Il saluto del Garante dei detenuti: “La segregazione cambia e moltiplica i luoghi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 dicembre 2023 Mauro Palma lascia dopo quasi 8 anni. Ma il nuovo collegio non è ancora stato nominato. Carceri, ma non solo: centri per il trattenimento dei migranti, ospedali, Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, Residenze socio assistenziali (Rsa) o per l’Esecuzione penale esterna dedicate ai folli-rei (Rems), camere di sicurezza delle Forze di Polizia. Sono questi i luoghi dove la consapevolezza del diritto è stata messa a dimora 7 anni e dieci mesi fa dal primo Collegio italiano del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale - composto da Mauro Palma, Daniela De Robert e Emilia Rossi - che ieri ha ufficialmente concluso il proprio mandato con una cerimonia al Senato. E, gesto assai significante, con la deposizione di una corona di fiori alle Fosse Ardeatine, “come elemento di esito di una privazione della libertà drammatica, e contemporaneamente germe della democrazia per cui siamo oggi qui riuniti”, come ha spiegato Palma. Oggi, quella consapevolezza è una pianta che ha messo radici. Se crescerà e si espanderà, oppure seccherà e morirà, dipende dalla continuità che il prossimo Collegio saprà imprimere all’azione messa in campo fin qui dall’autorità di garanzia che ha fatto da apripista e da modello anche per esperienze analoghe in altri Paesi democratici. In sala, in nuovi componenti del Collegio nazionale - Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio - non erano presenti. Il decreto presidenziale che sancisce la loro nomina, infatti, non è ancora stato firmato dal capo dello Stato Sergio Mattarella, perché il testo non è ancora arrivato al Quirinale malgrado l’iter si sia concluso martedì scorso in Consiglio dei ministri, con l’approvazione finale. Neppure il ministro di Giustizia era presente ma, nel suo messaggio di saluto e ringraziamento al Garante uscente, Carlo Nordio ha messo il dito nella piaga delle carceri italiane, ammettendo il ritorno del sovraffollamento, la mancanza di lavoro per i detenuti, che è “la via maestra per il loro reinserimento”, le “croniche carenze di organico”, e soprattutto riconoscendo che in quell’immagine restituita dallo “specchio della società” che è il carcere “ora vediamo tanta marginalità, tanti problemi di salute mentale e di dipendenza dagli stupefacenti”. “Bisogna aver visto”, scriveva Calamandrei. “Ma non basta: occorre sapere anche cosa andare a cercare”, fa notare De Robert, che avverte: “La privazione della libertà si trasforma, si arricchisce di nuove modalità e nuovi luoghi. Con poche caratteristiche comuni: la vulnerabilità delle esistenze, il sentimento di appartenenza alla condizione di segregazione, il vuoto, la perdita di soggettività”. Ma bisogna sapere anche “dove” andare a cercare. Dove - come sintetizza bene Emilia Rossi - esercitare il controllo e volgere lo sguardo, al fine di poter mettere a punto, come è stato fatto fin qui, “un corpo normativo di soft law che è andato ad aggiungersi, con l’autorevolezza della sua fonte e dell’aderenza alle Direttive internazionali, al corpo normativo ordinario e primario”. Qualcosa che fa della nostra democrazia anche uno Stato di diritto, “perché - ricorda Rossi - non tutte le democrazie accettano autorità di controllo come questa, non tutte vogliono essere permeabili”. Tra un intervento e l’altro, le letture dei testi di Michel Foucault (Eterotopia), di Jean Amery (Intellettuale ad Aushwitz) e di Egon Schiele (Un giorno qualsiasi) si elevano sui chiacchiericci scomposti del populismo penale. Perché al netto di un “moderatamente positivo bilancio di questi anni”, ciò che preoccupa Mauro Palma è che “i diritti affermati senza sistemi di garanzia divengono mere enunciazioni”. “Qual è la pregnanza dell’affermazione del valore della vita se non si approvano indicazioni cogenti sulle politiche sociali degli Stati, perché la parola vita non sia scissa dall’implicito aggettivo di “dignitosa”? Il rischio - continua Palma - è una progressivamente accentuata asimmetria tra le affermazioni, l’enunciazione e la concretezza vissuta”. C’è un abisso pieno di mostri, sembra dire il matematico e giurista, tra il “rigore logico linguistico della scienza giuridica e delle norme a cui richiamava Norberto Bobbio sin dal suo antico e noto saggio Scienza del diritto e analisi di linguaggio, e invece la vaghezza di parole odierne e che pure regolano la massima potestà dello Stato, cioè la privazione della libertà personale”. Che sia dei detenuti, degli anziani, dei migranti o dei malati. Di chiunque finisca, per un giorno o per sempre, nell’angolo buio della nostra società. “Bisogna aver visto”. Noi l’abbiamo fatto di Emilia Rossi* L’Unità, 2 dicembre 2023 Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento tenuto ieri al Senato, in occasione del saluto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, da Emilia Rossi, membro del Collegio uscente insieme a Daniela de Robert e al Presidente Mauro Palma. “Bisogna aver visto” diceva Calamandrei. Il Garante ha aperto luoghi chiusi, li ha resi visibili. È difficile riassumere l’esperienza straordinaria - nel senso letterale del termine - ed esaltante che è stata quella di dar vita a una Istituzione dello Stato, tanto più di garanzia: terza e indipendente, per natura, da ogni luogo di potere e da ogni forma di appartenenza che possa minare la sua autonomia, nell’istituzione e nelle persone che la rappresentano. Ho pensato di farlo individuando i tre punti che hanno fatto la differenza nel nostro sistema istituzionale con l’azione del Garante nazionale: il controllo, lo sguardo, il diritto. Il controllo - Con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si è introdotta nel nostro ordinamento un’Autorità pubblica che esercita il controllo sullo Stato nell’esercizio del suo potere restrittivo, nelle diverse forme che determinano la condizione di privazione della libertà personale. Sono convinta che questa sia una conquista di civiltà per uno Stato di diritto, oltre che per una democrazia, non comune a tutte le democrazie: lo Stato si fa permeabile in una delle sue sedi più oscure e più forti, quella in cui dispone della libertà e della vita delle persone. Il Garante nazionale è nato per vigilare su queste sedi e sul rispetto dei diritti derivanti dal primo articolo della Costituzione con cui si apre il Titolo sui ‘Rapporti civili’, il primo della prima parte della Carta: un ordine di priorità che parla da solo e dice molto dei valori stabiliti dai Costituenti per configurare l’assetto dei rapporti sociali. Quell’articolo 13 che al suo primo comma sancisce che la libertà individuale è inviolabile e al terzo comma punisce - e non lo fa in nessun’altra norma della Costituzione - “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà”. Questo è un precetto costituzionale che, a mio avviso, chiude ogni polemica sul reato di tortura. Il Garante nazionale è nato, quindi, per controllare e intervenire su un diritto di generale interesse e rilevanza: la legalità dello Stato nel rapporto con le persone che gli sono consegnate in custodia. Lo sguardo - È uno sguardo particolare, quello del Garante nazionale, diverso da quello di ogni altra Istituzione, perché nasce dall’osservanza di quel “comandamento” espresso da Piero Calamandrei alla Camera dei deputati il 27 ottobre 1948 nella discussione sull’istituzione di una commissione d’inchiesta sullo stato delle carceri, quando Calamandrei diceva ai suoi colleghi parlamentari: “bisogna aver visto”. E quel bisogna aver visto è riportato nella Legge istitutiva del Garante nazionale che come primo compito gli assegna quello di visitare. Il Garante nazionale prima di ogni cosa visita, quindi, con l’ampiezza dei poteri di legge che gli consentono, anzi gli impongono, di penetrare ovunque, senza autorizzazioni, senza preavviso, a sorpresa. Uno sguardo, dunque, con cui il Garante nazionale ha aperto luoghi chiusi, li ha resi visibili e li ha messi in comunicazione tra loro attraverso un comune canale di comunicazione: la privazione della libertà e il rispetto dei diritti delle persone a qualunque situazione di privazione della libertà siano soggetti. Questo è il canale di comunicazione che ha tenuto e tiene insieme carceri, centri per il trattenimento delle persone migranti, ospedali, servizi psichiatrici di diagnosi e cura, Rsa e camere di sicurezza delle Forze di Polizia. Uno sguardo, quello del Garante, di sistema e mai orientato verso una parte se non da quella della Costituzione e della necessaria riconducibilità all’assetto costituzionale delle regole, delle discipline e delle modalità di privazione della libertà personale nel nostro Paese. Questo ha fatto l’autorevolezza di questa Istituzione, la sua capacità di intrusione e di intervento. Il diritto. Prima del Garante nazionale mancavano in Italia linee guida, standard, sulle condizioni di privazione della libertà. Il Garante nazionale ha creato un corpo normativo, con l’elaborazione delle Raccomandazioni che venivano dalle attività di visita: un corpo normativo di soft law che è andato ad aggiungersi con l’autorevolezza della sua fonte e dell’aderenza alle Direttive internazionali, al corpo normativo ordinario e primario. La rilevanza di questa produzione di diritto ha trovato segno nel fatto che le più alte corti, nazionale e sovranazionale, la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno fondato le motivazioni di loro pronunce sulle Raccomandazioni e sui Rapporti del Garante nazionale. [...] Questi sono gli approdi che questo Collegio ha raggiunto, passo dopo passo, nell’intenso lavoro di questi sette anni e più, dando vita a un nuovo assetto istituzionale e ordinamentale che fa onore alla civiltà del nostro Paese. [..] Ci rincontreremo da altre parti in altri luoghi, perché la difesa dei diritti, una volta che uno la contrae, è una malattia inguaribile. E noi non abbiamo intenzione di guarire. *Membro del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Natale in carcere, non è un cinepanettone ma un vero incubo di Domenico Forgione Il Dubbio, 2 dicembre 2023 È arrivato di colpo l’inverno. Si sapeva che sarebbe successo, come ogni anno. E infatti, chi utilizza stufe o termo- camini per riscaldare la propria abitazione, generalmente già in estate provvede alla scorta di legna o di pellet. Per non farsi trovare impreparati, sorpresi dalle temperature che improvvisamente diventano rigide. Così come sono già pronti coloro che utilizzano il metano o il gpl. Al limite, una controllatina alla caldaia, ma niente di più. Non ti temiamo, generale inverno. Poi, il 27 di novembre, mentre nel “mondo di fuori” già si è avanti con gli addobbi natalizi, capita di entrare in un carcere (Casa Circondariale di Lecce) e si sbatte forte con il muso contro la disumanità dei regimi carcerari. Negli “Hotel a cinque stelle” ancora si soffre il gelo, a meno di un mese da Natale. Non nella sala colloqui, quella è riscaldata. Un familiare non nota niente di anomalo. Anzi, ha quasi caldo. Nelle celle invece non è così. I detenuti si arrangiano come possono. Insomma: indossano qualche maglia in più, tengono in testa il berretto di lana giorno e notte, cercano di stare sotto le coperte il più possibile, per evitare gli spifferi delle finestre e le correnti d’aria che attraversano i pochi metri quadrati tra i lettini. Raschiano il fondo del barile del loro proverbiale spirito di adattamento. Però, quanta pena e quanta rabbia. Tenere tra le mani una mano gelida. Sentire all’abbraccio guance e orecchie freddissime. Fisime da garantisti, si dirà. Mica vorrebbero davvero un albergo i delinquenti che si trovano in regime di custodia carceraria. Anche quelli non ancora condannati in via definitiva, che poi anche questi sarebbero esseri umani. Colpa loro, se ne facciano una ragione. Giovani e vecchi. Se ce la fate, sopravviverete. Altrimenti, sono problemi vostri. E invece è un problema di tutti noi e dello stato del diritto all’interno delle carceri. È il problema delle parole della “più bella Costituzione del mondo” smentite dalla realtà: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (articolo 27, terzo comma). È una questione che poco ha a che fare con la pena, che già si sta scontando o addirittura (per in non definitivi) si sta anticipando, in molti casi gratuitamente. È il sadismo delle troppe afflizioni aggiuntive perpetrate da uno Stato sulla carta democratico. Qualcosa di profondamente ingiusto. La vergogna di uno Stato che non “custodisce” e che si fa barbaro e tribale. Non è vero che la tortura è stata abolita in Italia. Basta entrare in un carcere per capirlo. “Creiamo Unità operative aziendali di sanità penitenziaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2023 La proposta della Simspe per affrontare le criticità. La situazione critica della salute nelle carceri italiane è sotto i riflettori, con droga, violenza e suicidi che mettono a dura prova il sistema penitenziario. Il 2022 è stato un anno record per i suicidi, con 84 casi registrati secondo i dati della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). A metà novembre 2023, il numero è già salito a 62. Il presidente della Simspe, Antonio Maria Pagano, sottolinea un aumento preoccupante della tossicodipendenza tra i detenuti, con oltre il 60% di essi che fa uso di stupefacenti, rispetto al 50% precedente al periodo Covid. Pagano evidenzia la mancanza di dati scientifici precisi, enfatizzando la necessità di un sistema di raccolta e analisi dei dati intersettoriali per affrontare in modo efficace la tossicodipendenza in carcere. Questa dipendenza, afferma Pagano, genera un effetto disinibente che contribuisce all’aumento della violenza, con conseguenze per i detenuti, il personale sanitario e la polizia penitenziaria. I dati della Simpse evidenziano che, nonostante le percentuali significative di detenuti che assumono sedativi, ipnotici o stabilizzanti dell’umore, il numero di diagnosi psichiatriche gravi rimane limitato. La fragilità mentale è ulteriormente complicata dalla tossicodipendenza diffusa nelle carceri, rendendo urgente un intervento mirato. La Simspe propone un nuovo modello organizzativo per affrontare le criticità, presentato durante il Congresso nazionale a Napoli. Tra le proposte, spiccano le Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria, con autonomia organizzativa e gestionale, multifunzionali e multiprofessionali. La Simspe accoglie positivamente l’ipotesi di una cabina di regia interministeriale con tecnici del ministero della Salute e del Dap. Nonostante le sfide, alcuni progressi sono stati raggiunti nella gestione delle malattie infettive nelle carceri. Progetti come Rose - Rete donne Simspe hanno affrontato con successo le infezioni da Hiv ed epatite C nelle donne detenute. Tuttavia, il direttore scientifico Simspe, Sergio Babudieri, sottolinea l’aumento delle infezioni da Hiv tra la popolazione migrante una volta giunta in Italia, evidenziando la necessità di ottimizzare il periodo di detenzione per garantire screening e trattamenti efficaci. La crisi nella salute delle carceri italiane richiede azioni concrete e tempestive. La creazione di Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria e l’istituzione di una cabina di regia interministeriale potrebbero rappresentare passi significativi. Ricordiamo che la sanità penitenziaria, almeno sulla carta, è collocata nel quadro dei principi fondamentali e costituzionali della tutela della salute, delle finalità generali dell’ordinamento penitenziario e delle misure privative e limitative della libertà. L’uguaglianza nel diritto alla salute fra detenuti e liberi non significa solo uguaglianza nell’offerta di servizi sanitari: una buona rete di servizi sanitari è semmai uno strumento, necessario ma non sufficiente, per raggiungere l’uguaglianza dei livelli di salute. Si tratta dunque di offrire ai detenuti pari opportunità nell’accesso al bene salute tenendo conto delle differenze (in questo caso, deficit) di partenza nei livelli di salute, nonché delle particolari condizioni di vita in regime di privazione della libertà, che di per sé rappresentano un ostacolo al conseguimento degli obiettivi di salute. Il Dpcm del 01/04/2008, promulgato in legge in data 14 giugno 2008, ha sancito il passaggio di gestione ed erogazione dei servizi di medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Va ricordato che la mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio- salute, nelle componenti sociali e psicologiche. Il portato più invasivo dell’istituzionalizzazione è la perdita della dimensione privata dell’individuo e della sua capacità di controllo sull’ambiente di vita quotidiana, che si traduce in perdita di identità e percezione di insicurezza. In questa logica, gli interventi a tutela della salute sono strettamente complementari con gli interventi mirati al recupero sociale del reo, attraverso azioni e programmi condotti con il concorso di tutte le istituzioni interessate, sono coordinati agli interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti e a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che fungono da ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale secondo un principio di equità e non discriminazione. Il caso Zuncheddu racconta la giustizia italiana più di un’enciclopedia di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 2 dicembre 2023 L’allevatore sardo ha passato in carcere più di trent’anni per crimini che non ha commesso, a causa di accuse improbabili e di testimonianze quanto meno fragili. Oggi ancora non sappiamo se sia davvero innocente, ma nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, eppure succede. Ora che la vicenda di Beniamino Zuncheddu pare procedere verso una soluzione di tardiva salvezza vale la pena di farne una ricognizione. Perché ora se ne parla sulla scorta degli ultimi sviluppi giudiziari del caso, ma sono antichi i fatti che dall’inizio lo contrassegnavano in modo tanto evidente quanto trascurato. Zuncheddu era stato condannato alla pena dell’ergastolo, e ha passato in carcere più di trent’anni, per essere stato riconosciuto responsabile dell’omicidio di tre persone e del tentato omicidio di un’altra, nel 1991, in un ovile sulle montagne di Sinnai (Cagliari). Se non appariva proprio un altro caso Tortora è perché le prove contro questo pastore sardo erano anche più inconsistenti rispetto al ciarpame che l’accusa pubblica raccolse contro il conduttore televisivo, il “cinico mercante di morte” rammostrato in manette sulla scena piena di fotografi e giornalisti sapientemente organizzata dagli inquisitori. Dopo molti anni (decenni) saltava fuori qualcosa che avrebbe dato speranza alle prospettive di revisione del processo, e cioè che la testimonianza dell’unico testimone (un sopravvissuto alla mattanza) sulla base della quale Zuncheddu era condannato sarebbe risultata improbabile. Ma la verosimile ingiustizia di questo caso era appunto evidente - o almeno se ne aveva grave indizio - ben prima delle scoperte (ci arriviamo immediatamente) che poi avrebbero militato per la revisione del processo e per un possibile annientamento della condanna. Quella testimonianza, infatti, che era l’unica “prova” acquisita per appioppare l’ergastolo all’imputato, si era sviluppata in modo assai strano: con il presunto testimone oculare dell’eccidio che aveva in un primo momento riferito di non poter riconoscere l’assassino, perché aveva il viso mascherato da una calza, e poi, dopo più di un mese, riferiva invece di poterlo riconoscere e di averlo identificato in una certa fotografia. Già così - si ammetterà - la faccenda appariva di molto fragile portata probatoria; e già così - si ammetterà ancora - quella testimonianza era esposta a qualche legittimo dubbio di attendibilità. Di fatto, la vicenda raccontava che in Italia è possibile rinchiudere qualcuno in prigione per tutta la vita perché qualcun altro dice di averlo riconosciuto dopo aver dichiarato, settimane prima, di non potere dir nulla circa l’identità dell’assassino perché questi aveva una calza sul viso ed era dunque irriconoscibile. Una giustizia abbastanza avventata, diciamo. Solo che non bastava, e veniamo appunto alle successive emergenze (in realtà ormai risalenti a qualche anno addietro), che ulteriormente e forse definitivamente parevano destituire di credibilità quell’unica prova, quel percorso testimoniale già in origine ambiguo e auto-contraddittorio. Si trattava di questo: del fatto che il presunto testimone oculare avrebbe riconosciuto l’imputato in una fotografia che un poliziotto gli aveva fatto vedere “prima”, e in particolare nell’intervallo di tempo tra le sue dichiarazioni iniziali (quelle secondo cui non poteva riconoscere l’assassino, che aveva il viso mascherato dalla calza) e quelle successive, secondo cui sarebbe stato in grado di riconoscere l’autore del delitto. Un intervallo di tempo di trenta o quaranta giorni durante il quale il testimone era stato in commerci colloquiali con la polizia e, in particolare, con il poliziotto che, appunto, prima che fosse nuovamente ascoltato dai magistrati, aveva mostrato al testimone la fotografia di Zuncheddu. La difesa ha argomentato che il poliziotto potrebbe aver fatto pressioni sul testimone: ma se pure questo non fosse stato cambierebbe poco, perché a compromettere l’affidabilità del presunto riconoscimento bastava quel fatto, il fatto che la fotografia fosse stata offerta diciamo così privatamente all’esame del teste. Ma bastava? No, non bastava ancora. Perché emergeva ulteriormente che il testimone, che era sottoposto a intercettazione, in un colloquio con la moglie, appena successivo a un incontro con i magistrati, si lasciava andare a preoccupate considerazioni circa i dubbi degli inquirenti sull’attendibilità del riconoscimento e sul fatto che quella fotografia gli fosse stata messa sotto il naso già precedentemente, al di fuori e in violazione di ogni regola di indagine e processuale. Con la moglie - altro dettaglio emergente da quel dialogo - a sua volta preoccupata che il marito potesse aver detto qualcosa che desse materia buona per la revisione del processo. E per finire: il presunto testimone oculare che, messo alle strette da questi nuovi intendimenti della giustizia, non chiamava un amico, un parente o, come si immagina naturale per chiunque, il proprio avvocato ma, vedi la combinazione, il poliziotto con il quale aveva avuto occasione di intrattenersi nei giorni della sua resipiscenza e che gli aveva mostrato la fotografia di Beniamino Zuncheddu. Non sappiamo se è innocente, come lui ha sempre sostenuto e come la sua difesa insisteva e insiste a voler dimostrare. Sappiamo che nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, o in base a prove false, a stare in prigione neppure un giorno: figuriamoci tutta la vita. E sappiamo che invece può succedere. Sappiamo che invece succede. Giustizia, i nodi che infiammano lo scontro tra il governo Meloni e i magistrati di Liana Milella La Repubblica, 2 dicembre 2023 La premier sventola la bandiera garantista contro cui si scagliava quando era all’opposizione. E rispolvera l’agenda di Berlusconi. Giorgia Meloni che attaccava i governi gialloverde, giallorosso e l’ampia coalizione di Draghi stava dalla parte dei magistrati e chiedeva che si dimettessero subito i politici indagati. Sempre Meloni, diventata prima inquilina di palazzo Chigi, vuole riformare la giustizia tornando proprio a Silvio Berlusconi. A partire dalla legge costituzionale che l’allora Cavaliere mise in agenda, ma non riuscì a fare, nonostante l’impegno dell’allora Guardasigilli Angelino Alfano. Parliamo della separazione delle carriere. A cui l’attuale maggioranza, dove proprio Forza Italia fa ogni giorno la voce grossa, impone che si aggiunga una drastica riforma delle intercettazioni, tutta a vantaggio degli imputati. E chiede che si cambi subito la prescrizione con l’ovvio obiettivo di far cadere il maggior numero di processi. E punta a cancellare anche il reato che colpisce gli amministratori locali, l’abuso d’ufficio, per ottenere una vittoria soprattutto sul piano della propaganda. Infine ecco l’obiettivo di ridimensionare, perché cancellare proprio non si può, la legge Severino, anche in questo caso per fare un favore ai sindaci. Dulcis in fondo la mannaia sulla libertà di stampa con le super multe per la diffamazione. Ci sono stati “30.778 innocenti in manette negli ultimi 20 anni”, dice alla Camera il ministro della Difesa Guido Crosetto, sventolando la bandiera del garantismo e presentando all’opinione pubblica i magistrati come inquisitori e nemici per principio. Ancora si chiede se “sia un caso che dal ‘92 tutte le riforme sulla giustizia siano bloccate”. E teorizza l’assoluta necessità di fare proprio le riforme che Berlusconi non è riuscito a far passare. Ecco quali sono. A partire da quella che è stata solo accennata in consiglio dei ministri, i test psicoattitudinali per entrare a far parte della magistratura, lanciata proprio da un magistrato prestato alla politica, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, che riprende un’antica proposta di Berlusconi, ma che si è fermata, almeno per ora, solo a livello di annuncio. La separazione delle carriere - È la madre di tutte le riforme. Quella che proprio Berlusconi spiegava al suo popolo con un paio di frasi scandite centinaia di volte a ogni intervento pubblico. È il 10 marzo del 2011 e l’allora premier presenta la sua riforma costituzionale con Alfano. E ripete la sua frase preferita, quella del pm che “va con il cappello in mano dal giudice” e ancora racconta di pm e giudici che s’incontrano al bar, sceneggiando una commistione di interessi che alla fine privilegia l’accusa a scapito della difesa. Nasce da qui la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. Due vite professionali del tutto separate, sin dal concorso, uno per i pm e uno per i giudici. E ancora due Csm, che ovviamente non potranno più essere presieduti entrambi dal capo dello Stato, ma quello dei giudici dal primo presidente della Corte di Cassazione e quello dei pm dal Procuratore generale della stessa Corte. Va da sé che il loro “potere” sarà indiscutibilmente ridotto. Forza Italia, con l’appoggio di Azione - che vede un fan scatenato della separazione delle carriere nel responsabile Giustizia, ed ex forzista, Enrico Costa - spinge per avere la riforma in contemporanea con il premierato. A Repubblica lo ha ribadito appena qualche giorno fa il vice presidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis. Ma la premier Meloni, che pure è favorevole, ha mandato avanti il Guardasigilli Carlo Nordio che ha ripetuto più volte come le due riforme costituzionali - premierato e carriere - non si possono fare insieme. Prima l’elezione diretta del premier, poi la separazione, perché due referendum come questi potrebbero danneggiarsi a vicenda. Ma Forza Italia insiste e vuole la separazione subito. La stretta sulle intercettazioni - Alle viste invece c’è la riforma delle intercettazioni che Nordio ha già anticipato nel suo unico “disegnino” di legge FdI di una decina di articoli e che giace al Senato dal luglio scorso. Lì Nordio ha già “colpito” la stampa vietando di pubblicare gli ascolti, a meno che non siano contenuti negli atti dei giudici, oppure non siano stati utilizzati in udienza. In più obbligo di buttare via letteralmente tutte le registrazioni che vedono coinvolte terze persone non indagate. Ma che ovviamente, nel corso di un’indagine, potrebbero anche finire indagate in un secondo momento. Ma Nordio dà ordine di gettare via tutto. A ciò si aggiunge un disegno di legge del capogruppo forzista in commissione Giustizia a palazzo Madama Pierantonio Zanettin, avvocato ed ex Csm, che contiene un’ulteriore stretta soprattutto sull’utilizzo della microspia Trojan per i reati di corruzione. La nuova prescrizione - Anche per la prescrizione, come per la separazione delle carriere, è l’asse tra Forza Italia e Azione ad aver accelerato la nuova legge che andrà in aula alla Camera subito dopo la manovra, e che butta letteralmente via tutte le leggi fatte dal 2017 a oggi. Via la legge Orlando, via la Bonafede, ma via anche la Cartabia, con l’effetto di ripartire da zero e il rischio di rallentare ulteriormente i processi, anche a scapito del Pnrr. Forza Italia avrebbe voluto il ritorno sic et simpliciter alla ex Cirielli, per cui vale solo il tempo di prescrizione dei singoli reati, senza alcuna rete di salvaguardia per i processi in corso. Il compromesso sul ritorno alla legge Orlando con le modifiche introdotte dall’ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi rischia comunque di riaprire tutti i dossier dei singoli processi portandoli comunque alla prescrizione. Preannunciano battaglia in Parlamento le opposizioni, Pd, M5S, Avs. Via l’abuso d’ufficio - Via l’abuso d’ufficio, ma anche via il reato di traffico di influenze, cioè i due articoli del codice penale che stanno alla base della piramide dei reati di corruzione. Per Nordio è un pallino da anni. Costa lo appoggia con dossier sugli amministratori perseguitati dalla giustizia e poi assolti. Ma anche i sindaci del Pd, a partire da Matteo Ricci che guida l’amministrazione di Pesaro, nonché la stessa Anci, l’Associazione dei comuni italiani con al vertice il primo cittadino di Bari Antonio Decaro, anche lui del Pd, ne hanno fatto una battaglia di immagine. Ma le audizioni di giuristi prima alla Camera, dov’erano incardinati quattro disegni di legge della maggioranza e di Costa per cancellare l’abuso d’ufficio, e poi le stesse al Senato per il ddl Nordio, hanno dimostrato come sopprimere questi due reati sia un clamoroso errore, ma soprattutto ci metta contro l’Europa che, con la sua Commissione, ha stabilito all’opposto che l’abuso d’ufficio è fondamentale. Nordio sostiene di aver interloquito più volte con il commissario Ue alla Giustizia Didier Reynders per spiegare che l’abolizione non creerà danni in quanto il nostro codice penale può rispondere com altri reati, ma proprio dall’Europa arrivano voci in senso opposto. Ridimensionare la legge Severino - Nel filone degli amministratori locali perseguitati dalla giustizia ecco la richiesta di cancellare il decreto legislativo del 2012 firmato dall’allora Guardasigilli Paola Severino e anche dal ministro per la Pubblica amministrazione, e oggi giudice costituzionale, Filippo Patroni Griffi. Il referendum radical leghista del 2022 già voleva azzerare quella legge, votò solo il 20,9% degli eventi di diritto, e il 54% dei votanti mise la croce sul sì sulla scheda. Un punto di partenza per azzerare del tutto, o quanto meno eliminare la norma che vede penalizzati soprattutto gli amministratori locali, che devono lasciare l’incarico anche solo dopo la condanna in primo grado. La richiesta è almeno quella di parificare la loro situazione a quella dei parlamentari italiani ed europei che invece si devono dimettere o non possono candidarsi solo davanti a una condanna definitiva. Norme draconiane sulla diffamazione - Ed eccoci alla futura legge che colpirà i giornalisti. Una sorta di chiusura del cerchio, silenziare l’informazione. È al Senato, se ne parlerà a gennaio, siamo già alla fase degli emendamenti rispetto alla proposta del meloniano Alberto Balboni. Ma le multe fino a 50mila euro anche per una rettifica non pubblicata sono chiaramente intollerabili, e lo dicono sia l’Ordine dei giornalisti, che la Federazione della stampa. Il sondaggio di Pagnoncelli, magistratura: italiani divisi, ma oltre il 50% vede fini politici di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 2 dicembre 2023 Gli italiani e il rapporto con la magistratura. Poco più di un quinto degli italiani (il 22%) condivide l’idea che ci sia un gruppo organizzato di magistrati che si oppone al governo, ma il 35% pensa che esistano magistrati che si pongono obiettivi politici. Prevale il sì alle pagelle. Il rapporto con la magistratura è tema complesso e centrale nella vita politica italiana almeno da trent’anni, da quando, con Tangentopoli, il sistema politico italiano fu sottoposto a una crisi drammatica e a una profonda trasformazione in cui i giudici ebbero un ruolo centrale, positivo (quando non palingenetico) per alcuni, negativo (quando non eversivo) per altri. Il conflitto politica/magistratura oggi torna al centro delle cronache, di nuovo con drammaticità, dopo l’intervista concessa su queste pagine dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Il quale ha ventilato possibili rischi per il governo che verrebbero appunto da una fazione della magistratura decisa ad affossare l’attuale esecutivo. La fiducia nella magistratura ha subito un pesante calo negli ultimi anni. Dalle punte più elevate del 2011 (forse l’anno più drammatico della nostra storia recente, con i cittadini che cercavano rassicurazioni da realtà esterne alla politica, che fossero il governo tecnico di Mario Monti o appunto la magistratura) quando l’indice di fiducia nel terzo potere dello Stato arriva al 67, fino al punto più basso nel 2021, ancora segnato dalla vicenda Palamara e dai coinvolgimenti di parte del Csm nello scandalo delle nomine pilotate, quando l’indice cala al 38. Più recentemente invece la fiducia cresce, sia pur di poco, salendo nel 2022 al 41 (probabilmente anche sull’onda del tema della restrizione alle intercettazioni, invisa a buona parte dei cittadini) fino al 45 di oggi (crescita forse proprio collegata alle polemiche di cui stiamo parlando). Entrando nel merito delle affermazioni espresse dal ministro Crosetto, poco più di un quinto degli italiani (il 22%) condivide l’idea che ci sia un gruppo organizzato di magistrati che si oppone al governo, ma il 35% pensa che, sia pure in modo non organizzato, esistano magistrati che si pongono obiettivi politici. Insomma, l’idea che un qualche “inquinamento” politico sia presente nel potere giudiziario è maggioritaria. Solo il 13% infatti ne nega l’esistenza. E, sia pur con diversa intensità, è un’opinione condivisa trasversalmente sia nel centrodestra (in particolare tra gli elettori di FdI è maggioritaria l’idea dell’esistenza di un gruppo organizzato) sia tra le forze di opposizione (dove invece tende a prevalere l’idea che si tratti di atteggiamenti individuali). Una delle critiche rivolte al ministro è stata che le accuse esposte sarebbero in realtà notizie di reato da non esporre in un’intervista, ma da sottoporre al Csm e al presidente della Repubblica, che lo presiede. Qui le opinioni si dividono: il 32% pensa che Crosetto abbia fatto bene a rendere pubbliche le sue preoccupazioni (opzione maggioritaria tra gli elettori del centrodestra), il 30% pensa il contrario (opzione prevalente tra gli elettori di opposizione). Quanto alle dimensioni del consenso su questa polemica, l’elettorato di centrodestra tende maggiormente a ritenere che ci sia una condivisione, non solo nella propria area politica ma anche nell’insieme degli elettori, mentre il contrario avviene tra gli elettori di opposizione, che tendono di più a ritenere che si tratti di opinioni condivise solo dal ceto politico o al più degli elettori di centrodestra. Nell’ultimo Consiglio dei ministri è stata approvata anche la cosiddetta “pagella” dei magistrati. Una scelta che riscuote un certo consenso: la approva il 36% degli intervistati (maggioranza assoluta, naturalmente, tra gli elettori di centrodestra), il 26% invece la disapprova (ma tra gli elettori di opposizione lo fanno con forza solo gli elettori del Pd, gli altri tendono a dividersi). Molti (38%) non si esprimono, come d’altra parte avviene un po’ per tutte le domande di questo sondaggio. Da ultimo abbiamo chiesto se questo scontro serva in qualche modo al Paese. Il 39% pensa di no, che si tratti di una polemica dannosa che aggiunge inutili tensioni in un momento già difficile (scelta maggioritaria tra gli elettori di centrosinistra); al contrario il 30% la pensa utile, al fine di arrivare una volta per tutte ad un chiarimento sull’esistenza di una magistratura politicizzata (opzione prevalente tra gli elettori di centrodestra). Anche su questo oltre il 30% non si esprime. In sostanza la magistratura ha perso parte importante della fiducia dei cittadini, pur con qualche crescita recente, ed è diffusa l’idea che ci sia una presenza politicizzata (in forme organizzate o individuali). Ma l’intervento di Crosetto non convince, divide per “fazioni” politiche e tutto sommato non muove sentimenti profondi. Serve forse, questo sì, a rinsaldare l’elettorato di riferimento. I magistrati fanno opposizione politica da 50 anni di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 2 dicembre 2023 Con le dichiarazioni del ministro Crosetto in Parlamento probabilmente cesseranno le polemiche sulle sue dichiarazioni giornalistiche: polemiche che, non portano a nulla se non a inasprire il rapporto tra la magistratura e la politica. In linea con la rigorosa tradizione del giornale che affronta i fatti per quelli che sono, esprimiamo la nostra valutazione e le nostre idee sulla grande questione giustizia. Crosetto naturalmente ha ragione nella sostanza, ma sbaglia nel ritenere che ci siano riunioni più o meno segrete di magistrati o complotti. La magistratura è divisa rigidamente in correnti e dice alla luce del sole, in convegni, in conferenze, negli infiniti dibattiti televisivi, che il magistrato nell’epoca moderna deve essere in linea con la Costituzione e perciò “lottare”, attraverso la “giurisdizione” contro il “potere” della maggioranza politica, quale che sia, e quindi del governo: in qualche modo deve fare “opposizione”. In Italia, sostiene la magistratura dagli anni 70, nonostante la presenza del Pci, non vi è un’opposizione al “potere” che possa essere degna di rispetto. Questo programma è proprio di “magistratura democratica”, ma ha plasmato la “coscienza” del magistrato che non si sente più sottoposto alla legge ma si pone “di fronte alla legge”! Ritiene cioè di essere un magistrato “etico” che “garantisce la legalità”. Si tratta di un problema estremamente serio e problematico che non è solamente italiano ma interessa la giurisdizione di tutti i paesi a democrazia avanzata. Le istituzioni si modificano, si evolvono, e il “ruolo” del magistrato ha subito una evoluzione che la “politica” non ha compreso, né valutato. È un problema che va approfondito perché è un problema culturale e istituzionale: come coniugare l’indipendenza del magistrato, caposaldo dello Stato democratico, con la necessaria “responsabilità” richiesta gran voce. Perché oggi non è concepibile nessuna immunità e impunità e ogni istituzione deve essere controllata per non debordare dei suoi compiti. Nessun potere è insindacabile: questo lo spirito della Costituzione al quale fa eccezione la magistratura. Se non si affronta questo problema non si risolve tutto resta una polemica di basso livello. Devo dire che questo problema non volle comprenderlo la Dc, non lo capì il Pci, che, anzi, strumentalizzò la magistratura per tentare di scalzare la Dc e il risultato fu che perirono tutti! Voglio dire al ministro Crosetto, ma il ministro della giustizia lo sa bene, che negli anni 70 il pm Colombo l’ho ripetuto 1000 volte preannunziò un ruolo politico della magistratura perché il consociativismo tra la Dc e il Pci lasciava il “potere” senza “sanzioni” e venne “Tangentopoli”: una deviazione vistosa delle indagini giudiziarie. Poi venne mafiopoli con l’intento più preciso, in base a pregiudizi ideologici, di condannare il “potere” che voleva servirsi della mafia… E oggi siamo in presenza di esplicite dichiarazioni sulla rivista Quale giustizia e ripetute in un convegno a Palermo aperto al pubblico, a cinque stelle e al Pd, per individuare un magistrato che entra nelle “lotte sociali” e quindi si “schiera”: non è “terzo” come la Costituzione e il buon senso impongono. Questa è la realtà di fronte alla quale il politico deve confrontarsi non con palliativi o piccole riforme. Aggiungo una cosa di grande importanza. È profondamente vero, che da molti anni il legislativo, delega al magistrato la soluzione dei problemi. Si tratta di una realtà sotto gli occhi di tutti, rilevata anche in sede scientifica, per spiegare la crisi della norma giuridica. È una patologia che in questa sede sarebbe lungo spiegare, che dipende da ragioni serie e sistematiche, ma che rivela la inadeguatezza della classe dirigente in Parlamento. Questo problema è chiaro a tutti, ma è egualmente chiaro per tutti che il magistrato “approfitta” per fare la “lotta”… anziché stare sereno e pacifico! Orbene è possibile che nessun magistrato ammetta questa verità, questa realtà così evidente. È vero che sono soprattutto i pubblici ministeri ad alimentare le polemiche, e non i giudici, ma fa meraviglia che magistrati di spessore culturale come Spataro non ammettano questa patologia e non confessino che il problema è maledettamente serio. Viene lo sgomento e mi chiedo perché non dire la verità che loro ben conoscono, e riconoscere che questa lunga fase di transizione, che porta il magistrato a deviare e a non avere credibilità, può essere superata se si lavora insieme non in contrapposizione. Ci si scontra su piccole riforme che apparentemente risolvono i problemi e non si trovano personalità superiori che propongano “la fine del perenne conflitto tra i signori del diritto”, come recita il titolo di un libro molto significativo di Ortensio Zecchino, che dà testimonianza degli scontri sin dall’antica Grecia, “tra il potere legislativo e il potere giudiziario”. “La storia del diritto” dice Zecchino “può essere letta come perenne conflitto per conseguire il dominio. Confliggenti principali sono legislatori e giudici, partendo da Hammurabi, legislatore nel XVIII sec. A.C., per giungere al giudice del nostro tempo, dominante in conseguenza di grandi trasformazioni socio - giuridiche”. Corti d’appello in rivolta per la riforma della prescrizione di Nordio: “Così paralizza la giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 2 dicembre 2023 Lettera di 26 presidenti che chiedono al Guardasigilli chiarezza sulla norma chiesta da FI in calendario alla Camera. Timore per gli obiettivi del Pnrr. Ventisei firme che pesano. Non capita tutti i giorni di leggere un documento sottoscritto dai 26 presidenti delle Corti d’Appello italiane. Ecco Giuseppe Ondei al vertice dell’ufficio di Milano, Giuseppe Meliadò di Roma, Alessandro Nencini di Firenze, Edoardo Barelli Innocenti di Torino, Carlo Citterio di Venezia, Franco Cassano di Bari, Matteo Frasca di Palermo. Hanno scritto al Guardasigilli Carlo Nordio e ai presidenti delle due commissioni Giustizia di Senato e Camera, Giulia Bongiorno e Ciro Maschio. L’interlocuzione è giuridica, il tono assai angosciato, le conseguenze inevitabilmente politiche. Perché la prossima riforma della prescrizione - già in calendario in aula alla Camera con l’idea che passi prima di Natale - sottoscritta da Nordio e imposta soprattutto da Forza Italia in stretta alleanza con Azione, si risolve in un vero incubo per i 26 presidenti e i loro uffici. Che illustrano dettagliatamente a Nordio le conseguenze di “un’imminente” catastrofe e il rischio di perdere pure la scommessa del Pnrr. Se proprio la maggioranza non può rinunciare all’ennesimo cambio di prescrizione, il quarto in sei anni, almeno preveda una norma transitoria che salvi la giustizia italiana dalla débâcle. Tre cartelle, che Repubblica anticipa e che, per il valore giuridico che hanno, escono oggi anche sulla rivista giuridica “Sistema penale” con una chiosa di Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano e consigliere giuridico della Guardasigilli Marta Cartabia. Nemico di “una riforma della riforma che farà perdere all’Italia i fondi del Pnrr oltre a costringere le Corti d’Appello a riaprire migliaia di fascicoli per ricalcolare la prescrizione di ogni singolo processo”. Gatta ricorda che proprio Nordio, appena nominato, rinviò l’entrata in vigore della riforma penale della sua ministra dopo il “grido di dolore” dei procuratori generali. Si augura che adesso dia retta ai 26 presidenti. Ma leggiamo la lettera. A partire dal titolo che già dice tutto: “Previsione di una specifica disciplina transitoria dei processi di impugnazione pendenti, nel caso di eventuali modifiche alla prescrizione dei reati”. In quelle due parole - “eventuali modifiche” - è nascosta la speranza che la politica lasci la prescrizione com’è adesso. Come chiedono Pd, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra. I presidenti delle Corti di Appello parlano per esperienza, perché sono stati “testimoni, in tempi anche recentissimi, di esperienze gravemente negative dovute all’assenza di una tempestiva ed esauriente disciplina transitoria”. Le leggi sulla prescrizione di Andrea Orlando e Marta Cartabia ce l’avevano. E adesso scrivono: “L’inevitabile e perdurante incertezza interpretativa ha avuto conseguenze paralizzanti sul piano organizzativo, perché le questioni procedurali collegabili a possibili nullità degli atti incidono inevitabilmente su tempi e qualità della giustizia giusta”, Ma eccoci alla grana concreta. I presidenti parlano di “esperienze devastanti soprattutto per la gestione dei ruoli gravosi delle Corti d’Appello, che sono uffici già sofferenti per pesanti e mai risolte carenze di organico del personale amministrativo, uffici notoriamente considerati i colli della bottiglia della sorte dei singoli procedimenti”. Per questa ragione i 26 presidenti chiedono che “le eventuali nuove discipline siano accompagnate da esaurienti e coeve disposizioni transitorie”. Come alti magistrati, e di questi tempi, non possono dire a Nordio di buttare via la legge, ma gli spiegano bene perché si tratta di un vistoso errore che avrà solo pesanti ripercussioni. E non citano alcun possibile e prevedibile vantaggio. Ecco il drammatico racconto del lavoro in una Corte d’Appello in cui “ogni eventuale modifica imporrà, necessariamente, un’altra rivisitazione di una parte molto consistente della pendenza di ciascun ufficio. Con un Appello tuttora governato dalla carta, la rivisitazione imporrà il materiale accesso a decine di migliaia di fascicoli cartacei pendenti. E non a costo zero, perché sarà necessario tanto tempo di magistrati e personale amministrativo che fronteggiano scoperture di organico rilevantissime, sottratto alle udienze i cui tempi inevitabilmente si allungheranno”. Il cambio della prescrizione li costringerà a ricalcolare tutti i tempi dei processi, manualmente, fascicolo per fascicolo, in rapporto alla legge vigente sulla prescrizione, la Orlando, la Bonafede, la Cartabia, quando il processo è partito. E il Pnrr? “L’ assenza di una tempestiva, chiara, esauriente disciplina transitoria renderebbe il gravosissimo lavoro ingovernabile e ciò in periodo di Pnrr e pertinenti obiettivi da raggiungere”. Se il governo non dovesse rendersi conto di questi problemi ciò “determinerebbe il rischio intensissimo di lavorare più volte a vuoto, e ciò in un contesto di ben note attuali carenze pesantissime, di risorse umane e di sistemi informatici inefficaci, e potrebbe condurre alla paralisi dell’intera attività delle Corti di Appello”. Seguono le 26 firme. Nicola Gratteri sulle riforme della giustizia: “Del tutto inutili, meglio un fermo pesca” di Sofia Li Crasti La Stampa, 2 dicembre 2023 Il magistrato antimafia interviene al VII congresso annuale dell’Accademia Italiana di Scienze Forensi: “Intervengano gli addetti ai lavori. Necessario parlare con i giovani e studiare i loro profili social per fermare femminicidi e baby gang”. “Un dramma. Non ci sono parole per descrivere questa aberrazione”: è il commento di Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, su quanto accaduto a Giovanbattista Cutolo, il 24enne ucciso a Napoli da una baby gang. E aggiunge un apprezzamento nei confronti del ragazzo, morto nel tentativo di sedare una rissa: “Ha fatto un gesto di eroismo sempre più raro nel nostro momento storico”. Gratteri è intervenuto al VII congresso annuale dell’Accademia Italiana di Scienze Forensi, che ha preso il via ieri nella sala Arengario del Nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli. Interrogato sulle recenti riforme della giustizia, e nello specifico sull’abbassamento dell’età imputabile -come richiesto dalla madre del giovane musicista ucciso - Gratteri risponde: “Quando parliamo di queste cose non possiamo dire sì o no, o si ha una visione, o si capisce di cosa c’è veramente bisogno e si fanno tante piccole, medie e grandi modifiche oppure facciamo degli spezzatini e addirittura squilibriamo quello che dovrebbe essere l’armonia di un impianto al codice penale o ordinamento penitenziario”. Si esprime anche sull’emergenza criminalità minorile che si registra a Napoli, sottolineando la necessità di “intervenire sulle concause” del fenomeno, per evitare di fornire “solo delle risposte parziali e che non hanno gli effetti sperati”. E aggiunge: “Penso che gli addetti ai lavori, quelli che nella vita hanno dimostrato di aver lavorato e di aver fatto, dovrebbero contribuire a fare dei progetti, a dare delle idee, a scrivere delle norme: abbiamo dimostrato che non basta stare al chiuso di una stanza dietro una scrivania, a conoscere tutta la dottrina del mondo”. Negativo anche il parere sulle ultime riforme in materia: “Alla luce delle riforme che ho visto negli ultimi due anni, mi augurerei un fermo pesca. Mi augurerei che non si continui in queste riforme. Dalla Cartabia in poi, hanno determinato un rallentamento del processo, ma soprattutto la cosa più triste è che non sono state date le risposte che la gente e i fruitori di giustizia si aspettavano”. Fondamentale, secondo Gratteri, è il monitoraggio dei social network: “Per noi sono una miniera e lo sono da tutti i punti di vista: per i genitori se vogliono capire i giovani e per gli investigatori se vogliono capire dove stanno andando le mafie”. Il magistrato antimafia ripercorre la storia dell’utilizzo dei social da parte delle gang mafiose, ricordando che i primi nel mondo a comprenderne le potenzialità “sono stati i cartelli messicani del Golfo e di Sinaloa: sono maestri della comunicazione, della strategia criminale, per avvicinare e avviluppare i giovani. Gli ultimi idioti, li chiamo io, i portatori di acqua al pozzo dei capo mafia”. Fenomeno che, secondo Gratteri, sta accadendo anche in Italia, “soprattutto in Campania e a Napoli, dove i figli dei camorristi si fanno vedere su macchine di lusso, con l’orologio d’oro, firmati e luccicanti come carretti siciliani, sembrano voler dire “Io sono il modello vincente. Vuoi diventare ricco come me? Allora vieni con me”. E intanto, dietro a queste false promesse, i giovani trasportano cocaina a Milano e spostano armi da un quartiere all’altro per conto delle mafie”. I social, per Gratteri, ricoprono dunque un ruolo fondamentale nell’identificazione e nella prevenzione delle mafie. E interviene anche sul tema scottante e attualissimo del femminicidio; ancora una volta, l’approccio di Gratteri è estremamente pratico: “Inutile continuare a chiederci se c’è o non c’è il patriarcato: non perdiamo tempo, diciamoci invece cosa c’è da fare, cosa dobbiamo fare”. E aggiunge: “Oggi siamo tutti nel pallone sul tema della violenza sulle donne, e lo siamo perchè siamo in ritardo, sul piano piano culturale, sul piano dell’istruzione, sul piano della pianificazione e prevenzione. E tutti abbiamo sensi di colpa, nessuno può dire di non averli. Ognuno di noi sicuramente poteva fare qualcosa in più”. E ritorna, anche in questo caso, il ruolo essenziale dei social network come strumento d’analisi della gioventù e punto di vista per comprendere i problemi dei giovani: “Andiamo subito a studiare i profili di questi giovani, di questi ragazzi chiusi, che non parlano. Per me i più pericolosi sono quelli che stanno fermi come pietre, quelli che non hanno amici, quelli che escono dalla scuola e si chiudono in una stanzetta”. E, di nuovo, chiama in causa “gli addetti ai lavori”: “Gli insegnanti devono metterci il cuore, anche se sono pagati male, anche se non sono considerati sul piano sociale: devono parlare con questi giovani, altrimenti quello che abbiamo visto in televisione in queste ultime settimane non farà che ripetersi”. Il no di Gratteri: “Con le pagelle il pm diventerà un burocrate” di Vincenzo Esposito Corriere della Sera, 2 dicembre 2023 È un Nicola Gratteri scatenato quello che è salito sul palco del Teatro di Corte di Palazzo Reale a Napoli per aprire, ospite assieme al sindaco Gaetano Manfredi, la tre giorni di Casa Corriere Festival. “Il mio arrivo alla Procura di Napoli? Non sono qui per fare il piacione, non cerco consensi. Ma sono stato ostacolato. Contro di me sono state dette e scritte cose al limite della querela. Io non ho mai fatto parte di correnti e questo mi ha danneggiato, ma l’importante è essere liberi. In giro ci sono troppi maggiordomi e lacchè e invece c’è bisogno di uomini e di persone specializzate”. Intervistato dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e dal responsabile del Corriere del Mezzogiorno Enzo d’Errico, il procuratore di Napoli insediatosi il 20 ottobre scorso, strappa applausi a scena aperta con un linguaggio schietto. “La politica parla per l’80% di magistratura” - “Le pagelle? Queste pagelle indurranno i magistrati a diventare perfetti burocrati, il pm così non ci metterà più il cuore ed eviterà di rischiare per portare avanti un’indagine. Penserà solo a rispettare le scadenze e a tenere in ordine la scrivania. Un dramma. Se bisogna fare le pagelle per i magistrati facciamole anche per i medici, visto che ci sono medici pazzi, così come ci sono ingegneri pazzi e giornalisti pazzi. Possibile mai che l’oggetto delle conversazioni della politica sia per l’80% soltanto sulla magistratura? Ma possibile che avete questa ossessione?”. Ancora sulla politica: “Discutiamo della separazione delle carriere? Parliamo di uno 0,2% di passaggi da una parte all’altra. Si vuole fare una riforma per uno 0,2% di casi. Ma non vi puzza questa storia? Vuol dire che il passaggio successivo sarà che 1.800 pubblici ministeri andranno sotto l’esecutivo, cioè dipenderanno dal ministero della Giustizia. Chi sarà il direttore d’orchestra? Alla luce delle riforme che ho visto negli ultimi due anni, mi augurerei un “fermo pesca”. Dalla Cartabia in poi, hanno determinato un rallentamento del processo, ma soprattutto la cosa più triste è che non sono state date le risposte che la gente e i fruitori di giustizia si aspettavano”. Il processo telematico - Poi ha raccontato un po’ della sua giovinezza. “Nel paese dove sono nato era normale che un ragazzo oltre la scuola frequentasse un mastro, un artigiano che gli insegnasse il mestiere. A me è capitato un calzolaio e poi un carrozziere. Queste cose mi hanno aiutato nella carriera. Ad esempio, quando ho iniziato e sulla mia scrivania arrivavano fascicoli di incidenti stradali capivo subito se c’era un imbroglio o no, bastava vedere il conto del carrozziere. Dopo una settimana i fascicoli sugli incidenti da me non sono arrivati più”. E giù ancora applausi. Il tema della magistratura, e dei piccoli tribunali che non funzionano perché a corto di uomini e mezzi, l’ha fatta da padrone. “Anzi voglio darvi una notizia - ha detto - il 2 gennaio parte App, vale a dire il famoso processo telematico per cui abbiamo già incassato i soldi dall’Europa. Ebbene, fino ad oggi non funziona. E Napoli è capofila della sperimentazione. Far sparire la carta è una cosa bellissima, ma quando accenderemo contemporaneamente cento computer in tribunale e il sistema non funzionerà, si bloccherà tutto. Il problema è che sul fronte della connessione internet a Napoli abbiamo un ruscello, mentre per fare funzionare il Palazzo di giustizia ci vorrebbe il Tevere, in quanto a portata”. Il caso Caivano - E poi il caso Caivano e le visite continue dei politici dopo lo choc degli abusi ripetuti di una baby gang su due cuginette tredicenni. “Quando ho visto ogni tre giorni i ministri andare lì, ho pensato che esagerazione. Ma poi sono stato invitato a una riunione, con il ministro Piantedosi e il sindaco Manfredi. Ho visto che nella sostanza avevano affrontato anche piccole cose e passare, in un territorio dove c’è il deserto, ad esempio, da tre assistenti sociali a dieci è sostanza. Però mi chiedo: abbiamo visto in tv il Delphinia, la struttura sportiva abbandonata che è costata centinaia di migliaia di euro. Ma vogliamo capire a chi è stata consegnata? Perché è stata ridotta così? Qualcuno prima o poi dovrà pagare sul piano politico, morale ed etico per questo degrado”. Infine l’emergenza criminale a Napoli, il delitto del giovane musicista Gianbattista Cutolo alla cui memoria proprio ieri è stata conferita una medaglia d’oro al valor civile. “Una aberrazione, la mamma si deve consolare pensando che il figlio ha compiuto un gesto di eroismo. Abbassare l’età imputabile? Non si può dire sì o no, o si ha una visione, o si capisce di cosa c’è veramente bisogno oppure facciamo degli spezzatini”. Intrighi e vittimismo. Il Crosetto show in scena alla Camera di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 dicembre 2023 Lo scontro sulla giustizia. Il ministro (non) spiega le sue uscite: “Mai attaccato i magistrati”. Opposizioni all’attacco. Musolino (Md): “Non conosce la Carta”. Solo un malinteso. “Non ho mai attaccato e mai attaccherò la magistratura”. Anzi, una trappola. “Contro di me un plotone d’esecuzione ad personam”. Forse però qualcosa c’è. Ed ecco di nuovo il gran complotto: “Mi hanno detto: attento, farai la fine di Craxi”. Guido Crosetto alla Camera riesce nella non facile impresa di spiegarsi ancora peggio di quanto ha fatto nella famigerata intervista uscita domenica scorsa sul Corriere, dove parlava del “pericolo” di una non meglio precisata “opposizione giudiziaria” perché (testuale) “a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare “la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”“. Davanti a una trentina scarsa di deputati, tra cui Giuseppe Conte e Elly Schlein, il febbricitante ministro della Difesa ha tenuto alto il livello dello scontro: “Ho sollevato un problema perché non ho paura di nulla, sono pronto a venire altre mille volte in Parlamento. Qualcuno ha detto che ho detto queste cose perché temo le inchieste. No, in 60 anni non sono mai stato sfiorato da nulla”. E ancora, sempre più convinto: “Io mi chiedo: il ruolo della magistratura è quello di riequilibrare la volontà popolare? È possibile che in questo Paese non si possa fare una riforma della giustizia? Sarà un caso che dal ‘92 ci sia stato un sommovimento che ha bloccato ogni tipo di riforma? Io non penso che si possa fare una riforma della giustizia contro la magistratura. Io penso che chi ha responsabilità deve essere terzo”. In pratica, Crosetto parlava in generale, il suo discorso era del tutto astratto e non si riferiva a niente di preciso, quasi un riflesso condizionato dopo trent’anni di berlusconismo e di terremoti giudiziari che in un attimo diventavano politici. Un tributo nostalgico alla memoria storica del cavaliere, in pratica. Dunque tutti i retroscena abbondantemente circolati tra i parlamentari di destra - con tanto di nomi e cognomi di cospiratori e presunti bersagli - erano frutto di paranoia, o forse di cattiva coscienza, chissà. Fuori dal Parlamento, il segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino prova a prendere sul serio il discorso di Crosetto e conclude che “il ministro non conosce la Costituzione”, soprattutto “il ruolo di garanzia a tutela dei diritti fondamentali che la Carta riconosce alla magistratura, che poi è la ragione per cui è autonoma dagli altri poteri”. Perché la funzione dei giudici “è quella di tutelare i diritti fondamentali anche quando le maggioranze contingenti li mettono in pericolo. Tutte le volte che i governi hanno preteso di ridurre e anestetizzare la funzione degli organi di garanzia si è inevitabilmente abbassato il tasso di democrazia, come è successo in Ungheria, Polonia e Turchia”. Tutte cose che la, per inciso, le correnti di sinistra della magistratura sostengono da parecchio tempo e in pubblico. In aula Schlein non sembra essere stata particolarmente colpita dalle parole di Crosetto: “Un ministro non si può permettere di evocare complotti se non ha elementi in mano. Se ne ha, li mostri al Parlamento e alle autorità preposte. Sennò deve ritirare le sue affermazioni. Non è possibile vivere in uno stato di emergenza immaginaria permanente”. Lapidario il giudizio di Conte: “Solo complottismi e vittimismi per nascondere i disastri della manovra”. E così, mentre Forza Italia benedice il presunto spirito garantista del ministro, le opposizioni ribadiscono tutta la loro insoddisfazione. L’eccezione, va da sé, è Matteo Renzi, che sostiene di nutrire “grande stima” per Crosetto ma ritiene che le sue parole non siano abbastanza: “Si preoccupa di slogan e poco di sostanza. Se non fai la riforma con quale credibilità ti lamenti delle cose?”. Dopo lo show, alla buvette di Montecitorio, c’è però una piccola appendice del dibattito. Benedetto Della Vedova di + Europa continua a dire, non a torto, che nel suo discorso Crosetto si è ben guardato dall’entrare nel merito della vicenda e ha chiesto chiarimenti anche sul ruolo del sottosegretario Alfredo Mantovano, sospettato da più parti di manovrare le correnti del Csm. “Hai chiamato in causa me ma in realtà volevi Mantovano”, la conclusione del ministro, che poi si è congedato in fretta e furia, almeno fino alla prossima uscita avventata (cosa alla quale è avvezzo, anche per colpa di un uso spasmodico di X). Si conclude così l’ennesima settimana di tensioni tra il governo e la magistratura e resta la sensazione un po’ straniante dello scontro che sembra sempre sul punto di deflagrare e che però si risolve sempre nella più classica delle bolle di sapone. È il grande freddo al contrario: tutti aspettano il bang, ma alla fine c’è solo lo splash. La difesa di Crosetto. L’obiettivo è chiudere lo scontro con le toghe di Giulia Merlo Il Domani, 2 dicembre 2023 Parla di “parole mistificate” e dice di avere “fiducia nella magistratura”. Meloni vuole chiudere la polemica e lui si è accodato, come già Nordio. L’aula di Montecitorio, con una convocazione insolita rispetto alla prassi per le 9.30 del venerdì mattina, era tutta per il ministro Guido Crosetto. A sottolineare l’eccezionalità del caso, Crosetto ha deciso di rispondere in prima persona all’interpellanza urgente in tema di giustizia, promossa dalle opposizioni e in particolare dal deputato di più Europa, Benedetto Della Vedova, invertendola con quella sul Medio Oriente che slitta di qualche giorno. Obiettivo della giornata: chiudere - almeno temporaneamente - lo scontro tra il governo e la magistratura associata, acceso proprio da lui con una esplosiva intervista in cui parlava di “opposizione giudiziaria” da parte di alcuni gruppi di magistrati. La volontà di spegnere il focolaio ha avuto una regia da palazzo Chigi, che già giovedì aveva spinto nella stessa direzione il guardasigilli Carlo Nordio, il quale si era schierato con Crosetto in una intervista altrettanto esplosiva. Anche il guardasigilli, davanti al plenum straordinario del Csm, ha scelto toni concilianti, tralasciando dalla sua relazione la separazione della carriere. Il tutto, sotto l’occhio attento del Quirinale, che presiede anche il Csm e ha seguito con attenzione l’aumentare del livello di scontro e ha accolto positivamente la distensione. Anche Crosetto, quindi, si è allineato alla volontà di Giorgia Meloni di chiudere lo scontro, e ha ammesso: “Tornassi indietro, non lo farei”. Tuttavia, in aula non ha rinunciato a proporre le sue ragioni. Fiducia nelle toghe - “Ho totale fiducia nella magistratura”, ha detto il ministro, sostenendo che in questi giorni ci sia stato un “tentativo di mistificazione delle mie parole”. Crosetto, infatti, si è sentito vittima di “un plotone di esecuzione ad personam, cui non ho neanche risposto: trasmissioni, insulti, interpretazioni malevole delle parole”. Se questo approccio non gli ha risparmiato critiche di vittimismo da parte del leader Cinque stelle, Giuseppe Conte, il ministro ha poi proceduto a ridimensionare la portata delle sue dichiarazioni. In sostanza, incalzato da Della Vedova, ha riformulato il concetto espresso nell’intervista, dicendo di non aver mai fatto riferimento a incontri segreti di magistrati, né di aver adombrato cospirazioni, ma solo di essere venuto a conoscenza di “riunioni di correnti della magistratura” e, “da cittadino”, li ha considerati gravi. Il riferimento torna ad essere quello al convegno di Palermo organizzato dal gruppo progressista di Area, che pure Crosetto non ha voluto citare direttamente in aula. Per Crosetto, il senso dell’intervista sarebbe stato di dire che “chi ha responsabilità costituzionali deve essere terzo”, ha spiegato con un parallelo con quanto da lui stesso sostenuto anche in occasione del caso del generale Roberto Vannacci. Tuttavia, ha ribadito: “Io non ho attaccato e non attaccherò mai la magistratura. Quando c’è stata la necessità di rivolgermi a un magistrato per denunciare dei fatti gravi, l’ho fatto”, ha ricordato, riferendosi al suo esposto su presunti dossieraggi a suo carico. Insomma, un passo indietro sì rispetto a quelle che alle orecchie della magistratura associata sono suonate come accuse gravissime, ma Crosetto ha mantenuto il punto sulla necessità che i poteri esecutivo e giudiziario rimangano ognuno nei suoi argini. Le repliche - Sul fronte politico, la maggioranza vuole considerare chiusa la polemica con un acquietamento anche di Forza Italia, che inizialmente aveva cavalcato lo scontro come la dimostrazione di come la riforma della separazione delle carriere sia quanto prima necessaria. Su quello dei magistrati, invece, il clima continua ad essere teso. A rispondere a Crosetto, infatti, è intervenuto il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, visto che anche il suo gruppo associativo è stato coinvolto nello scontro. “Crosetto ci assimila ai prefetti e ai generali”, ha detto riferendosi al parallelo con Vannacci, “ma la funzione della magistratura è quella di tutelare i diritti fondamentali anche quando le maggioranze contingenti li mettono in pericolo”. Parole che hanno irritato moltissimo Crosetto, il quale aveva sperato di chiudere la questione con l’intervento alla Camera e di interrompere il botta e risposta con le toghe, come auspicato dalla premier. Eppure, ai suoi ha confidato di sentirsi “turbato” per questa nuova “aggressione gratuita e ingiustificata” e di considerare “arrogante ed offensiva quanto gratuita la replica di Musolino”. Tuttavia, prossimamente dovrebbe svolgersi anche l’incontro con i vertici dell’Associazione nazionale magistrati, annunciata nei giorni scorsi e interpretata anche dal Quirinale come un giusto gesto distensivo, soprattutto da parte di un ministro come Crosetto che a Mattarella è sempre stato vicino. Del resto, palazzo Chigi è da settimane in allerta sul fronte della magistratura: il momento storico è delicato, con il rinvio a giudizio del sottosegretario Andrea Delmastro, di cui le opposizioni chiedono con forza le dimissioni, ma anche con le pratiche aperte sulla ministra Daniela Santanchè e sul sottosegretario Vittorio Sgarbi. Guai, questi, che nessun chiarimento in parlamento non sarà sufficiente a risolvere. La solitudine di Crosetto in Aula è come quella della riforma della giustizia di Simone Canettieri Il Foglio, 2 dicembre 2023 Davanti a 30 deputati il ministro parla genericamente di giustizia e politica senza fornire rivelazioni. Intanto il pacchetto Nordio è fermo. Cronaca di un venerdì già visto. Compresa la risposta di Magistratura democratica. Eccolo qui Guido Crosetto, “di persona personalmente”, con 39 di febbre, al centro di un Transatlantico vuoto. E’ venerdì. E nemmeno lo “scandalo della settimana” - l’intervista di domenica scorsa del ministro al Corriere sui piani dei pm contro il governo - può rovinare il week-end agli onorevoli, ululanti, da una parte e dell’altra, da cinque giorni. Rapida zoomata dalla tribuna dell’Aula: presiede il vicepresidente Sergio Costa, Crosetto è l’unico ministro sui banchi del governo (in compagnia di quattro tra sottosegretari e viceministri). E ancora: pattuglia di dieci fratelli di Guido (e d’Italia) capitanata da Giovanni Donzelli, un forzista turbogarantista (Giorgio Mulè), una leghista-giudice (Simonetta Matone), sei del Pd (c’è Elly Schlein) e cinque del M5s (c’è Giuseppe Conte). Poi Benedetto Della Vedova, che ha presentato l’interpellanza urgente. Finirà tutto in un’ora. Nessuna rivelazione scottante, sfoghi, flebilissimo effetto Craxi in trasparenza. E poi polemica con la corrente dei pm, Magistratura democratica. E comunque, cosa più importante, la riforma della giustizia è al palo. In coda dopo quella del premierato. Auguri. D’altronde qui si è presentato il titolare della Difesa, mica Carlo Nordio che è il Guardasigilli. E poi il caso “Delmastro”, sottosegretario a processo, è fresco fresco. Succede questo: Crosetto prende la parola, premette che ha sfidato l’influenza beccata a New York per non sottrarsi, e poi legge il passaggio che ha citato nell’intervista pedardo di cinque giorni prima. E’ l’ormai celebre congresso di Magistratura democratica a Palermo, riportato da Radio Radicale, in cui Stefano Musolino (che in Aula non viene citato) parla di opposizione giudiziaria. Chiosa a margine: “Apro un tema di cui dobbiamo discutere prima o poi: questo scontro tra politica e magistratura dovrà finire. Io ho trovato alcuni magistrati - ho sentito esponenti di Area - che vedono nel governo un attacco alla magistratura, quasi che non voglia farla lavorare. C’è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto”. E poi c’è il Crosetto San Sebastiano (“contro di me un plotone di esecuzione”), quello Bettino (“in tanti mi hanno detto farai la fine di Craxi”) quello Superman (“non ho nulla da temere: non sono mai stato sfiorato da nulla”). Della Vedova, a cui il ministro rinfaccia di averlo candidato in Parlamento quando era segretario piemontese di Forza Italia, in premessa aveva chiesto all’interpellato “fatti da svelare”. Insomma, la ciccia e la sostanza. Il radicale rimarrà deluso. “Se avrò evidenza di reati mi rivolgerò ai pm, di cui ho massima fiducia, come già mi è successo in passato”. Il titolare della Difesa, che è anche il cofondatore di Fratelli d’Italia, scodella un dato per cui l’emiciclo deserto ha un piccolo sussulto: i 30.778 innocenti in manette che ci sono stati negli ultimi 20 anni. Ma è un attimo. La modalità non è aggressiva. Anzi, usa molto la parola “mistificazioni”. Per il resto enunciazioni teoriche inappellabili e reazioni scontate. Sbadiglio. Appena le parole di Crosetto finiscono in rete, ecco la volée di Magistratura democratica per bocca del segretario Stefano Musolino: “Non conosce la costituzione”. E poi si parte con l’interpretazione delle parole che hanno fatto scoppiare questa bella ed ennesima bolla di sapone. La frase riportata dal ministro, pronunciata nel famoso congresso palermitano dei magistrati di Md è stata: “Ci hanno onorato di questa autonomia e indipendenza perché ogni qualvolta maggioranze contingenti avessero messo sotto scacco o in pericolo i diritti costituzionali, il ruolo della magistratura doveva essere subito quello di un riequilibrio di questo attacco a tutela dei diritti fondamentali”. Il dibattito non si schioda perché Musolino ripete la sua tesi con aggiunta geopolitica: “Tutte le volte che i governi hanno preteso di ridurre e anestetizzare la funzione degli organi di garanzia si è inevitabilmente abbassato il tasso di democrazia, come è successo in Ungheria, Polonia e Turchia”. Le famose derive dell’est sarebbero dunque dietro l’angolo. Tuttavia è un “sì, sì, sì è venerdì”, come canticchiano spesso i giovani deputati quando pensano al fine settimana lungo. Crosetto dice che è pronto a tornare in Aula tutte le volte che sarà necessario. La prossima occasione potrebbe essere mercoledì al question time dopo l’informativa sul medio oriente. Alla luce del suo intervento non si coglie perché andava segretato in Antimafia o al Copasir. Ma rimane l’elefante nella stanza: ministro, il governo quando procederà con la riforma? “Questo chiedetelo al titolare della Giustizia, io mi occupo della Difesa”. Indagata e “prosciolta” a mezzo stampa. E poi lo chiamano bavaglio di Simona Musco Il Dubbio, 2 dicembre 2023 Il nome di M. era finito nell’inchiesta sui concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria. Ma lo ha saputo dai giornali, così come ha scoperto della sua archiviazione. Ventuno aprile 2022. L’Università Mediterranea di Reggio Calabria finisce nella bufera. Non è la prima né l’ultima volta per un Ateneo italiano e le accuse sono quasi sempre le stesse: l’esistenza di un presunto sistema che pilota i concorsi. In mezzo ci finiscono nomi di primo piano, dal rettore ai dipendenti, passando per cinque professori e svariati concorsisti, accusati di aver fatto patti per superare le prove a danno di altri. Candidati “scelti su segnalazione” e destinatari di un trattamento di favore sulla base dei desiderata dei docenti. Una storia vecchia, si dirà. Ma anche quella che segue, purtroppo. M., una giovane e brillantissima dottoranda, si trova lontano da casa sua, lontano dalla Calabria, all’altro capo dell’Italia, in Lombardia. È lì per lavoro e come ogni mattina il 21 aprile del 2022 si sveglia e si mette in moto per andare a scuola: è un’insegnante. Apre Facebook, fa scorrere l’homepage fino a quando sotto i suoi occhi non compare il nome della sua Università. E c’è anche il nome del suo corso di laurea. Apre l’articolo, legge e poi si imbatte nei nomi. Li guarda, conosce tutti. E ad un certo punto arriva il suo. Non un’omonima, quella di cui si parla è proprio lei. Che avrebbe ricevuto in anticipo le domande per poter superare il concorso. M. sa benissimo che tutto questo non è mai accaduto. Ha studiato come una matta per superare quel concorso, ci si è dedicata anima e corpo. Chi le sta intorno lo sa. Il “suo” professore, nei mesi che hanno preceduto l’esame, era quasi irraggiungibile. Per rivolgergli una domanda toccava quasi aspettarlo sotto casa. E invece no, sotto i suoi occhi c’è scritto che anche lei, come tanti altri, sarebbe stata favorita. A M. nessuno ha detto nulla. Non è arrivata una carta, una, dalla procura, nessun ufficiale giudiziario ha bussato alla sua porta, nessuno l’ha convocata, nessuno le ha detto nulla. Ma il suo nome è su tutti i siti. Sui giornali, il giorno dopo. Circola tra i vicini di casa, gli amici le scrivono per chiederle: ma sei proprio tu? E questo perché i giornalisti hanno tutto. Prima di lei, che è una delle persone coinvolte nella storia, una a cui la vita, inevitabilmente, sta per cambiare. M. è praticamente sotto shock. Tutti - i colleghi, i vicini, i parenti - ora sono autorizzati a sospettare di lei. A pensare che abbia barato. Anche se l’hanno vista piegata sui libri per anni e in lacrime quando gli ostacoli sembravano troppo grossi. Lei non ha nulla in mano, ma i giornali hanno tutto. E pubblicano tutto. Anche se non c’è un’intercettazione che la riguardi, nulla. La sua storia accademica cade solo nel momento giusto e dunque eccola nel calderone. Per leggere qualcosa di se stessa deve chiedere aiuto agli amici giornalisti. Che hanno la libertà di pubblicare il suo nome, alla faccia della presunzione di innocenza e di quella legge Cartabia “che avrebbe ammazzato il giornalismo”, e le girano le carte che riguardano lei, più che loro, consentendole di apprendere cosa le stanno contestando. Passano i mesi, la storia smette di appassionare, l’Ateneo scende nelle classifiche e lei continua a lavorare, come prima. Solo c’è questa grande ombra che l’accompagna e il timore che tutti i suoi sacrifici possano sembrare una truffa. Non le danno alcuna notizia, nessuno le chiede di spiegare le sue ragioni, le arriva solo una comunicazione, a febbraio, di proroga delle indagini. Il primo atto ufficiale della sua vicenda. Giovedì i giornali hanno rispolverato la faccenda: le indagini sono chiuse e dunque tocca riscrivere dei nomi. M. clicca di nuovo su un link a caso gli articoli sono uguali ovunque, cioè delle veline - e il suo nome non c’è. E non c’è nemmeno quello del docente che l’avrebbe aiutata. Nessuno, però, lo sa, tranne chi stava aspettando l’ennesimo elenco per cercarla tra gli altri. Perché non c’è nulla che la riabiliti. Nulla che spieghi che ha subito un’inutile gogna nonostante sia pulita come un bambino. L’unica cosa che ha è la sensazione di sollievo per essere uscita da un incubo, quello che avrebbe potuto portarla a doversi difendere per aver realizzato il suo sogno, conseguire un dottorato. M., da Milano, sorride felice. Manda una foto agli amici in cui il suo volto è sì pieno di contentezza, ma anche di amarezza. Nessuno sa che M. è innocente, che ora anche la procura lo sa, tutti hanno ancora modo di sospettare che non lo sia. La sua dignità sacrificata non fa più notizia. Il calcolo del cumulo delle pene detentive della stessa o diversa specie si applica in modo uguale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2023 Diverse condanne che comportano arresto e detenzione devono condurre a una reclusione che non superi il quintuplo della sanzione più grave. Il cumulo di pene di diversa specie comminate con distinte condanne per differenti reati va effettuato in base a entrambe le regole fissate dal comma 1 e dal comma 2 dell’articolo 78 del Codice penale. Per cui il giudice per sciogliere il cumulo materiale anche in caso di pene diverse (arresto e detenzione) deve applicare tanto il criterio proporzionale quanto quello fisso previsto dalla suddetta norma penale. Il primo afferma che la pena risultante dallo scioglimento del cumulo materiale non può eccedere il quintuplo della pena più grave irrogata mentre il secondo criterio pone uno sbarramento fisso in base al quale la pena derivante dal calcolo non può comunque superare i trent’anni di reclusione. Il caso risolto dalla Cassazione penale - con la sentenza n. 47799/2023 - rientra nell’ipotesi di condanne diverse comminate per delitti e contravvenzioni a cui sono conseguite condanne con pene diverse: detenzione e arresto. Secondo la Cassazione sbaglia il giudice dell’esecuzione se non adotta entrambi i criteri, ma - come nel caso concreto - solo quello fisso dello sbarramento di non poter superare i 30 anni di reclusione. Ciò, infatti, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento di fronte al beneficio tra chi ha cumulato pene della stessa natura e chi no. Una tale lettura dell’articolo 78 e degli articoli 73 e 74 dal primo richiamati condurrebbe a un’ipotesi di illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza. O comunque giustificherebbe il rinvio della questione pregiudiziale alla Corte costituzionale. Invece, interviene oggi la decisione della Corte di cassazione che guida la mano del giudice dell’esecuzione indicandogli l’applicabilità di entrambi i criteri anche nel caso di cumulo di pene di specie diversa. Affermando di conseguenza quella parità di trattamento tra chi è chiamato a scontare più pene della medesima natura e chi è condannato ad arresto e detenzione. Bari. Vecchi problemi e letti che toccano il soffitto: i numeri della vergogna nel carcere di Mara Chiarelli ledicoladelsud.it, 2 dicembre 2023 Non solo sovraffollamento. Di problemi il carcere di Bari ne ha tanti, alcuni dei quali incancreniti, nonostante i numerosi interventi dei vari “attori” coinvolti e i tentativi di tamponarne le emergenze della direzione stessa. Li ha constatati, per l’ennesima volta ieri mattina, una delegazione di Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. La visita delle avvocate Maria Pia Scarciglia (presidente regionale) e Noemi Cionfoli (componente dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione) è durata alcune ore e ha riguardato tutti gli aspetti della vita in carcere dei 435 detenuti (con una capienza massima che invece ne prevede 270). La polizia penitenziaria - Continua ad essere sottosimensionato il numero degli agenti di polizia penitenziaria, in maniera inversamente proporzionale a quello dei detenuti. Ne sono stati contati 258 su una pianta organica che, invece, ne prevede 276. Pochi anche gli educatori: 3 fissi e uno part time (solo 3 giorni la settimana). Ne servirebbero almeno 5. Le aggressioni - Nell’arco del 2022, ha accertato Antigone, si sono registrate 7 aggressioni fisiche e 34 verbali ai danni del personale. E altre 41 tra detenuti. E ancora, 53 “eventi critici”: 42 episodi di autolesionismo, 1 suicidio e 10 tentativi di suicidio. I detenuti psichiatrici - Sono 19, affetti da patologie psichiatriche gravi e con diagnosi conclamata. Di questi, 3 sono in attesa che si liberi un posto in una Rems (la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi). E sono tutti rinchiusi in una cella. Ci sono, poi, sempre dietro le sbarre, altri 15 detenuti tossicodipendenti che sono sotto trattamento farmacologico. L’assistenza - I malati psichiatrici possono contare sulla presenza di psichiatri per 80 ore la settimana, e di psicologi per 42 ore. Sono invece saliti a 25, dislocati nelle strutture di Bari, Turi, Altamura e nell’Istituto per minori di Bari, gli infermieri della Asl a disposizione della struttura sanitaria nella casa circondariale. Le attività - Sono 79 i detenuti impegnati in corsi scolastici, ai quali si affiancato altre attività: concerti, teatro, e in questo periodo la realizzazione delle pigotte in collaborazione con l’Unicef. Le condizioni strutturali - La nota più dolente resta quella di una struttura vecchia e in alcune zone obsoleta. In particolare la prima sezione, dove si trovano i 148 detenuti di media sicurezza. In alcuni casi, è stato riscontrato ieri, il più alto di tre letti a castello sfiora il soffitto. I metri quadri che devono avere a disposizione ci sono ma, evidentemente, le condizioni non sono comunque ottimali nel rispetto dei loro diritti. Prato. Allarme del Garante dei detenuti: “Al carcere manca il 60% di organico” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 dicembre 2023 “Al carcere di Prato manca circa il 60% di organico e anche il numero degli educatori è di gran lunga inferiore alle necessità. Su nove previsti, ne sono attivi solo sei, più uno con un contratto part time”. Sono le parole del garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani dopo una visita all’istituto penitenziario pratese. Dai colloqui intercorsi, anche in via riservata, con sette detenuti che ne avevano fatto richiesta, è emersa una situazione di “grave carenza di personale”, soprattutto sottoufficiali e di criticità sulla capienza: i posti previsti sono 589 e c’erano 556 detenuti alla data della visita del garante, dei quali 262 stranieri. “Non si deve pensare che vi siano posti liberi - avverte Fanfani - Per comprendere le reali disponibilità di spazio all’interno del carcere è importante tenere presente che 70 posti sono collocati nella sezione di semilibertà, che ospita 30 detenuti. Per cui la parte penitenziaria ha un sovraffollamento di circa 30 persone”. Poi il garante regionale ha aggiunto una nota positiva: “Un’esperienza che continua a caratterizzare positivamente il carcere di Prato è la presenza del Polo Universitario penitenziario, che vede 40 studenti iscritti alle università toscane presenti alla Dogaia”. Continuano anche i problemi nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove ieri ha fatto visita il sindaco Dario Nardella insieme all’assessora Sara Funaro e ai deputati Pd Michela Di Biase e Federico Gianassi. “Sollicciano ha tantissimi problemi, come le infiltrazioni d’acqua - ha detto Nardella - E poi le condizioni igienico sanitarie critiche, siamo ai limiti della sostenibilità. Occorrerebbero anche 200 agenti in più”. Mantova. Teatro-carcere, i detenuti mettono in scena “Una finestra sul mondo” mantovauno.it, 2 dicembre 2023 “Una finestra sul mondo”, è il titolo dello spettacolo tenutosi oggi all’interno del carcere di via Poma. Uno spettacolo che fa da sintesi al laboratorio teatrale portato avanti dai detenuti, una delle molte attività in sostegno ai detenuti che la Diocesi promuove, attraverso il cappellano della Casa Circondariale padre Vasile Andrei Mesesan e il gruppo dei volontari della Cappellania. “Un progetto - ha spiegato il cappellano del carcere - con cui vogliamo mostrare questo mondo carcerario. La gente non si fa molte domande. Qui ci sono un insieme di reati, ma c’è molto di più. Ci sono delle persone che hanno sbagliato, ma che hanno delle qualità. Vogliamo far capire che bisgona dare una seconda possibilità. Forse anche una terza. Come, se non credere in loro, attraverso progetti che possano accompagnarli nel loro cammino dopo aver scontato la loro pena?”. Presenti la direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Metella Romana Pasquini Peruzzi, il vescovo mons. Marco Busca oltre al Prefetto Gerlando Iorio, il Questore Giannina Roatta, l’assessore comunale Andrea Caprini. “Il teatro - ha commentato la direttirce del carcere - è un mezzo per la libertà. Il teatro permtte di riflettere per cambiare, non solo loro, ma anche il mondo in cui vivono. Un modo per scoprire loro stessi, in un luogo come il carcere, dove ci si può perdere facilmente”. Attualmente sono circa 150 i detenuti del carcere di Mantova, con una stra grande maggioranza presenza di uomini (solo 7 le donne) con un’età media che va dai 30 ai 40 anni. Tra questi c’è qualche fortunato che proprio sotto le festività potrà uscire dal carcere, altri invece continueranno a fruire della semi libertà o della “misura lavoro” all’esterno, che già consente di rinserirsi gradualmente nella società. E c’è chi attraverso la fede chiede la forza per portare avanti il percorso all’interno di una cella: “Nel Vangelo - ha dichiarato il vescovo di Mantova Mons Busca - Gesù dice “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”. Il gesto di oggi è utile per rivolgere la giusta attenzione a questi fratelli e sorelle che sono segnati da esperienze negative per il recupero della loro umanità, moralità e della loro inclusione. Questo non è un mondo esterno al resto della convivenza civile. Alla luce di questo appuntamento è bene interrogarci su quello che possiamo fare per agevolare la loro integrazione, soprattutto trovando casa e lavoro”. Una quindicina i ragazzi coinvolti nello spettacolo, la cui preparazione è iniziata da settembre. L’intento era quello di far capire all’esterno la vita all’interno di un carcere. È stato prodotto anche un video dello spettacolo che diventerà uno strumento per aprire una finestra virtuale sulla Casa Circondariale, e quindi far conoscere alla comunità civile uno spaccato di vita all’interno del mondo carcerario. Asti. Al Fuoriluogo una mostra ispirata all’articolo 27 della Costituzione italiana lavocediasti.it, 2 dicembre 2023 L’obiettivo dell’iniziativa artistica è di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della giustizia riparativa e della reintegrazione sociale dei detenuti. Lunedì 4 dicembre alle ore 16 presso lo spazio culturale “Fuoriluogo” di via Govone, ad Asti, si inaugura la mostra “Art. 27” dedicata al diritto dei detenuti alla rieducazione. L’iniziativa è promossa dall’Associazione “Essere Umani” di Torino, che opera negli ambienti a rischio di disumanizzazione, in collaborazione con gli studenti dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e con il patrocinio del Garante Regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La mostra presenta una serie di opere grafiche ispirate all’articolo 27 della Costituzione italiana, che stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della giustizia riparativa e della reintegrazione sociale dei detenuti. All’inaugurazione sarà presente Juri Nervo, presidente dell’associazione “Essere umani” e presidente della Conferenza Regionale dei Volontari della Giustizia Piemonte Valle d’ Aosta. L’associazione Effatà, che si occupa di assistenza spirituale e umana ai detenuti del carcere di Asti, proporrà la mostra in modo itinerante negli istituti secondari di 2° grado, per coinvolgere gli studenti in un percorso di riflessione e confronto. Per maggiori dettagli sulla mostra: https://essereumani.org/mostra-art-27/ Teramo. Il progetto del Ministro Abodi “Carceri”, lo sport per riabilitare i detenuti Il Centro, 2 dicembre 2023 Il progetto di Sport e Salute e del Ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi, “Carceri”, arriva in Abruzzo, a Castellalto, in provincia di Teramo. A partecipare saranno i detenuti del carcere di Teramo, che potranno cimentarsi nelle discipline Soft cricket, Flying Disc e Dodgeball. L’iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività previste dai protocolli d’intesa sottoscritti con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Il progetto, che ha durata di 18 mesi, si propone di supportare le associazioni e le società sportive dilettantistiche e gli enti del Terzo settore di ambito sportivo per promuovere la salute e il benessere psicofisico, facilitando il recupero dei detenuti attraverso lo sport quale strumento educativo e di prevenzione del disagio sociale e psicofisico, di sviluppo e di inclusione sociale, di recupero e di socializzazione, di integrazione dei gruppi a rischio di emarginazione e delle minoranze. “Lo sport contro il disagio sociale ed economico, in particolare giovanile, e come deterrente sociale contro il rischio criminalità. Ma anche come strumento rieducativo per la popolazione detenuta”, dice Domenico Scognamiglio, Coordinatore Territoriale Sport e Salute Abruzzo. Nella progettazione è stata privilegiata la sinergia con altri soggetti e reti territoriali in linea con le tematiche affrontate e i target di riferimento come, ad esempio, soggetti del Terzo Settore, servizi sociali, Enti ospedalieri, Istituzioni scolastiche, universitarie, Servizi sociali, Comunità in carico al Dgmc, Istituzioni, Istituti Penitenziari e non solo. Rapporto Censis 2023, la fotografia degli italiani: impauriti e inerti come sonnambuli di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 2 dicembre 2023 E nel 2040 solo una coppia su 4 avrà figli. La relazione annuale dell’istituto: il 74% è favorevole all’eutanasia. Nel 2050 ci saranno 4,5 milioni di cittadini in meno. Il rapporto annuale del Censis la chiama “ipertrofia emotiva”. Il risultato è che oggi per gli italiani tutto è emergenza, dunque, alla fine, nulla lo è veramente. Per capire: l’84% degli italiani è impaurito dal clima impazzito, il 73,4% teme per il futuro del Paese per i suoi problemi strutturali, il 73% è convinto che per via degli sconvolgimenti globali arriveranno in Italia sempre più migranti e non sapremo come gestirli. Ma ancora: il 53% teme il collasso finanziario dello Stato, il 60% ha paura dell’esplosione di un conflitto globale e il 50% è convinto che non abbiamo abbastanza difese contro il terrorismo. Ma a fronte di tutto questo l’istituto di ricerca rileva che nulla smuove i cittadini che sono “sonnambuli”, sprofondati in un sonno che li rende “ciechi davanti ai presagi”. La flessione demografica negli ultimi anni è al centro di tutti i report statistici, di analisi sociologiche, di valutazioni economiche. Il Censis nel suo rapporto annuale mette in evidenza i dati più rilevanti, purtroppo noti ma sempre preoccupanti. Ad esempio: nel 2040 le coppie con figli diminuiranno fino a rappresentare il 25,8% del totale. Nel 2050 l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti, ovvero la somma di due città come Roma e Milano. Spariranno 3,7 milioni di persone con meno di 35 anni e al tempo stesso aumenteranno di 4,6 milioni di persone con più di 65 anni, di cui 1,6 milioni con più di 85 anni. Tradotto: sempre nel 2050 si stimano quasi 8 milioni di persone in età attiva in meno, con un impatto seri sulla nostra economia, sul sistema produttivo. Che già oggi certifica una nuova fase di incertezza, con la variazione negativa del Pil nel secondo semestre dell’anno (-0,4%) e la stagnazione dell’economia registrata nel terzo trimestre. E la riduzione dell’1,7% degli investimenti fissi lordi. Abbiamo toccato il record dell’occupazione: il 2, 4% in più tra il 2021 e il 2022. e nel primo semestre si sono contati quasi 23 milioni 500 mila. Il dato più elevato di sempre. Eppure il sistema produttivo lamenta la carenza di manodopera e di figure professionali. E poi a fronte dei nostri numeri da record rimaniamo il fanalino di coda dell’Unione europea per tasso di disoccupazione. C’è un settore del nostro Paese che non dorme, anzi sussulta e rivendica: quello dei diritti civili. Il Censis le ha messe insieme queste rivendicazioni ed è venuto fuori un quadro che evidenzia lo scollamento tra paese reale e politica. Infatti: il 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia, il 70,3% dice si all’adozione per single e il 54,3% lo dice per le coppie omosessuali. Il 65,6% si schiera a favore del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso e ben il 72,5 % a favore dello ius soli. Soltanto la gravidanza per altri viene approvata da una minoranza ben al di sotto del 50%: il 34,4%. Sono tutti temi che il Parlamento ignora o affossa, atteggiamento alla base della disaffezione dei cittadini alla politica. Eravamo un paese di emigranti e lo siamo rimasti. Il Censis rileva che quasi 6 milioni di italiani oggi sono residenti all’estero, pari a più del 10% della popolazione globale. E questi numeri sono superiori a quelli dell’immigrazione: sono infatti 5 milioni gli stranieri residenti in Italia, pari all’8,6% della popolazione. Gli italiani che si sono stabiliti all’estero sono aumentati del 36,7% negli ultimi dieci anni, ovvero sono quasi 1,6 milioni in più. Ad espatriare di più sono i giovani tra i 18 e i 34 anni, 36.125 nell’ultimo anno. Così i ragazzi digitali sono finiti in trappola di Alessandro Rosina La Stampa, 2 dicembre 2023 L’Italia si è disinteressata sia della loro diminuzione sia della formazione, la sensazione è vivere in una società che non offre la possibilità di contare. Le dinamiche demografiche italiane, in assenza di adeguati correttivi, stanno spostando il Paese verso un progressivo indebolimento del ruolo delle nuove generazioni nei processi di sviluppo e nelle scelte collettive. La conseguenza, per i giovani, è la percezione di non riuscire ad incidere sul futuro a partire dalle scelte di oggi e il timore di doversi adattare a un Paese in cui sempre meno si riconoscono. Chi ha meno di trent’anni ha trascorso tutta la propria esistenza in un Paese con debito pubblico superiore al prodotto interno lordo. Un peso molto più gravoso rispetto sia alle generazioni precedenti sia ai coetanei del resto d’Europa. Si trova, inoltre, a vivere in un Paese con domanda di spesa pubblica per la componente anziana destinata notevolmente ad aumentare mentre la popolazione in età attiva è in progressiva riduzione. Uno squilibrio anche questo inedito e più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Va aggiunto che gli attuali under 30 rappresentano la prima generazione formata e cresciuta nel XXI secolo e quindi pienamente chiamata a interpretarne le sfide, a partire dalla transizione verde e digitale. Tutto questo impone ancor più che in passato di mettere le nuove generazioni al centro dei processi di crescita del Paese, a farle sentire coinvolte nelle scelte strategiche per ripensare il modello sociale e di sviluppo in coerenza con i mutamenti in atto. Ed è proprio questo ruolo che manca e che i giovani in Italia sentono di non veder riconosciuto. La conseguenza è una combinazione di debolezza delle condizioni del presente e di carenza di prospettive verso il futuro, che si intreccia con le diseguaglianze di genere, sociali e territoriali. Difficile non sentirsi la generazione più penalizzata tra le nate nel secondo dopoguerra. Non tanto per i livelli di benessere da cui si parte, ma per le condizioni per generare nuovo benessere con il proprio impegno e le proprie capacità. La carenza di investimenti sulla formazione di base e professionale, sull’orientamento, sulle politiche attive per l’incontro efficiente tra domanda e offerta, sulla riqualificazione e l’aggiornamento continuo, su ricerca, sviluppo e innovazione, hanno esposto maggiormente i giovani italiani, rispetto al resto d’Europa, al rischio di diventare Neet (gli under 30 che non studiano e non lavorano). A confermarlo con dati e analisi aggiornate sono il “Rapporto sulle libere professioni in Italia” e il “Rapporto Censis 2023”, presentati entrambi al Cnel in questi giorni. Quello che più è mancato all’Italia negli ultimi decenni è il contributo qualificato che le nuove generazioni possono dare alla crescita inclusiva e sostenibile del Paese. Se le aziende e le organizzazioni faticano sempre più a trovare giovani, con le competenze necessarie, è perché maggiormente il Paese si è disinteressato della loro diminuzione quantitativa e della loro preparazione qualitativa. Se i giovani ben formati faticano a trovare lavoro è perché risulta più bassa la capacità attrattiva delle imprese italiane e inferiore negli altri Paesi l’attenzione alla valorizzazione del loro specifico capitale umano. Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione, ciò che pesa è il non sentirsi inseriti in processi di crescita individuali e collettivi, ossia inclusi in un contesto che consenta davvero di giocarsela e dimostrare quanto si vale. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli meglio preparati, ipercauti e diffidenti. L’Italia continua ad essere avvitata in una perversa spirale di degiovanimento quantitativo (meno giovani) e qualitativo (meno investimento e valorizzazione). Questo ha portato negli ultimi anni a consolidarsi la percezione dei giovani italiani di vivere in un Paese non impegnato a crescere con loro, che non li mette nelle condizioni di contare e fare la differenza nella costruzione del futuro collettivo. Ma a lungo andare il disinvestimento del Paese sui giovani diventa un boomerang. Non solo perché senza rinnovo generazionale qualsiasi collettività è destinata al declino, ma anche perché ad un certo punto sempre più giovani rinunceranno ad investire sul Paese. Un trentenne che dopo aver studiato non trova un impiego che lo metta nella condizione di dare il meglio di sé con adeguato riconoscimento (non solo in termini di salario), tenderà a fare il minimo o a lasciare. Si indeboliranno la scelta di aver figli, la scelta di investire sulla formazione da parte delle generazioni ancora più giovani, la scelta di partecipazione sociale e politica. Aumenterà, per converso, la scelta di andare all’estero. Su tutti questi aspetti tra loro intrecciati, come indicano i dati Istat ripresi dal Censis, stentano ad intravedersi solidi segnali di miglioramento. Nel frattempo anche il debito pubblico e gli squilibri demografici sono aumentati. Ma senza un rafforzamento del ruolo delle nuove generazioni - nell’economia e nella demografia italiana attraverso la loro realizzazione professionale e di vita - come possono tali indicatori migliorare? Ecco allora che se qualche anno fa i giovani italiani si chiedevano “se andarsene” ora la domanda che si pongono è “se rimanere”. Non sono più le difficoltà oggettive riscontrate che portano a lasciare, ma la mancanza di un progetto-Paese in cui riconoscersi. Se l’Italia entrata nella terza decade del XXI secolo appare un Paese fermo, con difficoltà a crescere e timoroso verso il futuro, è perché il contributo dei giovani ai processi di cambiamento è diventato negli ultimi decenni sempre più debole. Metterli nelle condizioni di immaginare un futuro diverso con opportunità concrete di realizzazione è la principale operazione che il sistema Paese deve fare se non vuole perdere un’intera generazione. Non è tanto una questione di generosità nei confronti dei giovani, è tutta la collettività che beneficia della possibilità che l’entrata nella vita adulta si compia in modo solido e con successo. Gli invisibili della violenza di genere sono i minori che vi assistono e che poi rischiano di imitarla di Giuseppe Spadaro Il Domani, 2 dicembre 2023 La violenza “assistita” è assai difficile da provare in sede giudiziaria ma provoca un danno invisibile. Ma ciò che maggiormente preoccupa e che si rileva nelle aule dei tribunali minorili è il meccanismo di riproduzione e di adattamento negativo, all’interno della sfera adolescenziale, della violenza di genere che abbiamo visto declinata per gli adulti. Solo a seguito della tragica morte della povera Giulia Cecchettin la violenza di genere è divenuta un tema ricorrente nel dibattito pubblico ed è di tutta evidenza come ancora non sia sufficiente quanto messo in atto in termini di politiche di contrasto, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione. Dal mio privilegiato angolo prospettico di giudice minorile e della famiglia ho modo di constatare impressionanti dati statistici: in Italia un bambino su tre ha assistito, impotente, a episodi di violenza tra le mura domestiche. In un caso su quattro ne sono stati coinvolti direttamente. Sappiamo bene che la violenza cosiddetta “assistita” è una violenza assai difficile da provare in sede giudiziaria, in quanto essa provoca un “danno invisibile”, di difficile rilevazione, spesso occultato, negato e sottovalutato. Al momento il reato di violenza assistita è previsto nel nostro codice penale solo quale circostanza aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del codice penale). Il giudice può obbligare il maltrattante a lasciare immediatamente la casa familiare; in ambito civile può disporre la decadenza della responsabilità e ugualmente provvedere all’allontanamento del genitore. Il giudice, inoltre, può disporre anche l’intervento dei servizi sociali, o di un centro di mediazione familiare, o dei centri antiviolenza che sostengono e accolgono donne e minori vittime di abusi e maltrattamenti. Tuttavia è evidente che la strada da percorrere in ambito giuridico è appena all’inizio per la sua concreta attuazione poiché l’obiettivo è l’individuazione di interventi che favoriscano la costruzione di reti interistituzionali tra enti e servizi preposti e con altre agenzie del territorio, attraverso la determinazione di programmi di azione condivisi. Il quadro anagrafico - Per quanto concerne il quadro anagrafico, colpiscono due percentuali: il 46,6 per cento dei minori sono in età prescolare e si tratta di una quota elevata di bambini e bambine che rischiano forse di passare più facilmente come “invisibili” per la loro età alla rete dei servizi educativi, sociali e sanitari. Per quanto riguarda la fase, delicatissima, delle segnalazioni che pervengono presso la procura minorile si registrano, tra le macrotipologie, che ben il 68 per cento arrivano dalle forze dell’ordine o su propria iniziativa o su sollecitazione proprio delle madri che si rivolgono alle forze dell’ordine. Significativo anche il ruolo di recettori dei servizi sociali, con il 18 per cento delle segnalazioni inviate, e della scuola, con il 10 per cento delle segnalazioni; mentre risulta del tutto residuale, purtroppo, il ruolo dei sanitari di base, come i pediatri, che pure hanno in carico i minori. Sappiamo dalle ricerche compiute negli ultimi anni, che la violenza contro le donne è endemica nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali e a tutti i ceti economici. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita. La violenza maschile sulle donne, che attraversa tutti i luoghi senza distinzione di età, classe sociale, cultura e religione, diventa così paradigma per misurare la condizione delle donne nella realtà e si traduce in una estesa, quanto strutturale, discriminazione del genere femminile che, da un minimo di esclusione a un massimo di soppressione fisica (nel caso del femminicidio), e con diverse forme, è presente ovunque nel mondo con stereotipi che permeano trasversalmente ogni essere umano. Diventa così la cartina di tornasole sulla relazione reale tra uomini e donne e rappresenta il terreno su cui ci muoviamo e in cui le donne fanno molta più fatica a vivere. I diritti - In una società che si muove ancora in un orizzonte di potere e poteri maschili non è sufficiente, seppure efficace, parlare di diritti; occorre arrivare a condividere un nuovo orizzonte simbolico, quello che Simone Weil indica come “vera giustizia”. La realtà è fatta di carne e ossa di quelle donne che, con molta fatica, hanno il coraggio di denunciare un uomo violento, che magari hanno in casa e che è anche il padre dei loro figli, da cui dipendono anche economicamente e che si alzano e reagiscono, a rischio della propria vita, in un contesto che non sempre le sostiene, ad iniziare dagli ambiti istituzionali. Il ruolo del tribunale per i minorenni risulta fondamentale di fronte all’imponenza del fenomeno, in particolare quando vi sono minori coinvolti e che assistono indifesi. Serve investire in un sistema interconnesso di competenze che occupa diversi ambiti giudiziari - oltre al tribunale per i minorenni, la procura e il tribunale penale e civile - ed è rintracciabile lungo un continuum di ambiti specialistici di tipo pedagogico, educativo, psicologico, psichiatrico e sociale. In tal senso trovo encomiabile il protocollo d’intesa sottoscritto tra queste autorità giudiziarie nel Distretto di Trento. La riproduzione - Ma ciò che maggiormente preoccupa è quanto si rileva nelle nostre aule d’udienza, ossia un meccanismo di riproduzione nonché un adattamento negativo, all’interno della sfera adolescenziale, della violenza di genere che abbiamo visto declinata per gli adulti. È noto come l’adolescenza si caratterizzi spesso con la volontà di trasgredire, di distruggere per poi ricostruire, di entrare in conflitto con il mondo intero. Molti ragazzi di fronte a difficoltà familiari, scolastiche, sociali o psicologiche, percepiscono la società come ostile e si difendono con l’aggressività. Il fenomeno della violenza tra giovani si inserisce in questa realtà e sembra essere in preoccupante crescita in Italia, come dimostrano le cronache recenti. Oggi per descrivere la violenza all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti si parla anche di un fenomeno relativamente nuovo, la Teen Dating Violence. Questo tipo di violenza si manifesta, oltre che con aggressioni fisiche, attraverso le nuove tecnologie, ormai medium principale di comunicazione tra i giovani. Secondo un’indagine di Telefono Azzurro e Doxa Kids con più di 1500 adolescenti, il 10 per cento degli intervistati ha dichiarato di conoscere qualcuno/a che ha ricevuto minacce dal partner di postare in rete foto o video privati se non avesse fatto ciò che gli/le veniva chiesto. E non stupisce che, secondo sondaggi ISTAT sulla portata del fenomeno violenza di genere, 5 ragazzi maschi su 10 abbiano affermato di non trovare strano in alcune occasioni (il tradimento per esempio) di alzare le mani sulle fidanzate. Oppure che per due ragazze su cinque la sberla sia vista come una delle modalità dell’amore. Questo atteggiamento è difficile da sradicare nei nostri ragazzi se l’hanno notato in casa o ascoltato in brani musicali o visto in tv. I giovani ricevono messaggi su come comportarsi dagli adulti presenti nelle loro vite, dai compagni, dai media. E spesso questi messaggi sembrano suggerire che la violenza all’interno della coppia sia una cosa normale. Una delle cause dell’aggressività e della violenza di genere tra gli adolescenti, secondo gli studiosi, sembra quindi essere l’assenza di modelli o meglio, la presenza di modelli negativi nella società e in famiglia. I ragazzi hanno invece bisogno di adulti credibili in cui identificarsi. L’identificazione è un elemento essenziale per la formazione della personalità. I fattori di rischio - Abbiamo constatato la ricorrenza di fattori di rischio che predispongono alla violenza di coppia che aumentano se i ragazzi fanno uso di droghe o sostanze illegali; se hanno una sessualità precoce e più partner e, soprattutto se sono stati testimoni di violenza in famiglia. I sintomi vanno dall’ansia alla depressione, a comportamenti devianti come uso di alcool e droghe e/o comportamenti antisociali fino ad arrivare al suicidio. Parlando in prima persona come padre di due meravigliose ragazze e come giudice, credo che ognuno abbia un compito che riguarda il proprio genere. Agli uomini degni di questo nome non appartiene essere femministi, ma sta a loro la gestione e soprattutto la sanzione, prima di tutto pubblica e sociale, dei propri simili violenti: devono uscire dal silenzio che li rende complici e capire che anche non prendere posizione è una scelta, che ha delle conseguenze e mantiene intatto il problema. Il modello violento patriarcale è un sistema prevaricante che schiaccia anche gli uomini, ma solo quando gli uomini accetteranno di ammetterlo pubblicamente sarà possibile fare le dovute distinzioni fra complici e vittime, uomini o donne che siano. Migranti. Nel Cpr “lager” di via Corelli a Milano cibo avariato, sporcizia e niente cure di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 dicembre 2023 I pm chiedono il commissariamento immediato. Frode, tre gli indagati. False convenzioni in Prefettura con una serie di enti, associazioni, parrocchie che erano all’oscuro di tutto. È sotto la responsabilità del ministero dell’Interno attraverso la Prefettura, che nell’ottobre-novembre 2022 ne appaltò per 4 milioni e 400.000 euro la gestione per 12 mesi alla società privata La Martinina srl di Pontecagnano (Salerno): ma per la Procura di Milano le inadempienze del gestore sono tali e tante che il Cpr-Centro permanenza rimpatri in via Corelli 28, per essere bonificato e fatto rientrare nella legalità, deve essere subito commissariato (aggiornamento: si indaga anche per droga). I pm hanno infatti chiesto all’Ufficio Gip “l’interdizione dai rapporti con la Pubblica Amministrazione” per la società indagata (al pari del gestore Alessandro Forlenza e della amministratrice Consiglia Caruso, sua madre) per le ipotesi di reato di “frode in pubbliche forniture” e “turbativa d’asta”. Ma siccome l’interdizione della società (che gestisce anche il centro di Brindisi, e fino a poco fa il Cpr di Potenza e un centro per minori a Taranto) determinerebbe un’interruzione di pubblico servizio che potrebbe provocare grave pregiudizio alla collettività, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, e i pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, chiedono al gip di sostituirla con la “nomina di un commissario giudiziale”. “L’udienza è stata fissata per il 15 dicembre dal gip Livio Cristofano”, spiega il legale Marco Bolchini che ha ricevuto, come avvocato d’ufficio, la notifica del contraddittorio sulla misura cautelare. E ieri mattina la GdF con i tre pm e un medico ha ispezionato a sorpresa il Cpr, videoregistrando le condizioni per confrontarle con i racconti di molti testi oculari, i video girati con i telefonini dai trattenuti nel Cpr e fatti filtrare all’esterno, un rapporto di marzo 2023 del Naga, e il resoconto della visita a sorpresa il 29 maggio 2022 dell’allora senatore Gregorio de Falco. Sotto esame l’abissale differenza tra le promesse alla Prefettura, per vincere l’appalto, e la realtà invece di cibo “spesso maleodorante, avariato, scaduto”, di mediatori e psicologi “assenti” o “gravemente deficitari” come medici e infermieri, di bagni “in condizioni vergognose e camerate sporche”, di teoriche visite che avrebbero ritenuto “idonee” a restare nel Cpr anche persone con tumore al cervello, tossicodipendenti, gravi malati psichiatrici, epilettici. Ancor più preoccupante, per il ministero dell’Interno, il fatto che la grossolana artificiosità di tutta una serie di convenzioni con enti-associazioni-parrocchie, che La Martinina srl aveva depositato in Prefettura a riprova della solidità della propria offerta, non sia stata mai rilevata. Neanche se ad esempio l’apparente firmatario per l’associazione “Scarioni 1925” era morto già da due anni, o se la società “Bondon Grocery Supermercato Spesasì” difficilmente avrebbe potuto fare lo sconto del 5% visto che era chiusa già da un anno: del resto i dirigenti di molte altre associazioni (come Dianova Onlus, Minhaj Wuran International, Ala Onlus, Medici volontari italiani Onlus), al pari del parroco di San Martino Lambrate o del presidente Abu Shwaima del Centro islamico italiano, hanno additato false le proprie apparenti firme in calce ai protocolli depositate dalla Martinina srl in Prefettura. Che venerdì in una nota ritiene di ugualmente qualificare “costante ed approfondita” l’”attività di monitoraggio”, e rimarca avesse “nei mesi scorsi fatto emergere criticità a carico del gestore”, con “massima sanzione convenzionalmente prevista”: vicenda però diversa da quelle disvelate ieri, vertente sulla difformità tra ore lavorare dai dipendenti e ore retribuite. Migranti. Cibi marci e zero cure, la vergogna del Cpr di Milano di Andrea Siravo La Stampa, 2 dicembre 2023 Blitz della Finanza in via Corelli per verificare la gestione di Martinina. Tutti i servizi promessi risultano “assenti e comunque gravemente deficitari”. Al Cpr di Milano quando ieri mattina hanno suonato al cancello si aspettavano l’arrivo di un nuovo migrante destinato a essere espulso. Non certo di vedere i militari della Guardia di Finanza e i pm della Procura. Arrivati a sorpresa, con un decreto di ispezione, per verificare le presunte gravi inadempienze nell’erogazione dei servizi della società Martinina che gestisce il centro di via Corelli dall’aprile 2022. Come già l’allora senatore Gregorio De Falco nel sopralluogo del maggio 2022, anche gli inquirenti milanesi hanno constatato la quasi totale discordanza tra quanto scritto nell’offerta con cui la srl di Pontecagnano Faiano (Salerno) ha vinto l’autunno scorso l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro e la realtà nella struttura di detenzione amministrativa. “Assenti e comunque gravemente deficitari”, è la dicitura che accompagna - nel provvedimento dei magistrati - tutti i servizi promessi dalla Martinina. Tra le carenze più gravi i “servizi di mediazione linguistica assenti e comunque gravemente deficitari” e ancora peggio sul piano medico “prestazioni sanitarie specialistiche raramente effettuate per mancanza di fondi” a cui si aggiunge la “mancanza di medicinali”. Così come il “servizio di ausilio psicologico/psichiatrico, largamente insufficiente e fornito da personale che non conosce le lingue parlate dagli ospiti del Cpr” e quello legale “assente”. Non hanno nulla a che vedere con “materie prime provenienti da produzione biologica, Dop, Igp e tradizionali” i pasti offerti agli ospiti, una cinquantina al momento dell’ispezione. Anzi, “spesso il cibo è maleodorante, avariato e scaduto”. Ma le irregolarità non riguarderebbero solo la gestione quotidiana del centro, ma sarebbero state commesse già nella procedura di gara. In particolare, il direttore del centro Alessandro Forlenza, 49 anni, e la madre Consiglia Caruso, 72 anni, firmataria dell’offerta tecnica, avrebbero allegato “documenti contraffatti e apocrifi” di fittizi protocolli d’intesa con associazioni e ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti. Diversi contratti all’insaputa degli enti del terzo settore come nel caso di Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) in cui il nome del responsabile legale che ha firmato l’accordo non corrisponde ad alcun referente dell’organizzazione. E anche con defunti, se si prende il caso della convenzione con l’associazione “Scarioni 1925”. L’accordo per educare i migranti allo sport e cultura del 24 agosto 2022 reca la firma dell’ex presidente della società sportiva. Peccato che sia morto nel febbraio 2020. La procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano e i pm Paolo Storari e Giovanni Cavalleri accusano Forlenza, la madre e la società stessa di “frode in pubbliche forniture” e di “turbativa d’asta”. Nessuna ipotesi di illecito penale invece per la prefettura che avrebbe potuto fare verifiche nella fase di aggiudicazione della gara d’appalto e ancora nell’esecuzione del contratto. Ciononostante la “costante ed approfondita attività di monitoraggio” riferita in una nota da Palazzo Diotti che ha portato all’apertura di “un procedimento amministrativo” a Martinina “per la contestazione di talune condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali”. Criticità gestionali che non riguarderebbero le carenze nei servizi, ma una maggiorazione delle ore effettivamente svolte dagli operatori del Cpr. Da qui “l’irrogazione della massima sanzione convenzionalmente prevista”. Il dossier sulla struttura di via Corelli sarà al centro del prossimo comitato ordine e sicurezza pubblica. La prima spina per il neo prefetto Claudio Sgaraglia che si insedierà il 4 dicembre. Dalla politica poche reazioni. “Da tempo diciamo che i Centri per il rimpatrio sono vere e proprie galere e andrebbero aboliti”, ha commentato la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi, che pochi giorni fa ha presentato una interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sul cpr di via Corelli. Migranti. La denuncia delle associazioni sui Centri per i rimpatri: “Sono disumani” di Simone Bauducco Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2023 Tentativi di suicidio, abuso di psicofarmaci e cibo coi vermi. Persone identificate con numeri, cibo scaduto con i vermi, difficoltà nell’accesso alle cure e uso di psicofarmaci in gran quantità che genera una “zombizzazione” dei trattenuti. È questo il quadro che emerge dal report dell’associazione Naga e della rete Mai più Lager-No Cpr che per un anno hanno raccolto testimonianze e documenti sulle condizioni del Centro di Permanenza per i Rimpatri di via Corelli a Milano. Un lavoro di ricerca che si è dovuto scontrare con la “difficoltà enorme nel reperire i dati ufficiali dalle istituzioni” come spiega Nadia Bovino dell’associazione Naga. Ma grazie ai racconti e ai video dei trattenuti, agli avvocati e agli accessi civici generalizzati è emersa “una situazione drammatica”, a partire dalle procedure di ingresso nel centro di via Corelli. “La visita di idoneità al trattenimento o non è svolta o è svolta senza strumenti diagnostici adeguati; la ‘visita medica’ di formale presa in carico da parte dell’Ente Gestore comprende umiliazioni e abusi quali, per esempio, la denudazione delle persone appena arrivate alla presenza del personale medico e di agenti di polizia e l’obbligo di fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano”. E poi grazie al reperimento delle cartelle cliniche di alcuni trattenuti le associazioni hanno verificato “il trattenimento di persone con malattie gravi e croniche, come un tumore cerebrale e gravi problemi di salute mentale” oltre a una sovrabbondante elargizione di psicofarmaci senza alcuna prescrizione specialistica”. I video girati dagli stessi trattenuti mostrano persone barcollanti o incapaci di tenere il braccio su in sala mensa. “Degli zombie” commentano gli autori del report. Dentro al Cpr di via Corelli il tempo sembra non passare mai. Non sono previste attività. Nove minuti alla settimana di colloquio con l’assistenza legale, nove minuti con quella sociale e 28 minuti per l’aiuto linguistico. Nient’altro. E così gli episodi di autolesionismo o tentativi di suicidio sono sempre più diffusi. “Qua non si tratta solo di mala gestione del centro, ma è una situazione strutturale” attacca Bovino ricordando che è dal 1998 che questo tipo di istituto è in vigore, seppur con nomi differenti. “È una misura intollerabile, inaccettabile e disumana” proseguono gli autori del report, specialmente se si pensa che viene applicata a persone che hanno commesso soltanto un illecito amministrativo, cioè essere irregolari sul territorio. Persone che possono essere trattenute fino a 18 mesi. “Ma quello che ci preoccupa di più - avverte Teresa Florio, della rete Mai più Lager - No ai Cpr - è che nelle ultime settimane c’è stato un dilagare della detenzione amministrativa che ormai colpisce anche le persone richiedenti asilo alla frontiera che provengono da Paesi sicuri. Quindi c’è un’applicazione indiscriminata secondo noi della detenzione amministrativa”. Una preoccupazione che sembra essere condivisa anche da alcuni tribunali italiani che nelle scorse settimane hanno emesso provvedimenti in questa direzione. Il governo però spinge per il potenziamento dei Cpr. “Se entrerete illegalmente in Italia sarete trattenuti e rimpatriati” aveva avvertito Giorgia Meloni in un video messaggio a settembre. Eppure secondo le associazioni i Cpr non servono come deterrente perché “gli stessi rimpatriati ci dicono subito che vogliono provare a rientrare in Italia”. E anche dal punto di vista dell’efficienza per i rimpatri lo strumento dei Cpr si è rivelato debole: “In media siamo sul 50 per cento dei trattenuti che sono stati rimpatriati - conclude Florio - se si considera che ogni anno 6mila persone entrano nei Cpr su 600 mila irregolari sul territorio e se si considera che i rimpatriati sono solo la metà, stiamo parlando dello 0,5% di rimpatri sul totale degli irregolari”. I Cpr dunque, oltre ad essere “disumani” così come raccontato dal report delle associazioni, si sono rivelati pure inefficienti. Migranti. De Falco: “Nei Cpr detenuti in condizioni prossime alla tortura” di Andrea Siravo La Stampa, 2 dicembre 2023 L’accordo Italia-Albania? Rischiamo di creare la nostra piccola Guantánamo”. L’ex senatore denuncia le irregolarità dopo i sopralluoghi nei Centri di permanenza per il rimpatrio di Milano e Roma. Il fine settimana del 5 giugno 2021 e il 29 maggio 2022 l’ex senatore Gregorio De Falco era entrato nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Milano. Quel caseggiato di cemento grigio in fondo via Corelli dove venerdì primo dicembre hanno fatto i militari della Guardia di Finanza e i pm di Milano. Un’ispezione effettuata nell’ambito di un’inchiesta sulle presunte irregolarità nell’affidamento dell’appalto Martinina srl e la successiva gestione dei servizi. De Falco, dopo i suoi sopralluoghi degli anni scorsi, oggi si è attivata anche la magistratura, se lo aspettava? “La procura si è mossa e dico “finalmente”. Pensavo lo facesse prima dopo l’esposto a conclusione del primo sopralluogo il 5-6 giugno 2021 e quello integrativo successivo alla visita il 29 maggio 2022. Questi esposti erano l’invocazione dell’extrema ratio”. Cosa intende? “Me lo aspettavo, ma invece non è successo che l’amministrazione si muovesse. Quando nelle mie funzioni da parlamentare avevo chiesto conto e ragione dei fatti, l’amministrazione ha latitato”. Per amministrazione intende le prefetture? “Esatto, anche in Parlamento chiesi conto all’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e mi venne risposto in modo molto evasivo, così come dalla Prefettura, che il parlamentare non aveva diritto ad accedere agli atti. Ciò equivale a dire che il cittadino italiano non ha diritto alle risposte e questo è di gravissimo”. Lei ha visitato non solo il Cpr di via Corelli a Milano, ma anche quello della Capitale di Ponte Galeria. Quale era lo scopo dei suoi sopralluoghi? “Noi non andavamo lì a controllare solo il gestore della struttura, ma la situazione di fatto e verificare se lo Stato attraverso le proprie articolazioni amministrative esercitasse o meno un trattenimento ingiusto o addirittura violento. Da quello che ho visto, i detenuti erano mantenuti in condizioni degradanti per la persona umana, direi prossime alla tortura”. Una situazione di cui le prefetture erano e sono a conoscenza? “Io ho verificato che l’amministrazione non effettua i dovuti controlli, né a Roma, con l’allora prefetto Piantedosi, né a Milano con il Prefetto Renato Saccone. Non ho fatto in tempo a visitare altri Cpr, ma credo che la situazione non fosse tanto dissimile. In realtà non basta affermare le responsabilità dell’ente gestore. Le prefetture in questi casi rappresentano lo Stato ed è quindi loro dovere controllare”. Dall’inchiesta di Milano emergono gravissime carenze nella fornitura di servizi primari come l’assenza di “prestazioni sanitarie specialistiche raramente effettuate per mancanza di fondi” e la “mancanza di medicinali”. Lacune già denunciate nel suo report “Delle pene senza delitti”? “Per farle capire le racconto un aneddoto personale della visita del 29 maggio 2022”. Prego... “Nelle undici ore in cui siamo rimasti dentro ho avuto un episodio di ipertensione. Mi ero rivolto a una coppia di medici padre-figlio che erano arrivati di gran carriera, dopo aver saputo della ispezione. Alla richiesta di un comune farmaco antipertensivo mi avevano risposto di non avere niente e l’unica cosa che potevano fare per me era di offrirmi un bicchiere d’acqua. Questo era lo stato dell’infermeria in un luogo in cui la gente ha sicuramente patologie e malessere”. Come avevano giustificato l’assenza di medicinali? “Ci dissero che loro i farmaci non potevano acquistarli poiché non gli venivano passati dall’Ats. Una situazione che obbligava i detenuti, che chiedevano di far verificare la loro condizione di salute come incompatibile con il trattenimento in un luogo ristretto, a commettere gesti autolesionistici, come quello tagliarsi braccia e gambe, o lanciarsi dall’alto per fratturarsi gli arti”. Lo scorso 6 novembre la premier Giorgia Meloni e il primo ministro dell’Albania Edi Rama hanno firmato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi migratori. Un accordo che prevede l’apertura di due centri, tra cui un Cpr. Qual è il suo giudizio? “Se io apro un Cpr in Albania chi viene a controllare? Lì sarà più facile tenere fuori gli occhi del diritto e della umanità. Il Cpr serve proprio a tenere lontana la sofferenza dagli occhi dei cittadini. Non solo si istituiscono in periferia, ma se addirittura ora si spostano in Albania creiamo la nostra piccola “Guantánamo”. Un luogo dove si potrà fare quello che si vuole, lontani dalla coscienza sociale. Si tratta di un escamotage spregevole ed incostituzionale, che non può esistere in un paese civile e di diritto: i diritti universali esistono solo se si riconoscono a tutte le persone in quanto tali, altrimenti non esistono per nessuno di noi”. Migranti. De Falco: “Nel Cpr il degrado, colpa della gestione privata e dello Stato che nasconde” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 2 dicembre 2023 L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle segnalazioni dell’ex senatore 5Stelle che fece due ispezioni: “Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede”. Gregorio De Falco, quando è stato senatore del M5S nel Cpr di via Corelli ha fatto due ispezioni. L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle sue segnalazioni, cos’ha pensato questa mattina? Finalmente. Perché fin dall’esito della prima ispezione, quella del 5-6 giugno 2021, avendo fatto un esposto alla Procura della Repubblica mi aspettavo che qualcosa succedesse. Poi c’è stata la seconda ispezione, quella del 29 maggio 2022. Era chiara la condizione di assoluto abbandono nella quale vivevano e vivono tutt’ora le persone trattenute all’interno e mi aspettavo che qualcuno avviasse indagini. Oggi quindi dico: finalmente la giustizia si muove. Qual era l’obbiettivo delle sue ispezioni? Era quello di verificare le condizioni di vita dei trattenuti e quindi se lo Stato, attraverso le sue funzioni amministrative come la Prefettura, esercitasse il trattenimento con criteri minimi di dignità e umanità. Quello che abbiamo visto è stata invece una condizione diffusa di degrado. Le persone vengono trattenute in modo brutale perché senza aver commesso reati sono costrette a stare in un centro equivalente al carcere, ma a differenza dei carcerati a loro non è concesso il diritto di difesa, non possono fare nulla. Spesso le visite mediche sono fatte da operatori pagati dalle società di gestione, non va bene. Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede. Dal cibo avariato, all’abuso di farmaci, all’impedimento a comunicare con l’esterno. E lo Stato tiene nascosto tutto ciò. Il controllo del lavoro delle società che vincono gli appalti di gestione dei Cpr spetterebbe al ministero dell’Interno e alle prefetture. Avviene? Guardi, in quegli anni ho fatto interrogazioni parlamentari all’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e le risposte che ho avuto sono sempre state sconfortanti. Una volta avevo chiesto di entrare nel Cpr di Roma insieme a una mia collaboratrice. All’epoca il prefetto di Roma era Matteo Piantedosi. Bene, mi fu negato il permesso perché Piantedosi aveva fatto fare delle indagini sulla mia collaboratrice e non risultava essere la mia assistente legislativa parlamentare. Ma io avevo chiesto proprio a lei di accompagnarmi perché era una persona che parlava l’arabo e si occupava di immigrazione. E invece no, Piantedosi impiegò il suo tempo per fare indagini sulla mia collaboratrice e negarmi l’ingresso al Cpr. Oggi Piantedosi è ministro dell’Interno di un governo che i Cpr li vuole moltiplicare, persino fuori dai confini nazionali… Moltiplicare ed esternalizzare. Con l’idea di costruire Cpr fuori dal territorio nazionale vogliono evitare che i parlamentari possano esercitare la loro funzione di controllo su queste strutture. È gravissimo, ma penso che il piano del governo sia fallimentare perché ancora c’è una Costituzione che anche loro devono rispettare. Il livello di civiltà non può tornare indietro. Migranti. Cento milioni di euro per 720 posti: ecco il vero prezzo dei Cpr in Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 dicembre 2023 L’intesa Meloni-Rama. Un documento interno del governo rivela: costi altissimi per allestire tre strutture dove ci sarà posto per 720 migranti. Un hotspot nel porto di Shengjin, un luogo di trattenimento e un Cpr a Gjader. E mancano ancora le spese per l’ente gestore e i trasferimenti navali a bordo di mezzi militari. Circola nelle mail dei funzionari dei ministeri coinvolti un prospetto complessivo sul totale dei costi stimati per i centri italiani in terra albanese e accende una prima luce sull’impegno economico della nuova scommessa di Meloni: almeno 92,5 milioni di euro il primo anno e poi 49 per ognuno dei quattro successivi previsti dall’intesa quinquennale. Nel documento che il manifesto ha potuto visionare, finora inedito, c’è un numero importante che smentisce gli annunci della premier: saranno 720, e non 3mila, i migranti trattenuti contemporaneamente oltre Adriatico nella migliore delle ipotesi. Almeno nella fase di avvio del progetto, che da protocollo prevede un totale “non superiore” a quello dichiarato dalla presidente del Consiglio. Andiamo con ordine. Sull’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama erano trapelate solo due cifre: i 16,5 milioni di euro come anticipo a Tirana entro i tre mesi dall’entrata in vigore del protocollo, verosimilmente per le spese di vigilanza esterna da moltiplicare per cinque anni, resi noti dal Corriere della Sera l’8 novembre scorso; i 100 milioni congelati su un fondo di garanzia per eventuali controversie di cui ha parlato la testata albanese gogo.al. Niente di ufficiale dunque, ma soprattutto nulla di relativo ai soldi che Roma dovrà utilizzare per la gestione diretta del progetto. Nella tabella relativa al “totale dei costi stimati” per dare attuazione all’intesa ci sono numeri molto più interessanti. Riguardano le cifre per la realizzazione delle strutture, per le procedure relative alla protezione internazionale, per il personale di polizia e i suoi strumenti logistici. I centri saranno tre: un hotspot al porto di Shengjin (300 posti); una struttura di trattenimento a Gjader (300 posti); un Centro di permanenza per il rimpatrio, Cpr, nella stessa località (120 posti). Probabilmente gli ultimi due si troveranno in una ex base militare e saranno differenziati solo funzionalmente. Per realizzarli serviranno 36 milioni, mentre la loro gestione è stimata in 8 milioni annui. Per il funzionamento del collegio aggiuntivo della commissione territoriale per l’asilo e le procedure connesse agli iter delle domande sono messi a budget 1,5 milioni ogni dodici mesi. Quasi 40, invece, i milioni necessari su base annuale per le “risorse umane” che si occuperanno delle attività di polizia. Altri 7,5 milioni previsti, una tantum, per gli strumenti logistici a esse relativi (tra mezzi di trasporto, equipaggiamenti, risorse telematiche e voci varie). Le forze dell’ordine saranno organizzate su turni di 15 giorni. Il costo del viaggio andata e ritorno è calcolato in 800 euro per agente, mentre tra vitto e alloggio ne serviranno 120 a testa a notte. Per due settimane di impiego il personale che si occuperà dell’ordine pubblico godrà di un’indennità di trasferta di 450 euro a cui potranno sommarsi fino a 885 euro per gli straordinari (previsti per un massimo di 3 ore ogni giorno). Restano fuori, e andranno aggiunte, spese varie ed eventuali al momento non calcolabili su ogni capitolo di spesa. Oltre, come detto, a quelle per l’ente gestore. Il quale dovrà retribuire il suo personale, garantire vitto e alloggio ai migranti ed erogare loro alcuni servizi, tra cui l’assistenza sanitaria. Per un’idea indicativa si possono utilizzare i dati che la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) ha pubblicato nel rapporto L’affare Cpr, presentato a giugno scorso presso la Camera dei deputati. Il totale relativo al triennio 2021-2023 per i dieci Cpr attivi sul territorio nazionale, almeno fino alla chiusura di quello torinese, con una “capienza teorica di 1.105 posti” è di 56 milioni stanziati a favore dei privati che li gestiscono. Se fosse possibile calcolare matematicamente la proporzione rispetto ai posti andrebbero previsti circa 12 milioni di euro ogni anno. Ma non è escluso che l’Albania, paese con un tenore di vita più basso, possa permettere forme di trattenimento low cost (se il personale impiegato fosse italiano, però, potrebbe costare di più per i benefit da trasferta). Lunedì a Palazzo Chigi si terrà la riunione preparatoria del Consiglio dei ministri per discutere, tra le altre cose, la legge di ratifica del protocollo, che dovrà passare dal parlamento. In attesa che il governo diffonda cifre ufficiali, più volte reclamate dai parlamentari d’opposizione senza esito, mettendo insieme tutte le stime venute fuori fino a questo punto i costi dell’intesa con Tirana partiranno da una base di 373,5 milioni di euro, senza contare i 100 milioni bloccati nel fondo di garanzia e le spese per l’ente gestore. E senza contare neanche tutte le controversie giuridiche che si apriranno intorno al trattenimento dei migranti e alle loro richieste d’asilo nel territorio albanese sotto giurisdizione italiana. Oltre alle complicate questioni logistiche, che avranno un ulteriore risvolto economico, sul trasferimento dei migranti verso il porto di Shengjin con navi militari: non esattamente la destinazione dove contano di arrivare persone che hanno rischiato la vita attraversando il mare e spesso il deserto. Israele vive una guerra permanente: la sicurezza arriverà solo con la pace di Massimo Cacciari La Stampa, 2 dicembre 2023 Le potenze mondiali dovrebbero convocare un summit per fermare il conflitto e creare uno Stato palestinese. All’Occidente serve un accordo durevole tra leader responsabili, l’occupazione di terra produce solo terrorismo. Resisterà la tregua? Saprà svolgersi in una reale ricerca di accordo? Questo si chiedevano tutti qualche ora fa. La risposta sembra tragica: no, la guerra continua, si riaccende. Ma con quali prospettive? Eppure sembra del tutto chiaro che queste si riducono essenzialmente a due, e chiaro anche quali di ognuna siano le conseguenze. La prima alternativa è quella che tutti dovrebbero augurarsi e per la quale tutte le potenze globali dovrebbero lavorare: la convocazione di una Conferenza internazionale di pace. Soltanto essa potrebbe produrre mutamenti immediati negli assetti delle rispettive leadership, la cui inadeguatezza è palese, e riaprire le possibilità di accordi tra Palestina e Israele, possibilità calpestate da una parte e dall’altra dopo Camp David e Oslo. Solo una Conferenza di pace può avviare concretamente il processo verso la formazione di uno Stato palestinese, che non sia l’imitazione di un lager e dunque il grembo sempre fecondo di Hamas, di uno Stato retto da leader responsabili e dunque capace di riconoscere sine glossa il diritto a esistere dello Stato di Israele. Esiste alternativa a questa strategia? Certo che sì. Considerazioni storiche, politiche e culturali la rendono possibile. Israele può infatti ritenere che la crisi dell’Autorità palestinese sia irrimediabile e che ormai non esistano alternative a Hamas. Allora la sua scelta non può essere che quella della guerra a oltranza fino all’occupazione della stessa Gaza. Se il governo di Israele è giunto alla convinzione che il pericolo rappresentato da Hamas e dalle formazioni sue alleate, sostenute in primis dall’Iran, non è superabile attraverso accordi e tantomeno attraverso la formazione di un vero Stato palestinese, non ha che un’alternativa di fronte: la formazione del Grande Israele. E la prima tappa è allora la distruzione dell’Autorità palestinese, constatata la sua incapacità a “contenere” l’assalto terroristico. Con la rottura della tregua questa sembra essere la strada che l’attuale governo israeliano è intenzionato a percorrere. Realpolitik insegna che le due opposte alternative sono entrambe possibili, e entrambe possono presentare solide ragioni a loro favore. Realpolitik significa affrontare le tragedie, non nascondersele e meno ancora piangerci sopra lacrime che, nel caso dell’Occidente, sono da miserevole coccodrillo. Israele è convinto che non avrà mai sicurezza con un potere confinante da cui lo separano ormai decenni di sangue e distruzioni? Ha un fondamento il ritenere, da parte sua, che anche formali intenti di accordo sul proprio riconoscimento da parte palestinese non sarebbero che parole scritte sulla sabbia? Sì, è lecito che lo pensi. E le sue azioni non potrebbero allora che confermare tale idea. Portando la guerra fino all’ultimo a Gaza e moltiplicando le colonie nei territori. Israele può giungere a credere di non avere alternative per garantire la propria sicurezza. Israele è in guerra dal momento della sua fondazione. Ma lo possono i suoi alleati? Non è compito loro, invece, rendere credibile la prospettiva della Conferenza di pace e realizzarla insieme a tutte le grandi potenze? È evidente che gli Stati Uniti ritengono che il proseguimento di una guerra volta alla distruzione dell’idea stessa di uno Stato palestinese non corrisponda affatto ai propri interessi, alla propria sicurezza, alla propria strategia geo-politica. Gli Stati Uniti, e dunque l’Occidente oggi americano, sa bene che il conflitto tra Palestina e Israele condotto nelle attuali forme è destinato a esasperare le posizioni estreme in tutto il mondo arabo e a “stressare” gli stessi alleati più fedeli, sauditi, emirati, sceicchi vari. Per non parlare del terrorismo in Europa. Dunque, anche se il perseguimento della vittoria sul campo rappresentasse una strategia realistica per la sicurezza di Israele, non la sarebbe affatto per i suoi alleati. Ma quale sicurezza reale può raggiungere Israele destabilizzando la forza dell’Occidente che lo sostiene? L’occupazione di terra non assicura nulla e nessuno. Ciò che certo assicura è la guerra permanente, con l’inevitabile ricorso ad azioni terroristiche sempre più efferate. È solo una solida rete di alleanze, che dimostri concretamente di servire gli interessi di ogni suo membro, la garanzia per Israele, la sua risorsa fondamentale. E a tutti i suoi alleati ora serve la pace fondata su un accordo durevole tra leadership responsabili - agli Stati Uniti in primis, impegnati su due fronti che li mettono faccia a faccia col Nemico di un tempo e con quello di domani. Guai se si dovessero ulteriormente indebolire sul fronte medio-orientale, dopo i disastri in Iraq e in Afghanistan. Non piace la parola pace? Realisticamente impossibile? Troppo irenistica? Chiamiamola allora Atto di Responsabilità per Arrestare il Massacro. L’Occidente dei Diritti dell’uomo se ne faccia promotore. L’acronimo - almeno nella nostra lingua - avrebbe un suono semitico bene augurale: Aram, che in arabo significa luogo sacro e inviolabile. Se a esso non è dato ai mortali accedere in vita, almeno un primo passo nella sua direzione è oggi senza dubbio negli interessi materiali di Stati Uniti e di Europa, e dunque dello stesso Israele. A questi almeno, se non ai nostri “valori”, dovremmo essere in grado di prestare ascolto. La ricerca del proprio utile potrebbe per una volta coincidere col bene comune - e soprattutto col bene di quelle donne e quei bambini bombardati a Gaza e degli altri che in Israele vivono nell’incubo di nuovi 7 ottobre.