trascorse tre mesi in carcere e nove mesi ai domiciliari. “Dopo 17 anni finalmente abbiamo rivisto la luce. E le assicuro che 17 anni, sapendoti innocente, sono tanti”, dichiara al Foglio. L’imprenditore Alfredo Romeo è assolto “perché il fatto non sussiste” dal tribunale di Roma in relazione all’accusa di turbativa d’asta nell’ambito della gara Fm4 indetta da Consip. La vicenda risale al 2014 e la gara d’appalto aveva un valore di quasi 3 miliardi di euro. I giudici fanno cadere le accuse anche per gli altri undici imputati. Febbraio Al termine di un processo durato sei anni, il tribunale di Milano assolve Silvio Berlusconi dall’accusa di corruzione in atti giudiziari nel processo Ruby ter, insieme agli altri 28 imputati. La procura milanese accusava il leader di Forza Italia di aver pagato, a partire dal novembre 2011 e fino al 2015, circa 10 milioni di euro alle ospiti di Arcore per essere reticenti o mentire durante i processi Ruby (in cui Berlusconi è stato assolto) e Ruby bis sulle serate di villa San Martino. Per Berlusconi la procura aveva chiesto una condanna a sei anni. Il tribunale di Palmi assolve l’ex consigliere regionale della Calabria, Domenico Creazzo, eletto nel 2020 nelle liste di Fratelli d’Italia, dall’accusa di scambio elettorale politico-mafioso. Creazzo venne arrestato pochi giorni dopo l’elezione, quando era ancora sindaco del piccolo comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, nell’ambito di un’inchiesta anti ‘ndrangheta denominata “Eyphemos”, condotta dalla Direzione nazionale distrettuale antimafia di Reggio Calabria. A causa dell’inchiesta, Creazzo ha trascorso 17 mesi agli arresti domiciliari. Nei suoi confronti la procura aveva chiesto la condanna a 16 anni di reclusione, ma alla fine è stato assolto con la formula piena, “perché il fatto non sussiste”. Dopo cinque anni il tribunale di Monza assolve l’ex giudice Gerardo Perillo dalle accuse di associazione a delinquere finalizzata a reati tributari e bancarotta fraudolenta. A causa dell’inchiesta, Perillo subì l’onta di trascorrere 50 giorni in carcere e altri sei mesi agli arresti domiciliari. “Venni portato in manette nel tribunale dove avevo esercitato per ventotto anni. Fu un’umiliazione”, racconta al Foglio. A distanza di dieci anni dall’inchiesta, Maurizio Bettazzi, ex presidente del Consiglio comunale di Prato, viene assolto dalle accuse di abuso d’ufficio e induzione a dare o promettere utilità. L’inchiesta provocò un terremoto politico che nel luglio 2013 indusse Bettazzi alle dimissioni dalla presidenza del Consiglio comunale. Per far sapere ai suoi concittadini l’esito del processo, Bettazzi tappezza la città di Prato di manifesti con il suo volto sorridente, nome e cognome, e una scritta a caratteri cubitali: “Assolto dopo dieci anni”. Marzo La Corte di Cassazione assolve in via definitiva Raffaele Lombardo, presidente della Sicilia dal 2008 al 2012, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. L’assoluzione arriva al termine di un lungo iter giudiziario. Lombardo era stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno nel 2014, nell’ambito di un’inchiesta sull’assegnazione illecita di appalti in Sicilia. Nel 2017 la corte d’Appello di Catania lo aveva assolto dall’accusa di concorso esterno, ma l’aveva condannato a 2 anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso. Nel 2018 la Cassazione aveva però annullato la sentenza dell’anno prima e disposto un nuovo processo di appello, che si era concluso nel gennaio del 2022 con un’assoluzione da tutte le accuse, confermata ora anche dalla Cassazione. Il tribunale di Locri assolve da ogni accusa (insieme ad altri sei imputati), disponendone la scarcerazione, Antonio Rodà, originario della Calabria ma residente da quasi trent’anni in Toscana, nel piccolo comune di Sansepolcro (Arezzo). Ha trascorso tre anni, tre mesi e dodici giorni in custodia cautelare in carcere, accusato di far parte di un’associazione mafiosa. Al termine del processo, i pm avevano chiesto per lui una condanna a 15 anni di reclusione. “Chi mi ridarà gli anni persi?”, dice al Foglio. Aprile Crolla definitivamente il processo sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”. I giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione assolvono gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno con la formula piena “per non aver commesso il fatto”. Confermata l’assoluzione anche per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Prescritte le posizioni dei mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. “E’ una grande soddisfazione - dichiara Mori al Foglio - anche se per vent’anni sono stato sotto processo. Spero che con questa sentenza finiscano anche le ‘trombonate’ di una certa stampa e di certi altri ambienti che hanno lucrato su questa vicenda”. La Corte d’appello di Brescia conferma le assoluzioni per tutti i trentuno imputati del processo Ubi Banca, incentrato sull’accusa di ostacolo alla vigilanza nell’ambito della fusione tra la bresciana Banca Lombarda e Piemontese e la bergamasca Banche Popolari Unite. I giudici di appello accolgono anche il ricorso degli imputati che in primo grado erano stati prosciolti per intervenuta prescrizione, assolvendoli perché il fatto non sussiste. Due ex funzionari pubblici di Prato, Lorenzo Frasconi e Stefano Caldini, sono scagionati in appello dall’accusa di omicidio colposo plurimo per la morte di tre donne avvenuta nel 2010 in un sottopasso allagato. Il processo è durato dodici anni e mezzo. In primo grado, nel 2016, erano stati entrambi condannati. Tra la sentenza di condanna e la fissazione della prima udienza d’appello sono trascorsi sei anni di vuoto, a causa dell’ingolfamento della macchina giudiziaria. Maggio Il presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, è assolto dal tribunale di Torino dall’accusa di finanziamento illecito. Secondo l’ipotesi accusatoria, la campagna di comunicazione per le primarie del Pd del 2017 era stata commissionata da Emiliano a una società piemontese, i cui conti poi sarebbero stati saldati da alcuni imprenditori, in cambio di presunti favori su appalti e richieste di autorizzazioni. Diventa definitiva l’assoluzione dell’ex consigliere regionale abruzzese Ezio Stati, figura di spicco di Forza Italia, accusato di corruzione nel 2010 nell’ambito dell’assegnazione dei lavori per il post terremoto del 6 aprile 2009 all’Aquila. A causa dell’inchiesta, l’ex consigliere venne arrestato e trascorse quindici giorni in carcere e altri quindici ai domiciliari. Per dare visibilità all’assoluzione, Stati affitta uno spazio su un camion vela, con la sua fotografia e la scritta a caratteri cubitali: “Assolto dopo dodici anni, quattro mesi, tredici giorni e nove ore perché il fatto non sussiste”. La vela fa il giro della città di Avezzano. “Devo raccontare agli amici, a quelli che mi sono stati vicini e anche a quelli che non mi conoscono direttamente che io non sono un delinquente. Né io né altri membri della mia famiglia”, dichiara al Foglio Ezio Stati. Venne definita “la casa degli orrori”. Sui giornali si parlò di “botte, insulti e ricatti nella casa di riposo”. Di maltrattamenti nei confronti di pazienti anziane. Addirittura di torture. Non era vero niente. Dopo quasi otto anni i medici e gli operatori sanitari della casa di riposo “Contessa Beretta” di Farra d’Isonzo, in provincia di Gorizia, vengono tutti assolti. Alcuni di loro finirono anche agli arresti domiciliari. Quasi otto anni per arrivare a una sentenza di primo grado, che assolve tutti e cinque gli imputati con la formula piena “perché il fatto non sussiste”. La casa di riposo, intanto, non esiste più. Giugno Il tribunale dei ministri di Brescia archivia le posizioni dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza, indagati nell’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della prima fase della pandemia in Val Seriana. Entrambi erano accusati di omicidio colposo ed epidemia colposa. In ventinove pagine di motivazioni, il collegio giudicante demolisce l’impianto accusatorio, che si basa anche su una perizia redatta dal microbiologo Andrea Crisanti, oggi senatore del Pd. La Corte d’appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, assolve il generale Tullio Del Sette, già comandante generale dei Carabinieri, con la più ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”, dai reati di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento. Il generale era accusato di aver messo in guardia l’allora presidente di Consip, Luigi Ferrara, circa la possibilità che l’imprenditore Romeo, interessato all’aggiudicazione di un’importante gara indetta proprio da Consip, potesse essere coinvolto in una attività investigativa. Simone Uggetti, sindaco di Lodi del Pd tra il 2013 e il 2016, è definitivamente assolto dall’accusa di turbativa d’asta dalla corte d’Appello di Milano, in quanto “non punibile” per la “particolare tenuità del fatto”. Una precedente assoluzione in appello, nel maggio 2021, “perché il fatto non sussiste”, era stata annullata dalla Corte di Cassazione nell’aprile 2022. Il 3 maggio del 2016 Uggetti venne arrestato e sospeso dalle funzioni di sindaco. Passò 10 giorni in carcere e 25 ai domiciliari, prima di essere rimesso in libertà. Luglio Il tribunale dei ministri di Brescia archivia la posizione del presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, indagato per omicidio colposo ed epidemia colposa in un’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della pandemia da coronavirus. Archiviate anche le posizioni di altri undici indagati, tra cui l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera, l’ex capo della Protezione civile Angelo Borrelli e il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro. Nel provvedimento di archiviazione il tribunale dei ministri definisce l’ipotesi di omicidio colposo “una congettura priva di basi scientifiche”. Si conclude definitivamente in Cassazione il processo per fatture false a carico dei genitori dell’ex premier Matteo Renzi. Gli “ermellini” confermano il proscioglimento di Tiziano Renzi e di sua moglie Laura Bovoli dall’accusa di aver emesso due fatture per prestazioni inesistenti. Il verdetto della Suprema corte conferma la decisione con la quale la corte d’Appello di Firenze, il 18 ottobre 2022, aveva stabilito che i due coniugi andavano assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. In primo grado i genitori dell’ex premier e attuale leader di Italia viva erano stati condannati a un anno e nove mesi di reclusione ciascuno. Al termine di un processo durato nove anni, viene assolto per non aver commesso il fatto il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di corruzione per aver incassato somme di denaro per evitare verifiche e accertamenti fiscali tra il 2006 e il 2012, periodo in cui era in servizio a Napoli e poi a Roma dove comandava il gruppo territoriale. La corte d’Appello di Napoli ribalta la sentenza di primo grado che aveva condannato Mendella a quattro anni di reclusione. “Sono stati nove anni terribili. Mi hanno sbattuto in carcere. Sono stato sospeso dal servizio per tutta la durata del processo. Sono stato massacrato sul piano mediatico. Ho rinunciato alla prescrizione per veder riconosciuta la mia innocenza. Oggi, dopo nove anni, la sentenza dei giudici d’appello di Napoli rende finalmente giustizia”, dice Mandella al Foglio. Agosto Viene archiviata l’indagine del 2014 incentrata sull’accusa di associazione mafiosa nei confronti di Giulio Muttoni, noto imprenditore torinese dello spettacolo. Nel frattempo, però, la prefettura di Milano ha emesso un’interdittiva antimafia contro la principale società di Muttoni, poi rinnovata dalla prefettura di Torino, competente per territorio, determinando il fallimento dell’azienda, che fatturava circa 15 milioni di euro all’anno. Sulla vicenda dell’interdittiva antimafia si è inoltre innestato un altro filone di indagine per presunta corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze illecite che ha finito per coinvolgere anche Stefano Esposito, all’epoca senatore del Pd. Nell’ambito di questa indagine, Muttoni è stato intercettato circa 24 mila volte, di cui 500 volte con Esposito, pur essendo quest’ultimo senatore e quindi non intercettabile senza autorizzazione del Parlamento. Per queste ragioni, il Senato avanza un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, mentre nei confronti dei magistrati protagonisti dell’inchiesta (il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella) la procura generale della Corte di Cassazione apre un procedimento disciplinare, con l’accusa di “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”. Prima archiviazione delle accuse nate contro la Juventus dall’inchiesta Prisma di Torino. Il giudice per le indagini preliminari di Bologna archivia, su richiesta della procura, il fascicolo sul presunto falso in bilancio per le modalità del trasferimento di Riccardo Orsolini dalla Juventus al Bologna. L’inchiesta era nata dopo la trasmissione degli atti da Torino alle procure interessate per verificare le posizioni dei club che hanno condiviso con la Juventus alcune operazioni di mercato ritenute sospette dai pm. Settembre Dopo tre anni e mezzo, la corte d’Appello di Reggio Calabria assolve l’ex senatore di Forza Italia Marco Siclari, con la formula piena “perché il fatto non sussiste”, dall’accusa di scambio elettorale politico-mafioso. In primo grado era stato condannato ad addirittura cinque anni e quattro mesi di reclusione. “Nessuno potrà restituirmi ciò che mi è stato tolto, la salute, la serenità familiare e le opportunità lavorative e politiche”, confida al Foglio. Il giudice per le indagini preliminari di Perugia, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura del capoluogo umbro guidata da Raffaele Cantone (alla quale erano stati trasmessi gli atti da Milano), archivia l’indagine sulla loggia Ungheria, la fantomatica associazione segreta composta da magistrati, politici, generali delle Forze armate, imprenditori e persino esponenti del Vaticano, finalizzata a condizionare istituzioni e organi costituzionali. Il procedimento era nato in seguito alle dichiarazioni rilasciate dall’avvocato Piero Amara al pm di Milano Paolo Storari. Ottobre L’ex presidente e l’ex direttore generale di Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, sono assolti in via definitiva dalla Corte di Cassazione per le presunte irregolarità nelle operazioni di finanza strutturata Alexandria e Santorini, Chianti Classico e Fresh, realizzate dalla banca tra il 2008 e il 2012. Con loro, assolti in tutto 15 imputati. La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la condanna per abuso d’ufficio nei confronti del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, che dunque può tornare a svolgere l’incarico di primo cittadino. In seguito alla condanna in primo grado e in appello (un anno di reclusione, con pena sospesa), infatti, Falcomatà era stato sospeso dalle sue funzioni per effetto della legge Severino, insieme a sette assessori, anche loro coinvolti nella vicenda giudiziaria. Il processo era nato da un’inchiesta su presunte irregolarità nelle procedure di affidamento a un’associazione del Grand Hotel Miramare. Crolla in appello il processo contro l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti. I giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria, infatti, lo condannano a un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della procura generale di 10 anni e 5 mesi e stravolgendo la sentenza di primo grado del tribunale di Locri che gli aveva inflitto addirittura una pena di 13 anni e 2 mesi. Alla base, una sfilza di accuse: associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. I reati più gravi sono tutti caduti in appello, mentre è rimasta in piedi solo un’accusa di falso. La Corte inoltre assolve altri sedici imputati, anche loro giudicati colpevoli in primo grado. Dopo oltre quindici anni, Fabio Sturani, sindaco di Ancona dal 2001 al 2009, viene scagionato da ogni accusa in una vicenda giudiziaria che lo ha visto sostenere sette procedimenti giudiziari a partire dal 2008. Sturani venne accusato di corruzione in relazione all’acquisizione nel 2001 di un’area al porto di Ancona in cui destinare lo stoccaggio dei rifiuti. L’avviso di garanzia spinse Sturani alle dimissioni. Nacquero due procedimenti sul piano penale: uno per corruzione e concussione, uno per tentata truffa. In entrambi, Sturani è poi stato assolto in via definitiva. La vicenda ha fatto scaturire anche un procedimento alla Corte dei conti per un presunto danno erariale e un altro in sede civile, anche questi terminati in un nulla di fatto. Crolla davanti al giudice delle indagini preliminari di Milano la maxi indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia milanese incentrata sulla presunta esistenza di un “sistema mafioso lombardo”, cioè di una grande cupola mafiosa in Lombardia basata su un’alleanza tra le tre principali organizzazioni criminali del nostro paese: ‘ndrangheta, Cosa nostra e camorra. Il gip boccia l’ipotesi avanzata dalla procura guidata da Marcello Viola, accogliendo soltanto 11 richieste di misure cautelari su 153 ed escludendo la sussistenza del reato di associazione mafiosa. A nove anni e sette mesi dal sequestro dei gruppi a carbone della centrale, e dopo quattro anni e otto mesi dall’avvio del processo, arriva la sentenza di primo grado del processo a Tirreno Power per la centrale di Vado, con l’assoluzione piena di tutti i 26 imputati, “perché il fatto non sussiste”. Gli amministratori e i dirigenti dell’azienda erano imputati di disastro ambientale e sanitario colposo. Oggi l’impianto è chiuso e smantellato, con la perdita di circa 1.000 posti di lavoro fra occupati diretti, indotto e danni economici rilevanti. A distanza di quattro anni e mezzo dagli arresti, arriva la sentenza di primo grado del maxi processo “Mensa dei Poveri” per un presunto giro di tangenti tra politici e imprenditori. Verdetto: 51 assolti su 62 imputati. Tra questi, l’ex consigliere comunale milanese Pietro Tatarella, che a causa dell’inchiesta finì in carcere per quattro mesi con 46 giorni di isolamento, e l’ex consigliere regionale lombardo Fabio Altitonante, che finì ai domiciliari. Novembre Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera dei deputati, è assolto dal tribunale di Torino dall’accusa di falso elettorale. I fatti si riferivano al presunto illecito avvenuto nel 2020 alle elezioni comunali di Moncalieri, quando il nome del candidato del Carroccio Stefano Zacà, ex di Forza Italia, venne cancellato dalla lista Lega Salvini Piemonte poco prima della consegna delle liste all’ufficio elettorale. Il pubblico ministero (Gianfranco Colace, lo stesso del caso Muttoni-Esposito) aveva chiesto per Molinari una condanna a otto mesi di reclusione. Crolla in appello con 26 assoluzioni la parte più importante del processo “Stige”, lanciato da Nicola Gratteri quando era alla guida della procura di Catanzaro: assolti i politici e gli imprenditori accusati di mafia. Gratteri la definì “la più grande operazione degli ultimi 23 anni” e “un’indagine da portare nelle scuole di polizia giudiziaria e in quella della magistratura”. Pochi giorni prima viene confermata in appello l’assoluzione di Domenico Tallini, ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico mafioso nell’ambito dell’inchiesta “Farmabusiness”, condotta nel novembre 2020 dalla Dda di Catanzaro guidata sempre da Gratteri. Termina, inoltre, il maxi processo di primo grado denominato “Rinascita-Scott”, con 207 condanne e 131 assoluzioni. In altre parole, vengono assolti il 40 per cento degli imputati, in attesa dei successivi gradi di giudizio. Il gup del Tribunale di Reggio Calabria, Giovanna Sergi, assolve “perché il fatto non sussiste” l’ex sindaco di Reggio Calabria, Demetrio Arena, dall’accusa di falso in bilancio. Con Arena, sono assolti con la stessa formula altri sei imputati. Dicembre Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, e Paolo Salvadori, allora presidente del collegio sindacale, sono assolti in appello a Milano, assieme alla banca, nel processo per falso in bilancio e aggiotaggio sul filone delle indagini che riguarda la contabilizzazione dei derivati Santorini e Alexandria. Il tribunale aveva condannato i primi due a 6 anni, il terzo a 3 anni e mezzo di reclusione e la banca a 800 mila euro di sanzione pecuniaria. La decisione dei giudici arriva dopo la conferma della Cassazione delle assoluzioni di tutti gli imputati nel procedimento “madre” sul caso dell’istituto di credito. Dopo oltre 6 anni il tribunale di Venezia archivia la maxi indagine su presunti concorsi truccati per l’abilitazione nazionale a carico di 44 professori e ricercatori di Diritto tributario di tutta Italia. L’indagine venne lanciata dalla procura di Firenze nel settembre 2017 ed ebbe grande risalto sugli organi di informazione: sette docenti finirono agli arresti domiciliari, altri 22 furono interdetti dall’insegnamento per un anno. Fu coinvolto anche l’ex ministro Augusto Fantozzi, poi morto nel 2019. Ribaltando la condanna all’ergastolo inflitta in primo grado, la corte d’Assise d’appello di Ancona assolve Leopoldo Wick, infermiere ascolano di 60 anni accusato di otto omicidi volontari e quattro tentati omicidi nei confronti di anziani ospiti di una Rsa, attraverso l’indebita somministrazione di farmaci. Wick viene scarcerato dopo oltre due anni e mezzo di detenzione. La legge bavaglio, il ritorno al baratto senza garanzie di Giovanni Tizian Il Domani, 30 dicembre 2023 L’emendamento Costa spinge la democrazia nelle tenebre. E questa soccombe nell’oscurità, parafrasando il motto del Washington Post. La norma approvata alla Camera prevede il divieto di pubblicazione sui giornali del contenuto delle ordinanze di custodia cautelare, cioè i mandati di arresto, disposti nell’ambito delle indagini preliminari. Atti il cui scopo è informare gli indagati sul motivo del provvedimento che li riguarda. Le informazioni contenute sono però utili anche per fornire un quadro accurato ai lettori, prima di tutto cittadini e dunque titolari del diritto a essere informati su questioni di interesse pubblico. La “legge” Costa segue la riforma Cartabia sulla presunzione di innocenza. Frutto di ripetuti e maldestri tentativi di imbavagliare i cronisti protrattisi nel corso degli ultimi vent’anni. L’ultimo porta il nome di Enrico Costa, e non è un caso. Avvocato che siede tra i banchi dell’opposizione, dopo una vita passata tra Forza Italia, centristi e alfaniani, è approdato nel partito Azione di Carlo Calenda. Ed è riuscito nel suo obiettivo non negli anni in cui venerava Silvio Berlusconi, ma ora che milita tra coloro che un tempo scendevano in piazza per difendere la libertà di stampa dagli attacchi dei governi del Cavaliere. Nel curriculum politico di Costa, l’impegno profuso nella crociata contro l’informazione è preminente. Una battaglia fatta in nome del garantismo, usato in modo ingannevole da un pezzo della classe dirigente del paese che da anni sfrutta un nobile principio con un obiettivo chiaro: proteggere chi gestisce e detiene il potere. Potremmo elencare centinaia di esempi in cui i garantisti à la carte non hanno proferito parola su abusi giudiziari subiti da persone normali, migranti e ultimi della società, mentre si impegnavano in difese rumorose per ministri o imprenditori spesso tutelati da nutriti team di principi del foro. Per capire la ricaduta dell’emendamento sul giornalismo, il governo dovrebbe fare tesoro dell’analisi di Raffaele Cantone, oggi procuratore capo di Perugia dopo una vita in prima linea contro clan dei Casalesi e malaffare. Cantone, intervistato dal Fatto Quotidiano, è netto nel dire che grazie a Costa tornerà di moda quello che viene definito “il baratto” delle carte giudiziarie: “Questa legge è un passo indietro rispetto ai meccanismi di trasparenza innestati con il rilascio di atti ai giornalisti da parte degli uffici giudiziari”. Si riferisce, cioè, a quella buona pratica avviata da alcune procure di rilasciare dietro richiesta ufficiale alla segreteria del procuratore, pagando peraltro una marca da bollo, le ordinanze di custodia cautelare. Aveva iniziato Napoli, hanno seguito l’esempio Perugia, Salerno, Potenza. Invece di rendere obbligatoria la procedura, seguendo Costa la maggioranza che supporta il governo ha preferito tornare al medioevo, in cui i giornalisti continueranno a procurarsi gli atti grazie a rapporti privilegiati con pm, polizia giudiziaria e avvocati. Rapporti, come sottolinea Cantone, che spesso si basano sulla riconoscenza: il cronista mai si azzarderebbe a criticare chi gli ha dato le carte, perché sa che presto potrebbe dover tornare a bussare alla medesima porta. A chi giova questa opacità? Di certo gli sconfitti di questa guerra all’informazione sono soprattutto due: gli indagati più fragili che vedono nella stampa una delle poche voci utili a difendersi da accuse ingiuste; e i cittadini che avranno sempre meno informazioni sul potere locale e nazionale. Con meno trasparenza, anche la democrazia è più debole. “La norma Costa non evita la gogna e mette in crisi il controllo democratico della stampa” di Valentina Sella Il Dubbio, 30 dicembre 2023 Prosegue il dibattito sull’emendamento di Enrico Costa che vieta la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Oggi ne parliamo con il giurista Glauco Giostra: “Conterà il significato normativo che verrà assegnato alla locuzione: estratto del testo”. Professore perché secondo lei l’emendamento Costa non è, dopo il recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza, un nuovo strumento per proteggere l’indagato dalla gogna mediatica? Gabellare il temporaneo oscuramento dell’ordinanza di custodia cautelare come uno strumento a tutela del diritto dell’imputato a non essere considerato colpevole sino alla sentenza irrevocabile mi sembra una forzatura self-evident. Più importante mi sembra soffermarsi su un altro aspetto. Sta passando un messaggio mistificante per cui da una parte ci sarebbero coloro che, avendo a cuore la dignità delle persone indagate, vogliono oscurare l’ordinanza cautelare; dall’altra, quelli che, insensibili a questa esigenza di tutela della reputazione delle persone, difendono la pubblicabilità di tale provvedimento. Sarebbe più corretto dar conto, in modo meno manicheo, che in entrambe le barricate della polemica quasi sempre si ha a che fare con difensori della dignità degli accusati. Soltanto che alcuni ritengono che lo strumento migliore sia il divieto di pubblicare le motivazioni con cui il giudice ha deciso la restrizione della libertà; altri, tra cui il sottoscritto, che un tale divieto non possa conseguire in alcun modo l’obbiettivo perseguito e che comporti un costo inaccettabile in termini di trasparenza democratica, avendo la collettività diritto di conoscere come viene esercitato in suo nome il più terribile dei poteri. “La luce del sole - soleva ripetere il grande avvocato Louis Brandeis, membro della Corte Suprema Usa - è il miglior disinfettante”. Ma gli stessi promotori dell’emendamento hanno precisato che, ove approvato, si potrebbe comunque dare informazione sull’ordinanza essendo soltanto vietata la pubblicazione “integrale o per estratto del testo”... Al di là delle intenzioni dei promotori, conterà il significato normativo che verrà assegnato alla locuzione “estratto del testo” una volta innestata nell’art. 114 c. p. p.. Problema molto delicato perché il termine estratto, semanticamente ambiguo, può esprimere due concetti, frazione o sintesi, che nella norma sono già denominati con altre parole: “pubblicazione anche parziale o per riassunto dell’atto”. Ma comunque delle due l’una: o non si potrà dare neppure notizia dell’ordinanza e sarebbe soluzione che ci avvicinerebbe a Turchia, Cina, Russia. Oppure se ne potrà offrire - come auspicano i fautori della riforma - una sintesi giornalistica, ma allora non si comprende perché un riassunto dell’operatore dell’informazione dovrebbe essere meno preoccupante del provvedimento del giudice che attualmente può riversare nell’ordinanza “soltanto i brani essenziali” delle intercettazioni rilevanti, limitando i riferimenti alla colpevolezza “alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti dell’atto”. Chi ha appoggiato l’emendamento Costa sostiene che si tornerà alla normativa ante 2017 e allora nessuno gridava al bavaglio... Questo è refrain tanto diffuso, quanto giuridicamente infondato. Non si riesce infatti a capire quale sarebbe il fondamento normativo di una tale affermazione. Ne avrebbe avuto uno nel codice Rocco che imponeva il segreto e il divieto di pubblicazione praticamente su tutta la fase istruttoria, ma non credo che i fautori dell’emendamento in questione ne abbiano nostalgia. Nel sistema attuale, anche prima della riforma del 2017, il segreto e il correlativo divieto di pubblicazione modulato su di esso (art. 114 c. p. p.) riguardava soltanto gli atti di indagine del pubblico ministero e della polizia giudiziaria: l’ordinanza di custodia cautelare, non essendo né un atto di indagine, né un atto del pm o della pg era già non segreta e pubblicabile. Lei non crede che comunque non sia sano, anzi eccessivamente osmotico, il rapporto tra procure e stampa e questo emendamento serva a spezzare questo cordone? In effetti, nel passato prossimo, si è non infrequentemente realizzata una sorta di deprecabile “collusione informativa” tra inquirenti desiderosi di far conoscere i risultati della loro azione e giornalisti interessati a conoscerli in esclusiva o almeno prima della concorrenza. Questo reticolo carsico di reciproche compiacenze ha sversato sui media un’informazione “segnata” in senso colpevolistico. Dopo la riforma del 2017, il fenomeno si è decisamente ridimensionato, ma resta una patologia non accettabile. Condivisibile la diagnosi, giuridicamente impraticabile e terapeuticamente inutile, se non controproducente, la cura che si vorrebbe approntare: la non pubblicabilità del testo del provvedimento renderà molto allettante divulgare indiscrezioni ottenute sottobanco. Quale sarebbe secondo lei lo strumento giusto atto a bilanciare il diritto all’informazione con quello a non essere sbattuti in prima pagina con un atto di accusa che può essere ribaltato dal Riesame o dalla Cassazione e che coinvolge spesso anche terzi estranei all’indagine? Francamente non userei l’argomento della precarietà, anche la sentenza di condanna di primo grado può essere ribaltata in appello e Cassazione e a nessuno verrebbe in mente di “oscurarla”. Non ci sono panacee. Di certo non è strada percorribile quella di sopprimere un diritto per scongiurarne l’abuso. Consentiremmo di regolarci così, ad esempio, con l’immunità parlamentare? Auspicabile sarebbe agire a monte e a valle. A monte, rendendo se possibile ancor più stringente il divieto di far riferimento ad elementi non strettamente necessari nel chiedere e nell’autorizzare una misura cautelare. A valle, rendendo meno risibile l’attuale sanzione per la violazione del divieto di pubblicazione e, soprattutto, istituendo una Autorità di garanzia a struttura composita (ad es. giornalisti, magistrati, avvocati) in grado di penalizzare anche con stigmatizzanti sanzioni reputazionali chi abbia indebitamente offeso la dignità di una persona coinvolta in un procedimento penale. Presunzione d’innocenza. Un’occasione mancata di mandare a “scuola” la Polizia giudiziaria di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 dicembre 2023 Bocciato l’emendamento D’Alfonso che istituiva l’obbligo di formazione garantista. Chi insegna al personale di polizia, carabinieri e guardia di finanza come si scrive una informativa di reato? E soprattutto quali parole e quali aggettivi devono essere utilizzati per scrivere una informativa di reato? Se lo è chiesto l’ex presidente della Regione Abruzzo e ora deputato del Pd Luciano D’Alfonso presentando un emendamento, poi però non accolto, alla legge di delegazione europea sulla presunzione d’innocenza e avente ad oggetto “l’obbligo di formazione continua delle forze di Polizia, della Guardia di finanza dell’Arma dei carabinieri e della Polizia penitenziaria nonché norme per la continenza linguistica”. Il tema sollevato da D’Alfonso non è nuovo. Rimase celebre qualche anno fa la richiesta ai carabinieri del Noe da parte del pm Mario Palazzi di riscrivere l’informativa dell’inchiesta Consip, redatta secondo il magistrato romano in uno stile un po’ “gotico”. A ciò si deve poi aggiungere il fatto che la giurisprudenza della Cassazione ha da tempo avallato la pratica comunemente definita del “doppio copia incolla”, quando, in altri termini, la richiesta di un provvedimento cautelare da parte della polizia giudiziaria diventa essa stessa il provvedimento cautelare. Piazza Cavour, con numerose sentenze, ha infatti stabilito che la motivazione di un provvedimento per relationem è perfettamente legittima e non viola la legge: agisce correttamente pertanto il pm che fa propria la richiesta della pg ed il gip che a sua volta fa propria quella del pm. È sufficiente in questa filiera, un tempo sarebbe stata definita alla carta carbone, che il magistrato dimostri in qualche modo di aver compreso l’esatto suo contenuto. In tale scenario è di tutta evidenza, dunque, che quanto scrivono le Forze di polizia, venendo “ricopiato” integralmente dal pm prima e dal gip dopo, è destinato ad arrivare direttamente in Cassazione in caso di ricorsi in materia di libertà personale nella fase delle indagini preliminari. La riforma proposta da D’Alfonso avrebbe previsto l’attivazione presso gli istituti di formazione delle varie Forze di polizia di specifici corsi, con frequenza obbligatoria, destinati al personale che esercita funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, da inserire in percorsi formativi permanenti, “volti a far acquisire, anche mediante il confronto interdisciplinare e la partecipazione di esperti esterni, competenze mirate al rafforzamento della presunzione di non colpevolezza, alla luce della direttive europee”. Al fine di assicurare l’omogeneità dei corsi, i relativi contenuti dovevano essere definiti con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i ministri per la Pubblica amministrazione, dell’Interno, della Giustizia e della Difesa. Ad oggi, invece, ogni Forza di polizia agisce in autonomia, chiamando come docenti nei corsi formativi i pm che sono i primi utilizzatori delle informative della pg. “Nell’ambito delle annotazioni e dei verbali di polizia giudiziaria sottolinea D’Alfonso - vanno evitati aggettivi che non siano strettamente necessari alla descrizione dell’attività compiuta o di espressioni comunque lesive della presunzione di innocenza”. “Si tratta di correttivi volti a rafforzare, anche al livello dell’attività di polizia giudiziaria, la tutela del diritto alla presunzione di innocenza dell’indagato attraverso la previsione di obblighi formativi continui”, prosegue il parlamentare dem, auspicando “la promozione di una maggiore prudenza descrittiva, nell’ottica di arginare l’uso e l’abuso di aggettivi ed espressioni “stigmatizzanti”, per imporre al contempo l’impiego di un linguaggio cauto, dal tenore possibilista, improntato all’uso del modo verbale condizionale”. L’emendamento prevedeva infine una modifica all’articolo 357 del codice di procedura penale, con l’inserimento del comma 5- bis: “Le annotazioni e i verbali sono redatti dalla polizia giudiziaria in modo da evitare, in riferimento alla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, l’impiego di aggettivi che non siano strettamente necessari per la descrizione dell’attività compiuta e di espressioni comunque lesive della presunzione di innocenza”. In caso di sua inosservanza D’Alfonso aveva ipotizzato la possibilità di sanzioni disciplinari, come la sospensione dell’impiego fino ad un massimo di sei mesi, per l’estensore dell’informativa “giustizialista”. “Così la Consulta tutela le immunità dei parlamentari” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 dicembre 2023 Il professor Oliviero Mazza commenta la sentenza della Corte Costituzionale sulle intercettazioni all’ex senatore Esposito. La sentenza n. 227 del 2023 della Corte Costituzionale, depositata giovedì, ha chiarito ulteriormente il tema delle intercettazioni a carico di un parlamentare. Nel caso specifico, è stato dichiarato che non spettava alle autorità giudiziarie, che hanno sottoposto ad indagine e, successivamente, rinviato a giudizio l’ex senatore Stefano Esposito, disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, ma in realtà univocamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare, senza aver mai richiesto alcuna autorizzazione al Senato della Repubblica. La Consulta, come evidenzia il professor Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Milano-Bicocca, ha offerto spunti di riflessione anche per interventi futuri da parte del legislatore. Professor Mazza, la recente sentenza della Corte Costituzionale, riguardante alcune intercettazioni che hanno interessato l’ex senatore Esposito, fa ulteriormente chiarezza. Ci deve essere un carattere mirato dell’indagine. Uno snodo fondamentale quello rilevato della Corte Costituzionale? Certamente, perché dalla natura dell’indagine dipende l’applicazione della garanzia stabilita dall’articolo 68 della Costituzione, cioè l’autorizzazione preventiva o successiva all’esecuzione delle intercettazioni. È lo spartiacque. Ogni qual volta il parlamentare sia già oggetto di indagine, l’attivazione dello strumento intercettivo, anche su utenze di terzi, deve passare attraverso l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza, a pena di inutilizzabilità. La ragione per cui le procure tendono a evitare il più possibile di percorrere questa strada è intuitiva e risiede nel venir meno dell’effetto sorpresa dell’intercettazione. La richiesta di autorizzazione inevitabilmente finisce per avvertire il soggetto interessato dell’attività di indagine in corso. L’intervento dei giudici della Consulta mette un argine per alcune procure che potrebbero avere la tentazione di intercettare un terzo, interlocutore del parlamentare, con l’obiettivo di indagare sul parlamentare? Io rimango molto perplesso in merito alla distinzione tra intercettazione occasionale e intercettazione mirata al parlamentare. Si tratta di un discrimine troppo sottile, facilmente aggirabile, mentre invece, dal mio punto di vista, sarebbe preferibile dichiarare comunque la inutilizzabilità delle intercettazioni occasionali. Anzi, nella logica del divieto di intercettare i parlamentari senza previa autorizzazione, le intercettazioni occasionali dovrebbero essere escluse in radice, bisognerebbe imporre agli operanti di cessare immediatamente l’ascolto non appena abbiano contezza dello status dell’interlocutore. La Corte Costituzionale, al contrario, ritiene di poter distinguere in modo netto tra l’intercettazione occasionale e quella mirata. Se l’intercettazione è mirata, deve giocoforza passare attraverso l’autorizzazione preventiva, a pena di inutilizzabilità del risultato conoscitivo, quella occasionale, invece, può ricevere l’autorizzazione postuma e comunque consente l’ascolto e, quindi, l’acquisizione di informazioni utili nella prosecuzione delle indagini. Il problema che la Corte non ha affrontato, ma prima o poi dovrà provvedere, riguarda il fatto che anche nel caso della intercettazione occasionale c’è un vulnus alla prerogativa parlamentare. L’occasionalità, come detto, è una linea di demarcazione molto sottile e si presta ad aggiramenti. Sarebbe più aderente allo spirito dell’articolo 68 della Costituzione ritenere che sia inutilizzabile l’intercettazione occasionale, superando l’eventuale autorizzazione postuma e lasciando come unica possibilità quella di acquisire, se del caso, la notitia criminis, quindi l’eventuale notizia di reato per cui poi si dovrà aprire un procedimento autonomo a carico del parlamentare. Mi faccia aggiungere un’altra riflessione. Dica pure... L’intercettazione mirata deve essere autorizzata dal Parlamento e il pm difficilmente procederà a una intercettazione che richieda la previa autorizzazione della Camera di appartenenza. Ci sarà sempre il tentativo di occultare la vera natura dell’indagine, di occultare il coinvolgimento del parlamentare quale obiettivo investigativo e di sperare che ex post l’intercettazione venga ritenuta occasionale e quindi sanabile dal Parlamento. Secondo me, bisognerebbe togliere anche l’utilità della intercettazione occasionale e a questo punto superare ogni distinguo formale, rendendo inutilizzabili tutte le intercettazioni a carico del parlamentare, a meno che non ci sia l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Il tutto accompagnato da un preciso obbligo, magari sanzionato penalmente, di cessare gli ascolti non appena si palesi lo status del parlamentare. I giudici della Consulta hanno ribadito, come per il caso del senatore Matteo Renzi, che i messaggi, compresi quelli scambiati su Whatsapp, non sono semplici documenti ma una vera e propria corrispondenza. Si tratta di un ulteriore rafforzamento delle garanzie dei parlamentari? Indubbiamente è un rafforzamento, in quanto si esce da quella ambiguità voluta da parte degli investigatori in ordine al concetto di prova documentale. Per la Corte Costituzionale i messaggi sono forme di corrispondenza che personalmente andrei ad assimilare alle comunicazioni. Ancora una volta il Giudice delle leggi aggiunge una tutela, per cui l’acquisizione dei messaggi deve essere autorizzata dal Parlamento in quanto corrispondenza, autorizzazione ovviamente postuma, trattandosi di corrispondenza già inoltrata e ricevuta, ma non va alla radice del problema. La vera questione è che la corrispondenza viene acquisita con lo strumento del sequestro probatorio, nella autonoma disponibilità del pm. Se i messaggi che coinvolgono il parlamentare presentano la tutela in più della autorizzazione della Camera di appartenenza, tutta la messaggistica tra i privati cittadini è alla mercè di un semplice atto di indagine del pm. Diverso sarebbe se i messaggi venissero assimilati alle comunicazioni, allora sì che le cose cambierebbero perché rientreremmo nel regime delle intercettazioni. Del resto, per acquisire un semplice tabulato occorre l’autorizzazione del giudice. La Corte Costituzionale tiene ancora fermo il discrimine giurisprudenziale tra corrispondenza e comunicazione? Sì. L’intercettazione riguarda solo le comunicazioni in atto, non solo vocali, ma anche informatiche o telematiche, ossia scritte. Se la comunicazione è in atto, l’intercettazione deve essere autorizzata dal giudice e il pm non può procedere in autonomia. Nel caso dei parlamentari ci vorrebbe l’autorizzazione del giudice e della Camera di appartenenza. Tutti noi comunichiamo ormai prevalentemente in forma scritta e asincrona. Il grosso delle comunicazioni è composto da messaggi, anche messaggi in forma orale che vengono trasmessi in modo asincrono, pensiamo ai messaggi vocali. Le forme di comunicazione nella società di oggi sono sempre di più asincrone per cui è molto difficile applicare quel distinguo che la Corte Costituzionale tiene fermo fra le comunicazioni in atto o le comunicazioni già avvenute. Io penso che occorra un ulteriore sforzo interpretativo. A cosa si riferisce? La Consulta dovrebbe equiparare la messaggistica non tanto alla corrispondenza, intesa in senso fisico, quanto alla comunicazione di natura infotelematica e quindi riportare tutte le comunicazioni, di ogni genere, anche asincrone, nell’alveo delle intercettazioni. Se così fosse, avremmo una garanzia in più per tutti con l’autorizzazione del giudice e, nel caso del parlamentare, l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Tutta questa materia ci induce a fare i conti con le nuove forme di comunicazione e richiede urgentemente l’intervento del legislatore, essendo, tra l’altro, coperta dalla riserva di legge. C’è sufficiente materia per inviare gli ispettori alla procura di Torino, caro Nordio? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 30 dicembre 2023 Gli inquirenti non hanno mai chiesto l’autorizzazione al Senato ed è chiaro che il bersaglio era il parlamentare Esposito e non il terzo interlocutore. “Sono state violate le leggi e la Costituzione, lo dice l’Alta Corte. Ora mi aspetto l’intervento del ministro Nordio, perché mandi gli ispettori a verificare quel che succede e che è successo dal 2015 alla Procura di Torino. Ma chiedo anche iniziative del ministro Crosetto, dell’ex guardasigilli Andrea Orlando e di parlamentari piemontesi come il leghista Riccardo Molinari ed Enrico Costa, che conduce tante battaglie meritevoli, ma sul mio caso non ha ancora detto nulla”. Qualche sassolino ancora c’è, ma i tempi dell’umiliazione e della rabbia sono passati. Dopo sette anni l’ex senatore Stefano Esposito vuol pensare positivo, dopo la sentenza n. 227 della Corte Costituzionale che ha sotterrato in un colpo solo tutta l’attività di intercettazione cui è stato sottoposto, per ben cinquecento volte, tra il 2015 e il 2018 e che è stata la base di una richiesta del pm e poi del decreto di rinvio a giudizio del gip. Tutto annullato, tutto illegittimo. E sarebbe anche ora che qualche deputato o senatore si facesse sentire e difendesse le prerogative del Parlamento. Quanto meno oggi, dopo la presa di posizione così netta, così rigorosa, della Consulta. Non solo, ma se l’ex senatore del pd volesse mostrare di aver stravinto, e soprattutto il suo legale, l’avvocato Riccardo Peagno, potrebbe esibire il dato di fatto che l’Alta Corte nella decisione sia andata “oltre il petitum”. Perché, se l’ascolto delle prime telefonate tra il parlamentare e l’imprenditore Giulio Muttoni, indagato in un’inchiesta di ‘ndrangheta, fino al 5 agosto 2015, poteva essere considerato come “occasionale, la musica era decisamente cambiata in seguito. Tanto che, dice la sentenza della Consulta, era diventato chiaro che da quel momento il vero bersaglio dell’attività investigativa della procura di Torino era proprio il senatore Esposito. In ogni caso sarebbe stata necessaria la preventiva autorizzazione del Senato, ma il carattere mirato dell’indagine nei confronti del parlamentare emerge nel momento in cui vengono citati, negli atti di indagine, “specifici indizi di reità che si traducono nella richiesta di approfondimenti investigativi”. E questo aldilà della formale iscrizione del senatore nel registro degli indagati. Ma questa è un’inchiesta che non avrebbe dovuto neanche iniziare. Non dimentichiamo che l’ indagine era nata come “mafia al nord”, poi diventata “bigliettopoli”, infine aveva visto il coinvolgimento del senatore Esposito per via di un prestito del 2010, restituito un anno dopo, ottenuto tramite una banca di Roma, dal suo amico carissimo Giulio Muttoni. Proprio quel primo atto, considerato dalla procura di Torino come corruzione, costituirà poi il primo inciampo per i magistrati torinesi, il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella, perché nel settembre scorso la Cassazione trasferirà nella capitale, dove avrebbe dovuto stare dal principio, il processo. Che dovrà quindi partire daccapo, ammesso che si arrivi mai alla sua celebrazione. Già su questo punto ci sarebbe da porre una domanda al ministro Nordio. La violazione delle norme sulla competenza territoriale, che fu una costante a Milano ai tempi delle inchieste su tangentopoli, merita o no che gli ispettori ci mettano il naso? Non è questione di lana caprina, se a questo si aggiunge il fatto che centinaia di intercettazioni che furono alla base dell’attività investigativa del pm e delle decisioni del gip-gup erano illegittime. E che questi magistrati non solo non chiesero mai, come prescriveva la legge, l’autorizzazione al Senato, ma compirono atti investigativi che avevano a oggetto come “bersaglio” proprio il senatore Esposito e non il terzo interlocutore. Occasionali, come ha sempre sostenuto la procura? Pare proprio di no, almeno dal 5 agosto 2015, ce lo dice la Corte Costituzionale. E c’è di più. Si è scoperto una decina di giorni fa, quando sono stati messi a disposizione gli atti per chiusura indagini, che in un’altra inchiesta torinese, quella sullo spionaggio industriale che riguarda Riccardo Ravera, esiste un faldone pieno zeppo di telefonate tra Stefano Esposito e Giulio Mutoni. Che cosa c’entrano con quell’inchiesta? Assolutamente niente. Atti depositati, oltre a tutto, proprio negli stessi giorni in cui la Consulta stava per rendere la propria decisione. E nel fascicolo c’è anche il nome di un altro parlamentare, non indagato, ma il nome c’è. E speriamo non venga reso pubblico, per la tutela sua e del Parlamento. C’è sufficiente materia per inviare gli ispettori a Torino, ministro Nordio? Che cosa è successo nel capoluogo torinese a partire dagli anni in cui il procuratore si chiamava Armando Spataro, ormai pensionato come il successore Anna Maria Loreto, fino a oggi con l’ufficio retto dalla facente funzioni Enrica Gabetta? Inoltre. Dopo il gesto di serietà e fedeltà alle istituzioni dell’ex presidente del senato Pietro Grasso, che non solo fu in prima linea perché il parlamento presentasse il conflitto di attribuzione alla Consulta, ma si attivò presso il procuratore generale, che fine ha fatto la procedura per arrivare all’azione disciplinare nei confronti del pm Gianfranco Colace e della gip Lucia Minutella? Per ora si sa solo che, dopo l’intervento del procuratore generale presso la Cassazione è stata avviata la pratica per l’incolpazione dei due magistrati. Poi silenzio di tomba, salvo un intervento a gamba tesa dei magistrati di Area a difesa dei colleghi torinesi e contro il procuratore della Cassazione accusandolo di essersi accodato al ministro Nordio (già sospetto per il “caso Renzi” e l’invio degli ispettori a Firenze) in “una deriva che rischia di compromettere irreparabilmente l’indipendenza della magistratura quando indaga sui potenti”. Ci risiamo. Ora la parola al ministro. Piemonte. “Carceri, un’emergenza senza fine” di Elisa Sola La Repubblica, 30 dicembre 2023 Sovraffollamento, condizioni sanitarie insufficienti e personale scarso secondo i Garanti. Ad Alba ci sono 40 detenuti, di cui molti con problemi psichici, ma un’area sanitaria attiva solo dodici ore al giorno. Ad Alessandria si gela: con le stufette accese si arriva a 16,5°. C’è una palestra nuova, ma nessuno la usa. A Cuneo, nei prossimi mesi, prevedono che la presenza dei detenuti del 41 bis raddoppierà. E il 60% dei reclusi è immigrato ma mancano mediatori e poliziotti. Sovraffollamento, personale ridotto all’osso, spazi insufficienti e a volte in condizioni di degrado. Detenuti stipati in carceri sempre più sovraffollate. Resta un’emergenza quella degli istituti penitenziari piemontesi. Lo hanno spiegato ieri i garanti dei detenuti. E Bruno Mellano, per la Regione, ha lanciato una stoccata al governo: “Dei 166 milioni di fondi straordinari messi a disposizione dal ministero delle infrastrutture per la manutenzione straordinaria degli istituti di pena italiani, nulla è stato assegnato per il momento al Piemonte”. “A Torino - ha spiegato Monica Gallo, garante comunale - abbiamo numeri preoccupanti. Dati simili al 2015. Con 1480 detenuti per una capienza di 1093 persone. La nuova circolare sulla sicurezza del Dap propone trattamenti con attività premiali per alcuni, mentre chi non li merita deve andare nelle sezioni più preoccupanti, dove ci sono persone che compiono eventi critici o con problematiche psichiatriche importanti”. Sembra un carcere dove da decenni nessuno fa niente. Neppure nei bagni, dove le docce vengono descritte dalla garante di Torino come “non dignitose”. “C’è una continua perdita di acqua dai rubinetti e ogni giorno 3800 euro vengono spesi in acqua. Nessuno, in 15 anni, ha risolto il problema”. La sanità penitenziaria è oggetto di una serie di approfondimenti della quarta commissione del Consiglio regionale. Se ne discuterà durante la seduta del 9 gennaio. Che vi sia un problema legato alla gestione della salute dei carcerati lo conferma anche l’avvocato Antonio Vallone, che ha visitato, come membro di Aiga, il Lorusso e Cutugno il 24 dicembre. “Dalla sezione femminile - racconta - ci hanno spiegato che per molte donne è impossibile accedere ai farmaci che non siano di fascia A. Tutti gli altri sono a carico loro. Chi non ha soldi o una famiglia e deve comprarsi un’aspirina quindi, non può farlo”. Un altro problema molto sentito - precisa Vallone - è quello delle spedizioni degli alimenti dai familiari. Alcuni pacchi, per motivi di sicurezza, non potrebbero più essere inviati. Così perlomeno hanno raccontato. Infine, siamo di fronte a grandi carenze di personale e di spazi. Basti pensare al fatto che ci sono solo 18 educatori su 1350 detenuti in media”. Campania. Carceri, appello dei Garanti: “Pe i reati minori niente cella” di Giuliana Covella Il Mattino, 30 dicembre 2023 Due anni fa aveva chiesto la somma di 2 euro a un automobilista per la sosta. Per questo un parcheggiatore abusivo di 25 anni, di origine nigeriana, è rinchiuso in una cella a Poggioreale per scontare il reato di estorsione. È uno dei 2.528 detenuti che nella nostra regione sono ristretti con residuo di pena da 0 a 3 anni. A tracciare la “radiografia in bianco e nero” del carcere in Campania nel 2023 sono il Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, e il Garante comunale di Napoli don Tonino Palmese. Tre le principali richieste alle istituzioni: depenalizzazione dei reati minori, incremento delle misure alternative e limitazione dell’uso della custodia cautelare. In Campania sono 7.327 le persone ristrette, di cui 346 donne, 906 immigrati e 181 semi liberi. A fronte di una capienza regolamentare nelle diverse carceri di 6.165 persone. I detenuti con condanna, pena inflitta, da 0 a 3 anni sono 757, di cui 98 con condanna fino a un anno, 235 da 1 a 2 anni e 424 fino a 3 anni. I ristretti con residuo di pena da 0 a 3 anni sono 2.528. Pertanto nella nostra regione vi sono 3.285 detenuti che scontano una condanna da 0 a 3 anni; su una popolazione di 7.327 detenuti, 1.312 sono in attesa di giudizio, di cui 66 donne e 1.246 uomini. E ancora 502 sono appellanti e 318 ricorrenti. Definitivi, al 5 dicembre, 4.511. Sono allarmanti i dati illustrati dai garanti in merito al 2023, a cui si aggiungono quelli relativi ai tossicodipendenti, non dichiarati ma diagnosticati, che sono 1.400. Oltre ai circa 200 con sofferenza psichica di cui solo a Poggioreale 70 sono psicotici. “Propongo di istituire una sorta di task force tra Amministrazione penitenziaria, magistrati di sorveglianza e noi Garanti - dice Ciambriello - per verificare quante di queste 3.285 persone sono effettivamente impossibilitate ad accedere alle misure alternative”. I numeri hanno riguardato poi una fascia particolare come i minorenni: secondo i dati aggiornati al 15 dicembre sono 52 quelli presenti a Nisida e 24 ad Airola. In Campania 35 minori sono accusati di omicidio, di cui 4 per omicidio consumato e 31 per tentato omicidio. Denunciati nel 2022 inoltre 104 minorenni per reati a sfondo sessuale, mentre 165 sono quelli presenti nelle comunità. La soluzione per ridurre il sovraffollamento per Ciambriello è evitare il carcere se non c’è un reato grave. “Il mio appello va anche alla Direzione delle carceri - continua - alle aree educative: tirate fuori dalle matricole queste storie e verifichiamo d’intesa con i Garanti, il terzo settore, il volontariato come possiamo aiutare queste persone a vivere in una maniera alternativa le misure del carcere”. Una delle maggiori criticità riguarda i suicidi: secondi i dati aggiornati al 28 dicembre, sono 5 nelle carceri campane (uno a Poggioreale, uno a Secondigliano, tre a Santa Maria Capua Vetere), più due morti naturali. “Se oltre al problema del sovraffollamento abbiamo una carenza di figure penitenziarie - ha concluso Ciambriello - ci potrà essere solo un aumento di sentimenti di frustrazione e tensioni”. Sul tema è intervenuto anche don Palmese: “I numeri rispecchiano situazioni assurde. Credo che nessuno di noi, vivendo in un Paese civile, possa permettersi di dire che se c’è un numero basso allora non c’è problema”. Il Garante del Comune di Napoli ha chiesto dunque un’azione sinergica per trovare soluzioni serie: “Il numero dei volontari ci dice che c’è un pezzo di società e di cultura che non si ferma alla banale idea di carcerazione, ma va oltre con capacità di capire, soccorrere e accompagnare i detenuti”. Liguria. Doriano Saracino: “Nelle carceri emergenza quotidiana, dalla salute allo studio” di Erica Manna La Repubblica, 30 dicembre 2023 Il Garante regionale della Liguria per i diritti delle persone private della libertà personale ha visitato i luoghi di detenzione il giorno di Natale. Ecco quali sono le sue conclusioni. I frigoriferi sono arrivati. Ma uno, a pozzetto, deve bastare per oltre cinquanta persone. A Marassi i bidé non esistono. A Pontedecimo sì: ma non per la cella per disabili, priva anche di doccetta. A Marassi c’è il Centro clinico: un hub, tanto che molti detenuti vengono inviati lì anche dalle carceri di Saluzzo, o Imperia. Ma i posti sono circa 45: un terzo per chi è affetto da Hiv, altrettanti per chi ha problemi di natura psichiatrica. Il risultato è che per chi è malato non restano che una quindicina di posti. Così non è raro che, nell’attesa, il detenuto finisca nella sezione ordinaria. Lontanissimo dalle famiglie. Sono solo alcune istantanee dalle carceri liguri che Doriano Saracino, garante regionale della Liguria dei diritti delle persone private della libertà personale, ha osservato durante le festività: “Bisogna capire che il carcere è un problema di tutti”. È così, con una ricognizione, che aveva iniziato il suo mandato un anno fa. Cosa è cambiato? “Ho visitato le carceri di Spezia, Imperia, Sanremo, Pontedecimo, Marassi. Un giro che devo ancora completare. Molte criticità restano: la situazione è difficile. Difficile in modo diverso, ma dappertutto”. Cosa ha visto, nelle carceri, in questi giorni di festa? “Il sovraffollamento di cui si parla spesso non è solo questione di numeri. Vivere in sei in 18 metri quadrati significa vivere nei letti a castello. Tanti, nei pomeriggi senza attività, non sanno dove stare e dunque stanno a letto, con la televisione accesa in una stanza semibuia. Non si tratta solo di non avere spazio vitale, privacy. Significa fare la coda al bagno anche per un’ora. Non sapere dove tenere le scarpe, così si tendono cordini tra una gamba e l’altra del letto. Piccole cose che non sono piccole. Pensiamo al discorso del frigo. O del computer”. Ci spieghi... “Mentre a Sanremo in alcune sezioni hanno i frigo nelle celle, a Marassi hanno preso dei frigoriferi a pozzetto: ma uno deve bastare per circa 55 persone. E spesso è chiuso con un lucchetto: può aprirlo solo una persona incaricata. Così, c’è chi si è creato delle piccole ghiacciaie fai da te in cella: scatole di cartone con bottiglie d’acqua congelate. Oppure: pochi sanno che i detenuti hanno diritto a un lettore mp3 per ascoltare la musica. Ma viene loro addebitato un euro al mese per consumo elettricità. Ancora peggio per chi ha un computer che usa magari per studiare: tre euro e mezzo al mese. Ma chi frequenta dal carcere l’Università non va visto come una élite. Tanto più che ora a Marassi aprirà una sorta di polo universitario”. Ovvero? “I detenuti che studiano - una ventina - hanno chiesto di essere messi in celle omogenee tra loro: verranno sistemati in una sezione unica, con celle da due, perché hanno bisogno di concentrazione. Ma da quel momento perderanno la possibilità di essere “lavoranti”, come si dice in carcere”. A Sanremo ci sono state numerose aggressioni, risse... “Un altro grosso problema. Ma non è il solo: a Spezia, per esempio, mancano 60 posti. Perché i lavori di ristrutturazione legati ai problemi di Legionella dell’estate del ‘22 si stanno prolungando. Questo crea sovraffollamento e anche trasferimenti, con effetti negativi sulle visite dei famigliari”. Cosa si può fare? “Bisogna capire che il problema del carcere è un problema di tutti: attivare le giuste sinergie. Ancora di più adesso, con la Regione che sta portando avanti un progetto che immetterà molte risorse nel sistema. Si tratta di “Vasi Comunicanti: dall’esecuzione penale alla rete territoriale del lavoro e del benessere sociale”: un investimento di 700 mila euro in totale, cofinanziati dalla cassa delle ammende, con gli obiettivi di favorire il collegamento con i servizi territoriali, l’accesso alle misure alternative alla detenzione e l’inclusione sociale attraverso corsi di formazione professionale, tirocini lavorativi e accoglienza abitativa, e azioni per le vittime di reato. Una occasione da cogliere, mettendosi tutti in rete”. Verona. Tre suicidi in un mese a Montorio, aperta un’indagine di Manuela Trevisani L’Arena, 30 dicembre 2023 La Procura ha aperto un’indagine sui suicidi avvenuti all’interno della casa circondariale di Montorio. Al momento di tratta di un fascicolo conoscitivo, senza alcun nome iscritto sul registro degli indagati: l’obiettivo è fare chiarezza su quanto avvenuto nei mesi scorsi dietro le sbarre del carcere veronese e, soprattutto, individuare eventuali responsabilità. Il fascicolo è stato affidato al pubblico ministero Maria Federica Ormanni. Delle indagini si occuperanno gli agenti del Nucleo investigativo centrale (Nic) della polizia penitenziaria, in arrivo dalla sede compartimentale di Padova. Tre suicidi in un mese - Ogni vita che si interrompe ha valore, ma a sollevare clamore è stata soprattutto la frequenza con cui si sono verificati i suicidi a Montorio. Tre in meno di un mese. Il 10 novembre è stata la volta di Mortaza Farhady, il 20 novembre si è tolto la vita Giovanni Polin e l’8 dicembre scorso si è suicidato Oussama Sadek. Oussama, dopo tre anni di detenzione, si stava avviando verso la fine della pena: gli mancavano solamente tre mesi. Ma l’uomo, che già in passato aveva dato segnali di disagio psichico, non ha retto allo sconforto e quel giorno, l’8 dicembre scorso, poche ore dopo essere stato visitato da uno specialista, si è impiccato in una cella di isolamento, dov’era stato rinchiuso per il suo comportamento aggressivo. Una tragedia che aveva colpito molto gli altri detenuti della sua sezione, la quinta, che hanno inoltrato un esposto al Tribunale di Sorveglianza e al magistrato di sorveglianza di Verona, oltre che alla direzione regionale del Dap, per chiedere sia fatta luce sul suicidio di Oussama. Nell’esposto i detenuti hanno chiesto “un intervento più incisivo dell’autorità giudiziaria, e di tutte le istituzioni dello Stato, per evitare il ripetersi di simili episodi”. La mobilitazione - Alla luce dei recenti casi di detenuti suicidi, il Comune ha convocato per gennaio il tavolo di lavoro con focus sul carcere. L’obiettivo è capire bisogni e urgenze della casa circondariale al fine di trovare soluzioni idonee. Al tavolo ci saranno il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, la direttrice della casa circondariale Francesca Gioieni, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale don Carlo Vinco, oltre agli assessori alle Politiche sociali Luisa Ceni, alla Sicurezza Stefania Zivelonghi e al Terzo settore Italo Sandrini. L’interrogazione - Due settimane fa, inoltre, il deputato di Forza Italia Flavio Tosi ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio sui tre suicidi di Montorio. Ricordando in una nota che “la Costituzione prevede che le carceri, oltre alla giusta funzione repressiva, hanno anche lo scopo di recuperare alla comunità i reclusi”, e sottolineando “il gravoso ed encomiabile impegno profuso dalla Polizia Penitenziaria”, Tosi ha chiesto al ministro “quali azioni intende intraprendere per cercare di evitare il ripetersi di ulteriori simili tragedie”. Sanremo (Im). Picchiato in carcere, la mamma denuncia: “In cella di isolamento in ospedale” di Gabriella Mazzeo fanpage.it, 30 dicembre 2023 Antonella Zarri, mamma di Alberto Scagni, racconta le condizioni in cui si trova il figlio 42enne dopo essere uscito dal coma farmacologico. “Sbattuto in una cella di isolamento disposta dal reparto di Fisiatria dell’ospedale di Imperia quando ancora non riusciva a reggersi in piedi”. Dopo due interventi chirurgici al viso, Alberto Scagni ha lasciato il reparto di Rianimazione dell’ospedale di Sanremo e si trova ora nel reparto di Fisiatria. Il 42enne, condannato a 24 anni e 6 mesi di reclusione per aver ucciso la sorella Alice il 1 maggio 2022 è uscito dal coma dopo essere stato massacrato di botte nella sera del 22 novembre scorso da due compagni di cella. Secondo quanto reso noto, le condizioni del 42enne sarebbero in miglioramento. La mamma del 42enne, Antonella Zarri, ha fatto però sapere a Fanpage.it che il detenuto si trova al momento in una “cella di isolamento” dell’ospedale di Imperia. “La stanza si trova nel reparto di Nefrologia, il reparto di Fisiatria in cui è in carico a ieri non lo ha mai visto. Il fisiatra viene due volte al giorno per un’ora e per Alberto, che è sostanzialmente una larva in questo momento, ha chiesto a me l’acquisto di calzature mediche per metterlo in piedi. Le calzature acquistate davanti all’ospedale da me, in un negozio specializzato, hanno dovuto fare fisicamente il giro dal carcere di Sanremo per l’approvazione ad entrare nell’ospedale di Imperia. Qualunque scelta, anche di natura medica, è posta al vaglio del Dap”. “Chiarisco le notizie fuorvianti rassicurando nel contempo coloro che odiano noi e la verità di cui siamo portatori - ha scritto sui social network Antonella Zarri, madre dei due fratelli Scagni che in questi mesi si è prodigata per portare nelle aule di tribunale il mancato intervento delle forze dell’ordine e della Salute mentale di Genova, più volte sollecitate sui problemi del 42enne -. Alberto, a una manciata di giorni dall’uscita dal coma farmacologico, incapace di mantenere la posizione eretta e finanche di puntellarsi sui gomiti e mettersi seduto sulla branda regolamentare da carcere dove è stato prontamente sbattuto, di nutrirsi e bere efficacemente, è stato rinchiuso nella cella di isolamento dell’ospedale di Imperia (a dispetto di ben altre indicazioni terapeutiche anticipate dal Responsabile di Rianimazione Sanremo)”. Nel post pubblicato sui social, Zarri sottolinea che le condizioni del figlio 42enne sono ancora critiche. “Il suo avvocato dovrà pietire via Pec un tavolo sul quale appoggiare acqua e cibo. O continuerà a non mangiare come ha fatto per due giorni. La riabilitazione consiste in due ore di fisiatria al giorno con grande fretta di togliersi il problema del mostro in corsia. La sofferenza, l’umiliazione, la tortura (tutto tenuto nei limiti della legalità ipocrita) sono ripristinati e la ritorsione sulla pelle di Alberto può proseguire. Seguo con interesse il marketing locale sulla gestione del detenuto Scagni, quasi spinto dall’urgenza di imbellettare un movente”. Torino. Le carte giudiziarie che raccontano un carcere di diritti violati di Stefano Baudino L’Indipendente, 30 dicembre 2023 Per la Procura di Torino erano vere e proprie torture, per il giudice - almeno in relazione alle condotte contestate all’imputato alla sbarra - solo “comportamenti aggressivi” in cui manca l’elemento della “sadica soddisfazione” per la capacità di “generare sofferenza”. Ma le carte giudiziarie emerse dal processo in corso sulle violenze cui sarebbero stati sottoposti alcuni detenuti nel carcere di Torino raccontano nitidamente come, all’interno del padiglione C dell’istituto penitenziario - dedicato ai responsabili di reati a sfondo sessuale - un clima di “timore e omertà” abbia spianato la strada a innumerevoli episodi di pestaggi, vessazioni e insulti da parte del personale carcerario nei confronti dei reclusi. Che, colpevolmente, non furono denunciati da chi allora era al vertice dell’istituto. L’inchiesta, che conta 25 indagati, a settembre è approdata a un primo verdetto per i tre che hanno scelto il rito abbreviato: l’ex direttore del carcere Luigi Minervini, assolto per favoreggiamento e condannato per omessa denuncia, l’ex comandante di reparto di Polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, assolto per favoreggiamento “perché il fatto non sussiste”, e l’agente Alessandro Apostolico, alla sbarra per aver usato “crudeltà” verso un detenuto e avergli inflitto “violenze gravi” che produssero “acute sofferenze fisiche”, condannato a 9 mesi più 300 euro di multa per abuso di autorità. Al netto dei risvolti penali della vicenda, le motivazioni della sentenza hanno fatto luce sulla gravità di quanto avvenuto tra le mura del carcere nel periodo compreso tra il 2017 e il 2019. Il gup di Torino Ersilia Palmieri scrive infatti che le vittime hanno descritto “un modus operandi ricorrente: una sorta di ‘battesimo’ una volta che il detenuto fa ingresso in carcere, perpetrato da un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria (i quali, dall’agire in gruppo, paiono trarre superiorità e forza e la cui identità spesso ritorna nei vari fatti contestati), con modalità simili”. Nello specifico, si fa riferimento a “insulti e vessazioni continui, schiaffi al volto, calci, pugni alla schiena, sferrati in una stanzetta isolata o durante un percorso obbligato spesso indossando i guanti, pratica utilizzata, evidentemente, per non lasciare tracce evidenti”, nonché a “perquisizioni arbitrarie e violente e a limitazioni arbitrarie dei diritti dei detenuti (ai quali, ad esempio, non viene fornito il materasso per dormire), tutti posti in essere verso i detenuti per reati a sfondo sessuale, o con vittime minorenni”. D’altronde, tra il primo gennaio e il 2 ottobre 2018, nella lista degli “eventi critici” gli infortuni “accidentali” avvenuti nel padiglione C sono stati ben 75 su un totale di 166. “Alcuni agenti del blocco C - viene scritto nella sentenza - utilizzavano quotidianamente modi brutali, quali picchiare i detenuti, dopo averli condotti in una saletta al piano di sotto, eseguire perquisizioni punitive, danneggiare effetti personali, costringere il soggetto a leggere ad alta volte il capo di imputazione per poi deriderlo e insultarlo, ovvero portarlo nei pressi della rotonda del reparto e circondarlo, anche alla presenza dell’ispettore, per intimorirlo e dissuaderlo da eventuali denunce nei loro confronti”. Su tali episodi, secondo quanto ricostruito dal giudice, non c’erano “margini di discrezionalità” per “la qualità e la quantità dei casi segnalati”, per “la fonte da cui arrivavano”, per “la persistenza nel tempo di criticità anomale legate ad atteggiamenti prevaricatori e aggressivi verso i detenuti”, per “il numero di ‘sinistri accidentali’“ e per “l’inefficacia degli strumenti messi in campo”. Eppure, l’ex direttore Domenico Minervini non ha demandato accertamenti all’autorità giudiziaria. Una scelta “consapevole”, scrive il giudice, che fu presumibilmente “dettata dal timore di dover dar conto di un’azione impopolare”. L’intenzione dell’ex numero uno del carcere sarebbe stata infatti quella di non “alterare gli equilibri con la polizia penitenziaria” e non di supportare altri “a eludere le investigazioni”. Secondo il giudice, gli indagati per le violenze ai danni dei detenuti si consideravano detentori di una “patente di ‘giustizieri morali’ violenti, nella certezza dell’impunità”. L’agente Alessandro Apostolico, alla sbarra nel giudizio in abbreviato, ha ad esempio avuto in occasione di un episodio “un comportamento aggressivo e assolutamente arbitrario che va censurato”. Ma, non emergendo “una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza, quanto più l’evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione anche per la scarsa preparazione a trattare con i detenuti”, è stato assolto dal reato di tortura e condannato per abuso di autorità. Bambini in cella con le mamme: che civiltà è mai questa? di Vito De Filippo L’Unità, 30 dicembre 2023 Pediatra, già parlamentare, Siani ha riunito esperti e scrittori per tenere alta l’attenzione sull’incredibile situazione dei piccoli chiusi in carcere con la propria mamma, che squarcia come un’ascia ogni pretesa di civiltà del nostro Paese. Ci sono libri che lasciano un sedimento insuperabile di inquietudine. Sono moltiplicatori di domande. Enigmi, ma luminosi. Questo produce la lettura di un piccolo ma travolgente lavoro a più mani coordinato da Paolo Siani: “Senza colpe, bambini in carcere”, Guida editore. Siani pediatra e multiforme opinionista napoletano ha consegnato alla vita istituzionale del nostro Paese anche una fulgida esperienza parlamentare nella scorsa legislatura. Una voce “adulta” a difesa strenua dell’infanzia. Da sempre. Ha messo insieme esperti, scrittori, professori universitari ed amici per mantenere l’attenzione su una delle situazioni più incredibili e più sconosciute di bambini costretti a vivere in un carcere per stare con la propria mamma. Più volte questo giornale ci ha parlato della situazione “sconvolgente” del nostro sistema carcerario. Ma questa dei bambini dietro le sbarre squarcia come un’ascia, più di altre casistiche, pretese di modernità e di civiltà del nostro Paese. La prima parola che pronunciano, dietro porte di ferro, è “apri” non “mamma”. Sono lì in ambienti dove la “gestione delle emozioni”, la ripetitività dei gesti, gli spazi del gioco sono solo l’anticamera di quella “sindrome da prigionia” che potrebbe compromettere per sempre la loro traiettoria di sviluppo come tanti studi scientifici hanno dimostrato. Eppure si era arrivati ad un primo grande risultato. Uno dei motivi alla base di questo libro è fare proposte concrete. Insieme a Siani, Anna Catalano, Lorenzo Chieffi, Samuele Ciambriello, Carla Garlatti, Paolo Lattanzio, Lorenzo Marone, Gemma Tuccillo offrono uno spaccato drammatico e anche qualche soluzione. La legge che un ramo del parlamento nel 2022 aveva approvato all’unanimità, nel tempo gelido che stiamo vivendo, rischia di naufragare. Ci ricordano gli autori. La proposta di legge indicava cose semplici. Istituire case protette per mamme detenute, in Italia ce ne sono solo due, una a Roma ed una Milano. Considerare gli ICAM, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, come soluzione residuale. L’istituzione di un fondo necessario per ospitare ed allestire case protette. Infine una modifica del codice di procedura penale che equiparava alla condizione dell’ultrasettantenne quella dell’imputato unico genitore di una persona disabile grave e poi interveniva con l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena quando non c’erano esigenze cautelari di particolare rilevanza. Alla Casa di Leda, bellissima esperienza a Roma, ci è arrivato a far visita con la sua solita è stupefacente agilità pastorale, Papa Francesco. Non altri. Non decisori pubblici appassionati anche in questo caso di panpenalismo, sempre alla moda. La pubblicistica a disposizione di opinionisti “senza macchie e senza colpe” cita ripetutamente il film di Vittorio De Sica, Ieri, oggi e domani, con Sophia Loren nei panni della contrabbandiera di sigarette sempre incinta. Per non parlare, oggi, del plateale esempio delle borseggiatrici che affollano le nostre metropolitane. Insomma quel clima a tratti grottesco di punizioni e sanzioni. Nel frattempo facciamo strame dell’articolo 31 della costituzione della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza o della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che stabiliscono nettamente il superiore e preminente interesse del bambino. Alcune delle foto pubblicate in calce al volume della mostra di Anna Catalano ammutoliscono definitivamente ogni dibattito. Una voragine di vuoti, di assenze nei volti di quei bambini, “perché un carcere non può essere un nido”. Non serve più nemmeno la parola per capire. Siani e i suoi amici, come li ha chiamati nel libro, non si sono arresi a questa battaglia di civiltà. Per fortuna. Anche se fosse un bambino soltanto! Israele. C’è chi dice no alla guerra, ma gli obiettori vanno in carcere di Paolo Valenti Il Domani, 30 dicembre 2023 Tal Mitnik, 18 anni, è il primo israeliano a finire in carcere per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito che sta combattendo a Gaza e in Cisgiordania. Prima del 7 ottobre erano centinaia a professare l’obiezione di coscienza, tanti poi hanno preferito le armi o il silenzio. “Non c’è soluzione militare a un problema politico. L’attacco criminale su Gaza non riparerà il massacro che Hamas ha compiuto il 7 ottobre. Per questo rifiuto di arruolarmi”. Mitnik ha lo sguardo fiero e un borsone a tracolla sulla spalla mentre si appresta a entrare nella base militare di Tel HaShomer, a pochi chilometri da Tel Aviv, tra gli applausi e le grida di incoraggiamento di altri giovani attivisti come lui. Martedì è stato condannato a trenta giorni di carcere per aver trasgredito all’obbligo di prestare servizio militare: è il primo obiettore di coscienza israeliano, o refusenik, come vengono chiamati lì, a finire in prigione dall’inizio dell’offensiva su Gaza, o almeno il primo di cui si abbia notizia pubblicamente. Intervistato da Domani qualche settimana prima dell’arresto, diceva: “Quello che i terroristi di Hamas hanno fatto il 7 ottobre è orribile. Il dolore e la rabbia sono entrati nelle case di tutti gli israeliani, ma non possiamo permettere che si trasformino in vendetta. Far piangere migliaia di madri a Gaza non ci riporterà indietro i nostri cari uccisi. Bombardare indiscriminatamente la Striscia, compresi gli ospedali, non soltanto produce ulteriore odio, ma mette a rischio anche la vita degli ostaggi”. Mitnik ha finito le scuole superiori quest’estate. Come tutti i suoi coetanei, ad eccezione degli ebrei ultraortodossi che godono di una contestatissima esenzione, avrebbe dovuto prestare servizio militare: in Israele è obbligatorio, e ha una durata minima di 32 mesi per i ragazzi e 24 per le ragazze. Ma si è opposto e, lo scorso agosto, ha fondato insieme ad altri attivisti il movimento Youth against dictatorship (Giovani contro la dittatura), che in pochi giorni ha raccolto 250 adesioni: ragazzi e ragazze che si impegnavano a rifiutare il servizio militare fino al ritiro della riforma della giustizia promossa da Benjamin Netanyahu e la fine dell’occupazione. “Noi, giovani chiamati alle armi, diciamo no alla dittatura, sia in Israele che nei territori palestinesi occupati, e dichiariamo che non ci arruoleremo finché la democrazia non sarà garantita a tutti - si legge nel manifesto -. Non serviremo un governo che distrugge il sistema giudiziario e un esercito che sottomette un’altra nazione”. Allora erano migliaia i riservisti e i militari in servizio a minacciare lo sciopero in segno di protesta contro la riforma della giustizia, che avrebbe limitato di molto i poteri della Corte suprema e garantito al governo ampi poteri nella nomina dei giudici. Dopo il 7 ottobre, però, la maggior parte aveva accantonato la protesta e risposto con convinzione alla chiamata alle armi per “cancellare Hamas dalla faccia della terra”. Sono pochi quelli che si sono ostinati nella scelta di obiettare anche dopo, e ancor meno quelli che, come Mitnik, hanno scelto di farlo esponendosi pubblicamente. “È impossibile sapere precisamente quanti siano, anche perché il clima in Israele si è fatto talmente teso dal 7 ottobre che spesso chi rifiuta di prendere le armi lo fa nel silenzio per evitare ritorsioni”, spiega Yeheli Cialic, coordinatore di Mesarvot, la principale organizzazione di supporto agli obiettori di coscienza israeliani. In Israele non esistono alternative nonviolente al servizio militare. Chiunque però può chiedere un’esenzione per motivi fisici, psicologici o religiosi, e non è raro che le autorità militari assecondino la richiesta. Molto più difficile invece che venga concessa per “motivi di coscienza”. Chi non si presenta in caserma dopo aver visto respinta la richiesta o senza averne presentata una può finire in carcere. “Non c’è una regola, decidono caso per caso le autorità militari”, spiega Cialic. “Di solito, si inizia con una condanna di una settimana o dieci giorni per poi aumentare in caso di recidiva, fino ai cinque mesi o più di detenzione”. Dopodiché, succede spesso che le autorità si arrendano e concedano l’esenzione per “incompatibilità” con gli standard delle forze armate. Per essere una prima condanna, quindi, quella di Mitnik (30 giorni di carcere) è particolarmente severa rispetto alla consuetudine, forse un messaggio indirizzato a tutti gli altri refusenik. “È allo stesso tempo preoccupante e incoraggiante”, dice Yona Roseman, altra giovane attivista per la pace. “Significa che rappresentiamo un grosso problema per i vertici militari, e che attraverso Tal vogliono dissuaderci dal seguire il suo esempio. Ma non ci riusciranno”. Quello degli obiettori di coscienza è uno dei tanti fronti aperti tra Israele e le Nazioni unite: nell’ultimo rapporto periodico dedicato allo stato ebraico, del 2022, il Comitato per i diritti umani esprimeva la sua “preoccupazione per la composizione prevalentemente militare della commissione che decide sulle richieste di obiezione di coscienza” e per il fatto che i refusenik “continuano a essere sottoposti a pene e detenzioni ripetute”. Ma chi dice no alle armi non rischia solo il carcere. “Il servizio militare è considerato una tappa fondamentale nel processo di inserimenti nella società israeliana. Ai bambini viene spiegato quanto sia importante già dalla scuola materna”, dice Cialic. “Chi viene meno non è visto di buon occhio, anzi rischia di subire, oltre all’emarginazione, conseguenze sul piano sociale ed economico, per esempio essere svantaggiato sul mercato del lavoro o nella ricerca della casa”. Roseman, che è all’ultimo anno di scuola superiore ma ha già deciso di opporsi al servizio militare, racconta di fare quotidianamente i conti con l’incomprensione di familiari e amici e gli attacchi online. Non ha paura di finire in carcere come Mitnik, e come lui è convinta che, per quanto isolate, le loro scelte stiano iniziando a smuovere qualcosa nella società israeliana. “Ai vertici politici e militari stiamo facendo capire che non possono darci per scontati”, diceva il diciottenne qualche settimana prima dell’incarcerazione. “Agli altri ragazzi come noi, invece, stiamo mostrando che quella delle armi non è l’unica strada come ci hanno sempre detto”. Il Sudafrica accusa Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia ilpost.it, 30 dicembre 2023 Ha chiesto un provvedimento immediato, ma la questione è complessa e una sentenza potrebbe richiedere molto tempo e non servire a niente. Venerdì il Sudafrica si è rivolto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia accusando Israele di star commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza. Il Sudafrica ha chiesto un provvedimento urgente del tribunale internazionale per l’interruzione dei bombardamenti e di tutte le operazioni militari dell’esercito israeliano, sostenendo che le sue azioni violino la cosiddetta Convenzione sul genocidio, un trattato internazionale approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948 e ratificato da Israele. La Corte internazionale di giustizia è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, istituito per risolvere le dispute tra stati. Le sue sentenze però sono spesso state ignorate in passato: a marzo del 2022 per esempio il tribunale aveva ordinato alla Russia di fermare il suo attacco militare in Ucraina, sempre sulla base della Convenzione sul genocidio, senza ottenere niente. Dimostrare che la guerra in corso sia o meno giuridicamente catalogabile come genocidio inoltre è piuttosto difficile al momento, e potrebbe richiedere molto tempo. La Convenzione del 1948 citata dal Sudafrica, che Israele ha ratificato nel 1950, è un trattato internazionale che fornisce la definizione di genocidio sulla base della quale gli organismi internazionali stabiliscono la presenza o meno di un simile atto, e i tribunali internazionali le eventuali responsabilità e punizioni. Permette inoltre a ogni stato di denunciarne un altro davanti alla Corte internazionale di giustizia, anche se non è direttamente coinvolto con l’operazione militare in questione. Le condizioni decise dalla Convenzione per parlare di genocidio sono piuttosto precise, ma c’è un elemento che rende la questione più complicata, che è “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. In pratica significa che per parlare di genocidio deve essere provato che chi ha commesso l’atto avesse l’intenzione di sterminare un gruppo di persone in quanto tale, e non è facile. Nei documenti depositati dal Sudafrica si legge che “gli atti e le omissioni di Israele denunciati dal Sudafrica sono di tipo genocida perché volti a provocare la distruzione di una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese”, ma per arrivare a una sentenza potrebbe volerci molto tempo, soprattutto perché l’accesso alla Striscia di Gaza è completamente bloccato, e non è possibile formulare un’accusa sulla base di indagini indipendenti. Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas a ottobre il Sudafrica si è posto in modo molto critico nei confronti di Israele, sospendendo ogni relazione diplomatica. Il ministero degli Esteri di Israele ha risposto in una nota di “rifiutare con disgusto” le accuse del Sudafrica, che sarebbero “senza fondamenti fattuali e legali”. Ha inoltre aggiunto che il Sudafrica starebbe collaborando con Hamas, e ha ribadito di star rivolgendo le proprie azioni militari solo contro Hamas e le “altre organizzazioni terroristiche”, e di aver messo in atto “ogni sforzo per limitare i danni ai civili”. In realtà nelle ultime settimane gli attacchi di Israele hanno in molti casi colpito zone della Striscia di Gaza popolate da civili, tra cui campi profughi. Pochi giorni fa un’inchiesta giornalistica curata dal New York Times, tra i giornali più prestigiosi e affidabili al mondo, ha rivelato che negli ultimi mesi l’esercito israeliano ha sganciato oltre 200 bombe particolarmente potenti in zone della Striscia di Gaza che in precedenza aveva indicato come sicure, e dove aveva quindi suggerito ai civili di rifugiarsi.