Carcere e diritti, tempo di bilanci. Non positivi di Mauro Palma* Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Troppo spesso una terminologia escludente, tendente a confinare le vite difficili in un altrove che non interessa, ha coinvolto anche persone con un ruolo istituzionale. È la benda che copre gli occhi della figura femminile rappresentata nel quadro a far riconoscere a Joseph K. del “Processo” di Kafka la Giustizia nella sua immagine classica. Il signor K. è nello studio del pittore - un tal Titorelli - che ritrae i giudici e alle spalle di uno di essi è ritratta la Giustizia bendata quale metafora dell’oggettività e dell’indipendenza del suo esercizio. Ma qualcosa inquieta il personaggio perché la benda trasmette anche l’idea del suo essere cieca e, dunque, può indicare la casualità nel suo giudicare e l’assenza di quello sguardo acuto che occorrerebbe per discernere e dirimere i conflitti. L’immagine della giustizia bendata, più volte interpretata sul piano iconografico, mi è tornata alla mente in questi giorni che invitano a un bilancio sotto più aspetti. Il bilancio di un anno che si conclude, quello del mio mandato quale figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà, che giunge al termine dopo quasi otto anni e anche quello di una Costituzione repubblicana che ha celebrato i suoi settantacinque anni. Bilanci diversi, ma ciascuno con una sua centralità quando ci si rivolge agli anfratti di minore visibilità nella complessità sociale, che sono al contempo però di grande rilevanza per le soggettività coinvolte e per la costruzione culturale proprio di tale complessità. La privazione della libertà nelle sue diverse forme e nelle diverse motivazioni che possono aver condotto a essa è uno di questi anfratti da cui osservare il resto, perché in essa si giocano l’effettività di quanto sancito dalla nostra Carta e la capacità di farla vivere nella concretezza delle situazioni difficili. Non è un bilancio positivo innanzitutto dal punto di vista del linguaggio: troppo spesso una terminologia escludente, tendente a confinare le vite difficili in un altrove che non interessa, al di là di muri e cancelli, e a relegare nell’incapacitazione soggettiva e nell’invisibilità la realtà di coloro che si ritengono non recuperabili alla normalità sociale, ha coinvolto anche persone con un ruolo istituzionale. Da qui, il relegare progressivo all’idea di utopia fallita i processi di integrazione di anni anche recenti, a partire dalle persone con disagio psichico, e il ritenere non praticabili forme di solidarietà effettiva - così come del resto richiamata dalla Carta - verso coloro che giungono nel nostro Paese, dopo l’abbandono, sempre difficile, dei luoghi della propria origine. Ma, soprattutto, da qui il linguaggio crudo e definitivo nei confronti di coloro che la privazione della libertà, il castigo, “se li sono meritati” perché autori di reato. Il carcere è il luogo del rimosso sociale, prima ancora di essere un test per valutare la capacità amministrativa di declinare in modo costituzionalmente orientato la finalità per le pene. Lo è stato particolarmente nell’ultimo anno che ha visto un ritmo di crescita delle persone detenute di circa 400 al mese e che rischia di far entrare in conflitto con quella prima parte del sempre citato comma dell’articolo 27 della Costituzione che, ancor prima di dare indicazione tendenziale a ogni pena, chiarisce che essa non possa mai essere “contraria al senso di umanità”. Indicazione netta, questa, che contrasta con i numeri del sovraffollamento, persino superiori a quelli citati dall’ottimo presidente di Antigone ieri su queste pagine, perché le 60.045 persone detenute oggi sono ristrette in 47.334 posti regolamentari realmente disponibili. E indicazione che contrasta con quello sguardo non bendato che la Giustizia dovrebbe avere: perché le 1.460 persone che sono in carcere per scontare una pena inferiore a un anno - non un residuo di una pena maggiore - e anche le altre 2.893 che vi sono per una pena tra uno e due anni, la interrogano urgentemente. Non pongono interrogativi solo all’esercizio di giustizia, ma anche al suo significato profondo, a quello che le attribuisce una collettività che non è riuscita a trovare altre forme di riduzione del rischio di esposizione alla commissione di reati per vite difficili, segnate dalla fragilità sociale, dalla difficoltà di comprensione, dall’assenza di strumenti per accedere a quanto l’ordinamento prevede come alternativa per pene di tale entità. Sono l’immagine di una povertà non vista, forse perché bendati dal desiderio di non vedere. Il bilancio è dunque difficile: per l’anno che si conclude, per l’effettività del dettato costituzionale spesso aggredita dalla ricerca di consenso attraverso la gestione delle paure. Per la stessa Autorità di garanzia che, proprio perché è riuscita a costruire in questi anni uno sguardo istituzionale, riconosciuto e indipendente, rivolto all’intrinseca vulnerabilità dei diritti di chi è privato della libertà, deve registrare però la progressiva estensione del ricorso alla penalità, quale strumento prioritario per affrontare difficoltà sociali - finanche la dispersione scolastica. All’avvio del mio mandato come Garante nazionale, nel febbraio 2016, l’area d’intervento penale, tra detenzione in carcere e misure alternative, coinvolgeva circa 98mila persone; attualmente ne coinvolge 145mila perché all’aumento del ricorso a misure alternative alla detenzione e perfino alle recentissime pene sostitutive, non ha corrisposto una riduzione dei numeri del carcere. I due ambiti, cresciuti in parallelo, indicano che occorre aprire una discussione più ampia sui limiti dell’esercizio della penalità e sul sempre necessario impegno perché quella benda non indichi mai cecità. *Ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti Sovraffollamento e suicidi: l’anno nero delle nostre prigioni di Angela Stella* L’Unità, 29 dicembre 2023 Superata quota 60mila detenuti, a fronte di 51mila posti. Il ministero li vuole chiusi in cella quasi tutti il giorno. Anastasia: “Fermatevi, torniamo alla Costituzione”. Sta per chiudersi il 2023 con un bilancio negativo per le nostre carceri: 60.116 detenuti a fronte di 51.272 posti regolamentari non tutti disponibili perché molte celle non sono agibili. Il problema è che le nostre carceri non si riempiono a causa delle nuove misure repressive del Governo Meloni, che ha puntato il dito contro i partecipanti dei rave party e contro i trafficanti di esseri umani, ma perché non si applicano le misure alternative istituite durante il Covid. Questo significa che nel 2023 il sovraffollamento ha raggiunto una media del 117 per cento con punte che superano il 200 per cento. A ciò si aggiungono 68 suicidi. Il tutto avviene nell’indifferenza del Governo e del Parlamento che in oltre un anno non hanno messo in campo alcuna iniziativa per dare respiro agli istituti di pena. Tutta la narrazione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio si è basata sull’utilizzo delle caserme ma abbiamo scritto più volte che è una strada non percorribile per tempi e burocrazia. E intanto le celle sono stracolme e la dignità delle persone calpestata. Nel frattempo il 21 dicembre con un decreto del presidente della Repubblica si è insediato ufficialmente il nuovo Collegio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale: Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti, Mario Serio chiamati a non abbassare il livello di guardia sulle garanzie di detenuti, immigrati, malati portato avanti in questi ultimi anni dal precedente Garante. Tuttavia da chi il carcere lo visita costantemente arrivano forti preoccupazioni. Ci dice Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Il Governo Meloni nel 2024 sarà “messo alla prova” della lotta nonviolenta, questa è la nostra intenzione suggellata dalla mozione approvata nel X congresso che lancia un Grande Satyagraha di azioni nonviolente che favoriscano un provvedimento di clemenza senza tralasciare, anzi dandole impulso immediato, il sostegno alla proposta del deputato Roberto Giachetti di modifica della liberazione anticipata speciale (75 giorni ogni semestre come ristoro per ridurre immediatamente il sovraffollamento) e ordinamentale (60 giorni anziché 45 ogni semestre per il futuro), così come a tutte le altre proposte - da qualsiasi parte provengano - che abbiano come finalità la riduzione della popolazione detenuta e il miglioramento delle condizioni di vita della comunità penitenziaria”. Per la radicale “al volterriano ‘non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri’, vogliamo ora aggiungere ‘fateci vedere i vostri bilanci’ perché quello che constatiamo (anche nell’ultimo bilancio) non ci piace neanche un po’: una cifra monstre per mantenere in piedi il fallimentare sistema dei 189 istituti penitenziari (che produce il massimo di recidiva) e una cifra minima per le misure di comunità alternative al carcere che, invece, sono efficacissime per il reinserimento sociale dei detenuti”. A lanciare un allarme anche Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio: “Il sistema penitenziario italiano rischia di esplodere. Abbiamo passato la soglia critica dei 60mila detenuti e in molti istituti il sovraffollamento è già oltre i limiti che secondo la Corte europea dei diritti umani costituisce un trattamento oggettivamente inumano e degradante, per di più aggravato dall’applicazione della nuova circolare sulla media sicurezza che di fatto costringe la gran parte dei detenuti a stare chiusi in cella quando non possono andare all’aria o nelle sale di socialità. In gran parte degli istituti la carenza di personale di polizia impedisce di svolgere attività al pomeriggio e spesso fa saltare esami diagnostici e visite mediche specialistiche esterne. La minaccia del reato di rivolta, anche per azioni di protesta nonviolente, contenuto nel ddl governativo sulla sicurezza è solo l’ultimo, parossistico elemento di una strategia di non governo del carcere che trasforma ogni criticità in un problema disciplinare o penale. In questo modo il rischio che il sistema diventi ingovernabile è molto alto”. Per Anastasia “bisognerebbe avere il coraggio di fermarsi e di riaprire il dialogo con tutti gli attori del sistema per tornare ai principi costituzionali di umanità e rieducazione e all’obiettivo della pena detentiva come extrema ratio, da perseguire anche attraverso il numero chiuso e le alternative al carcere obbligatorie per i reati meno gravi e i residui pena inferiori a un anno”. Per Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone “manca una visione della pena, che abbia a cuore i contenuti dell’articolo 27 della Costituzione. Addirittura si pensa a riformare la Carta introducendo un riferimento dal chiaro sapore populista, quello che fa riferimento alle vittime (quattro ddl incardinati in Senato a firma Fd’I, Pd, M5s, AvS, ndr). Invece c’è bisogno di mettere al centro la questione carceraria che poco ha a che oggi con la questione criminale e ricordare che con questi tassi di crescita della popolazione detenuta arriveremo ai numeri che hanno prodotto le condanne europee negli anni 2009 e 2013, facendo fare all’Italia una bruttissima figura internazionale”. Le carceri-fogna in Italia, l’ossessione del governo e le invocazioni forcaiole di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 dicembre 2023 Abbiamo a ragion veduta dedicato lo scorso numero di PQM, il settimanale del Riformista sui temi della giustizia, alla ossessione carcero centrica di questo Governo, ed in particolare del trio Meloni-Salvini-Nordio. Lo abbiamo intitolato “In galeraaa!”, mutuando il tormentone paranoico di quel genio comico di Giorgio Bracardi, e ne abbiamo illustrato le assurdità: 15 reati nuovi, tra i più stravaganti ed inutili del già vastissimo catalogo, e sempre inseguendo la cronaca, i social e le invocazioni forcaiole delle tante trasmissioni populiste che infestano le TV. Costoro non demordono dalla illusione becera che aumentando le pene qui e là, ed inventando reati, aumenti la sicurezza sociale. Nel soddisfare questa ossessione, questi signori sono arrivati a punire severamente perfino gli atti di protesta non violenta dei detenuti in quelle fogne che sono le carceri italiane. Cioè introducono il reato di “rivolta nelle carceri”, e per sovrappiù vi includono gli atti di resistenza passiva adottati per protesta. Leggere o rileggere quel nostro approfondimento può tornare particolarmente utile, ora che i bilanci di fine anno ci raccontano le cifre della tragedia che sta maturando nelle nostre carceri. Mi permetto di saccheggiare il bellissimo articolo di Donatella Stasio su La Stampa di ieri. Il sovraffollamento medio al 6 dicembre 2023 è del 126%, con punte folli del 215% (Brescia), 203% (Foggia), 200% (Como, Taranto e almeno un’altra decina), mentre i nuovi ingressi quotano 400 a settimana. Quanto ai suicidi, siamo a 67. Ora, occorre che si sappiano un paio di cose. Saremmo già alle rivolte vere, cioè quelle con le carceri in fiamme, se non esistessero, pur con tutti i loro enormi limiti, le misure alternative alla detenzione, che ad oggi tengono 84mila persone ad espiare - o in attesa di espiare - la loro pena definitiva con modalità alternative al carcere. Cioè quelle misure alternative che la irresponsabilità carcero centrica del governo e di larga parte della opposizione (Movimento 5 stelle in prima fila) mettono da sempre all’indice come segno di debolezza dello Stato, con quelle formulette della serie “norme svuota-carceri” e banalità analoghe. Se non ci fossero, i detenuti oggi dovrebbero essere, nelle ambizioni di questi irresponsabili, 144mila! Ma il Ministro Nordio ci aveva rassicurato: stiamo lavorando all’adeguamento di strutture rapidamente adattabili a nuove carceri, tipo caserme dismesse. Ci può aggiornare, signor Ministro, sulle magnifiche sorti di questo piano, anche con qualche dettaglio sull’esatto numero di nuove assunzioni di personale penitenziario? Intanto, la notizia ufficiale è che avremo 8 nuovi padiglioni da 80 posti, per un totale di 640 nuovi posti. Caspita! Ah, scusate: quando? Nel 2026. Intanto, prego, continuate pure a gridare, in favore di telecamera, alla prossima notizia di cronaca: “In galeraaa!”. La nave affonda, e questi continuano a ballare (“con orgoglio”, immagino) al suono allegro della loro orchestra. Più di 60mila detenuti, migliaia di posti letto in meno. Ma il governo insiste: tutti in prigione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2023 “In prigione, in prigione!”, cantava Edoardo Bennato nel suo concept album che attraverso la storia di Pinocchio si rivolgeva a tanti aspetti della società. Tutti quanti in prigione, “sì anche tu in prigione, e che ti serva da lezione!”. Si potrebbe riassumere con queste poche parole un anno e più di governo Meloni. Guardandoci indietro e tentando un bilancio dell’anno che va finendo, vediamo tanto impegno profuso, decreto legge dopo decreto legge, nell’introdurre nuove fattispecie di reato, nell’innalzare le pene, nell’aumentare gli strumenti del controllo. Affinché non resti fuori proprio nessuno: tutti quanti in prigione! E quindi in prigione ci dobbiamo mandare quelli che organizzano i rave party, e quelli che detengono modiche quantità di hashish, e ovviamente quelli che non hanno un tetto e dormono alla stazione, e anche i minorenni che frequentano luoghi proibiti della città, e le donne incinte che non possono aspettare a scontare la pena neanche di fronte all’interesse del bambino, e quelli che organizzano manifestazioni, e per coloro che invece sono detenuti e quindi in prigione già ci stanno allora allunghiamo le pene se oppongono una resistenza pacifica agli ordini. Tutti devono rimanere in prigione. E dunque in questo clima il risultato si vede forte e chiaro: il numero dei detenuti è ormai superiore a 60.100 unità, per un totale di posti letto ufficiali inferiore a 51.300. Nella realtà, come constatiamo quotidianamente quando andiamo a effettuare le visite alle carceri con l’Osservatorio di Antigone, i posti disponibili sono varie migliaia in meno. Le sezioni chiuse per manutenzione e tuttavia conteggiate nel numero complessivo sono infatti moltissime. La popolazione detenuta cresce sempre più velocemente e l’attuale tasso di crescita è allarmante. Nell’ultimo trimestre i detenuti sono aumentati di quasi 1.700 unità. Nel trimestre precedente di 1.200. In quello ancora precedente di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. Se la crescita rimarrà a questi livelli - e non si vede perché non dovrebbe, viste le premesse - tra un anno saremo oltre le 67.000 presenze, come ai tempi della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. C’è da aspettarsi che tale crescita acceleri ulteriormente e che a quei numeri si arrivi ancora prima. In alcune carceri la situazione è ormai estrema. A Brescia Canton Monbello l’affollamento è al 200%, a Foggia al 190%, a Como al 186%, a Taranto al 180%. Numeri che rispecchiano condizioni già invivibili e che nei prossimi mesi sono destinate a peggiorare. Le visite di Antigone dell’ultimo anno ci dicono che il 31,4% delle carceri visitate è stato costruito prima del 1940, la maggior parte addirittura prima del 1900. Nel 10,5% degli istituti visitati c’erano celle non riscaldate mentre nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia, nel 25% non c’è una palestra e nel 22,4% non c’è un campo sportivo. In 68 hanno deciso di togliersi la vita in carcere dall’inizio dell’anno, di cui 15 avevano meno di trent’anni. Le persone in carcere vivono ammassate in celle che sono spesso chiuse per venti ore al giorno. Si cucina nell’unico spazio non occupato dalle brande, quello del bagno. Il water è a pochi passi. La piccola finestrella va tenuta sempre aperta, nel tentativo di mitigare gli odori. “A volte mentre cucini”, ci raccontano, “arriva qualcuno che ti dice: ehi, mi fai andare in bagno?? Ma io devo girare il sugo. Vabbè, vai, tanto mi giro di spalle”. E per questo 2023 dalle galere italiane è tutto. Vedremo nel 2024 dietro quali altri reati, pene, pugni di ferro nasconderanno la totale incapacità governativa. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Carceri fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale di Andrea Oleandri Ristretti Orizzonti, 29 dicembre 2023 “Lanciamo oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. La politica ponga il tema del carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, nel presentare un breve report della situazione delle carceri italiane a fine 2023. “Quello che notiamo - sottolinea Gonnella - è la crescita estremamente rapida del sovraffollamento penitenziario. Oggi i detenuti sono 60.000, oltre 10.000 in più dei posti realmente disponibili e con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2%, con una crescita nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu”. Nel report di fine anno di Antigone si sottolinea come nelle 76 carceri di cui sono state finora elaborate le relative schede, sulle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione, in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia, quando le politiche di deflazione avevano portato il numero delle persone recluse a essere circa 53.000. I ricorsi accolti sono stati infatti 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022. A destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti istituti. Considerando sempre le 76 schede elaborate, il 31,4 % delle carceri visitate è stato costruito prima del 1950. La maggior parte di questi addirittura prima del 1900. Nel 10,5% degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate. Nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia (benché il termine ultimo per dotare ogni cella di doccia fosse stato posto a settembre 2005). Nel 34,2% degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni. Nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante. Nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. “Le politiche governative dell’ultimo anno non hanno di certo aiutato le politiche penitenziarie. Tanti sono stati infatti i nuovi reati o gli inasprimenti delle pene varati da Governo e Parlamento, dal dl Caivano, alle norme anti-rave, fino al recente pacchetto sicurezza. Scelte che non avranno alcun impatto sulla prevenzione dei reati, per cui servirebbero altresì politiche economiche e sociali, ma che stanno contribuendo e contribuiranno sempre di più al sovraffollamento penitenziario e ad un peggioramento delle condizioni di vita delle persone detenute, ma anche del personale, su cui viene scaricata la fatica quotidiana di gestire situazioni complesse a fronte di scarse gratificazioni economiche” dice ancora Gonnella. Che conclude: “ci auguriamo quindi che il 2024 riapra una grande discussione nel paese sul carcere e sulle finalità della pena. Che si capisca che abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone - soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico - all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione. Antigone è a disposizione insieme al suo bagaglio di conoscenze e competenze maturate in quasi 40 anni di attività, monitoraggio e studio dei sistemi penitenziari e penali”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Eminenza… caro Matteo: con la sua voce rompa l’indifferenza sul carcere di Valter Vecellio* Il Dubbio, 29 dicembre 2023 Lettera aperta al cardinale Zuppi per richiamare l’attenzione della politica sulle condizioni in cui versano i nostri penitenziari, dove soltanto nel 2022 si sono tolti la vita 84 detenuti. Eminenza, o come preferisci esser chiamato, Caro Matteo, ti chiedo qualche minuto di attenzione; in qualche occasione l’ho fatto privatamente, ora mi rivolgo a te pubblicamente: non più, non solo a “Matteo”, ma al Presidente della Conferenza Episcopale dei Vescovi italiani: a una personalità autorevole che fa dell’ascolto e del dialogo ragion d’essere e fare. Sono ormai trascorsi dieci anni da quando l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano decideva di avvalersi di una sua prerogativa costituzionale: l’invio di messaggi, nella forma più solenne, al Parlamento. Il messaggio di Napolitano a senatori e deputati riguardava le carceri: le condizioni di vita di detenuti, agenti di custodia, dell’intera comunità penitenziaria. Nel messaggio si ricorda che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ripetutamente condanna e sanziona l’Italia; sollecitato anche dalle iniziative e dai digiuni di Marco Pannella e di altri dirigenti e militanti del Partito Radicale richiama l’attenzione sulla “mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena e nello stesso tempo una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose”. Un appello accorato che indica “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”. La realtà carceraria “rappresenta un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Il presidente si fa anche carico di suggerire una possibile strada da percorrere: far ricorso a quelli che definisce “rimedi straordinari”, come indulto e amnistia, per adempiere “a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo morale e giuridico di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”. Già nel luglio 2011, sempre Napolitano aveva detto che quella delle carceri era “un tema di prepotente urgenza”. Da allora molto poco è cambiato. La situazione ha superato ogni possibile e tollerabile livello di guardia. Secondo gli ultimi rapporti di Antigone i penitenziari italiani prevedono una capienza di poco più di 51mila posti, ma ben 3.646 per vari motivi non sono disponibili. Al 30 aprile risultavano detenute 56.674 persone: il 26,6 per cento in attesa di sentenza definitiva. Il rapporto 2023 Caritas-Migrantes segnala un consistente aumento degli ingressi di minori in carcere: erano 1.016 nel 2022 (520 gli stranieri). Il Garante dei detenuti avverte che la popolazione negli istituti minorili è destinata ad aumentare del 20 per cento, in strutture già ora sature. Crisi anche per quello che riguarda il corpo della polizia penitenziaria. Sempre Antigone, sulla base di dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fa sapere che l’organico è di 37.181 unità; gli operativi tuttavia scendono a 32.545, una carenza di organico del 12,5 per cento. I picchi maggiori si registrano in Sardegna e Calabria: 20 per cento. Nel 2022 si sono censiti ben 84 detenuti suicidi ufficiali; altri 87 i morti per “altre cause”: malattia, overdose, omicidio, non meglio specificate “cause da accertare”. In media ogni giorno tre detenuti cercano di uccidersi, bloccati dagli agenti. Anche quest’anno le carceri italiane hanno vissuto un’epidemia di suicidi, con una settantina di detenuti che si sono tolti la vita. “Evasioni”, definitive: detenuti che “lasciano” la cella impiccandosi, avvelenandosi con il gas, stringendosi al collo un sacchetto di plastica; ora “riposano” in altrettante bare. Per il presidente dell’Unione delle Camere Penali Francesco Petrelli “la terribile sequenza di suicidi di detenuti costituisce non solo un richiamo alla responsabilità delle istituzioni e del Governo, ma anche una denuncia del fallimento delle politiche carcerocentriche”. Il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella ricorda: “Ci stiamo avvicinando al numero dei suicidi del 2022 quando ci fu il massimo storico. È il segno del dissesto del nostro sistema penitenziario, non così si costruisce sicurezza. Così si negano i diritti e si nega quella funzione della pena che è in Costituzione”. Don David Maria Riboldi la realtà delle celle la vive tutti i giorni, cappellano del carcere di Busto Arsizio, fondatore della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. A chi propone di costruire nuove carceri oppone una ragionevole contestazione: “Le sigle sindacali lamentano sempre e non senza ragioni la grave carenza di organico già allo stato attuale nella gestione dei penitenziari. Non si riesce ad avere personale per le carceri che già abbiamo: come possiamo immaginare di crearne di nuove?”. Racconta che nella sua cooperativa in due anni hanno accolto una dozzina di persone: “Nessuna di loro ha commesso nuovi reati. Forse la soluzione non è costruire nuove carceri, ma favorire misure alternative alla detenzione”. Si chiama, in termine tecnico-giuridico “giustizia riparativa”: misure alternative al carcere e percorsi di studio e professionalizzanti che offrono ai detenuti un’alternativa fatta di lavoro e di normalità, alla tentazione di ritornare alla “malavita”. È quello che da anni sostiene don Ettore Cannavera, alle spalle una lunga esperienza di cappellano carcerario, fondatore e animatore de “La Collina” (comunità che strappa, letteralmente, detenuti minorenni dal carcere e li reinserisce nella società): “Il carcere è strutturalmente inidoneo a questo percorso di recupero e quindi ecco trovarci, paradossalmente, più malavitosi formatisi nelle nostre carceri a spese della collettività”. Cannavera propone una diversa impostazione: trasformare le carceri, soprattutto quelle minorili, in “comunità educanti”. Anche quest’anno, come ogni anno, il Partito Radicale, con i suoi dirigenti e militanti organizza il Natale e il Capodanno in carcere. Il partito laico per eccellenza fa suo e dà corpo al precetto contenuto nel vangelo di Matteo: “...io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.... ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me...”. Caro Matteo: sono più che certo che tutte queste cose le conosci, ne soffri: compassione, pena, inquietudine per quello che accade i sentimenti che la agitano. Allora perché dirle proprio a te? Semplice: perché puoi levare, come in passato, la tua autorevole voce e aiutarci a spezzare il muro di silenzio, di indifferenza, di incomprensione. Non è certo a te che va ricordato il significato del paolino “Spes contra spem” da Pannella assunto a stella polare. Ma è giunto il tempo di ricordarlo alla nostra classe politica, di governo e di opposizione, agire di conseguenza. Buon Nuovo Anno. *Direttore di Proposta Radicale “Carceri, più ore di uscita e socialità. Disumano tenere 8 persone in una cella” di Francesco Grignetti La Stampa, 29 dicembre 2023 La magistrata di sorveglianza in Calabria: “Queste condizioni ledono i diritti. Il sovraffollamento è una sofferenza che incide anche sulla salute mentale”. I magistrati di sorveglianza sono tra i pochi a conoscere davvero quel che accade dietro le mura degli istituti di pena. Osservano preoccupati il sovraffollamento che aumenta, le tensioni crescenti, le promesse non mantenute, la normalità dell’abbandono. Cinzia Barillà, già presidente di Magistratura democratica, è magistrato di sorveglianza a Reggio Calabria. “Relegare il problema del sovraffollamento al computo quantitativo - dice - è un errore gravissimo. Il problema è che i numeri soffocano la speranza”. In che senso? “Guardi, il sovraffollamento nelle nostre carceri è un po’ fisiologico. Perché alla fine, le carceri sono sempre quelle. Poi è chiaro che ci sono periodi in cui si va in overdose perché le entrate non sono flussi regolati. Si pensi alla Calabria: quando capita una maxi-operazione contro la criminalità organizzata, se arrivano 50 persone tutte insieme, anche se il carcere è già al limite della sopportazione, mica si può tirare indietro”. Da un anno, però, si sono ridotte anche le uscite perché sono stati sospesi i meccanismi premiali del Covid... “È ovvio che i permessi straordinari consentivano una certa deflazione. C’erano più possibilità di dare la detenzione domiciliare. I permessi erano di durata molto maggiore a quelli ordinari, che sono mediamente di 2 o 3 giorni, tranne Natale e Ferragosto. Quindi è chiaro che se i detenuti stavano fuori per 10 giorni ogni mese e mezzo, il sovraffollamento era meno marcato”. E meno opprimente? “Esatto. Immaginate una stanza anche grande, sui 30 metri quadri: l’arredamento classico sono gli armadietti e i letti a castello, poi c’è il bagno e in genere c’è anche un antibagno. Ora, in questo stanzone vengono collocate 8 persone, lo spazio pro capite è veramente pochissimo. Noi controlliamo, anche perché secondo la Corte europea dei diritti, il detenuto ha diritto a uno spazio individuale di almeno 3 metri quadri. Se si scende sotto questo standard, è una lesione conclamata dei diritti umani. Ma noi non dobbiamo valutare solo le metrature. Bisogna vedere se c’è un’attività, di studio o di lavoro. Se il poco spazio magari è compensato da altri fattori, diciamo di movimento. Se c’è la possibilità di uscire dalla cella”. E se non c’è? “Il sovraffollamento allora significa vivere con altre 7 persone, interagire con altre 7 persone per tutto il giorno e chiusi in una stanza. Sette estranei con cui approcciare. È tutto molto amplificato. E se uno di loro ha problemi psichici, diventa difficilissimo. L’esplosione emotiva che può esserci in quella stanza è esponenziale. Il sovraffollamento diventa sofferenza umana. Incide sulla sanità mentale. Infatti una delle richieste più frequenti è una stanza più piccola, ma con meno persone”. Soluzioni? “Più che immaginare una soluzione tipo Covid-bis, si dovrebbe investire nelle attività trattamentali. Seguo il carcere di massima sicurezza di Palmi dove sono previste quattro ore di uscita e due ore di socialità. Il resto del tempo, se non ci sono trattamenti, si sta in cella. In condizione di sovraffollamento, è disumano”. Se è tutto così chiaro, perché non si fa? “Innanzitutto per le carenze di personale. Ci sono carceri dove hanno i padiglioni, ma non il personale per condurvi i detenuti”. Ci sarà stato un contraccolpo emotivo. “C’è maggiore scoraggiamento. Tipico di non ha una prospettiva. Qualunque detenuto, di fronte al magistrato sorveglianza vede soltanto la speranza di una soluzione, di stare meglio, di seguire un corso professionale. Ti chiedono di far uscire al termine della pena una persona che abbia qualcosa in più”. E questo contraccolpo emotivo può innescare una spirale negativa? “Quando le fragilità hanno il sopravvento, c’è il rischio di meccanismi irrazionali. E la possibilità di perdere il controllo all’interno è altissima: se si vuole evitare di innescare questa spirale, l’unica cosa è prevenirla”. Giorni di festa in un carcere minorile di Francesco “Kento” Carlo ilpost.it, 29 dicembre 2023 “Se dovessi dirvi qual è il periodo dell’anno più brutto per i ragazzi rinchiusi, sarei incerto tra Natale e agosto, e difatti sono quelli i periodi in cui sembra si verifichino più incidenti, rivolte, evasioni. Ad agosto la cosa che manca di più è il divertimento, il mare, le ragazze. In questi giorni di fine dicembre è diverso, ovviamente. Ti manca la famiglia, ti manca casa. È per questo che, quando ho concluso il poetry slam di oggi, non mi sono azzardato a dire buon Natale”. Sono settimane che i ragazzi si preparano a questa giornata. Io, in effetti, sono mesi. Le procedure e le trattative per l’organizzazione del nostro evento di Natale in carcere sono iniziate a settembre, quando l’estate sembrava non voler finire, e il caldo pesava sulle spalle come una cappa umida e appiccicosa. In quei giorni l’associazione che mi supporta, e che si chiama pragmaticamente Crisi Come Opportunità, ha proposto all’IPM (Istituto Penale per Minorenni) un pomeriggio di poesia e rap all’interno delle mura alte e dei cancelli blindati, da tenersi a conclusione di un anno in cui abbiamo fatto rap (molto) e poesia (poca… ma non nessuna) insieme ai ragazzacci reclusi. L’autorizzazione, stavolta, è arrivata senza intoppi ma, ovviamente, abbiamo mantenuto il segreto fino a quando non abbiamo avuto la conferma assoluta: l’aspettativa delusa è un morso crudele per chi sta tra le sbarre, e ho visto troppe volte imprevisti e problemi dell’ultimo minuto per potermi fidare di un ok dato a voce. Prima di procedere è necessario un chiarimento: tutti gli episodi qui narrati sono realmente accaduti e i testi riportati tra virgolette sono stati scritti da ragazzi detenuti all’interno di un carcere minorile italiano. Nomi e dettagli sono stati omessi o modificati in modo da non consentirne l’identificazione, nel rispetto della privacy, della normativa vigente, e del diritto a una seconda possibilità che forse, per alcuni, è la prima in assoluto. Non è la prima volta che presentiamo un appuntamento del genere: in passato è stato molto apprezzato sia dai detenuti che dagli educatori, e il ricordo è stato probabilmente il fattore determinante per la rapida approvazione di stavolta. Si tratta di un “poetry slam”, letteralmente uno “scontro di poesia”, in cui gli autori dei versi si sfidano ad alta voce, ed è il pubblico a decretare il vincitore o la vincitrice. Dal punto di vista della performance, è molto coinvolgente: gli slammer sono scrittori ma anche performer, visto che appunto trascinare il pubblico è l’arma decisiva per giungere alla vittoria. Ho scelto di portare in gara soltanto autori esterni, già esperti, dando ai nostri ragazzi la possibilità di esibirsi come “special guest” tra una manche e l’altra. Ciò li esenta dalla pressione della gara ma non dalla gioia del palco. E poi c’è il rovesciamento dei ruoli, che è sempre la cosa più divertente: dall’essere giudicati passano, sebbene solo per un paio d’ore, a essere giudici. Hanno delle lavagnette in cui esprimono il loro voto in decimali, come se dovessero valutare una gara di tuffi o di ginnastica, e non hanno nessuna paura di usarle: le valutazioni passano dallo zero al dieci senza troppo spesso soffermarsi sugli intermedi. Prima di salire sul palco, vedo un paio dei poeti in gara inghiottire a vuoto: il pubblico è difficile, il contesto intimidatorio, la gara importante anche all’interno della nostra comunità di appassionati di versi e rime. Questo slam è, infatti, valido per il campionato nazionale della LIPS, e cioè la Lega Italiana Poetry Slam, che coordina tutti gli eventi in Italia e partecipa (spesso con ottimi risultati) ai campionati europei e mondiali. Ma io non sono in gara: essendo semplicemente il conduttore del pomeriggio, mi posso permettere di godermi lo spettacolo dalla posizione più privilegiata. Da un lato, i poeti e le poetesse emozionati e un po’ intimiditi. Dall’altro, seduti in modo più o meno ordinato, i miei ragazzacci vestiti nei loro abiti migliori e più nuovi, perché questa è una delle rare occasioni sociali collettive in cui sfoggiare le Jordan nuove, il taglio di capelli più alla moda e magari qualche tatuaggio freschissimo e improbabile, sulla cui genesi preferisco non indagare. Mi sorprendo per un attimo a pensare l’ovvio: molti di loro ascolteranno più poesie oggi di quante ne abbiano ascoltate in tutta la vita precedente. E certo, è bello per noi portare la poesia in un luogo che è il suo contrario, ma è anche un peccato il fatto che delle menti così vive, così fresche, non siano state esposte a questa forma di ispirazione fin dall’infanzia. Quindi qual è il mio metodo di lavoro? Provare a prenderli in giro, usando il rap come mezzo e la poesia, “l’esprimersi” come fine. Barre, strofe, freestyle… quando l’unica cosa che conta è prendere una penna in mano e scrivere come cazzo mi sento, e cosa voglio dire agli altri, e rendermi conto che anch’io ho il diritto di essere ascoltato, come tutti gli altri adolescenti al mondo. E su questo, scusate se me lo dico da solo, sinceramente quest’anno ho fatto un buon lavoro. I giovani rapper sono seduti in prima fila, e non perdono mai il contatto visivo con me o col mio socio Corrado, altrimenti noto come 1989. (sì, col punto dopo il numero!), che conduce insieme al sottoscritto. Da un lato scalpitano, perché non vedono l’ora che arrivi il loro momento dopo mesi di scrittura e prove. Dall’altro, si sentono investiti della buona riuscita dell’evento e quindi si sono auto-nominati custodi dell’ordine e della disciplina e, quando un compagno si distrae, chiacchiera durante una poesia, o si agita perché ha troppa voglia di andare a fumare, intervengono immediatamente in modo rude quanto efficace. E poi si girano di nuovo verso di me per vedere se ho notato quanto sono bravi e responsabili, e io avrei voglia di ridere, e invece faccio la faccia seria e annuisco impercettibilmente, in un gesto che è metà approvazione e metà ringraziamento. È la stessa fiducia e la stessa confidenza che mi ha dato M. durante il corso, quando mi ha raccontato della prima volta in cui, quando era ancora un bimbo, è stato svegliato all’alba dai carabinieri, venuti ad arrestare alcuni componenti della sua famiglia: A sette anni solo con le guardie dentro casa Aria gelida e tristezza per tutta la giornata Mi torna spesso in mente quel momento e la retata E metà della famiglia mi è finita carcerata Tutto marcisce ma niente scompare Nel cuore mille angosce, non ci voglio più pensare Malinconia, un cumulo di drammi mio fratello che ci è andato sotto per tutti quei grammi. Non smetterò mai di stupirmi di quanto possano essere adulti, e di quanto a volte possano essere bambini, di quanto raramente siano della loro effettiva età anagrafica di adolescenti. Negli scorsi anni, uno dei più simpatici e sbruffoni aveva dichiarato di essere perdutamente innamorato di una giovane rapper e cantante romana e, dopo aver scoperto che io e lei siamo amici, mi aveva dato il tormento affinché la invitassi a fare una performance in carcere. Per convincermi, mi aveva spiegato tutta la tecnica che avrebbe usato per farla innamorare, declamandole i suoi migliori versi ma (siccome giustamente l’occhio vuole la sua parte) anche indossando una particolare maglietta che valorizzava i bicipiti e i pettorali scolpiti da anni di flessioni sul cemento. Dopo mesi e mesi avevo ceduto, ed ero riuscito a organizzare l’evento in carcere con la suddetta rapper. Il giovane spasimante, poetico e fisicato come non mai, aveva indossato la maglietta perfetta… anche se pure quella volta era dicembre, e noialtri stavamo coi giubbotti. La giovane artista amata, alla quale ovviamente avevo raccontato tutto, si era detta disponibile a conoscerlo e ad ascoltarlo. Eppure, quando i due si sono trovati davanti, il ragazzo si è afflosciato come un palloncino sgonfio e, letteralmente, non è riuscito nemmeno ad alzare gli occhi da terra per dirle il suo nome. Chissà dov’è finito lui ora, e se ha imparato a parlare alle ragazze… Il poetry slam di oggi, intanto, si è concluso. I detenuti vanno via a gruppi, controllati a vista dagli agenti di polizia penitenziaria. Chi è salito sul palco ha gli occhi che brillano per l’autostima conquistata. Chi non ha avuto il coraggio di farlo sorride con l’aria un po’ mesta. Forse ci riuscirà la prossima volta. Forse no, e va bene così. Certe parole sono fatte per essere condivise e urlate al microfono, certe altre le scriviamo solo per noi, e acquisiscono il loro senso soltanto nel buio di una cella, di notte. Ripenso ai versi, carichi di rabbia, che il mese scorso ha scritto E., uno di quelli che non sono riusciti a raccogliere il coraggio di salire sul palco. Fa già rap in albanese e in inglese, da poco ha iniziato a utilizzare il suo italiano ancora un po’ incerto per tirare fuori la paura, il risentimento, l’ansia: Stavo uscendo di casa, i carabinieri mi hanno fermato perché sono nuovo nella terra italiana. Quando sono arrivato ho capito: in questa terra devo stare sempre agitato. Vivo questo giorno come se fosse l’ultimo giorno, sono entrato in questa strada fino a toccare il fondo. Quelli che mi sorprendono di più sono un paio che conosco appena, e che non apprezzano particolarmente il rap. (Ebbene sì: è raro ma ci sono anche degli adolescenti dei nostri anni che non apprezzano particolarmente il rap!) Sono quelli che, zitti e concentrati, hanno prestato più attenzione alle poesie e, nell’esprimere il voto, hanno preso maggiormente sul serio il compito, con valutazioni pesate col bilancino: sette virgola quattro per questo poeta, otto virgola due per quest’altra. Magari qualcuno di loro stasera scriverà un verso su un quaderno, chissà. Chi sono questi ragazzi? È la domanda più semplice, e quella a cui è più difficile rispondere. Nei momenti in cui sono lì insieme a loro sono semplicemente dei giovani come tanti altri, molto simili agli allievi indisciplinati di una scuola superiore di periferia, una di quelle a cui si iscrivono quasi soltanto maschi e dalle quali non vengono fuori troppi studenti universitari. Sono stato molte volte anche in quelle aule, certo. Ma lì non ci sono le sbarre alle finestre, né le gabbie, ancora più strette e pressanti di quelle fisiche, del reato commesso e della pena da scontare. Se il discorso cade sui desideri e gli obiettivi per il loro futuro, ti rendi conto che spesso sognano una famiglia del Mulino Bianco che forse non esiste: “Tra dieci anni vorrei avere un buon lavoro stabile, stare insieme alla donna che amo, magari essere sposati, avere dei figli, essere un buon papà…” E ti viene quasi da sorridere di questa piccola ingenuità, finché non ti rendi conto che desiderano quello che spesso loro stessi non hanno avuto: una famiglia funzionale che si prende cura dei più piccoli. Ora che per noialtri liberi non c’è più tempo, varchiamo un altro cancello blindato e siamo di nuovo in portineria, dove ci sono gli armadietti in cui abbiamo dovuto lasciare i cellulari e le chiavi, simboli di un’esistenza che inizia solo al di fuori del perimetro esterno. Tanto i ragazzi schiamazzano rientrando nell’area detentiva quanto noi siamo silenziosi. È una quiete che rispetto e apprezzo, perché la sento carica di riflessione e nuova amarezza. Contrariamente a quello che si penserebbe, se sei un operatore o comunque un ospite il momento più difficile non è quello in cui entri in carcere, ma quello in cui ne esci. Quando entri sei carico di aspettativa, adrenalina e voglia di fare. Quando esci, e l’ultimo blindo ti si chiude alle spalle con un rumoraccio metallico che sembra un’esplosione, la prima cosa che ti viene da fare è un sospiro di sollievo. È qualcosa di naturale e giustificatissimo: il carcere è un luogo brutto per definizione, è una punizione. Quindi è bello uscire dal carcere, si prova sollievo. Ma, subito dopo, ti coglie il pensiero più reale e più triste: la mia vita continua… stasera vado a bermi una birra o torno a casa da chi mi vuole bene. La loro, quella dei ragazzi in cella, rimane sospesa lì. Ecco perché non ci viene troppa voglia di fermarci a parlare lì fuori dai cancelli neri, e troviamo la scusa del freddo umido e del traffico che ci aspetta per disperderci rapidamente. Durante la notte, come lucciole sparse, mi arrivano i messaggi di tutti i poeti che hanno partecipato allo slam in carcere. Anche loro, stasera, stanno scrivendo. Soddisfazione mista a un senso di perenne inadeguatezza. Se dovessi dirvi qual è il periodo dell’anno più brutto per i ragazzi rinchiusi, sarei incerto tra Natale e agosto, e difatti sono quelli i periodi in cui sembra si verifichino più incidenti, rivolte, evasioni. Ad agosto la cosa che manca di più è il divertimento, il mare, le ragazze. Il caldo picchia forte, la maggior parte degli operatori sono in ferie (me compreso) e quindi molte attività si fermano. Hai più tempo per pensare, e il pensiero chissà in che direzione ti porta. In questi giorni di fine dicembre è diverso, ovviamente. Ti manca la famiglia, ti manca casa, ti manca un abbraccio. È per questo che, quando ho concluso il poetry slam di oggi, non mi sono nemmeno azzardato a dire buon Natale né buone feste né, ovviamente, buone vacanze. Certo, la spiegazione più semplice è sotto gli occhi: non tutti i ragazzi sono cristiani, quindi Natale è festa solo per una parte di loro. Ma la verità è che, oggi più che mai, un augurio è uno schiaffo di ipocrisia in faccia a chi non farà un buon Natale quest’anno né, probabilmente, i prossimi. Quest’anno, per me che ci vengo solo una volta alla settimana, è passato in fretta: 365 diviso 7 fa 52 virgola qualcosa. Se togliamo le vacanze, le volte in cui ero fuori città per concerti e quelle in cui il laboratorio è saltato per ragioni indipendenti da me, scendiamo a una quarantina in totale. Considerate che ogni incontro dura tre ore sulla carta, che si riducono a un paio effettive, e avrete l’idea di quanto sia poco il tempo che abbiamo passato insieme rispetto alla totalità enorme della reclusione. Di quel tempo abbiamo dovuto fare il nostro meglio, utilizzandolo per conoscerci, per fare gruppo e, finalmente, per scrivere. La squadra del laboratorio rap è composta da sette o otto ragazzi, di cui un paio hanno già pubblicato delle canzoni quand’erano liberi, metà fa rap in maniera abbastanza avanzata, e il resto sta iniziando a scrivere adesso. Le prime cose che vengono fuori, inevitabilmente, sono ancora grezze: qualche spacconata, i soliti testi contro la polizia: Pensano che siamo criminali ma tutto questo lo facciamo per portare a casa i dollari. Nella questura ci trattano come cani, io gli dico 1312, siete tutti infami. È chiaro che, nei primi momenti, hanno bisogno di sentirsi e di farsi sentire forti. Io li incoraggio ma non li assecondo: ok, ma in che cosa sei differente da altri mille rapper con i testi gangster? Dov’è l’amarezza di ciò che hai vissuto? Dov’è il vero senso della strada? E, se sono stato bravo a sollecitarli, a quel punto vengono fuori le vere meraviglie: In mezzo ai traumi io cerco di curarmi Cerco solo pace in mezzo a tutti sti marasmi troppo piccoli per riuscire a capire ma abbastanza grandi per soffrire bambini dannati, incazzati come belzebù chiedi dove vado? frate, dove vai pure tu ora sto in carcere nella mia città e sono le ferite che mi hanno portato qua pensavo che finisse questo deja vu ma sono le ferite che si fanno schiavitù. Tra chi fa e ascolta musica, la fine dell’anno è tempo di Spotify Wrapped, il riepilogo che la piattaforma di streaming ti propina automaticamente e che ti racconta quanto hai ascoltato e quanto sei stato ascoltato. Per gli artisti particolarmente legati al mondo virtuale è un termometro di popolarità, e spesso causa di crisi e scenate se i numeri non sono quelli attesi. Per gli ascoltatori è qualcosa di più innocuo e piacevole: un viaggio nei propri gusti e, magari, nei ricordi più belli legati a una canzone o a un disco. In carcere non c’è Spotify, e quindi non c’è Wrapped ma, sul mio computer, ho centinaia di tracce che quest’anno i ragazzi mi hanno chiesto di scaricare e passargli sui lettori mp3 portatili, unico strumento che hanno per ascoltare musica quando io non ci sono. Quindi mi posso azzardare a fare un Prison Wrapped in maniera un po’ artigianale. Iniziamo con tanto rap, trap, drill, ovviamente. Il neomelodico, che è “instant music” e folk tanto quanto il rap, e ne condivide la straordinaria potenzialità di raccontare la strada, l’oggi. Ci sono delle mezze sorprese come Nino D’Angelo, e delle sorprese totali, come Claudio Villa o addirittura Mozart e Vivaldi. Ma c’è una categoria che batte tutti, e sono le strumentali: le basi vuote su cui i ragazzi si esercitano a scrivere, e che mi chiedono a centinaia per poi ascoltarle a ripetizione per ore e ore in attesa di quella che faccia scoccare la scintilla, facendo nel frattempo impazzire il compagno di cella (“cellante” o “cellino”, lo chiamano) che magari non condivide la stessa passione. Anche questo mi parla della loro attitudine, del loro bisogno assoluto e urgente di essere ascoltati, dell’importanza di dare una penna a chi non ha mai scritto e un microfono a chi non ha mai avuto voce. Poesia, rap… quello poco importa. Tra qualche giorno inizia un nuovo anno, e per loro sarà un anno nuovo solo se noi, che siamo qui fuori, ci metteremo all’ascolto. Indennità di disoccupazione anche ai detenuti che hanno lavorato per il Dap di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Una sentenza del Tribunale di Milano, sezione Lavoro, impone all’Inps il pagamento. Il giudice inoltre apre la strada al riconoscimento della Naspi per i reclusi turnisti. Anche i detenuti che lavorano in carcere alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria al momento della loro liberazione hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Lo ha stabilito un’importante sentenza del Tribunale di Milano, sezione Lavoro, pubblicata il 12 dicembre scorso. Il giudice Riccardo Atanasio che l’ha firmata ha accolto il ricorso giudiziario promosso dall’avvocata Silvia Gariboldi e da Inca Milano, e ha respinto le eccezioni sollevate dall’Inps condannando l’Istituto nazionale della previdenza sociale anche al pagamento delle spese legali. Con questa sentenza il tribunale ha aperto inoltre la strada per il riconoscimento della Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) anche ai detenuti che, pur rimanendo in carcere, perdono il posto di lavoro interno per via della turnazione prevista dal regolamento dell’amministrazione penitenziaria. Il caso è quello di un detenuto presso la casa circondariale San Vittore di Milano che dal 17 settembre 2020 al 27 settembre 2021 ha lavorato tutti i giorni della settimana con un giorno di riposo infrasettimanale per il ministero della Giustizia, regolarmente retribuito e assicurato all’Inps. Per questo, quando il detenuto è stato scarcerato perché ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare aveva tutti i requisiti per il riconoscimento della Naspi, “vantando più di 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni” e “più di 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi antecedenti il periodo di disoccupazione”, come annota la sentenza. Ma, come scrive il giudice Atanasio, “qualunque sia la ragione di quella disoccupazione involontaria - quale ad esempio la cessazione dello stato di detenzione del detenuto o invece l’avvicendamento al lavoro previsto da regolamenti penitenziari, al fine di consentire l’accesso all’attività lavorativa da parte di tutti - comunque si realizza quello stato di disoccupazione involontaria che giustifica la concessione della indennità”. E siccome, continua il giudice di Milano, la legge istitutiva della Naspi non esclude il riconoscimento dell’indennità ai detenuti, il Tribunale del lavoro evidenzia invece che la propria interpretazione della normativa “è coerente con l’obiettivo di rieducazione e di reinserimento sociale del detenuto che sono affermati dall’articolo 27 della Costituzione”. Motivo per il quale, spiega la Cgil di Milano, “prossimamente ci troveremo ad affrontare in giudizio lo specifico tema del diritto alla Naspi con turnazione, visto che, grazie alla presenza a San Vittore e Bollate con lo sportello diritti abbiamo raccolto in questi mesi oltre 100 domande. Speriamo - conclude il comunicato sindacale - che Inps e Dap tornino rapidamente sui propri passi e riconoscano in automatico il diritto alla Naspi senza dover affrontare ogni volta il giudizio”. Si unisce alla richiesta e all’auspicio anche il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, secondo il quale “il mancato riconoscimento della indennità di disoccupazione ai detenuti che lavorano in carcere alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria non è solo una ingiustizia, che ha tentato di cancellare decenni di evoluzione del diritto penitenziario verso la piena equivalenza del lavoro dei detenuti al lavoro libero, ma costituisce anche la premessa dello stato di disperazione di migliaia di detenuti che un tempo potevano contare sulla indennità di disoccupazione nei periodi in cui dovevano cedere il lavoro ad altri perché tutti potessero guadagnarsi qualcosa da vivere in carcere”. Ora, conclude l’ex portavoce dei Garanti territoriali, “chi non ha una famiglia alle spalle dipende dal miserevole vitto che passa il convento, dalla carità altrui, se non da consorterie criminali attive fuori e dentro il carcere”. Prescrizione, la faglia dove si scontrano potere giudiziario e potere legislativo di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 29 dicembre 2023 Potere legislativo, esecutivo e giudiziario: questa la classica separazione dei poteri, di montesquiana memoria, caposaldo e baluardo di ogni democrazia moderna e stato di diritto. Ciascuno di questi poteri può, e anzi deve, comunicare nei confronti dell’altro, nei modi, casi e nelle forme previste dall’ordinamento, ma non può influenzare direttamente o indirettamente - e travalicare i limiti che la Costituzione e i supremi principi costituzionali attribuiscono a ciascuno dei tre, pena la cd. confusione dei poteri. Non è un caso che lo stesso ordinamento conosca la possibilità di rivolgersi - con ricorso diretto alla Corte Costituzionale per risolvere, per l’appunto, il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Storicamente delicato, e sempre vivo, il dibattito intorno al rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo (inteso nel suo senso primario di potere creatore della legge): benché traguardo fondamentale dell’Illuminismo la concezione dei giudici come “bouche de la loi” è evidente come - nei secoli - il potere giudiziario si sia affrancato da questo ruolo meramente esecutivo/ applicativo della voluntas legis tanto da divenire quello che nella dottrina comparatistica si identifica come un vero e proprio formante. L’attività giudiziaria è - certamente - qualcosa di ben più complesso: ad essa - infatti - è affidato il ruolo fondamentale di dicere ius, cioè di fornire la corretta interpretazione della legge (nomofilachia), di risolvere le controversie tra cittadini, di ripristinare l’ordine sociale violato con la commissione di reati. Il punto di scontro (di vero e proprio braccio di ferro si potrebbe discorrere) di questi due imprescindibili poteri dello Stato, distinti ma necessariamente complementari, si è - tra il resto - sempre concentrato sul tema della prescrizione. Da ultimo, si ricorderà come chi scrive ha seguito step by step la navetta parlamentare del disegno di legge in materia di riforma della prescrizione che sembrava ormai prossima alle fasi finali dell’approvazione definitiva. A seguito, infatti, dell’ultima votazione in Commissione Giustizia della Camera con la quale si era approvato come testo base la proposta di legge dell’on. le Pittalis, si era poi susseguita la fase di presentazione degli emendamenti al testo base. Se non fosse che - a seguito di una recente, accorata, lettera di moral suasion redatta e sottoscritta dai Presidenti di tutte e 26 le Corti d’Appello d’Italia con la quale si chiedeva “rispettosamente” di rivedere il disegno di legge, in particolare nella parte inerente la disciplina transitoria dello stesso l’iter parlamentare di approvazione del progetto di legge sembra essersi (definitivamente?) interrotto. Ritengono, infatti, le toghe che “ogni eventuale modifica imporrà, necessariamente, altra rivisitazione di parte molto consistente della pendenza di ciascun Ufficio. Essendo, per precedenti scelte del Legislatore e dell’Esecutivo, il giudizio penale di appello tuttora governato dalla carta, questa rivisitazione imporrà il materiale accesso a decine di migliaia di fascicoli cartacei pendenti. E non ‘a costo zero’, perché sarà ancora tempo, tanto, di magistrati e personale amministrativo che fronteggiano scoperture di organico rilevantissime, sottratto alla trattazione delle udienze, i cui tempi inevitabilmente si allungheranno. In questo contesto, l’assenza di una tempestiva, chiara, esauriente disciplina transitoria renderebbe tale gravosissimo lavoro ingovernabile e in definitiva inutile: ciò, in periodo di PNRR e pertinenti obiettivi da raggiungere”. Al di là del contenuto tecnico- giuridico della missiva, che sicuramente avanza legittime problematiche che potrebbero porsi a seguito dell’approvazione del disegno di legge in assenza di una disciplina transitoria, appare in ogni caso ampiamente discutibile il metodo con cui tali istanze sono state portate all’attenzione del Legislatore; non già dai corpi intermedi e rappresentativi della magistratura associata, autorizzati a svolgere attività di politica giudiziaria, bensì direttamente dai vertici delle singole Corti d’Appello del Paese con tono decisamente “istituzionale”. La domanda viene allora spontanea, riprendendo quanto detto ad esordio: cosa avrebbe pensato Montesquieu di una democrazia che - poco a poco - da rappresentativa si trasformi (rectius trasformasse) sempre più in giudiziaria…? Ai posteri, l’ardua sentenza! “Il divieto di pubblicare il testo delle ordinanze è una norma di civiltà” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 dicembre 2023 L’Ocf sull’emendamento Costa: “È paradossale sostenere che garantirebbe il controllo democratico sui provvedimenti restrittivi”. “Il divieto di pubblicazione del testo, integrale o per estratto, delle ordinanze di custodia cautelare, introdotto con l’emendamento “Costa” alla Legge di delegazione, non soltanto costituisce norma di civiltà volta a impedire che l’ipotesi accusatoria - fondata su elementi di prova, spesso intercettazioni, selezionati in assenza di contraddittorio con la difesa - sia data in pasto all’opinione pubblica come se fosse una verità accertata, ma pone fine alla sistematica elusione delle disposizioni del Dlgs n° 188/2021 e rappresenta un ulteriore passo verso l’integrale recepimento, con aberrante ritardo di oltre sette anni, della direttiva UE 2016/343, adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo il 9 marzo 2016 sul rafforzamento della presunzione di innocenza”: così in una nota l’Organismo Congressuale Forense. “E’ paradossale che da più parti si sostenga che la pubblicazione del testo integrale delle ordinanze custodiali garantirebbe il controllo dell’opinione pubblica sui provvedimenti restrittivi della libertà personale”, spiega sempre l’Ocf: “La pubblicità della amministrazione della Giustizia è un valore fondante della nostra democrazia, ma la stessa non è di certo garantita dalla trasposizione del processo dalle aule di Giustizia al circuito mediatico, né dalla idea malsana che questioni giuridiche debbano essere sottoposte alle semplificazioni e spettacolarizzazioni che governano il processo mediatico. In definitiva, ciò che costituisce la patologia, ossia la celebrazione dei processi su circuiti mediatici prima ancora che nelle aule di Giustizia, viene da più parti incredibilmente esaltato quale strumento idoneo a garantire i diritti dell’indagato. L’esperienza degli ultimi decenni ci consegna una realtà contraria, ossia la distruzione della reputazione di cittadini che successivamente, a quel punto troppo tardi, sono riconosciuti innocenti”. L’Ocf risponde infine poi anche all’ex presidente Anm Eugenio Albamonte che in una intervista al Dubbio aveva detto che “molti cronisti giudiziari potrebbero testimoniare, salvo riservatezze delle fonti, come la maggior parte dei provvedimenti giudiziari, ed in particolare le motivazioni delle misure cautelari, vengano diffuse dai legali”. Per l’Ocf appunto “Il tentativo di alcuni esponenti della magistratura di attribuire all’avvocatura la divulgazione delle ordinanze custodiali agli organi di stampa è inammissibile, inconferente oltre a essere smentito dall’esperienza quotidiana di articoli di stampa confezionati in concomitanza con l’esecuzione delle misure adottate e, quindi, ben prima che gli indagati e i loro difensori siano entrati in possesso di copia dei provvedimenti cautelari. Ciò ha l’ingiusto effetto di delegittimare la funzione difensiva e distogliere l’opinione pubblica dal decennale binomio tra gli organi inquirenti e la stampa, senza peraltro che tale argomento abbia minimamente la portata di giustificare la contrarietà alla modifica approvata dalla Camera dei Deputati”. La voce delle toghe contro l’emendamento Costa di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 29 dicembre 2023 Contro il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare c’è chi invoca l’obiezione di coscienza. “A me sembra una polemica inutile”, dice il magistrato Alberto Liguori. “A me pare che si stia facendo su questa vicenda una polemica inutile”, afferma Alberto Liguori, procuratore di Terni ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, commentando col Dubbio le dichiarazioni dei suoi colleghi, ad iniziare da quelle del procuratore della vicina Perugia Raffaele Cantone, favorevoli a una sorta di “obiezione di coscienza” sulla norma voluta da Enrico Costa. La disposizione, proposta dal deputato e responsabile giustizia di Azione nell’ambito della legge di delegazione europea e approvata la scorsa settimana, vieta la pubblicazione per intero o per estratto delle ordinanze di custodia cautelare, andando quindi a modificare gli articoli 114 e seguenti del codice di procedura penale. “Il problema, che anche Costa non mi pare abbia colto fino in fondo, riguarda però cosa finisce oggi in queste ordinanze”, prosegue Liguori, ricordando come il codice di rito, recentemente modificato sul punto dalla riforma Cartabia, abbia già previsto dei paletti molto rigidi. “Il pubblico ministero ha il dovere di effettuare - ricorda il procuratore umbro - un attento e scrupoloso esame, per restare in tema di intercettazioni, di quelle ritenute rilevanti da quelle irrilevanti. È uno dei suoi compiti. Alla polizia giudiziaria, che materialmente effettua gli ascolti, non compete tale operazione selettiva. Il pm deve essere allora responsabilizzato su cosa deposita e che quindi è destinato a diventare di pubblico dominio”. L’emendamento Costa alla norma sulla presunzione di innocenza rischia, per Liguori, di creare pertanto il classico cortocircuito: “Si vieta tout-court la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare ma si scansa il vero tema che è quello della responsabilità del pm che coordina e dirige l’indagine, e che dunque deve vigilare su ciò che è necessario o meno per la sua indagine”. La soluzione proposta di Costa, in altre parole, “è la tipica soluzione emergenziale che può anche trovare degli ostacoli applicativi, tenendo presente ad esempio che il difensore non ha obblighi particolari, offrendo al giornalista di turno un prodotto, l’ordinanza di custodia cautelare, che non è suo”, ricorda Liguori. “Non è non pubblicando nulla che tuteliamo la presunzione d’innocenza. Determiniamo, al contrario, una “sanzione” al cittadino che è privato di informazioni”, sottolinea il procuratore di Terni. L’iniziativa di Costa, come si ricorderà, aveva scatenato la reazione della Federazione nazionale della stampa e dell’Ordine dei giornalisti che hanno fatto appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché, quando sarà il momento, non firmi questa legge che “potrebbe essere fonte di immani distorsioni dei diritti”, annunciando poi una mobilitazione della categoria, assieme alla società civile, “contro il nuovo bavaglio al diritto di cronaca”. “Io credo che da tempo ci sia una attenzione francamente eccessiva su tutto ciò che accade durante le indagini preliminari, rispetto alla fase del processo destinata alla formazione della prova”, afferma invece al Dubbio Mauro Gallina, giudice del dibattimento penale al tribunale di Milano ed ex componente della giunta Anm del capoluogo lombardo. “Personalmente ritengo che si debba sempre tenere fermo il principio della presunzione di innocenza, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, trattandosi di soggetti nemmeno imputati: le notizie vanno date con grandissima misura ed equilibrio”, aggiunge Gallina che l’anno scorso era stato il relatore della sentenza del maxi processo Eni-Nigeria che avevo visto assolti tutti i vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe, accusati di corruzione internazionale. “Ci vuole, ripeto, grandissima cautela - puntualizza il giudice milanese - nel pubblicare atti che non sono stati sottoposti al vaglio del dibattimento”. “Stesse garanzie per vittime e imputati”. L’asse destra-sinistra di Valentina Stella Il Dubbio, 29 dicembre 2023 Fratelli d’Italia, Pd, 5Stelle e AVS uniti per cambiare la Carta su impulso del meloniano Alberto Balboni. Amodio: “Legge-manifesto finalizzata a ridimensionare il garantismo”. “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”: è questo l’obiettivo di modifica dell’articolo 111 della Costituzione di cui si sta discutendo in Senato nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia, soprattutto su impulso del meloniano Alberto Balboni. Come ci spiega la senatrice di Fratelli d’Italia, Susanna Donatella Campione, “si tratta di un testo unificato di quattro disegni di legge presentati da quasi tutte le forze politiche” (Iannone di Fd’I, Marton del M5S, Parrini del Pd, De Cristofaro di AvS, ndr). Questo rappresenta per la parlamentare, relatrice del provvedimento, “sicuramente un elemento degno di nota”. Lo scopo appunto è fornire “tutela costituzionale alle persone offese dal reato”. Appare “necessaria, anche alla luce di trattati internazionali, la tutela della vittima del reato sul piano costituzionale, collocandola proprio all’interno dell’articolo 111 della Costituzione italiana, già modificato dalla legge costituzionale del 1999, nel quale sono raccolti i princìpi costituzionali che presiedono al giusto processo regolato dalla legge”. Analizzando a fondo il dettato dell’articolo in questione, ci spiega la senatrice, tuttavia “si nota che tra i princìpi introdotti manca tuttora un’esplicita previsione a tutela della vittima dei reati, nonostante quella revisione costituzionale abbia voluto accentuare il contenuto accusatorio del processo penale e dunque la sua natura di processo in cui alle parti sono da assegnare condizioni di parità. Mentre all’imputato è stata riconosciuta tutta una serie di garanzie, non si è fatto altrettanto con la persona offesa che con la modifica costituzionale diverrebbe parte necessaria del processo”. L’intendimento perseguito dai disegni di legge è, pertanto, “quello di colmare la lacuna, restituendo, in linea con i princìpi costituzionali di solidarietà e di uguaglianza, diritto di cittadinanza processuale alle vittime del reato”. Campione ammette che la questione è delicata e lo fa anche dal punto di vista della sua professione di avvocato: “in Commissione ci siamo presi del tempo per riflettere. Siamo consapevoli che la figura centrale del processo è l’imputato. Conferendo tutela costituzionale anche alla persona offesa si vanno a produrre delle conseguenze importanti”. Su piano pratico sono previsti, ad esempio, un rafforzamento dell’accesso al gratuito patrocinio e l’erogazione di un risarcimento finale garantita in ogni caso da parte dello Stato alla parte offesa qualora, nonostante gli sforzi, non sia stato possibile identificare l’autore del reato e quando l’autore del reato sia stato identificato ma non possieda mezzi sufficienti per risarcire la vittima in modo adeguato. “Stiamo discutendo del tema in sede consultiva - ha proseguito la senatrice - ma non è escluso che potremmo fare anche delle audizioni di esperti”. Con la modifica costituzionale un imputato dovrebbe vedersela non solo contro l’accusa pubblica ma con una parte offesa elevata a rango costituzionale, e ciò potrebbe apparire una disparità eccessiva: “Questa modifica noi la vogliamo e la riteniamo necessaria, in primis come cambiamento culturale. Siamo comunque consapevoli di questa possibile critica e anche quella per cui la persona offesa è ampiamente tutelata. Per questo occorre fare ampie valutazioni per fare questa modifica nel miglior modo possibile”. Ad intervenire nel dibattito anche l’ex magistrato e senatore dem Felice Casson, già proponente nelle XV, XVI e XVII legislature di pdl di modifica costituzionale, che ci spiega: “i ddl sono sostenuti dalle associazioni vittime di reato, a partire da quelle del Vajont, ma anche da quelle dell’amianto, del lavoro, dello stalking, di femminicidio, di tutti i tipi di reato”. Per Casson “è giusto che tutte le parti del processo abbiano gli stessi diritti e le stesse facoltà, ad esempio, di fare ricorsi, di porre domande. Per questo, come associazioni delle vittime, proponiamo di emendare la modifica costituzionale - “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato” - inserendo “alle quali sono riconosciuti i medesimi diritti e facoltà dell’accusato all’interno del procedimento penale”. Chiediamo al dottor Casson se una tale modifica non ponga l’imputato in una situazione sfavorevole, di svantaggio in aula: “l’imputato ha giustamente tutti i diritti e le facoltà di difendersi. Il problema nel processo penale è che spesso la vittima, soprattutto quella delle grandi tragedie, come le morti da amianto, è una persona semplice, come la vedova o il figlio di un pensionato che letteralmente non sanno dove sbattere la testa. Sono davvero la parte debole e aumentare i loro diritti non può che essere positivo”. Diversa in parte la proposta emendativa della Rete Dafne, presieduta dall’ex magistrato Marco Bouchard: ““La Repubblica italiana riconosce i diritti di informazione, assistenza e protezione delle vittime di reato, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale fatti salvi i diritti della persona indagata e imputata”“. Contrario alla modifica costituzionale è il professore avvocato Ennio Amodio che al Dubbio dice: “sarebbe una legge-manifesto finalizzata solamente a ridimensionare il garantismo espresso dalla norma costituzionale sul giusto processo. Il nostro sistema processuale è tra i più avanzati nel mondo nella tutela delle vittime del reato. Oggi la persona offesa e il danneggiato possono usufruire di tre distinti canali per stare nel processo: costituirsi parte civile, intervenire in adesione all’azione penale del pm, infine chiedere che venga attivata la giustizia riparativa”. Per Amodio “è quindi evidente che chi vuole elevare a rango costituzionale i diritti delle persone che hanno subìto le conseguenze del reato non mira certo ad estendere e irrobustire il ruolo delle vittime ma soltanto a restringere il campo di azione del garantismo per privilegiare il furore repressivo con il pretesto di soddisfare le esigenze delle persone offese”. Sui femminicidi la non imputabilità è da rivedere di Franco Corleone L’Espresso, 29 dicembre 2023 L’uccisione di Giulia Cecchettin da parte dell’ex danzato ha provocato una emozione assai forte e ha spinto tante donne a scendere in piazza con una determinazione e una durezza inconsuete. Soggetti senza paura che gridano di voler bruciare tutto. Bene ha fatto Emma Bonino a coinvolgere nella iniziativa “Ora tocca a noi” i sindaci, perché la città può essere luogo di sviluppo di libertà nella coesione o di disgregazione del legame sociale. Il monito di De André, “siamo tutti coinvolti”, ovviamente riguarda per primi i maschi e la discussione sul patriarcato aiuta ad approfondire ragioni e contesti della violenza sulle donne. Molte voci hanno espresso riflessioni intelligenti, ma la spinta originale è venuta dalla reazione a caldo della sorella Elena e dalle parole pacate e intense del padre il giorno dei funerali. Gino Cecchettin non ha assunto il ruolo della vittima ma ha individuato le responsabilità sociali, delle famiglie, della scuola e dei media, per trasformare una tragedia privata in una spinta al cambiamento. “Mi rivolgo per primo agli uomini”, una frase semplice che ha rotto gli stereotipi consolatori. Finalmente è apparso chiaro che la strage di oltre cento donne nel 2023 non è riducibile alla pazzia, a uomini etichettabili di volta in volta come mostri, bravi ragazzi o persone perbene, ma che è una questione sociale, politica e culturale che ha al centro la perdurante volontà degli uomini di esercitare il potere sulle donne: no alla tragedia di sopprimere la donna, la compagna, che a questo potere non è più disponibile a piegarsi. Un primo studio dell’Università di Torino ci offre lo spaccato di una società disperata e senza amore. L’85% dei casi di femminicidio è avvenuto all’interno di una relazione intima e intensa, nella fascia di età tra 36 e 55 anni. La caratteristica particolare del femminicidio emerge anche dall’alto numero degli assassini che si suicidano (oltre un terzo) e dalle spesso efferate modalità del delitto. Questa volta nessuno ha invocato l’aumento delle pene e più galera, ma si è posto l’accento su prevenzione ed educazione, informazione e cultura, per cambiare la modalità maschile di relazionarsi con le donne e vivere la sessualità senza dominio: sì da sopportare anche le delusioni affettive, i fallimenti, i rifiuti e gli abbandoni. Ed è chiaro che l’esplosione di tanta ferocia non può trovare giustificazione nella infermità mentale o nella seminfermità mentale. Queste strategie difensive non aiutano gli autori del reato a prendere consapevolezza del delitto, del suo significato e delle conseguenze sociali. E proprio queste occasioni dimostrano che sono maturi i tempi per cambiare il Codice Rocco eliminando la non imputabilità per incapacità di intendere e volere: si veda la proposta dell’onorevole Magi (n. 1119), elaborata dalla Società della Ragione, condivisa da psichiatri e giuristi e da molte associazioni impegnate contro il manicomio. Filippo Turetta avrebbe detto negli interrogatori: “Volevo che Giulia fosse soltanto mia” e “ho perso la testa”. Va aiutato a trovare altre parole, così può esprimersi la responsabilità sociale. Che non può che passare attraverso la sua piena assunzione di responsabilità personale. Occorre dunque un lavoro di lunga durata, in profondità. E che l’attenzione continui a splendere. Oristano. Svolta nel caso Dal Corso, i pm dispongono l’autopsia di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Per sette volte avevano detto di No. Ma un audio accusa: il detenuto è stato ucciso. Cambia il capo di imputazione provvisorio: da omicidio colposo a volontario. Ci sono voluti quattordici mesi e mezzo dalla morte di Stefano Dal Corso, ma alla fine la battaglia per la verità della sorella Marisa e dell’avvocata Armida Decina ha ottenuto un primo risultato: sul corpo del 43enne deceduto il 12 ottobre 2022 nel carcere di Oristano verrà effettuata l’autopsia. Lo ha comunicato mercoledì la procura sarda. Ieri la notizia è stata resa pubblica in una conferenza stampa organizzata all’interno del centro sociale Astra, nel quartiere popolare del Tufello, a Roma, dove Dal Corso è cresciuto. “C’è un’altra novità: insieme alla disposizione dell’esame autoptico è cambiato anche il capo di imputazione provvisorio - ha spiegato Decina - L’indagine resta sempre contro ignoti, ma l’ipotesi di reato è passata dall’omicidio colposo a volontario”. A modificare l’orientamento dei pm sarebbe stata una telefonata registrata da Marisa Dal Corso in cui un anonimo, presentatosi come ufficiale esterno della polizia penitenziaria, racconta che il detenuto è stato picchiato con spranga e manganello per una decina di secondi. La sua colpa, ha rivelato un articolo di Andrea Ossino su La Repubblica, quella di aver assistito a un rapporto sessuale tra due operatori del carcere consumatosi nell’infermeria. Ciò avrebbe scatenato la vendetta violenta. La testimonianza è stata raccolta il 6 novembre e successivamente depositata in procura. Da allora è stata l’unica novità di rilievo sul caso. Quelle dichiarazioni, ovviamente, restano tutte da verificare. Senza l’autopsia, però, sarebbe stato impossibile farlo fugando ogni dubbio sulle ragioni del decesso. Precedentemente la procura aveva rigettato per ben sette volte le richieste in tal senso, della famiglia ma anche di Irene Testa, la garante dei diritti dei detenuti per la regione Sardegna (intervistata dal manifesto il 20 dicembre). L’ultimo No risale allo scorso settembre, nonostante il 4 del mese le indagini fossero state riaperte a seguito di un’istanza depositata a luglio e basata su testimonianze inedite raccolte dai familiari dell’uomo. “Nelle vicende di questo tipo si ha la sensazione costante che le procure giochino contro l’accusa, cioè contro loro stesse”, ha detto ieri Valentina Calderone, garante per i detenuti di Roma che ha preso parte alla conferenza stampa. Per l’esame sul corpo, che si trova nella cella frigorifera del cimitero romano di Prima Porta, sono state individuate alcune possibili date tra l’8 e il 24 gennaio. I periti medici della procura e quelli della famiglia ne sceglieranno una. Per i risultati definitivi ci vorrà comunque qualche mese, almeno tre. Dal Corso era finito nel carcere di Oristano per una serie di sfortunate coincidenze. Era stato condannato a una pena inferiore ai due anni ma era recidivo, così la stava scontando ai domiciliari dalla sorella. Ad agosto 2022 è stato sorpreso fuori dall’abitazione, con il cane, e condotto nel carcere di Rebibbia. Nel frattempo era imputato in un altro processo per cui era prevista un’udienza a Oristano. Siccome sua figlia vive là vicino ha chiesto di parteciparvi in presenza (avrebbe potuto farlo anche da remoto). Il 13 di ottobre sarebbe dovuto ritornare nella prigione capitolina. Il giorno prima è stato trovato senza vita nella cella dell’infermeria dove era recluso. Incrociando immagini e testimonianze gli inquirenti si sono mossi verso un’unica ipotesi: il suicidio. La sorella, però, non ha mai creduto a tale circostanza. Insieme all’avvocata Decina ha subito denunciato che dal fascicolo mancavano elementi importanti. Per esempio le fotografia del ritrovamento del corpo o quelle dello stesso privo di vestiti, necessarie ad avere un’idea più precisa sulle cause della morte. Per stabilire le quali, comunque, è necessaria l’autopsia. Della vicenda si è subito interessata la senatrice Ilaria Cucchi (Alleanza verdi e sinistra) e poi il deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) e Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. È stata anche rivolta un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Non si evidenzia alcuna anomalia”, ha risposto il guardasigilli. Avellino. Si continua a “morire di carcere”: domani l’autopsia sul corpo del detenuti 31enne di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 29 dicembre 2023 Alla Vigilia di Natale, un’ombra di tristezza ha oscurato il carcere di Bellizzi ad Avellino, dove un giovane detenuto, un 31enne di Salerno, è stato trovato senza vita. Gli agenti penitenziari, prontamente allertati dai detenuti, hanno immediatamente messo in atto le procedure necessarie, ma non c’è stato nulla da fare. La notizia della morte è giunta a poche ore dal Santo Natale, aggiungendo un peso emotivo ulteriore a un periodo già delicato per chi è privato della libertà. Mentre le indagini sono ancora in corso per determinare la causa precisa del decesso, la comunità carceraria si stringe attorno alla famiglia del giovane, condividendo il dolore di questa perdita improvvisa. “Quello che è avvenuto ci ha scosso profondamente”, afferma la direttrice del carcere di Bellizzi, la dott.ssa Rita Romano. “Queste cose non dovrebbero mai accadere. Sulle cause non mi pronuncio. Attendiamo il verdetto dell’autopsia. Recentemente, durante una riunione con il provveditore, il direttore generale dell’ASL, il dottor Ferrante, e i responsabili della salute mentale, sono state discusse le disposizioni. Si è assunto l’impegno di inviare un ufficiale, dato che mancava completamente, e di fornire operatori specializzati per gestire i detenuti tossicodipendenti. Inoltre, sono stati promessi specialisti come dermatologi e cardiologi, considerando la difficile situazione del nucleo di traduzioni che non può reggere il peso di trasportare detenuti all’esterno in modo continuo”. Il contesto della reclusione spesso amplifica le difficoltà emotive e psicologiche dei detenuti, rendendo ancora più palpabile l’importanza del supporto sociale e psicologico nelle strutture carcerarie. Purtroppo, in questo caso, si trattava di un detenuto con problemi di tossicodipendenza. La notizia della morte del detenuto richiama l’attenzione sull’urgenza di affrontare le sfide legate alla salute mentale e al benessere all’interno del sistema penitenziario. “Dobbiamo attendere domani, quando avrà luogo l’autopsia; solo in seguito sapremo se questa tragedia si poteva evitare”, aggiunge il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Noi, quest’anno in Campania, abbiamo avuto cinque suicidi e sei decessi le cui cause sono ancora in corso di accertamento. La morte è già, di per sé, un dolore. Tutto questo è aggravato ulteriormente dal fatto che, ogni giorno, constatiamo che nel nostro paese si continua a “morire di carcere”. Meglio prevenire che curare. Dobbiamo riflettere di più sulla tutela e la dignità della persona. Nel caso specifico di questo detenuto, un 31enne di Salerno, domani sapremo l’esito dell’autopsia. Io chiedo giustizia e verità”. Roma. Quel bambinello rinchiuso a Rebibbia di Rita Bernardini* L’Unità, 29 dicembre 2023 Un senso di vergogna è sovente quello che provo quando entro in carcere per visitare la comunità penitenziaria. È accaduto nuovamente quando alla Vigilia di Natale sono entrata a Rebibbia, nell’istituto penitenziario femminile più grande d’Europa, dove operano professionalità di altissimo spessore che ogni giorno devono confrontarsi con problemi irrisolvibili stante l’attuale legislazione o le regole assurde, impossibili da rispettare, di un sistema malato e fallimentare. Quando con la delegazione e con i deputati Roberto Giachetti e Maria Elena Boschi abbiamo varcato la “sezione nido” siamo stati raggiunti dal pianto disperato di un bambino di due anni detenuto con sua madre. La giovane donna gli stava tagliando le unghie dei piedini. Messe le scarpine, il bimbo continuava però a disperarsi dando ripetute testate sul cuscino del letto. Niente e nessuno può calmarlo, sta in carcere e non può nemmeno uscire all’aria, in mezzo al verde e ai giochi, perché fuori piove e, comunque, non ci sono altri bambini con cui giocare perché lui è l’unico detenuto (meno male, dal punto di vista di altri bambini). Un’altra piccola di due mesi, proprio in queste ore, è stata invece mandata ai domiciliari, soluzione che per i giudici non è stata possibile per lui e per sua madre. Non conosco “le carte” del caso, ciò che so è che i bambini non dovrebbero stare in carcere e che tutte le proposte per modificare la legge a favore dei diritti dei minori, sono state ripetutamente respinte e questo è accaduto con qualsiasi maggioranza parlamentare di qualsiasi colore politico. Il Governo in carica sta addirittura aggiungendo un di più rispetto a questa infamia. Ha approvato in Consiglio dei ministri e depositato in parlamento un disegno di legge definito “pacchetto sicurezza” che farà aumentare il numero di bambini detenuti perché, tra le tante nefandezze, prevede anche di modificare una norma di epoca fascista (Codice Rocco) che sancisce il differimento pena obbligatorio (articolo 146 del codice penale) nei casi di donna incinta e madre di minore di età inferiore ad anni uno. Se approvata, la nuova norma, prevedrà il differimento della pena non più obbligatorio ma facoltativo: troppo “buonista” Alfredo Rocco, ministro della Giustizia di Benito Mussolini! Con il ministro della Giustizia Carlo Nordio e con il Governo Meloni apriremo, con il 2024, un anno di lotte nonviolente (Satyagraha) per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione: vogliamo ritrovare il “nostro” Carlo Nordio per come lo abbiamo conosciuto quando dialogava con Marco Pannella e - finalmente - per interloquire con tutti i ministri che hanno giurato sulla Costituzione. Le proposte ci sono e sono depositate in Parlamento dall’inizio della legislatura. Una di queste porta la firma di Roberto Giachetti. Per noi dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino i diritti umani fondamentali, anche quelli del “bambinello” di Rebibbia, non ammettono deroghe. *Presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino Verona. Pietro Maso: “Spero che il sangue dei miei genitori sconfigga il male che ho commesso” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 29 dicembre 2023 L’impegno per i detenuti: relatore a un convegno a Verona a gennaio. “Chi ha sbagliato, chi ha commesso reati, è giusto che paghi in carcere, ma deve pagare con dignità...”. Lo ha detto Pietro Maso, il veronese di 52 anni che ne ha scontati 22 in carcere, più altri 5 in semilibertà, per aver assassinato il 17 marzo del 1991 a Montecchia di Crosara il padre e la madre con la complicità di tre amici giovanissimi. Lo hanno fatto per denaro, per l’eredità: uno dei delitti più atroci della storia moderna. “Se io a 18-19 anni avessi incontrato una persona con un vissuto importante, anche in negativo come il mio, parlandoci magari avrebbe potuto smuovere qualcosa in me, smuovere quel tanto che quella sera avrebbe potuto fermare la mia mano assassina - ha rivelato Maso in un’intervista esclusiva appena concessa al caporedattore del Tg5 Carmelo Sardo e trasmessa in streaming sui canali social dell’associazione per i detenuti Sbarre di Zucchero - Ecco, se il mio reato, il sangue dei miei genitori, può servire a qualcosa, io spero che serva a sconfiggere il male che ho fatto e fermare qualsiasi altra persona che si trovi nel baratro. Non solo nel baratro perché ha commesso dei reati, ma anche nel baratro dell’infelicità, della solitudine della vita, specie in questi giorni natalizi di festa. Il fatto stesso che una persona sia infelice è già di per sé una morte. Non è facile compiere un percorso per svuotarsi e liberarsi dal male, è più facile tornare indietro e ricascarci, ma la tenacia e il continuare a scavare in se stessi ascoltando gli altri vuole dire fare un cammino interiore di crescita”. Ripensando alle tante lettere di ammirazione che riceveva in carcere nonostante l’efferata crudeltà del male perpetrato, Maso ha spiegato che “non pensavo che così tante persone provassero il mio stesso disagio, mi ha spaventato molto sapere che non ero l’unica mela marcia ma ce n’erano tante altre con il mio stesso pensiero”. E una volta uscito dal carcere dopo averne passati 22 dietro le sbarre, cos’ha provato Maso sentendosi urlare “assassino” dalla folla? Com’è stato il suo reinserimento tra la gente libera? “Al di là di certi episodi, tipo quando vai in un ristorante e ti invitano a non tornarci più, c’è una frase che mi guida e cioè “conoscere per amare”. Ecco, fin dall’inizio, ho avuto un pensiero quando sono uscito dalla cella ed è questo: “Io ho fatto un cammino per rientrare nella società, ma la società ha fatto lo stesso percorso per accettarmi?” Mi accorgo che molte persone sono rimaste ferme al Maso del 1991”. E oggi il Pietro 52enne come si pone di fronte a “quella” sera del 1991 in cui si è trasformato in assassino? “Ci ripenso tutti i giorni, soprattutto la sera quando ripercorro la giornata e mi riprometto di migliorarmi il giorno dopo, per me ricordare quella sera del 1991 vuole dire impegnarmi a fare di meglio il giorno dopo”. A proposito del discusso istituto della “giustizia riparativa” introdotto dalla riforma Cartabia, per Maso “chi ha subìto il male, chi ha perso una persona cara, ritroverà la pace e la serenità solo incontrando e abbracciando il carnefice, il quale ovviamente dovrà prima aver compiuto un percorso di ravvedimento interiore”: com’è accaduto a una figlia di Aldo Moro che ha detto “i miei amici che hanno ucciso mio padre”. Il giorno dopo la condanna a 30 anni di reclusione in primo grado, “la mattina ho pensato “o la faccio finita o indosso le scarpe e inizio il mio percorso per tornare nella società”. Ecco, io ho scelto la seconda strada”. E a proposito dell’escalation di suicidi in carcere, “voglio dire che i detenuti si trovano in custodia e quindi vanno seguiti e sorvegliati. Se uno di loro si toglie la vita significa che lo abbiamo condannato non a 8-10 anni di reclusione, ma alla pena di morte”. Commentando l’ora di dialogo con Maso, secondo l’intervistatore Carmelo Sardo “Pietro si è messo a nudo, affrontando tutti i temi che gli ho proposto, con una vivida intelligenza che mi ha colpito molto. Ora, ognuno è libero di pensarla come crede, per carità, ma non dimenticate che - sottolinea il caporedattore del Tg5 - la nostra costituzione, all’articolo 27, prevede che il carcere debba tendere alla rieducazione di chi ha sbagliato. Ecco, Pietro Maso, come molti altri prima di lui, ha scontato la sua condanna, ha pagato il debito con la giustizia, e non è più il reato che ha commesso: oggi è un uomo nuovo che la società deve riaccogliere; ma la società è pronta?”. Di certo, il Maso 52enne farà ancora parlare di sé, sia per il suo ebook “La pietra scartata, un uomo nuovo, racconti dal carcere”, sia per il suo prossimo impegno come relatore in incontri pubblici. Il primo appuntamento è già in calendario per il 24 gennaio, quando Maso parteciperà con il deputato Flavio Tosi, la consigliera comunale Patrizia Bisinella e l’imprenditore Antonio Alestra a un evento sulla formazione e il lavoro in carcere, “Sprigioniamo il lavoro”, moderato dall’avvocato Simone Bergamini e organizzato da Sbarre di Zucchero. Genova. “Nuovi Cicli”: dopo il carcere, la libertà viaggia su due ruote di Ilaria Dioguardi vita.it, 29 dicembre 2023 Ha aperto a Genova un locale di riparazione biciclette ispirato ai principi di sostenibilità sociale, economica e ambientale, proseguimento naturale del lavoro di formazione svolto dai detenuti all’interno del carcere di Marassi. Si chiama “Nuovi Cicli” ed è un nuovo progetto con radici a Genova e Milano. È la fase due della missione di Nuovi Cicli onlus, che dal 2017 persegue finalità benefiche di pubblica utilità e collabora a stretto contatto con specialisti del settore. L’associazione ha iniziato la propria attività presso il carcere di Bollate a Milano, ma attualmente svolge le attività di formazione presso il carcere Marassi di Genova in partnership con Il Biscione società cooperativa e i vertici dell’amministrazione penitenziaria. I cicli meccanici della nuova officina, nel cuore di Genova, saranno assunti per un massimo di 12 mesi, integrando e completando sul campo la formazione ricevuta in carcere, preparandosi così a una piena e stabile collocazione lavorativa. Dietro alla riparazione delle biciclette, un lavoro che richiede molta concentrazione e manualità fine, c’è anche una vera e propria metafora di vita: come per la bici, anche nella quotidianità c’è un’alternanza di salite e discese, di fatica e di soluzioni, da affrontare con resilienza e costanza. “La ragione di creare questo “ponte” tra il carcere e il fuori viene dal bisogno di dare una seconda possibilità alle persone detenute”, spiega Luca Bianchi, presidente e fondatore di Nuovi Cicli. Come nasce il progetto Nuovi Cicli? Nel 2017, un po’ per caso, da una mia sensibilità, dopo aver letto un libro molto toccante sul mondo delle carceri: Io non avevo l’avvocato. Una storia italiana. Racconta l’esperienza di Mario Rossetti che, dopo essere stato accusato e imprigionato ingiustamente, fu assolto con assoluzione piena perché il fatto non sussisteva, per un crimine economico. Mi ha colpito perché ha toccato alcune mie corde caratteriali “anarchiche”. Il fatto di dover stare in uno spazio ristretto, senza la libertà, mi ha sempre colpito. Mi sono detto che dovevo fare qualcosa. Nel frattempo, chiacchierando con Maria Milano, all’epoca direttrice del carcere di Marassi a Genova, ciclista come me, le proposi la mia idea di fare dei corsi di riparazione biciclette per detenuti. Da lì, è nata la costruzione di un laboratorio all’interno del carcere di Marassi, in un locale a disposizione, nell’intercinta: giuridicamente fuori dal carcere, fisicamente dentro la prima cinta, quindi non aperto al pubblico. Iniziammo a tenere dei corsi, io facevo da tutor e una persona che aveva appena venduto la sua ciclofficina faceva da formatore tecnico. Il curriculum di formazione è molto rigoroso, credo nella professionalità a qualunque livello: per fare del bene bisogna fare cose il più possibile seriamente. Ho studiato questo curriculum che porta a un totale di circa 100 ore di formazione socio-relazionale. I ragazzi detenuti sono disabituati a interloquire in maniera corretta con gli altri, quindi anche con i clienti. Presto mi resi conto di aver bisogno di un appoggio professionale, il mio entusiasmo non era sufficiente. È nata allora una relazione con la cooperativa sociale Il Biscione che lavora nel carcere di Marassi da moltissimi anni. La cooperativa ha dato un contributo enorme alla realizzazione di questi corsi. Inoltre, anche nel carcere di Bollate facemmo un mese di formazione ad alcuni detenuti, abbiamo insegnato loro a montare e smontare le biciclette del bike sharing di Milano e poi quattro su cinque sono stati assunti a tempo indeterminato: un’ottima media. Quindi, nel 2017 iniziammo in parallelo i corsi di formazione nel carcere di Bollate a Milano e in quello di Marassi a Genova. In cosa consiste la formazione? Abbiamo finora svolto 18 corsi, che variano da 50 a 100 ore, per un totale di 90 persone formate. I corsi a causa del Covid si sono interrotti, poi sono ripartiti per una richiesta esplicita da parte dei carcerati. La cooperativa Il Biscione ci dice che i ragazzi escono trasformati dai nostri corsi, arricchiti da un’esperienza di lavoro, con una formazione molto professionalizzante. La meccanica della bicicletta può sembrare banale, ma è fine, delicata. Le tolleranze sono minime, le misure sono piccole, i movimenti devono essere molto controllati. Lavorare nella ciclofficina aiuta a ritrovare un equilibrio, il lavoro manuale su una bicicletta fatto da un carcerato lo aiuta a recuperare una forma di controllo, sia nel movimento sia comportamentale. Il laboratorio che abbiamo fatto a Marassi ha delle postazioni di lavoro contrapposte, per cui i ragazzi lavorano su due biciclette, una di fronte all’altra, a distanza di un metro e anche questo aiuta nel supporto reciproco. Tutto è stato pensato per aiutare a ritrovare una forma di equilibrio. Questi corsi sono una parte strutturale del programma di rieducazione del carcere di Marassi. L’idea della ciclofficina come le è venuta? C’è ancora una forma di diffidenza nei confronti dei carcerati ed ex carcerati, il reinserimento lavorativo a Genova è stato deludente. Mi sono detto: se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Mi è venuto in mente di costruire una ciclofficina e di tenerla in piedi con criteri assolutamente aziendalistici, ovvero deve avere un contributo economico che tiene, deve fornire un servizio di primo ordine, deve essere gestita professionalmente sotto tutti i profili. Ho sfruttato le mie conoscenze con la cooperativa Il Biscione, che è diventata parte di questo nuovo progetto, con un accordo di partenariato. La ciclofficina è gestita da Massimo Montagna, manager professionista, super appassionato di meccanica e di biciclette. È così felice di questa nuova avventura lavorativa che continua a dire: “Questo è il sogno della mia vita che diventa realtà”. Poi abbiamo trovato grandissimo aiuto in amici e sostenitori. Chi lavorerà nella ciclofficina Nuovi Cicli? Nella ciclofficina lavoreranno esclusivamente detenuti che beneficiano delle pene alternative alla detenzione, o ex detenuti che sono stati formati nel carcere di Marassi. Quando una persona esce di galera, spesso il “compagno di merenda” lo va a cercare. Bisogna essere solidi, avere obiettivi molto chiari, avere un’alternativa: vogliamo dare quest’alternativa grazie alla formazione. Il tempo limitato della formazione permette una rotazione, inizialmente il nostro obiettivo è avere due ragazzi che lavorano insieme a Massimo Montagna. L’assunzione di massimo 12 mesi è in funzione di quanto riescono velocemente a “camminare sulle loro gambe”. Oggi partiamo e facciamo esclusivamente manutenzione e riparazione delle biciclette, su base sostenibile il più possibile. Il payoff della nostra onlus Nuovi Cicli è Liberi di cambiare: ci sono stati cicli di un certo tipo nella vita di una persona, ce ne possono essere di nuovi e di migliori. Può spiegarci come vi ispirate ai principi di sostenibilità ambientale? Abbiamo stretto un accordo con l’azienda Vittoria che produce pneumatici, ha sviluppato un programma che si chiama Vittoria Re-Cycling: è una raccolta gratuita e recupero dei copertoni, che riciclano in maniera documentata e ne fanno, ad esempio, i pavimenti morbidi per i parchi giochi dei bambini o le piste di atletica. Abbiamo una macchina lava pezzi, che ha bisogno di una pulizia profonda, che lavora a ciclo chiuso, con ricircolo non di acqua ma di un liquido particolare con batteri ed enzimi che si nutrono di idrocarburi, per cui mangiano l’olio e la sporcizia. Questo liquido viene rigenerato dopo alcuni mesi in maniera assolutamente eco-friendly, per cui il lavaggio, che normalmente porta a sversare prodotti pericolosi per l’ambiente, noi riusciamo a farlo con sversamento pari a zero. Per quanto riguarda l’illuminazione, abbiamo rifatto tutto mettendo il 100% led. Penso che questi sono piccoli elementi che, nell’insieme, fanno la differenza nel tema della sostenibilità. Amo la natura, sono un marinaio, vado in bicicletta in montagna, do un valore enorme alla tutela dell’ambiente. Per Nuovi Cicli avete in mente altri progetti futuri? Oggi ci occupiamo di manutenzione e riparazione, ma stiamo già lavorando a un database per provvedere a fornire consulenza per chi desidera comprare online. Abbiamo avuto una calorosa accoglienza dal Comune di Genova, il giorno dell’inaugurazione sono venuti gli assessori Lorenza Rosso e Matteo Campora. Genova sta spingendo molto per lo sviluppo della mobilità dolce, ma è una città non abituata all’uso delle due ruote: la morfologia della città, tutta salite e discese, scoraggia un po’, ma con la bici elettrica il problema si supera. Si tratta di modificare la cultura, chi guida macchine e scooter deve imparare a essere più rispettoso. Una bicicletta che gira per strada è una macchina in meno, questo dovrebbe essere una convinzione per tutti. Per quanto riguarda la formazione in carcere, avete altre idee? La ragione di creare questo “ponte” tra il carcere e il fuori viene dal bisogno di dare una seconda possibilità alle persone detenute. Il carcere è un ambiente complicato, l’amministrazione penitenziaria e la polizia lavorano a volte in difficoltà, per problemi di sistema, a causa della carenza di personale, delle difficoltà di coordinazione che poi si riflettono su chi vuole dare un servizio di volontariato, di assistenza. La formazione principale prosegue a Genova, spero che riprenda a breve anche al carcere di Bollate a Milano. Sto riflettendo da un po’ sulla possibilità di avviare dei corsi analoghi anche nel carcere femminile. Mi piacerebbe molto. Gorizia. Fughe, rivolte e suicidi: il limbo dei migranti è a Gradisca di Antonio Maria Mira Avvenire, 29 dicembre 2023 Chi è in attesa di rimpatrio vive “in un luogo sconvolgente”, tra fughe, rivolte e suicidi. La sindaca Tomasinsig: “Situazione ai limiti, chiedo al Viminale di chiudere le strutture” Cpr, Centro di permanenza e rimpatrio per i migranti: a Gradisca c’e n’è uno, ma c’è anche un Cara, Centro di accoglienza per richiedenti asilo. In tutto quasi 800 migranti, più o meno “chiusi”. Un Cpr che è una perenne bomba innescata che spesso esplode, tra rivolte, fughe e suicidi. Malgrado sia pieno poco più della metà perché, fatiscente, e soprattutto perché mancano le forze dell’ordine per la sorveglianza. Un Cara che invece scoppia col triplo di presenze rispetto alla capienza, obbligando a usare anche le tende. Decine di immigrati per strada o ospitati da parrocchia e comune. È Gradisca d’Isonzo (Gorizia), 6mila abitanti e quasi 800 immigrati, chiusi (più o meno) in condizioni pessime tra Cpr (86) e Cara (650), o senza alcun tetto. “Ho scritto al ministero dell’Interno - ci dice la sindaca Linda Tomasinsig - riproponendo la nostra richiesta: chiudere le strutture. Per il Cpr per l’inefficacia dello strumento, perché è un luogo sconvolgente. Le condizioni del trattenimento sono ai limiti della dignità umana e le condizioni di lavoro degli operatori sono molto difficili. Per il Cara chiediamo che si passi ad un’accoglienza diffusa sul territorio, più sostenibile e equa. Il presidente della Regione dice che l’accoglienza diffusa è stata un fallimento ma io ho l’esempio di alcuni comuni limitrofi al nostro che tuttora stanno accogliendo qualche decina di persone in appartamenti e non hanno alcun problema, e soprattutto non hanno i problemi che abbiamo noi”. Il Comune chiede “soluzioni più sostenibili”. Anche il Centro di prima accoglienza è in pessime condizioni: è sovraffollato e i richiedenti asilo devono dormire nelle tende o in parrocchia. Ma la risposta del Viminale è stata negativa. “Per il Cara ci risponde che il sistema dell’accoglienza è saturo, che ci sono problemi, che non si riesce a farne a meno. Ma evidentemente non si vuole organizzare l’accoglienza in modo diverso”. E così il sovraffollamento resta. Mentre nel Cpr la capienza è di 150 persone ma i presenti sono meno di 86. Una situazione simile agli altri Cpr. “Ci sono molti posti vuoti e quindi non c’è la necessità di realizzare nuovi Cpr come vorrebbe fare il governo. Sono sottoutilizzati o perché le strutture sono semidistrutte, fatiscenti oppure, come accade a Gradisca, non ci sono forze dell’ordine sufficienti sul territorio per poter organizzare i turni di sorveglianza esterna. Devono venire anche da fuori regione”. E intanto si ripetono rivolte, danneggiamenti, incendi e fughe come quella di tre tunisini il 17 dicembre, nel corso di una rivolta, e di un altro tunisino il 20 dicembre. A conferma della difficoltà a tenere la struttura sotto controllo che, lo ricordiamo, ospita, assurdamente insieme, sia chi proviene dal carcere sia chi è solo irregolare sul nostro territorio e destinato all’espulsione. Ma la sindaca non è meno preoccupata dalla situazione nel Cara. “Ci sono 650 persone su una capienza di 200. Sono persone che arrivano dalla rotta balcanica, via terra. Pakistani e afghani, soprattutto, ma anche turchi e perfino nepalesi. Da anni abbiamo la struttura sempre piena. Non c’è bisogno di nuovi Cpr ma di posti di accoglienza, è una necessità. Abbiamo dovuto allestire un dormitorio nella parrocchia per le persone che non trovano posto in accoglienza e stavano per strada. Ne ospita 15-20. Almeno per la notte. Ora fa molto freddo. Abbiamo due volte a settimana l’ambulatorio medico, le docce, la colazione, vestiti puliti”. Un sovraffollamento che si ripercuote sul territorio. “Le camerate sono piene, nelle tende si sta male, e allora sono sempre fuori, in giro in città o sui prati attorno al Cara. Coi tagli decisi dal governo nel Cara tutti i servizi sono stati ridotti. I corsi di italiano non ci sono più, la mediazione e il supporto legale sono stati ridotti al minimo. E quindi non hanno motivo di restare dentro”. Un quadro confermato anche da Giovanna Corbatto, fino a marzo garante comunale per i diritti delle persone recluse, formalmente ancora in carica fino alla nomina del nuovo garante, ed ex coordinatrice nazionale del programma dei corridoi umanitari di Caritas italiana. “Continua la sbagliata e pericolosa commistione tra chi ha commesso reati, e viene dall’esperienza carceraria e chi ha l’unica “colpa” di non aver avuto il riconoscimento di rifugiato. Entrambi destinati al rimpatrio ma evidentemente si tratta di casi molto diversi. Bisognerebbe distinguere tra le due tipologie, per provare a fare interventi diversi. Ma non ci vengono comunicati i dati. Una linea che gli ultimi provvedimenti del governo aggravano”. Eppure, sottolinea anche lei, “nel Cpr di Gradisca, così come negli altri, sono molto meno della capienza perché non c’è abbastanza polizia. Non riescono a mantenere il rapporto numerico previsto tra numero di trattenuti e forze dell’ordine”. E così le “celle” restano vuote. E la mancanza di forze dell’ordine rallenta anche i rimpatri. Infatti sono prescritti tre uomini per accompagnare un rimpatriato. E così si riesce a fare una notifica di rimpatrio al mese. “Gli altri tornano in giro, dopo i 120 giorni massimi previsti di detenzione, anche perché funzionano i rimpatri solo con Tunisia, Egitto, Nigeria, Albania e Georgia. In gran parte provengono dal carcere, tranne i tunisini che vengono dagli sbarchi”. Scelte sbagliate, politiche sbagliate ma anche la “mancanza di alcune piccole attenzioni. Ho dovuto protestare affinché un nigeriano venisse messo in cella con suoi connazionali invece che con arabi. Non poteva neanche parlare con qualcuno. Tutto il giorno in silenzio”. Luoghi non più comuni: “pace” di Massimo De Carolis Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Dizionario di fine anno. A generare la paralisi non è un deficit di impegno collettivo ma un problema politico profondo, che va affrontato per avere qualche speranza di superare l’impasse. Per quanto sia cresciuto come alternativa critica al progetto di globalizzazione neoliberale, infatti, il movimento contro le guerre non ha potuto fare a meno di condividerne alcuni presupposti, e dunque anche la sua crisi. Per trent’anni la guerra è stata innominabile. Per quanto si facesse largo abuso della parola in contesti impropri (guerra alla droga, al crimine, al terrore), alle guerre in senso stretto erano imposti appellativi molto più suadenti: dalla “operazione di polizia” lanciata dalla coalizione a guida americana contro l’Iraq nel 1991 fino alla “operazione militare speciale” con cui la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina nel 2022. Due espressioni quasi identiche, tra le quali intercorre però una distanza siderale. Coniata all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica, la prima formula annunciava la promessa del “nuovo ordine globale” ispirato al neoliberalismo, che puntava sull’integrazione dei mercati, l’espansione della democrazia e la difesa dei diritti umani. La seconda, al contrario, battezza un’iniziativa diametralmente opposta che, insieme all’esplosione del conflitto tra Hamas e Israele, di quella promessa sembra oggi sancire il tramonto. A conferma di un simile rovesciamento, la guerra si ricomincia non certo a praticarla (perché quello non si era mai smesso di farlo) ma a chiamarla per nome, attestando così che nell’ordine che si è andato di fatto costruendo in questi trent’anni - quello vero, non quello idealizzato dalla propaganda - il più distruttivo dei conflitti ha acquisito in realtà un posto di primo piano. Diversamente da un passato anche recente, la guerra non si presenta più come un’interruzione catastrofica della normalità. È ormai a sua volta qualcosa di normale: una specie di disturbo cronico destinato a durare a tempo indefinito, che colpisce i civili molto più dei belligeranti in senso stretto e che, dietro la maschera dell’ostilità guerriera, lascia a tratti trapelare una paradossale complicità tra le parti in conflitto, interessate ad assicurarsi il controllo totale sulle risorse e sulle vite all’interno del proprio campo molto più che a riportare un’improbabile vittoria definitiva sul campo avverso. Sono tanti i motivi per cui il sogno del nuovo ordine liberale ha generato una realtà così vicina all’incubo. Un confronto elementare tra le promesse e la realtà dei fatti aiuta a coglierne almeno i più vistosi. In primo luogo, sulla carta, il nuovo ordine prometteva un confronto alla pari tra attori globali non più nemici benché ancora concorrenti, sul modello della competizione di mercato regolata dal diritto. All’atto pratico però a uno solo dei concorrenti, gli Stati Uniti d’America, era riservato un privilegio strutturale sia in campo economico - data la centralità del dollaro nel sistema monetario - sia in ambito militare. Gli Stati Uniti agivano insomma tanto da giocatore quanto da arbitro, generando un diffuso rancore tutte le innumerevoli volte in cui l’equilibrio generale veniva piegato agli interessi nazionali americani. Per di più, l’ambizione globale del progetto riduceva implicitamente qualunque oppositore radicale a una specie di nemico pubblico, un bandito spogliato di ogni legittimità politica, col risultato paradossale di rendere la scelta terroristica una via quasi obbligata per qualunque opposizione al potere consolidato. Infine, il ruolo di collante attribuito agli scambi di mercato rifletteva la convinzione che un mercato libero tendesse spontaneamente a rafforzare la democrazia, rendendo le scelte politiche sempre più dipendenti dalle preferenze espresse dalla società civile tanto nel voto quanto nei consumi. Un’illusione platealmente smentita dall’evidenza che il dominio dei mercati, lasciato a sé stesso, tende invece a svuotare del tutto la società civile, sbriciolandola in una massa atomizzata e impotente, alla mercé delle tecniche capillari di controllo esercitate dai monopolisti del denaro e del potere. E la rabbia che fermenta in una tale massa nutre oggi le milizie delle nuove guerre. In un quadro così critico, la voce di un movimento globale in difesa della giustizia e della pace ha chiaramente un peso decisivo. È perciò tanto più scoraggiante dover constatare che, nei trent’anni trascorsi, quella voce si è fatta più flebile e impotente. All’epoca della seconda guerra in Iraq, le manifestazioni per la pace ebbero un tale impatto da far scrivere al New York Times che il movimento per la pace era ormai l’unica altra superpotenza globale accanto agli Stati Uniti. Oggi, di fronte al sovrapporsi di due conflitti molto più devastanti, quel movimento appare invece così indebolito da lasciarci tutti attoniti e impotenti, mentre assistiamo in diretta al susseguirsi quotidiano degli orrori. A generare la paralisi non è un deficit di impegno collettivo ma un problema politico profondo, che va affrontato a viso aperto per avere qualche speranza di superare la crisi. Il nodo cruciale è che, per quanto sia cresciuto come alternativa critica al progetto di globalizzazione neoliberale, il movimento per la pace non ha potuto fare a meno di condividerne alcuni presupposti, ritrovandosi per questo a condividerne anche l’attuale crisi. Come movimento di massa non violento, mirava infatti a esercitare una forma di soft power sulle coscienze e la ragione pubblica. Era quindi efficace solo in contesti democratici, nei quali il potere politico poteva essere tenuto sotto scacco da un’opinione pubblica libera e combattiva. Sia pure con spirito critico, tendeva così a condividere la stessa speranza che animava in fondo il progetto neoliberale: che la crescente interdipendenza economica avvicinasse tra loro i popoli della terra, rafforzando la democrazia e favorendo la crescita di una società civile globale. In una realtà che a simili speranze lascia ben poco spazio, occorre un salto di qualità per non soccombere, fermo restando che, per un movimento pacifista, la scelta non violenta resta fuori discussione. L’attivismo ha mostrato comunque che, in contesti di aperta ingiustizia, la non violenza può affiancare con successo le forme di resistenza collettiva, anche se a praticarle non è una società civile ma una massa indisciplinata e rancorosa. È quanto hanno sperimentato negli ultimi anni i gruppi di attivisti internazionali (anche israeliani e americani) che in Cisgiordania hanno protetto i villaggi palestinesi dagli assalti dei militari e dei coloni: non a caso una forma di solidarietà aspramente combattuta tanto da Hamas quanto dal governo di Israele. È un esempio prezioso, che mostra come si possa trasformare un movimento essenzialmente umanitario in un vero movimento politico, benché a unirlo non sia la fedeltà a una polis, uno stato o un popolo particolare, ma la comune appartenenza all’umanità in quanto tale. Luoghi non più comuni: “vittima” di Velania A. Mesay Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Dizionario di fine anno. Quando Didier Fassin e Richard Rechtman, antropologo e sociologo il primo e psichiatra il secondo, iniziarono le loro ricerche sulla condizione di “vittima” correva l’anno 2000. A dare un impulso al loro studio fu l’attentato alle torri gemelle che cambiò in forma radicale il significato comune a cui tutti noi alludiamo quando parliamo di vittime Quando Didier Fassin e Richard Rechtman, antropologo e sociologo il primo e psichiatra il secondo, iniziarono le loro ricerche sulla condizione di “vittima” correva l’anno 2000. A dare un impulso al loro studio fu l’attentato alle torri gemelle che cambiò in forma radicale il significato comune a cui tutti noi alludiamo quando parliamo di vittime. Le loro analisi, raccolte poi nell’Impero del trauma, evidenziavano come il concetto stesso di vittima sia in realtà frutto di un’assimilazione moderna, iniziata con la psicoanalisi prima e con l’elaborazione di alcuni eventi storici poi. Oggi non vi è stupore se in un luogo in cui avviene un dramma - sia esso un evento tragico come lo scoppio di un conflitto, la caduta di un aereo o un attentato terroristico - vengano inviati, oltre ai medici e alle forze dell’ordine, anche psicologi e psichiatri nel tentativo di curare ciò che la pelle non mostra, ma che in quanto estensione del cervello, col tempo restituisce. La concezione di che “ferita” non è solo quella materiale ma anche quella che si forma all’interno degli spazi della nostra mente, è un traguardo che come società abbiamo raggiunto solo recentemente. Fino alla prima metà del ‘900 ed oltre, un operaio che subiva un danno e chiedeva per esso un risarcimento o il soldato che domandava un congedo, venivano guardati sotto la lente di quella che i due autori chiamano “illegittimità”, ovvero di sospetto, in quanto la vittima non era riconosciuta come tale. A cambiare l’immaginario moderno sul significato di vittima ha contribuito, in primis, l’elaborazione della Shoah, che grazie alle testimonianze dei sopravvissuti ha fatto di quella che è stata un’esperienza individuale un dramma collettivo, riconosciuto anche da chi non l’ha subito e/o vissuto. Primo Levi scriveva: “so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità”.(1) Queste parole, rimaste in eredità ai posteri, hanno imposto una riflessione volta a scernere laddove qualcuno avanzava possibilità di negazione o mistificazione di quanto accaduto. Prime braci del cortocircuito postmoderno che viviamo ancora oggi: dimostrare di essere vittima. Lungo gli anni ‘70 con il ritorno dei soldati dal Vietnam numerose famiglie statunitensi dovettero affrontare i comportamenti autodistruttivi dei reduci. Lo stress psicofisico ai quali essi erano stati sottoposti produsse un numero altissimo di suicidi. Alle famiglie si cominciò a mandare in ausilio equipe mediche formate da psicologi e psichiatri, parallelamente si formarono le prime associazioni che riconoscevano che il trauma del singolo poteva incidere sulla collettività; il trauma non doveva più essere nascosto o negato, bensì si incoraggiava i reduci a parlarne e i famigliari a segnalarlo. Così arriviamo al 2001 e al terzo evento che muta la percezione del concetto di vittima. L’attentato alle torri gemelle è secondo i due autori l’evento che sancisce l’inizio dell’epoca contemporanea in cui domina quella che loro chiamano la “politica del trauma”. La vittima è considerata tale in base “all’identificazione che sono in grado di percepire i responsabili politici, gli attori umanitari, gli specialisti della salute mentale rispetto al distanziamento che suscita l’alterità dell’altro, cioè la loro prossimità culturale, sociale e, forse, anche ontologica; e la definizione a priori della fondatezza della loro causa, della loro sventura, della loro sofferenza cosa che presuppone evidentemente una valutazione politica e, spesso, etica. Quindi il trauma reinventa, all’insaputa dei suoi sostenitori, le vittime “buone” e “cattive” o, quantomeno, delle scale di legittimità tra le vittime”. (2) In nome delle vittime si è giustificata la risposta americana agli attentati dell’11 settembre. In nome delle vittime si sono prodotte altrettante vittime. Nuove ferite per colmare ferite passate in un comune illudersi che per cicatrizzare il proprio vi sia bisogno di ferire l’altrui. “Vittima” è dunque quello sfondo ideale per il quale si combatte una battaglia ideologica, luogo di incontro e di scontro per i decisori politici e di un’opinione pubblica che subisce o contribuisce nella catalogazione del buono e del cattivo. Oggi, in Occidente, la personificazione della vittima contemporanea è stata assegnata alle persone migranti. Esse sono sotto tutti i punti di vista vittime o sono state, di fatto, rese tali: non solo perché costrette a lasciare il loro luogo natale a causa di agenti esterni ed interni, ma anche e soprattutto perché, il loro percorso migratorio è quasi sempre ostacolato da trattamenti disumani che conducono fino al sacrificio della vita stessa. Vittime principalmente di una politica che concede ad alcuni il lusso di potersi muovere e ad altri invece la mobilità viene negata, preclusa, impedita. E quando si sopravvive lungo l’odissea che dovrebbe terminare in un luogo sicuro, quest’ultimo si tramuta in nuova gabbia dove i valori e i diritti di cui tanto il nostro continente si vanta, vengono nuovamente negati. Aldilà di queste annotazioni, note oramai a tutti, sorgono delle domande che ruotano attorno alla sfera della descrizione delle migrazioni nel linguaggio pubblico. È lecito domandarsi se vi è un sottile rischio a cui andiamo incontro quando queste persone vengono rappresentate solo sotto il profilo di vittime? Interrogativi consumati e ritenuti non prioritari, come chiedersi se la vittima vuole essere definita tale, giocano una partita importante con l’avvenire in quanto l’ossessività del raccontare solo la vittima ha come risultato finale quello di eludere chi rende la vittima tale. E ancora, la vittima vuole essere descritta solo per quel segmento di esperienza che l’ha resa vittima, escludendo tutto il resto che compone la sua esperienza da essere umano? Nel caso del racconto mediatico delle migrazioni la necessità di sensibilizzare il pubblico, spesso ignorante o avulso a ciò che avviene nei luoghi di frontiera, ha coinciso con una narrazione dove la protagonista è stata la pornografia del dolore altrui. Le lacrime, le cicatrici, le ferite materiali ed immateriali sono divenute pane quotidiano, unico alimento possibile per far digerire le ingiustizie che uomini e donne stavano e stanno tutt’ora subendo per raggiungere la fortezza Europa. Se la descrizione del reale si deve avvalere anche di questo materiale, è tanto vero che però questo linguaggio ha prodotto negli ultimi trent’anni più divisione che unione. Se si ricercava l’empatia si è invece prodotta apatia, ignavia, disinteresse. A volte una pericolosa diffidenza. L’uso delle immagini che ricerca nella violenza l’unico mezzo per accattivarsi l’audience ha reso questo sempre più insensibile e distratto. La sofferenza, sentimento presente in ogni storia di migrazione, non dev’essere omessa dal racconto ma non può diventarne l’unico interprete né l’antagonista che nasconde le individualità e le singole storie fino a cristallizzarle in masse e numeri. Quello che ingenuamente si è pensato essere un “dar voce” alle persone migranti in realtà, in molti casi, è stato un soffocare parte di queste voci, un sostituirsi a loro con uno sguardo colonizzato e colonizzante. Questa narrativa ha plasmato non solo il racconto mediatico ma anche quello di una buona fetta del mondo umanitario che con spot, foto e video cerca di attirare l’attenzione di donatori e società civile. In un’intervista durante una presentazione del suo libro “I Buoni” Luca Rastello affermava: “Quando la relazione di aiuto si istituzionalizza, l’aiutato diventa utente. E se sei utente appartieni alla categoria nel nome di cui si parla ma che non parla, che deve essere riconoscente, che presta la sua voce ai suoi rappresentanti, deprivato di cittadinanza, consegnato per tutta la vita alla relazione di aiuto”. Rastello, per primo, si era accorto delle contraddizioni in seno al terzo settore e si era sforzato per superare quella logica descrittiva dove la vittima veniva riconosciuta solo attraverso la categoria della consacrazione del dolore. Restituire un quadro complesso che superi gli stereotipi implica una ricerca profonda e lo studio di un nuovo linguaggio che permetta che parole come “migranti” o “vittima” non rimangano delle gabbie all’interno delle quali si rinchiudono concetti e persone, degli spazi limitanti e limitati, dove l’altro esiste solo in funzione del nostro “io”. 1 P. Levi, Sommersi e salvati, Einaudi, Torino 1991, p. 34. 2 D. Fassin e R. Rechtman, L’impero del trauma, Meltemi, Milano 2020, p. 408. Luoghi non più comuni: “cura” di Emma Catherine Gainsforth Il Manifesto, 29 dicembre 2023 Dizionario di fine anno. La distanza che separa la solidarietà della cura dalla coesione sociale, in Italia tutelata dall’articolo 3, è manifesta se pensiamo al fatto che la giustizia redistributiva la si attua non con un generico volontarismo solidale ma tassando i ricchi. “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via”, cantava Battiato nel ‘97, con un brano, La cura, che avrebbe scalato le classifiche diventando una delle canzoni d’amore più note di sempre. Ci serve come punto d’ingresso, non per omonimia, ma per mettere a fuoco da subito ciò che il lemma “cura”, concetto meraviglioso nell’ambito dell’amore, ha di contraddittorio se declinato politicamente: un certo atteggiamento etico, una postura soggettiva, un cortocircuito tra significato descrittivo e rivendicazione programmatica. Le ambivalenze del concetto di cura sono state messe in evidenza da un breve testo di Nancy Fraser intitolato Crisis of Care Contradictions of Capital and Care (indicativamente tradotto in italiano come Fine della cura), pubblicato nel 2016, dunque ben prima che il lemma scalasse le nostre classifiche durante la pandemia grazie a un diffuso senso comune che si sostanziava nel decreto Cura Italia (marzo 2020) e in contemporanea, o a seguire, in una serie di testi prodotti invece “dal basso” - tra i più noti il Manifesto della cura del Care Collective inglese. Il testo di Fraser è utile perché se per un verso le ambivalenze, pure generative, del concetto di cura possono essere lette alla luce della storia dei femminismi che lo hanno interpretato in più modi (pensiamo per esempio al pensiero chiamato etica della cura o al femminismo della riproduzione sociale), la dinamica che Fraser chiama “collisione” non ha bisogno, per essere compresa, di una conoscenza del dibattito interno al femminismo. Ha piuttosto a che fare con un’ambiguità di natura storica, con la comprensione della fase in cui ci troviamo. Se distinguiamo tra capitalismo organizzato dallo stato, che emerge a metà del ventesimo secolo e si struttura come compromesso di classe e dunque come processo democratico, e regime neoliberale che prende avvio verso la metà degli anni ‘80 con la dismissione da parte dello stato del suo ruolo organizzativo - la società non esiste, esistono solo gli individui (e le famiglie) - il passaggio dal primo al secondo regime provoca un allineamento tra le contestazioni alle storture del primo modello - pensiamo alle critiche al welfare paternalistico e lavorista - e le esigenze di esternalizzazione delle funzioni organizzative e redistributive del secondo. La cura, i cui valori si fondano sulla partecipazione a cui è stata sottratta l’impalcatura che la garantiva, si trova sua malgrado ad allinearsi con le direttive che incoraggiano l’interdipendenza, la resilienza, le esperienze di autogestione. Se per Fraser “l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale”, la cura oggi può essere intesa come risposta ai processi di dismissione delle istituzioni democratiche che si presenta nella forma di una contestazione che asseconda la torsione post-democratica, occupandosi di attutirne gli effetti e creare le impalcature sociali necessarie allo smantellamento del pubblico. L’idea di cura si struttura lungo l’asse dell’interdipendenza, del mutuo soccorso, della solidarietà, della promiscuità, della rete affettiva, della “democrazia di prossimità”. E dunque: ecologie, sistemi di concatenazioni tra viventi, tecnologie e ambiente, fino ad arrivare alle pratiche “agroecologiche” e “agro-silvo-pastorali”. Se per un verso il Manifesto della cura riconosce che la “cura universale, non-mercificata e solidale” deve essere “principio organizzativo delle nostre società” e che “è necessario che lo stato se ne faccia carico”, il problema di fondo rimane un’interpretazione molto confusa di cosa sia pubblico. Il pubblico non è “interdipendenza” di prossimità - comunitaria, gruppale, affettiva - ma un’impalcatura di coesione sociale (principio alla base del servizio sanitario nazionale in Italia) il cui cardine è la tassazione progressiva. Il pubblico ha innanzitutto funzione redistribuiva: l’accesso ai servizi che garantiscono il diritto alla salute, come è stato notato dalle reti che si occupano di salute trans*, costituisce “reddito indiretto”. E se la memoria del portato democratico del pubblico, che istituisce la cittadinanza sganciata dalla nazionalità come qualcosa di esigibile, sembra essere più viva proprio presso le comunità escluse, è perché gli strumenti democratici di coesione non sono affatto empatici. La distanza che separa la solidarietà della cura dalla coesione sociale, in Italia tutelata dall’articolo 3, è manifesta se pensiamo al fatto che la giustizia redistributiva la si attua non con un generico volontarismo solidale ma tassando i ricchi - per citare il titolo del rapporto Oxfam 2023 sulle diseguaglianze nel mondo. Similmente, a illuminare la distanza tra empatia e giustizia sono le riflessioni che provengono dalle disability studies, che disambiguano le varie componenti della cura (cura, salute, lavoro) a partire dalla critica al difetto principale di tutte le epistemologie e/o ecologie della cura che si sviluppano dipanandosi a partire da chi cura anziché da chi la cura la riceve (e dunque anche: da chi alla cura non accede, e da chi la cura non può o non è in grado di darla). In questo caso individuare gli ambiti semanticamente meno vaghi in cui la cura è lavoro, contrattualizzato, stipendiato e riconosciuto, è un passaggio cruciale che ci ricorda indirettamente che il welfare è la sfera che sottrae i rapporti all’ambito amorevole e/o oppressivo delle relazioni interpersonali, di prossimità, comunitarie, familistiche. E dunque: la fine dello stato sociale non ha mai significato la fine dello stato, tutt’al più una coesistenza pacificata dello stato con un regime di domesticità diffusa che si sostituisce al pubblico: lascito della pandemia e dell’accelerazione neoliberale che ne ha approfittato, in una situazione di generale incapacità a produrre delle mobilitazioni in difesa del diritto alla salute. La critica al concetto di cura non prende di mira le esperienze di mutualismo o gli ambulatori popolari, ma individua il nesso teorico che presenta queste esperienze come contraddittorie per il capitale, alternative, e non invece complementari. Credere che i processi riparativi, che si prendono cura di ciò che il capitale distrugge, abbiano in sé valore di conflitto significa non vedere che ci stiamo collettivamente attrezzando con soluzioni pre-democratiche - la solidarietà del mutualismo ottocentesco - per un mondo sempre più post-democratico. Medio Oriente. Nessun posto è sicuro per i due milioni di palestinesi intrappolati nella Striscia di Francesca Mannocchi La Stampa, 29 dicembre 2023 I raid battenti dello Stato ebraico spingono la popolazione a scappare da una città all’altra. Ahmed era un bambino di nove anni. È arrivato nell’ospedale di al-Aqsa a Deir Al-Balah - dove sono stati portati molti dei feriti degli attacchi aerei israeliani - 4 giorni fa. È morto lì dopo essere arrivato da un’area che avrebbe dovuto essere sicura, dopo l’ordine di evacuazione israeliano. Lo ha testimoniato Gemma Connell, a capo della squadra umanitaria delle Nazioni Unite a Gaza, che è nella Striscia da settimane. Il 25 dicembre, in un’intervista a Reuters ha descritto la situazione come una “scacchiera umana” in cui migliaia di persone, sfollate già molte volte, vivono in fuga senza la minima garanzia di raggiungere un luogo sicuro. La notte di Natale nella zona centrale e meridionale di Gaza è stata una delle più sanguinose degli ultimi mesi. Intanto, un fiume umano continua a ricevere ordini di evacuazione dall’esercito israeliano e si muove in massa, in cerca di un riparo che si rivela impossibile, perché le aree designate come sicure si rivelano o rischiose come quelle da cui provenivano o così tanto popolate da non poter garantire sostentamento e riparo per tutti. Sono i numeri a parlare della tragedia umanitaria di Gaza. Secondo i dati delle Nazioni Unite 1.9 milioni di palestinesi - che corrisponde a circa l’80% della popolazione - sono stati sfollati interni. I bombardamenti indiscriminati di Israele sulla Striscia hanno danneggiato 250.000 unità abitative, e ne hanno distrutte 50.000, significa che più di un milione di persone, se pure i combattimenti cessassero domani, non avrebbero una casa sicura in cui tornare. L’offensiva israeliana sta spingendo la popolazione di Gaza sempre più a sud, la distruzione di case, infrastrutture civili, e i continui bombardamenti hanno reso Gaza ormai invivibile, col risultato che si sta delineando con crescente preoccupazione la possibilità di uno spostamento di massa dei palestinesi verso l’Egitto, prospettiva ancor più allarmante alla luce delle recenti, esplicite, dichiarazioni di funzionari israeliani che appoggiano l’ipotesi di quella che costituirebbe nei fatti una deportazione di massa senza una adeguata sistemazione ma soprattutto senza la garanzia, per centinaia di migliaia di persone, di un ritorno a casa una volta cessate le ostilità. “Spingere per la deportazione irreversibile di centinaia di migliaia di persone mina la risoluzione di questo conflitto in mezzo a decenni di crisi dei rifugiati. La comunità internazionale ha il dovere di condannare in modo inequivocabile qualsiasi spostamento forzato di palestinesi, sia all’interno sia all’esterno della Striscia di Gaza”. A parlare è Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati, che il 26 dicembre ha ribadito che il trasferimento e la deportazione forzata dei palestinesi oltre confine costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale, cioè “un crimine atroce”. A rafforzare le dichiarazioni di Egeland, i numeri diffusi ieri dall’Unrwa che, denunciando lo sfollamento forzato, ha parlato di oltre 150 mila persone “bambini piccoli, donne incinte, persone con disabilità e anziani che non hanno nessun posto dove andare” costrette a sfollare di nuovo dalle aree centrali della Striscia verso la parte meridionale. Dopo che le forze israeliane hanno rafforzato l’avanzata e intensificato le operazioni di terra nella settimana a cavallo di Natale, i civili sono in fuga anche dai popolosi distretti di Nusseirat, Bureij e Maghazi nel centro di Gaza e si sono diretti a sud o a ovest nella città già sovraffollata di Deir al-Balah, lungo la costa mediterranea, cercando riparo in accampamenti e tendopoli improvvisate, senza acqua e cibo a sufficienza. Metà degli abitanti di Gaza rischia la fame, e organizzazioni come Human Rights Watch e Oxfam, condannando le difficoltà di accesso degli aiuti umanitari nella Striscia, in questi tre mesi di guerra hanno più volte affermato che la fame viene usata come “arma di guerra contro i civili”. Sono stati distrutti o gravemente danneggiati i terreni agricoli, i mulini, i panifici e i magazzini alimentari. Dopo un mese dall’inizio della guerra, tutte le panetterie del nord di Gaza avevano chiuso per mancanza di fornitura di farina e carburante. La direttrice regionale di Oxfam per il Medio Oriente e il Nord Africa, Sally Abi Khalil, la settimana scorsa, in reazione al rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification), che avvertiva della possibilità di un’imminente carestia a Gaza, ha detto che “la scioccante discesa di Gaza verso la fame era così prevedibile da essere premeditata, un crimine di guerra in corso da parte del governo israeliano”. Gli attacchi israeliani hanno decimato il già fragile sistema alimentare di Gaza in modo così catastrofico che la maggior parte delle persone non è più in grado di nutrirsi. “È ripugnante e difficilmente concepibile nel 2023 che il cibo sia usato come arma contro donne, bambini e neonati, anziani e malati. L’orrore provato da una madre incapace di allattare il proprio figlio è l’orrore di Gaza oggi”, ha detto ancora Abi Khalil. I video delle ultime settimane ne sono la prova. Mostrano centinaia di palestinesi che circondano i camion di aiuti alimentari, acqua e rifornimenti. Un rapporto del Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) e Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani con sede nel campo profughi di Jabalia a Gaza, il 14 dicembre ha riferito che le persone vicino ai centri di distribuzione alimentare di Rafah dovevano aspettare in fila per dieci ore, per poi tornare a casa a mani vuote. Marwan, un palestinese fuggito verso sud con la moglie incinta e altri due figli piccoli ha dichiarato a Human Rights Watch di dover camminare ogni giorno per tre chilometri, col pericolo di essere colpito dai bombardamenti, per avere un litro d’acqua per i suoi bambini. Manca tutto, le squadre dell’Oms sul luogo descrivono persone distese sul pavimento in preda a forti dolori, in agonia, ma non chiedendo sollievo dal dolore. Chiedendo acqua. Non sono bastati, e sono del tutto insufficienti qualche centinaia di camion di aiuti entrati nella Striscia. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha chiesto “un flusso significativo, su vasta scala, ininterrotto e incondizionato di beni di prima necessità”. Ma anche quando i camion riescono a entrare, i blackout rendono impossibile organizzare la distribuzione degli aiuti perché senza reti telefoniche e connessioni internet, le agenzie umanitarie non riescono a coordinare la consegna degli aiuti già difficile perché non c’è abbastanza carburante. Nella città principale del sud di Gaza, Khan Younis, ieri si sono intensificati i bombardamenti e a essere colpita è stata l’area intorno all’ospedale, a ovest delle posizioni israeliane. È proprio la situazione delle infrastrutture sanitarie a essere la più allarmante. Secondo l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, la gravità delle ferite e l’enorme numero di pazienti stanno spingendo il sistema sanitario di Gaza a un punto di rottura anche a Sud, dopo il collasso nel nord. Chris Hook, a capo dell’équipe medica di MSF a Gaza, descrive medici che scavalcano i corpi dei bambini morti “per curare altri bambini che moriranno comunque”. Oggi, secondo l’Oms solo 15 dei 36 ospedali della Striscia funzionano a pieno regime. Nell’ospedale di Al Aqsa, nella zona centrale di Gaza, dove opera Msf dal 1 all’11 dicembre, dopo la fine della pausa delle operazioni militari, circa un paziente su tre (640 su 2.058) è stato dichiarato morto all’arrivo. Nella sola giornata del 6 dicembre, il numero delle persone arrivate morte all’ospedale ha superato il numero dei feriti. Dal 7 ottobre, nella Striscia di Gaza sono morte 20.900 persone e 55 mila sono rimaste ferite. La maggior parte sono donne e bambini. Mentre i palestinesi continuano a contare i morti, il primo ministro israeliano Netanyahu ha promesso di continuare la guerra “fino alla completa distruzione di Hamas”, incurante delle pressioni degli alleati. A conferma delle dichiarazioni di Netanyahu, le parole del ministro della Difesa Gallant e del capo di Stato maggiore Halevi: “L’offensiva a Gaza andrà avanti per mesi se non per anni”. Andrà avanti e intanto si intensifica, il numero dei morti cresce ed è sempre più chiaro che non esista un posto sicuro a Gaza. Medio Oriente. Cnn: “Almeno due bambini tra i detenuti in uno stadio” di Umberto De Giovannageli L’Unità, 29 dicembre 2023 Accade allo Yarmouk Stadium di Gaza city. L’Unicef: “Nel 2023 record di bambini uccisi in Cisgiordania”. Gaza come Santiago. Cnn: “Un video mostra uomini e bambini palestinesi detenuti nudi in uno stadio” Uomini ma anche donne e almeno due bambini sarebbero stati detenuti e spogliati dalle Forze di difesa israeliane (Idf) in uno stadio nel nord di Gaza. Sono le immagini mostrate in un video dalla Striscia commentato dalla Cnn. L’emittente statunitense spiega di non essere in grado di verificare quando il filmato è stato girato, ma sostiene di averlo geolocalizzato allo stadio Yarmouk di Gaza City, dove l’ong Euro-Mediterranean Human Rights Monitor ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di detenzioni. L’Ong sostiene di aver avuto informazioni che l’esercito israeliano sta detenendo centinaia di palestinesi del quartiere Sheikh Radwan di Gaza City, tra cui decine di donne che sono state portate allo stadio Yarmouk. Un fotogramma del video mostrerebbe “quelli che sembrano essere due ragazzi, spogliati fino alla biancheria intima, che camminano e tengono entrambe le mani in alto mentre le Idf li dirigono nello stadio” racconta il media Usa aggiungendo che “in un altro filmato, due figure che sembrano essere gli stessi ragazzi spogliati appaiono con le mani sopra la testa, mentre sono allineati in fila indiana con altri maschi che sembrano essere adolescenti e adulti”. In un altro momento del video ci sarebbero anche “donne e altri bambini detenuti”: “In un’inquadratura, si vedono tre donne completamente vestite, bendate e con le mani legate dietro la schiena, sedute sull’erba davanti a una porta da calcio dello stadio. Si vede una bandiera israeliana appesa alla porta da calcio” racconta la Cnn, che riferisce anche di aver contattato l’Idf, ma di non aver “ancora ricevuto risposta”. “Maschi palestinesi, compresi bambini di 10 anni ed anziani ultra settantenni, sono costretti a togliersi tutti i vestiti e rimanere in mutande e allinearsi in modo umiliante di fronte alle donne detenute nello stadio”, denuncia la Ong che chiede alla comunità internazionale di indagare sulle immagini che arrivano dallo stadio Yarmouk. Il video è stato caricato su Youtube il 24 dicembre da Yosee Gamzoo Letova, fotografo e artista secondo il suo profilo Facebook. Ashraf al-Qudra, portavoce del ministero della Salute a Gaza gestito da Hamas, ha fatto sapere che il bilancio nella Striscia è salito a 21.320 morti dallo scorso 7 ottobre ad oggi, mentre i feriti sono 55.603. Il kibbutz Nir Oz ha annunciato ieri di aver appreso che una dei suoi membri, Judy Weinstein Haggai, 70 anni, è stata uccisa da Hamas e che il suo corpo è rimasto a Gaza assieme a quello del marito Gadi, di 72 anni. I coniugi erano stati rapiti dal kibbutz il 7 ottobre e, a quanto risulta adesso, furono uccisi dai loro sequestratori il giorno stesso. Finora era ritenuta dispersa. Judy Weinstein era una insegnante di inglese, madre di quattro figli e nonna di sette nipoti. In particolare si dedicava alla assistenza di bambini vittime di stress a causa dei continui lanci di razzi palestinesi contro le loro case. “Predicava la pace e la fratellanza”, ha scritto di lei il suo kibbutz. Non solo Gaza. Unicef: il numero di bambini uccisi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, ha raggiunto livelli senza precedenti Dichiarazione della Direttrice regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa Adele Khodr “Quest’anno è stato il più letale mai registrato per i bambini in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, con la violenza legata al conflitto che ha raggiunto livelli senza precedenti. 83 bambini sono stati uccisi nelle ultime dodici settimane - più del doppio del numero di bambini uccisi in tutto il 2022, tra l’aumento delle operazioni militari e l’applicazione della legge. Più di 576 sono stati feriti e, secondo le notizie, altri sono stati arrestati. Inoltre, la Cisgiordania è stata pesantemente colpita da restrizioni di movimento e di accesso. Mentre il mondo guarda con orrore alla situazione nella Striscia di Gaza, i bambini della Cisgiordania stanno vivendo un loro incubo. Vivere con una sensazione quasi costante di paura e dolore è, purtroppo, fin troppo comune per i bambini colpiti. Molti riferiscono che la paura è diventata parte della loro vita quotidiana, e molti hanno paura persino di andare a scuola o di giocare all’aperto a causa della minaccia di sparatorie e altre violenze legate al conflitto. L’Unicef è estremamente preoccupato per il diritto dei bambini della Cisgiordania e di Gerusalemme Est alla sicurezza e alla protezione e per il loro diritto a vivere. I bambini che vivono in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, subiscono da anni una violenza logorante, ma l’intensità di questa violenza è aumentata drammaticamente dopo gli orribili attacchi del 7 ottobre. La violenza legata al conflitto ha ucciso 124 bambini palestinesi e 6 bambini israeliani dall’inizio del 2023. Le gravi violazioni contro i bambini, in particolare le uccisioni e le menomazioni, sono inaccettabili. L’Unicef esorta tutte le parti a rispettare gli obblighi previsti dal diritto internazionale dei diritti umani e a proteggere i bambini dalla violenza legata ai conflitti e a tutelare il loro diritto più elementare, semplicemente quello di poter vivere”. “La sofferenza dei bambini in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, non deve passare in secondo piano rispetto all’attuale conflitto - è parte di esso”. Capo Pasdaran a funerale Mousavi: “Vendetta sarà dura” “Non rimarremo in silenzio sugli attacchi e sul martirio dei nostri connazionali, la nostra vendetta sarà seria e dura e porrà fine all’entità sionista”. È la minaccia lanciata dal capo dei Guardiani della Rivoluzione islamica iraniani, il generale Hossein Salami, al funerale di Sayyed Razi Mousavi, uno dei più alti comandanti dei Pasdaran in Siria, ucciso in un raid lunedì nei pressi di Damasco. Nel corso dell’elogio funebre, Salami ha anche ribadito come l’operazione “Alluvione di al-Aqsa”, lanciata da Hamas con il massiccio attacco del 7 ottobre in Israele, è “puramente palestinese. La Palestina è capace di questa operazione e l’ha portata avanti da sola”. L’iniziativa “è il risultato dell’assalto alla moschea di Al-Aqsa e ai palestinesi” da parte di Israele, “è il prodotto della sofferenza palestinese, di una reazione all’occupazione e alle sue pratiche” ha aggiunto Salami. Ai funerali ha partecipato la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, che i ne ha onorato la “lotta instancabile” e lo ha ricordato come un martire. Israele: “Finché Erdogan sarà presidente, non avremo più un ambasciatore in Turchia” “L’ambasciatore israeliano non tornerà” ad Ankara “fin quando Recep Tayyip Erdogan sarà presidente della Turchia”. Sono le parole degli Esteri israeliano Eli Cohen all’emittente israeliana Reshet Bet, rilanciate dal giornale Haaretz. Cohen ha contestato il “comportamento irresponsabile” del leader turco, accusato di “schierarsi con Hamas” dopo le dure critiche di Erdogan al premier israeliano Benjamin Netanyahu accusato di “comportarsi come Hitler” mentre prosegue l’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre in Israele. Messico-Usa, emergenza migranti alla frontiera: fino a diecimila arresti al giorno di Massimo Basile La Repubblica, 29 dicembre 2023 Ora arrivano non solo dal Sudamerica, ma anche da Africa e Asia. L’amministrazione Biden ha però confermato le restrizioni imposte da Trump. E la polizia del Texas potrà arrestare chi entra illegalmente. Scappano dalla guerra in Sudan e arrivano al confine tra Messico e Stati Uniti dopo aver evitato l’abbraccio mortale delle gang del Centramerica e dei cartelli della droga messicani. Quando attraversano il confine, camminando per ore nel deserto, a volte a piedi nudi, hanno due certezze: la fame e il freddo. Nient’altro. L’emergenza migranti ha raggiunto livelli record: ci sono fino a diecimila arresti al giorno, un numero che sovrasta quello degli agenti che pattugliano la frontiera. L’anno scorso erano stati circa 200mila al mese i migranti illegali fermati dalle pattuglie in Texas. A dicembre il totale potrebbe superare i 300mila. Arrivano dall’Africa, dall’Asia e, naturalmente, dal Sudamerica, spinti da violenza, disperazione e miseria. Abdoul, 32 anni, è arrivato dall’Africa occidentale ed è stato respinto, dopo aver passato settimane in un carcere nella zona remota del Texas. “Ho passato molte ore senza dormire - confessa all’agenzia Ap - seduto per terra”. Abdoul è un attivista politico scappato dalla Mauritania. Izzedin, 32 anni, arriva dal Sudan e si è accampato in Arizona, dove i volontari forniscono coperte e caffè. “Siamo venuti fino a qui - confessa - in cerca di protezione”. Nessuno indica il cognome per paura di rappresaglie verso i familiari rimasti a casa. Izzeddin parla di persone uccise nel suo Paese, stuprate. Il figlio di 7 anni di Mariela Amaya non capisce perché ha passato il Natale all’aperto, mangiando mortadella e pomodori. “La gente - spiega - non capisce che affrontiamo tutto questo per avere una vita migliore”. Da marzo il Texas permetterà anche alla polizia locale di arrestare i migranti entrati illegalmente. I giudici avranno potere di espellerli con procedura abbreviata. È una sfida alla Casa Bianca, ma anche conseguenza del clima che si respira in America: i migranti sono emergenza umanitaria e minaccia elettorale. Per questo nel passaggio da Donald Trump a Joe Biden, la storia non sembra cambiata: l’attuale amministrazione americana ha confermato le restrizioni adottate da quella precedente, finendo per scontentare la stessa base democratica. Richiedere asilo è molto difficile, chi viene intercettato è rispedito indietro in attesa che il suo caso venga affrontato da una corte, ma è chiaro che ricacciare indietro le persone vuol dire chiudere loro la porta. In teoria può arrivare il via libera da un giudice e non avere nessuno a cui comunicare la decisione. Anche sul fronte opposto, quello dei controlli, si vive un fallimento, seppure di natura diversa. Le pattuglie che perlustrano centinaia di chilometri di confine non hanno mezzi sufficienti. “È un disastro umanitario”, confessa al New York Times il comandante Scott Carmon. A maggio Biden aveva parlato di flusso in calo, ma negli ultimi mesi i numeri sono tornati a crescere, campanello d’allarme per i Democratici in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Nel 2021 avevano raggiunto il confine sud del Texas in 1,2 milioni. L’anno scorso, in un milione e mezzo. “In termini di migranti al giorno - spiegano gli analisti americani - il mese di dicembre di quest’anno ha una media mai vista”. Il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, da mesi invia i migranti nelle “città santuario”, a guida democratica, per metterle in ginocchio. New York, dopo mesi di accoglienza, sta cedendo in queste ore. Il sindaco Eric Adams ha dichiarato che non verranno accettati nuovi arrivi, perché non c’è più posto. Abbott non si ferma: la scorsa settimana ne ha mandati altri 120 a Chicago. Lungo il Rio Grande, una delle direttrici della migrazione, sono arrivati membri della Guardia Nazionale della Florida. I Repubblicani stanno condividendo la “solidarietà delle manette”, in contrasto con quella “dell’accoglienza” delle amministrazioni progressiste. Il segretario di Stato Antony Blinken è andato in Messico per discutere con le autorità locali l’incremento della migrazione. Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha accettato di accogliere i migranti arrivati da Venezuela, Nicaragua e Cuba e respinti alla frontiera. Il governo messicano sostiene di aver intercettato, nei primi undici mesi dell’anno, 680mila persone dirette in Texas. Numeri che oscurano le vite reali delle persone che dietro quei numeri si nascondono. Soprattutto i bambini: molti, non accompagnati, arrivano dalle zone rurali del Centramerica, travolte dalla crisi economica legata alla pandemia, come il Guatemala, dove il lavoro è scomparso e il prezzo del pane decuplicato. Dieci anni fa arrivavano per essere uniti ai loro genitori, già sistemati negli Stati Uniti, adesso non hanno ufficialmente chi li manda e chi li aspetta, ma a loro spetta il compito di sopravvivere, trovare lavoro e aiutare chi è rimasto a casa. Migliaia, quando riescono a superare il confine stretti nei carri bestiame zeppi di migranti, finiscono per alimentare la manovalanza minorile nelle fabbriche e nei mattatoi dell’America rurale, la stessa che ama Trump per la sua guerra ai migranti, e poi fa soldi sfruttandoli in nero.