Diecimila detenuti in più dopo un anno di frenesia punitiva di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 28 dicembre 2023 Quando i tassi di sovraffollamento divengono così alti, ogni detenuto perde la sua identità ed è ridimensionato a numero di matricola. C’è un numero che caratterizza il 2023 penitenziario: 10.000. Sono almeno 10 mila le persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri italiane. Numeri freddi che significano: condizioni igienico-sanitarie deteriorate, riduzione delle possibilità di contatto con gli operatori sociali, tensioni, stress, assenza di spazi vitali. Quando i tassi di sovraffollamento divengono così alti ogni detenuto perde la sua identità ed è ridimensionato a numero di matricola. Viene spersonalizzato, così compiendo quel processo di istituzionalizzazione coatta che costituisce, malgrado la buona volontà di molti operatori, l’essenza della risposta carceraria. Il racconto dell’ultimo anno è all’insegna della frenesia punitiva e disciplinare del Governo che è tracimata oltre il sistema penale, andando a colpire anche altri mondi come quello della giustizia minorile, della scuola, dell’immigrazione. Sono finiti sotto il mirino della repressione: donne detenute in stato di gravidanza, minorenni che commettono reato, attivisti politici, detenuti che disobbediscono con forme di resistenza passiva, studenti, consumatori di sostanze. Dunque, ben si comprende quale è il target dell’azione repressiva: da un lato i soggetti socialmente vulnerabili, dall’altro i più giovani. Evidentemente si teme il sapere critico delle nuove generazioni. Una foto, un detenuto che non c’è più, un poliziotto e un matematico sono le immagini del 2023. La foto è quella del settimo reparto di Regina Coeli di Roma, così come l’ha descritta il garante della Regione Lazio Stefano Anastasia. Un luogo che dovrebbe essere immediatamente chiuso in quanto indecoroso. È un reparto utilizzato per ragioni disomogenee: dal transito all’isolamento disciplinare, sino al confinamento sanitario. I detenuti non escono praticamente mai dalla cella. E come ha denunciato Anastasia i detenuti sono costretti a vivere in celle “prive di suppellettili, con una branda ancora parzialmente carbonizzata da un precedente incendio, la finestra che è stata forzata per poterla aprire, il bagno senza porta”. Manca tutto, a volte anche le coperte. Si arriva a mangiare per terra. Si possono incontrare detenuti sopraffatti dall’uso di psicofarmaci. Quella sezione va chiusa. E non c’entra nulla con il glorioso passato di Regina Coeli, con il suo essere un bene architettonico. Quel luogo è un prodotto dell’uomo e non della storia o del Tevere. Invito le autorità ispettive dell’amministrazione penitenziaria, i parlamentari e i consiglieri regionali a visitarlo e a ottenerne la chiusura, la ristrutturazione, l’umanizzazione. Il detenuto che non c’è più e Fakri Marouane. Morto per essersi dato fuoco nel carcere di Pescara dopo avere coraggiosamente testimoniato per le presunte torture subite in occasione delle brutalità commesse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 2020. Il suo nome va ricordato. La sua dignità preservata al pari del suo coraggio di denunciare le illegalità subite e viste. Sarebbe significativo se in sua memoria ci fosse un ricordo pubblico, nel nome della lotta alla tortura. Il poliziotto Francesco Mondello è un grande uomo che da anni a suon di rock aiuta i detenuti di Bollate nel sogno di trasformarsi in una grande band musicale. Li accompagna fuori dal carcere ogni volta che ce ne è bisogno. Lui è l’emblema di quei tanti agenti, educatori, direttori che ogni giorno cercano di tradurre in fatti le parole scritte all’articolo 27 della Costituzione. Il matematico è Mauro Palma. Per sette anni ha rivestito l’incarico di Garante nazionale delle persone private della libertà, esercitando con tenacia, rigore e qualità da tutti riconosciute (da ultimo anche dal Presidente della Repubblica che lo ha insignito Grande Ufficiale) una funzione difficile in anni complessi e a volte bui. Ha terminato il suo mandato. Ma siamo certi che non è finito il suo impegno per una società meno violenta e afflittiva. *Presidente dell’Associazione Antigone Polveriera carceri, il dramma del sovraffollamento: così aumentano tensioni e suicidi di Francesco Grignetti La Stampa, 28 dicembre 2023 Quattromila detenuti in più in un anno, è l’effetto della sospensione dei benefici introdotti durante il Covid. Il sovraffollamento nelle carceri italiane significa tante piccole cose negative. Gli spazi della cella si fanno sempre più angusti. I letti a castello si arrampicano all’insù. Il bagno della cella va diviso con più compagni di prima. E così, prevedibilmente, aumentano le tensioni. Ormai è un bollettino quotidiano di aggressioni, di tentati suicidi (e drammaticamente sono tantissimi quelli che ci riescono a farla finita), di liti. La situazione è sempre più al limite. Parlano i numeri: a fine novembre, risultavano 60.116 detenuti a fronte di 51.272 posti regolamentari. Da un anno all’altro, sotto il governo Meloni, si registrano 4 mila detenuti in più. La spiegazione di questo trend è banale. Non c’entrano i nuovi reati, annunciati con toni stentorei, perché le celle non si sono affatto saturate di organizzatori di rave o di scafisti inseguiti lungo l’orbe terracqueo. C’entra piuttosto la misconosciuta sospensione della corsia preferenziale verso i benefici carcerari (che permettevano discreti periodi fuori dal penitenziario) istituita con il Covid. Le statistiche, però, ingannano: ci sono carceri dove il rapporto tra persone ristrette e spazi è accettabile, altre dove è esplosivo. Il giorno di Natale, per dire, i radicali e alcuni avvocati sono andati alle Vallette di Torino. Uscendo, ha raccontato Mario Barbaro, del partito radicale: “Il sovraffollamento è molto elevato: sono presenti poco meno di 1.400 detenuti su una capienza regolamentare di circa 1.000, dato pressoché stabile nella sua gravità. Anche l’organico di polizia penitenziaria è sottodimensionato: circa 700 agenti rispetto a una pianta organica di circa 900”. Numeri altissimi. E un generale degrado delle celle. “Si comprende bene il difficilissimo compito che la polizia penitenziaria deve affrontare ogni giorno. Solo quest’anno sono una quarantina le aggressioni fisiche ai danni del personale”. L’associazione Antigone è preoccupata del clima che si respira nelle carceri. “L’irrigidimento normativo del governo Meloni - spiega il presidente Patrizio Gonnella - è forte, ma data la cronica lentezza della giustizia ne vedremo gli effetti sul carcere solo tra due o tre anni. Nel frattempo, però, avendo sospeso i benefici straordinari del Covid, a parità di entrate si stanno riducendo le uscite perché meno detenuti riescono ad accedere alle misure alternative”. Il Covid per paradosso aveva permesso anche alcune novità positive: più telefonate e più videochiamate a casa. Sembra poca cosa, per chi è fuori. È tantissimo per chi è dentro. Ma questo ritorno all’indietro ha comportato anche un forte contraccolpo psicologico. Chi frequenta il carcere racconta che si è irrigidita la vita interna e puntualmente sono aumentate le tensioni. Ciò significa l’aumento dei rapporti disciplinari. Di contro, mancando le condizioni della “buona condotta”, molti non possono più beneficiare dei benefici della legge del 1975. La “buona condotta”, infatti, permette dei conteggi molto favorevoli quando si sconta la pena. Si cancellano 45 giorni ogni sei mesi di pena, pari a 3 mesi per ogni anno. Il sovraffollamento, insomma, può essere considerato un effetto e non una causa delle tensioni. Ma ovviamente alla lunga il sovraffollamento diventa causa di altre tensioni. E così il carcere rischia di finire in una spirale che non può portare nulla di buono. Dice ancora Gonnella: “Nel tempo è anche cambiata l’antropologia del detenuto. C’è meno criminalità organizzata e più sottoproletariato composto da migranti, drogati, sbandati. Gente che non “sa farsi la galera”, come si diceva una volta”. Gennarino De Fazio è un sindacalista Uil della polizia penitenziaria. Il suo resoconto è drammatico: “Come se non fosse già troppo, si aggiunga l’inefficienza del servizio sanitario, la non gestione dei detenuti con patologie psichiatriche, con malati di mente pressoché abbandonati a sé stessi e, non di rado, trattenuti in carcere senza un titolo giuridico. E il lugubre quadro dell’illegalità del sistema è dipinto”. La Polizia penitenziaria si trova proiettata in primissima linea, pur con gravi carenze di organico. La sicurezza interna è spesso compromessa. Commenta De Fazio: “Incidono sulla sicurezza i reati commessi in carcere, i rapporti con l’esterno per gli appartenenti alla criminalità organizzata, le risse, talvolta gli omicidi fra i ristretti, le aggressioni nei confronti degli operatori (oltre 4 al giorno quelle più gravi), le rivolte, le evasioni e non ultimo il tragico fenomeno dei suicidi che riguarda sia i reclusi sia gli operatori”. Un quadro devastante. Contro la dignità perduta in cella numero chiuso e liste d’attesa di Donatella Stasio La Stampa, 28 dicembre 2023 Il governo dei record. Negativi. Giorgia Meloni batte i suoi predecessori non solo per numero di decreti legge e voti di fiducia ma anche per numero di nuovi reati, pensate, uno al mese, quasi tutti introdotti per decreto, già 15, in un crescendo impressionante. Ed ecco che anche un terzo record si profila all’orizzonte, sul sovraffollamento delle patrie galere, e sarà un record europeo, o quasi, se di qui alla fine della legislatura non dovessero esserci inversioni di marcia nelle politiche penali, penitenziarie, sociali. La popolazione detenuta sta crescendo al ritmo di oltre 400 presenze al mese e al 6 dicembre era di 60.232 reclusi, con un tasso di crescita del 7% e di sovraffollamento del 126%, ma con punte del 165% in Puglia e del 152% in Lombardia. Tutto ciò, attenzione, nonostante le misure alternative alla detenzione, le misure di comunità e le pene sostitutive: in tutto 84.023 persone già sottratte al circuito carcerario. Di questo passo, fra qualche mese l’Italia tornerà indietro di dieci anni, quando fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza Torreggiani) per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti proprio a causa del sovraffollamento record (62.536 presenze) che non garantiva condizioni di vita dignitose. Allora, la Corte costituzionale fu a un passo dal sancire il “numero chiuso” e le liste d’attesa nelle carceri sold out (tecnicamente, il rinvio dell’esecuzione della pena). Oggi è di nuovo, e di più, emergenza. Ma il governo non la vede arrivare. Basta fare un giro nei penitenziari per verificare l’abbandono delle carceri. Sempre più fatiscenti, sempre più chiuse, all’esterno e all’interno, sempre più oziose e malate, 149 i morti, 67 i suicidi, piene di poveri, immigrati, malati psichiatrici, di persone tossicodipendenti e anche di minori stranieri. Con una capienza effettiva di 47.683 posti, ci sono 12.549 detenuti “in più”, tanto che i nuovi giunti spesso dormono su materassi a terra. Non sappiamo esattamente quanti siano perché, a differenza di altri Paesi come la Francia dove il “matelas au sol” viene dichiarato dal ministero della Giustizia, da noi non ce n’è traccia nei rapporti ufficiali di via Arenula. Sappiamo però che la situazione è gravissima ovunque, in particolare in Puglia e in Lombardia, ma anche in Veneto, nel Lazio, in Basilicata, Friuli e in molte altre regioni; sappiamo che a Brescia Canton Mombello il tasso di sovraffollamento è del 215%, a Foggia del 203, a Como del 200 e poco meno a Taranto, Grosseto, Busto Arsizio, Bergamo, Lodi, Monza... Sappiamo che i detenuti vivono oltre ogni ragionevole limite compatibile con gli spazi legali e con le prescrizioni costituzionali del rispetto della dignità e della funzione rieducativa della pena. Ma che valore ha, oggi, la Costituzione? Domanda più che legittima visto che non solo il carcere è tornato in larga parte al regime delle “celle chiuse” ma, soprattutto, è tornata in auge proprio l’idea che i detenuti debbano marcire in galera, chiusi a doppia mandata, e che la chiave debba essere buttata per tutta la durata della detenzione, altrimenti non è carcere. E ciò, in ossequio a una promessa di sicurezza tanto illusoria quanto ingannevole. Giustizia come vendetta, insomma. Non ce n’è traccia nella Costituzione ma questo è quel che piace alle destre di governo, con tanti saluti e grazie alla civiltà del diritto conquistata nel dopoguerra, in Italia e in Europa, di cui le Costituzioni e le democrazie costituzionali sono figlie. In questo smarrimento collettivo dei valori costituzionali, una lezione ce l’ha data Manuela Mareso, la moglie di Marco Nebiolo, massacrato di botte da un ragazzo di 16 anni dopo un tamponamento. Subito Matteo Salvini aveva twittato che il codice della strada non basta, che ci vuole il carcere, come se già non ci fosse... “Mi demoralizza il suo modo di alimentare e spargere ignoranza in un Paese dove credo ce ne sia già abbastanza, usando slogan che vanno alla pancia delle persone e fomentano solo odio e rancori - aveva riflettuto mesta Manuela -. Provo una sensazione di scoramento. Non credo che a quel ragazzo possa servire il carcere. Forse ne uscirebbe peggiore. Probabilmente gli sarebbe servita un’altra famiglia”. Lo “scoramento” di Manuela Mareso ricorda lo “sconforto” dei detenuti di cui parla la Corte di Strasburgo nella sentenza Torreggiani come effetto del sovraffollamento: quella sensazione di abbandono che può diventare patologica e portare all’isolamento, all’aggressività verso gli altri e verso se stessi, fino al suicidio. Il carcere diventa ancora più patogeno e criminogeno. Si potrebbe obiettare che con il suo tasso di carcerazione per 100 mila abitanti l’Italia non è fuori scala. Ma quand’anche fosse così, resta il totale abbandono delle carceri, sia come stato dei luoghi sia come servizio funzionale al reinserimento sociale del detenuto, che è poi l’obiettivo costituzionale della pena. Non c’è un piano, una strategia, uno sguardo lungo, ma indifferenza, slogan, propaganda su caserme e nuove carceri. La realtà è che nel 2026 avremo solo 8 nuovi padiglioni da 80 posti, ovvero 640 posti letto regolamentari aggiuntivi, a fronte di un’”eccedenza” che già oggi è di 12.549 persone. In questa situazione, è prevedibile che l’Italia incorra in una nuova condanna della Corte di Strasburgo. E chissà, magari è proprio questo che aspetta il governo, per essere “costretto” a fare qualcosa di “impopolare”: rendere il carcere a misura di Costituzione. Oppure si aspetta la Consulta, se qualche giudice solleverà la questione. Nel 2013, la Corte presieduta da Gaetano Silvestri ammise, con la sentenza 279 scritta da Giorgio Lattanzi, che il problema esisteva ed era strutturale, ma concluse che spettava al legislatore risolverlo perché le soluzioni erano molteplici, dalle “liste d’attesa” a un più esteso ricorso alle misure alternative. Sottolineò però la necessità di individuare un “rimedio estremo” da attivare quando le misure interne non bastano e che “permetta una fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità”. La Corte si astenne dal decidere direttamente perché la risposta non era “a rime obbligate”, proprio per la pluralità di soluzioni possibili. Oggi, però, forse le conclusioni potrebbero essere diverse. Non solo perché, nel frattempo, né l’incremento delle misure alternative alla detenzione né l’applicazione delle pene sostitutive hanno impedito l’attuale emergenza, ma anche perché negli ultimi anni la Corte ha superato le cosiddette “rime obbligate” di fronte a diritti fondamentali violati e alla necessità di tutelarli, senza invadere il campo del legislatore. È accaduto, ad esempio, con la sentenza 40 del 2019, che ha rideterminato la pena in materia di droghe ispirandosi a sanzioni già previste dall’ordinamento nella stessa materia. La Corte potrebbe dunque mettere in mora il legislatore fissando un termine stretto e, in caso di inerzia, far scattare una delle soluzioni già previste dall’ordinamento. La dignità è, o non è, il diritto dei diritti? L’estrema urgenza della situazione non giustifica inerzie legislative. E allora, si cominci anche a ragionare sul numero chiuso, sulle liste d’attesa. Si cominci a “liberare” il carcere dalle persone che non dovrebbero starci: psichiatrici, tossicodipendenti, immigrati irregolari, poveri e detenuti con pene fino a due anni (sono 20 mila). Tutte persone per le quali il carcere, questo carcere, non può avere alcuna funzione rieducativa e che potrebbero scontare la pena in luoghi diversi, come ha ripetutamente proposto Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ormai scaduto dal mandato (e appena insignito dal presidente della Repubblica dell’onorificenza di Grande ufficiale della Repubblica). Uno sguardo e una voce che ci mancheranno. Il dramma nelle carceri tra solitudine e suicidi di Marzia Amaranto Il Riformista, 28 dicembre 2023 Sullo sfondo c’è anche la costante condizione di sovraffollamento. Non va dimenticato che servono vere opportunità di reintegrazione nella società al termine della pena. Le festività e in particolare quelle natalizie, per i detenuti in carcere accentuano inevitabilmente il senso di solitudine e lontananza dalle famiglie, nella più totale assenza di attività mirate alla rieducazione e il reinserimento in società. Ebbene a causa delle ferie del personale già sotto organico durante l’anno e della sospensione di corsi scolastici e attività lavorative, la vita in cella diventa insopportabile e fatta di malattie, debolezze, emarginazione e dolore. Negli istituti penitenziari italiani i detenuti che si tolgono la vita hanno una frequenza di 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e questo purtroppo accade nelle carceri dove le condizioni di vita sono peggiori, con strutture particolarmente fatiscenti e poche attività riabilitative. A supplire, seppure in minima parte a questo dramma sono i volontari del Terzo settore, della Chiesa, le comunità come Santo Egidio e l’ONG Nessuno Tocchi Caino. Ed è proprio con l’avvicinarsi delle festività che spietatamente torna l’appuntamento con la morte, con 68 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, l’Italia è sempre più vicina all’amaro record risalente al 2022 con 84 casi. La decisione di porre fine alla propria vita da parte di detenuti non può risolversi semplicemente come mero risultato di dolorosi percorsi personali, ma rappresenta un vero e proprio fallimento per lo Stato e le sue istituzioni, che privando la persona della libertà e assumendosi l’obbligo di garantire una vita dignitosa e di salute, finanche in costanza di detenzione, non sono state in grado di comprendere il disagio profondo, privando del necessario supporto. Nel campo della prevenzione manca un’attenta analisi sui trascorsi delle persone che si sono suicidate. Accomuna certamente la mancanza di prospettive - seppure con situazioni diverse tra loro - di riottenere la dignità persa, l’impossibilità di liberarsi del “marchio” di condannato. Nessuna prospettiva durante il tempo della detenzione, trascorso lentamente in attesa del fine pena. Nessuna prospettiva di tornare a vivere una vita normale, per chi si è trovato nella situazione di dover entrare ed uscire troppe volte dal carcere e vive la condanna anche in libertà, di una vita ai margini della società, fatta di solitudine e sofferenza psicofisica. Un suicidio in istituto penitenziario non è affatto una vicenda privata o circoscritta ad un problema del singolo carcere, ma è un evento di rilevanza sociale e politica, riguardo al quale l’intera società deve necessariamente interrogarsi, sulle cause e sulle possibili misure di contrasto da adottare. Non vi sono tracce di dubbi che tra i motivi vada annoverata sin anche la costante condizione di sovraffollamento carcerario, con un tasso medio di sovraffollamento calcolato del 120% e con punte drammatiche del 160% in Puglia. Purtroppo nessun miglioramento appare all’orizzonte, cadendo nel dimenticatoio di chissà quale cassetto persino la proposta di legge d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti, presentata il 7 settembre 2020 e riguardante la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata, pari a settantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata. Eppure il trattamento disumano e degradante in carcere si potrebbe evitare garantendo la superficie di tre metri quadrati per detenuto, evitando violazioni così clamorose. Colpisce la decisione presa dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di diversi solleciti presentati dal difensore a partire dal 2017, sulle condizioni disumane e degradanti subite durante la detenzione di Alfonso Iacolare, conosciuto come il ras dei Casalesi e il riconoscimento di 157 giorni di sconto di pena. Istanza del difensore che ha evidenziato con dati alla mano le carenze e difficoltà delle carceri di Santa Maria Capua Vetere e di Ancona. Centrate le problematiche non è così difficoltoso comprendere quali possono essere le strade praticabili per poter ridurre al minimo il rischio che un detenuto si possa privare della vita, nella pur sempre consapevolezza che tante situazioni personali possano sfuggire ad ogni tentativo di comprensione. Il primo punto è la imprescindibile tutela della dignità sociale di chi si trova in carcere in attesa di processo. Oggi basta un avviso di garanzia per indagini in corso per far partire lo show mediatico e far dimenticare il principio della presunzione d’innocenza, con un certo protagonismo di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine e dei giudici inquirenti, che ravvisano il momento giusto per annunciare i “successi” nella lotta alla criminalità, salvo poi giungere a sentenza di assoluzione dopo anni di processi. Il secondo punto riguarda la “qualità della pena”, il sovraffollamento e la mancanza di operatori non devono diventare il pretesto per bloccare l’attivazione di laboratori e corsi di formazione. E infine l’ultimo ma non meno importante punto sono le vere opportunità di reintegrazione nella società al termine della pena. “È boom di crack” nelle grandi città. Dove le carceri scoppiano di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2023 Carcere e droghe. “Raddoppiati i sequestri dal 2019 ad oggi” secondo la Direzione centrale antidroga. Leopoldo Grosso, Gruppo Abele: “In aumento povertà e abuso. Nelle celle l’onda lunga”. Sono la Lombardia (con 8.733 detenuti in 6.152 posti regolamentari), il Lazio (6465 reclusi in 5334 posti) e la Campania (7303 persone per 6171 letti) le tre regioni a cui va il primato del sovraffollamento carcerario, tornato di nuovo a livelli di allarme. Non a caso sono le regioni più popolose d’Italia, con le metropoli più grandi, dove il consumo di stupefacenti è maggiore e dove sono più comuni i reati per droga. È un dato - disponibile sul sito del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), aggiornato al novembre 2023 - che colpisce, soprattutto se associato all’allarme lanciato ieri dalla Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) secondo la quale negli ultimi anni si registra in Italia un vero e proprio boom del consumo di crack. In particolar modo, ad abusare della sostanza stupefacente, che è un parente povero della cocaina ma con tutt’altro tipo di effetto, sarebbero le fasce più deboli della popolazione, immigrati compresi. A completare il quadro, va ricordato che nel nostro Paese il 30% dei detenuti sconta in carcere una pena per violazione del Testo unico sugli stupefacenti, Dpr 309/1990, a fronte della media europea del 18% secondo l’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction. Il polso della situazione lo si rileva non tanto dai dati dei sequestri di crack che pure, come riferisce la Dcsa, è raddoppiato nel giro di quattro anni, ma soprattutto dall’esperienza degli operatori dei Serd, delle comunità terapeutiche e delle unità di strada. “Il dato indiziario dei sequestri - spiega Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele - va preso con le pinze perché dipende anche dal fattore fortuna”. In ogni caso, secondo i dati ufficiali, si è passati da 6,9 chili di crack sequestrato del 2019 a 15 kg circa del 2023 (fino al 1 dicembre), con un aumento costante negli anni. “In Campania - spiega all’agenzia LaPresse Salvatore Leotta, tenente colonnello della Dcsa - c’è la metà dei quantitativi nazionali sequestrati, 8 chili. Ma non vogliamo creare allarmismo, perché i quantitativi in assoluto sono bassi - chiarisce il rappresentante dell’antidroga - ma il raddoppio è comunque indice di qualcosa”. In effetti si tratta di piccoli numeri se confrontati, per esempio, con le 26 tonnellate di cocaina sequestrate nel 2022, secondo il report della Polizia di Stato. Ma è vero che è un fenomeno in crescita, evidente soprattutto nei quartieri più poveri delle grandi città o tra le fasce di popolazione più emarginata. Negli ultimi anni, come mai prima, infatti, non è raro notare negli anfratti metropolitani italiani i resti del “kit” per l’inalazione dei cristalli di crack. “È cocaina trattata con ammoniaca, va sciolta e inalata. Rispetto alla cocaina sniffata - spiega Leopoldo Grosso - aumenta il rischio del danno, perché l’effetto è più forte e immediato, e provoca un bisogno compulsivo a ripetere il consumo. Costa meno della cocaina: dai 5 euro a dose nel mercato di Ballarò a Palermo, fino ai 40 euro per una dose abbondante a Milano e nelle metropoli del nord Italia. Di solito viene usata per le “abbuffate” del fine settimana, ecco perché l’ultimo posto dove il fenomeno emerge è nei Serd”. Non ci sono farmaci che aiutino a disintossicarsi e, come conferma Grosso, “la dipendenza è principalmente psicologica”. C’è solo una sostanza usata come stupefacente che è a più buon mercato: il Rivotril, uno psicofarmaco che associato all’alcol è il “rifugio” soprattutto degli “immigrati di strada”, come li chiama Grosso. E “siccome la povertà è in aumento”, fa notare il presidente del Gruppo Abele, ecco che “fatalmente i consumatori di crack arrivano anche nelle carceri. È un’onda che si allarga”. Quella lunga pena di morte chiamata carcere di Domenico Forgione Il Dubbio, 28 dicembre 2023 Secondo il dossier “Morire di carcere”, costantemente aggiornato da Ristretti Orizzonti, ad oggi sono 68 i suicidi registrati in carcere nel 2023: il secondo dato più alto dal 1992, dietro soltanto alla cifra monstre del 2022, quando furono 84 i detenuti che decisero di farla finita impiccandosi con le lenzuola o inalando il gas delle bombolette dei fornelli da campeggio che si utilizzano per cucinare. Un dato drammatico, al quale vanno aggiunti gli 87 decessi per “altre cause” di soggetti anziani, malati di tumore, cardiopatici, tossicodipendenti. In totale, 155 morti “di carcere”: uno ogni due giorni e qualcosa. Il “custos” non sa custodire. Il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (psicologi, educatori, personale sanitario) non aiutano, né solleva il morale dei detenuti più fragili la quotidiana offesa alla dignità umana, che può manifestarsi con la mancanza d’acqua, il caldo insopportabile d’estate e il freddo gelido d’inverno, la sospensione delle attività trattamentali nei periodi festivi, alcune sadiche assurdità regolamentari. Sulla carta, in Italia la pena di morte è stata da tempo abolita. Ma la pena che si sconta nei penitenziari fino a quando non sopraggiunge la morte, è soltanto una versione più ipocrita della pena di morte tradizionale. La sostanza non cambia. Tra il 25 febbraio e il 16 settembre 2020, ho scritto molto. Il brano che segue risale alla metà del mese di luglio, quando un detenuto si tolse la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Appuntato! Appuntato!”. Sono le 22.00, nelle celle molti detenuti già dormono. Si sentono rumori fortissimi, come di una battitura in corso nel reparto dei “comuni”, nel plesso di fronte alle nostre finestre. Già due giorni fa si era verificato un episodio del genere, in tarda mattinata, quando lo stesso detenuto aveva tentato di impiccarsi utilizzando come cappio un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. Questa volta pare abbia raggiunto il suo scopo. “Vergogna! Vergogna!”, il grido che squarcia il buio della notte. Le guardie tardano ad intervenire, ma la protesta è indirizzata contro la mancata adozione di precauzioni nei confronti di un povero cristo che aveva già tentato il suicidio: ad esempio, assegnandogli un “piantone” per la sorveglianza e per l’assistenza. Ma sono le voci di “radio carcere”, che non posso verificare. Quel che è certo è che lo sventurato è riuscito a concretizzare il proposito suicida. Le urla e la battitura durano una ventina di minuti, poi tra i reparti cala un silenzio di piombo. La nostra è una rabbia impotente che non può superare la recinzione del carcere. Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare. Neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro il “blindo”. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio. D’altronde esiste una ragione ben precisa se la stragrande maggioranza delle strutture penitenziarie sono state costruite nelle periferie delle città, in luoghi isolati che dimostrano plasticamente la distanza tra il dentro e il fuori. Sottrarre il carcere alla vista della popolazione libera rassicura sul fatto che il “male” si può circoscrivere e isolare. Quello che vi accade dentro e la sofferenza gratuita che produce non oltrepassano la recinzione: “Occhio non vede, cuore non duole”. Il giorno dopo, nessuno dice niente: né i detenuti, né tantomeno gli agenti penitenziari. Forse nel carcere subentra davvero l’abitudine, l’assuefazione alla morte. E comunque, per l’amministrazione penitenziaria, meno se ne parla, meglio è. “Lo avevan perciò condannato/ vent’anni in prigione a marcir/ però adesso che lui s’è impiccato/ la porta gli devono aprir”. Ripenso inevitabilmente ai versi della “Ballata del Michè”, alle lenti speciali che consentivano a Fabrizio De André di guardare con pietà a quest’umanità derelitta. Emarginazione e condanna sociale: la “fragilità al quadrato” delle donne in carcere di Francesca Rita Privitera sicilianpost.it, 28 dicembre 2023 La popolazione femminile rappresenta soltanto il 4% di tutti i detenuti nel nostro Paese. La loro condizione, nella quale alla pena da scontare spesso si aggiungono i pregiudizi e le difficoltà nel reinserimento in società, è poco conosciuta e discussa. Ad occuparsene di recente è stata la giornalista catanese Katya Maugeri, autrice di “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre”. “Questo non è un libro romantico o femminista ma un libro su uno spaccato di società. Se la detenzione è ancora un tabù, lo è a maggior ragione quando riguarda le donne”. “I vostri figli, i vostri uomini sono fuori e non pensate nemmeno a come sarà umiliante rivederli. Io sì, io ci penso e non voglio. No, non voglio incrociare sguardi compassionevoli: “Guardala la pazza, è uscita. Quella che non è riuscita a fare la madre, la moglie, ma che donna mai potrà essere?”“. A parlare è una delle protagoniste di “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre” (Villaggio Maori Edizioni, 2023), libro della giornalista Katya Maugeri che cerca di gettare luce sulla condizione delle detenute nelle carceri femminili. In Italia, le strutture di questo tipo si trovano a Trani, a Pozzuoli, a Venezia e a Roma. La giornalista ha scelto la Casa Circondariale di Rebibbia femminile per raccogliere le testimonianze contenute nel libro: “Mi ero già occupata del mondo carcerario - spiega Maugeri - con “Liberaci dai nostri mali”, in cui avevo intervistato solo uomini. Ma sentivo l’esigenza di dare voce a quelle donne di cui non si parla. Rappresentano il 4% del totale dei detenuti e la loro è una fragilità al quadrato”. In che senso le donne in carcere vivono una fragilità al quadrato? “Le moderne carceri, costruite nell’Ottocento e nel Novecento, erano maschio-centriche: le donne che commettevano reati venivano rinchiuse nei manicomi. La donna valeva talmente poco che era impensabile attribuirle persino la capacità di reato. La società poi è mutata ma la struttura è rimasta pressoché uguale. Ad esempio, nella maggior parte degli istituti non c’è il bidet. Sulla donna in carcere grava poi un giudizio che si somma alla pena: una carcerata è giudicata anche una cattiva madre. Preciso che non voglio fornire giustificazioni, né le donne che ho intervistato vogliono farlo. Questo non è un libro romantico o femminista ma un libro su uno spaccato di società. Se la detenzione è ancora un tabù, lo è a maggior ragione quando riguarda le donne”. Pensi che un sistema carcerario più aperto alle differenze di genere possa aprire a una riflessione più ampia? “Credo proprio di sì, soprattutto può accendere un faro sulla gestione della genitorialità. Non si può parlare solo di maternità, ma anche di paternità. In questo modo si potrebbero trovare soluzioni che abbiano meno impatto possibile sui figli dei detenuti preservando il concetto di famiglia”. Come mai, da giornalista catanese, hai scelto di raccontare la realtà del carcere di Rebibbia? “All’inizio il libro avrebbe dovuto includere anche tre storie che ho raccolto a Catania. Tuttavia i responsabili delle strutture che ho visitato, e con cui ho collaborato, non mi hanno autorizzato a portarle fuori”. Perché? Si trattava di storie diverse dalle altre? “No, erano tragiche come lo sono quelle di Rebibbia, e anonime, impossibili da rintracciare. La motivazione per il divieto di usarle nel libro è stata che non sarebbe stato opportuno. La nostra città non è pronta per essere raccontata: mi piace usare il termine “omertosi” perché lo siamo. Io sono stata male sul serio: sia io che le donne intervistate eravamo molto coinvolte emotivamente”. Su quale aspetto dovrebbe dunque focalizzarsi, a tuo parere, il sistema detentivo? “Alla radice di molte scelte sbagliate ci sono equilibri e contesti sociali che vanno analizzati. Da lì bisogna partire. Il carcere non deve essere punitivo ma rieducativo, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. All’interno degli istituti servono più servizi utili a mostrare che esistono alternative. Oggi, dentro le strutture carcerarie le detenute possono impegnarsi in diversi laboratori, ma cosa accade loro quando vengono scarcerate? Quale mondo trovano ad accoglierle? In una delle storie che ho raccontato, una detenuta chiede a un’altra per quale motivo accolga con gioia la notizia della sua prossima scarcerazione. Molte di queste donne vedono il mondo fuori come se anch’esso fosse una prigione. A causa di questo disagio, alcune arrivano persino a compiere gesti estremi e autolesionistici”. In questo libro le donne intervistate non hanno nomi, ma numeri, quelli della cella. “Il numero di cella ha un peso fisico e psicologico, tra rifiuto e riconoscimento. È un numero transitorio, che prima è stato di altre e dopo sarà di altre ancora. Rappresenta il loro sentirsi senza identità. Così, anziché utilizzare dei nomi di fantasia, ho preferito adottare questa soluzione”. Qual è stata la difficoltà più grande nell’approcciare questo lavoro? “Lo sforzo empatico. Mi sono immedesimata molto con il loro forte desiderio di amore e di utopia, la loro spinta a vivere e a donarsi e, a volte ingenua, a fidarsi. Di fronte a certi epiloghi ho provato rabbia. Scrivere alcuni capitoli è stato molto doloroso. Ho scelto il titolo “Tutte le cose che ho perso” perché ciò che perdiamo ci lascia un’impronta indelebile. È una prospettiva: tutti ripartiamo dalle cose che abbiamo perso”. Possiamo riconquistarle? “Il colibrì della copertina è in volo. Anche un cuore disilluso può battere ancora”. Giustizia e Pnrr: arretrati, una sfida quasi impossibile di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 dicembre 2023 L’obiettivo del Pnrr di ridurre del 90% entro il giugno 2026 l’arretrato della giustizia civile, cioè lo zoccolo duro del numero di cause pendenti da più di 3 anni in primo grado e da più di 2 anni in secondo grado, ormai non é raggiungibile: lo ammette il governo, che per questo nelle interlocuzioni con la Commissione Europea ne ha negoziato e ottenuto una rimodulazione, che però imporrà subito nel 2024 una brusca manovra di rientro, oltre a non diradare dubbi di realizzabilità complessiva a giugno 2026. Viene infatti abbandonato il target iniziale di ridurre del 90% a giugno 2026 l’arretrato civile passando per una riduzione intermedia entro il 2024 del 65% in Tribunale e del 55% nelle Corti di Appello: per raggiungere questo risultato, infatti, nei Tribunali la riduzione al 31 dicembre 2022 sarebbe dovuta essere del 23% e invece è stata solo del 9,3% (persino meno del ritmo al quale dal 2009 al 2019 senza Pnrr si era scesi da 5 milioni a 2,8 milioni di cause): e per più a macchia di leopardo, con 95 Tribunali che hanno ridotto l’arretrato in media del 28% ma altri 45 che l’hanno invece addirittura aumentato (pure in distretti virtuosi come Milano, Torino o Bologna), soprattutto a causa dei ricorsi in materia di protezione internazionale. Anche le Corti d’Appello, che avrebbero dovuto assorbire a fine 2022 un 39% di arretrato, l’hanno ridotto solo del 28,3%. A questi ritmi, insomma, alla fine dell’orologio del Pnrr, cioè a giugno 2026, invece del 90% pattuito con l’Europa, l’arretrato verrebbe ridotto solo del 32% nei Tribunali e del 68% nelle Corti d’Appello. Ecco perché il governo ha negoziato con la Commissione Europea una distinzione tra due parametri. Da un lato l’arretrato “statico” cristallizzato al 31 dicembre 2019, composto da 337.740 fascicoli ultra triennali nei Tribunali e 98.771 fascicoli ultra biennali nelle Corti d’Appello; dall’altro le “pendenze” al 31 dicembre 2022, intese come 1 milione 197.786 fascicoli iscritti nei Tribunali dopo l’1 gennaio 2017 e 179.306 fascicoli nelle Corti d’Appello dopo l’1 gennaio 2018. Sono queste cause pendenti che ora il nuovo impegno del governo italiano assicura all’Europa di ridurre del 90% a giugno 2026, portandole quindi da 1 milione 197.786 a 119.779 nei Tribunali, e da 179.306 a 17.931 nelle Corti d’Appello. Tuttavia questa flessibilità sulle cause pendenti a fine 2022 verrà intanto pagata con una salata cambiale a scadenza già nell’anno che sta per iniziare, giacché l’Italia si impegna ad eliminare subito entro dicembre 2024 quasi tutto l’arretrato “statico” esistente al 2019: il 95%, anziché (come preventivato in origine) solo il 65% dei 337.740 fascicoli nei Tribunali e il 55% dei 98.771 fascicoli nelle Corti d’Appello. Vista sulla carta, sembra una prospettiva ancor più irrealistica della precedente. É invece fattibile ad avviso delle proiezioni statistiche stilate dalla struttura di missione presso la Presidenza del Consiglio e dal ministero della Giustizia. Che però, quando devono quantificare la benzina con cui carburare questo rimodulato sforzo, indicano verbi al futuro, possibilità, eventualità. In particolare fanno affidamento su “incentivi che saranno finanziati con le risorse economiche derivanti dai risparmi di spesa dovuti alle minori assunzioni, e con eventuali ulteriori risorse”; sul “rafforzamento degli Uffici per il processo per attrarre e trattenere in servizio le unità di personale assunte”; e sull’obiettivo di “sostenere gli uffici giudiziari meno efficienti nella riduzione dell’arretrato e premiare quelli che raggiungono specifici obiettivi annuali di riduzione del numero di casi pendenti”. Qui traspare la sinora zoppicante riuscita dell’Ufficio per il processo (Upp), staff a sostegno dei magistrati nelle attività complementari alla giurisdizione, in teoria il cuore dello sforzo del Pnrr: 8.250 addetti assunti nel primo round a febbraio 2022 con un contratto di 2 anni e 7 mesi, e altri 8.250 da assumere nel 2024 con un contratto di 2 anni. Ma la durata a termine, e la scarsa appetibilità in chiave futura rispetto ad altri concorsi, ha determinato uno sciame di dimissioni, che sui primi 8.300 Upp ha visto congedarsi più di 2400 addetti, lasciandone dunque in servizio solo 5900, peraltro utilizzati in 6 modi difformi (ha contato il Politecnico di Milano) dai vari distretti giudiziari. Discorso analogo per altre 5.410 unità di personale tecnico che per 3 anni dovrebbe supportare le cancellerie nel macinare il maggior numero di provvedimenti sfornati dai giudici: il numero non è stato coperto, 581 si sono pure dimessi, e così effettivamente in servizio questa estate erano 3.385. La Commissione europea “ha riconosciuto l’effetto delle peculiari condizioni del mercato del lavoro nel settore pubblico”, e così il governo ha ottenuto che il personale a tempo determinato sinora assunto e formato possa essere prorogato sino a giugno 2026, mentre il secondo ciclo a maggio 2024 riguarderà 4.000 assunzioni a tempo determinato per 2 anni. Così, comunque, al 30 giugno 2024 le unità di personale in servizio non saranno le inizialmente previste 19.719 persone ma 10.000: si riuscirà a fare più in fretta del previsto ma con meno forze del previsto? Basta ipocrisie: di gogna si muore, anche solo per “riassunto” di Alessandro Barbano Il Dubbio, 28 dicembre 2023 La parafrasi maliziosa al posto del virgolettato, scritta con l’intento di farne l’interpretazione autentica del sospetto del pm, è una lama non meno affilata del testo integrale dell’ordinanza cautelare. Di riassunto si può morire. Non diversamente da come si muore di intercettazioni. Usciamo, se possibile, dall’ipocrisia: se un giornale scrive che il sottoscritto è stato arrestato con l’accusa di pedofilia per aver abusato di una bimba, e lo racconta per sintesi anziché esibire le intercettazioni, non per questo la gogna è men dura. La parafrasi maliziosa e suggestionante al posto del virgolettato, scritta con l’intento di farne l’interpretazione autentica del sospetto del pubblico ministero, è una lama non meno affilata del testo integrale dell’ordinanza cautelare. A proposito di gogna, il falso narrativo dello scandalo dell’Hotel Champagne, con cui si realizza un cambio di potere nel Csm, è un riassunto di intercettazioni che una manina occulta ha messo nelle mani di giornalisti compiacenti. Questo per dire che il rimedio di vietarne la pubblicazione, approvato dalla Camera e benedetto da molti come una conquista di civiltà, non protegge l’indagato, che ne è il destinatario. Chi pure lo pensa, paga la miopia che talvolta affligge i competenti, e che mostra quanto le aule parlamentari e tribunalizie possano essere, allo stesso modo, distanti dal dolore della vita. Tanto da illudersi che a lenirlo sia un nascondimento di parole. Purtroppo lo scudo è solo virtuale. Né soddisfa quell’estetica della giustizia penale tratteggiata come un modello, per contrasto con la realtà, in un bellissimo libro del giurista Ennio Amodio. Non a caso il più lucido a cogliere il cuore della questione. Che è il “formidabile impatto colpevolista della misura cautelare”, “l’uniteralità delle fonti di convincimento, che altro non sono - parole sue - se non i risultati investigativi del pubblico ministero”. È questo il tema: la misura cautelare è la contraddizione intrinseca della giustizia umana, il senso della sua finitezza. La sua necessità e la sua irragionevolezza non hanno mai un punto di equilibrio soddisfacente. Se però lo squilibrio genetico diventa ipertrofia, se il tempismo degli arresti surroga i ritardi del processo, se la sua natura di pena mascherata sposa la tentazione, figlia dei tempi, di una tutela sempre più anticipata, se cioè la cautela si muta in prevenzione, allora il diritto penale cambia pelle. Archivia la colpevolezza per la pericolosità, le prove per i sospetti, i fatti costituenti reato e le condotte per le intenzioni, le passioni, i moti dell’animo. Diventa, come ci insegna Filippo Sgubbi, totale. Perché totalitaria è la prevenzione, quando sposa l’ideologia del potere. Tale è un’azione penale che smette di cercare le prove e indaga i fattori sintomatici della pericolosità e dell’immoralità, predittivi di future azioni delittuose, pescati dalla tecnologia del Trojan nella sua incessante opera di ipersorveglianza sotto la fodera della democrazia, che perciò ci appare, nel suo inconscio collettivo, più brutta e più sporca di quello che è in superficie. Si può negare che la fase cautelare, in ragione della sua straordinaria efficacia di mezzo che diventa fine e s’impone alla verità del processo, e in ragione della sua abnorme lunghezza che umilia il senso della cognizione ordinaria, se mai questa verrà, è il problema stesso del processo penale, la ragione più profonda della sua crisi? Se l’udienza preliminare giunge almeno due anni dopo gli arresti, in tutto questo tempo noi vorremmo arginare l’uragano dell’indagine con una paratia di carta velina, che fa intravvedere ciò che è accaduto per riassunto, ma confonde la realtà di coloro che, dietro il nascondimento delle parole, ci appaiono come ombre in una tempesta di vento? Ha senso, in questa tempesta che percuote senza sosta la giustizia in Italia, invocare la verginità cognitiva del giudice del dibattimento, per proteggere quel disvelamento della verità processuale nel contraddittorio paritario tra le parti di fronte a un giudice terzo? Ha senso quando, con una frequenza unica nelle democrazie liberali, la parità è sovvertita nei fatti dall’impatto violento di un provvedimento cautelare che impone il racconto della parte più forte, cristallizzandolo in un tempo troppo lungo per dare senso a qualunque correzione o ripristino? Lo chiedo, senza certezza di avere la risposta, alla sensibilità del giurista Francesco Petrelli, il quale pure vorrebbe, in nome di quella verginità cognitiva, sottrarre un provvedimento che limita la libertà personale a un controllo dell’opinione pubblica. Non vorremmo che si sapessero le parole dell’assedio di Filippo Turetta a Giulia Cecchettin, precedenti al delitto, le stesse per cui un Paese scende in piazza e prende coscienza del suo lato oscuro? Non vorremmo che si sapessero, si discutessero, si giudicassero, le parole che una narrativa cautelare racconta come scandalo del Csm, o come Mafia Capitale, o, per tornare più indietro, come Tangentopoli? Avremmo forse scongiurato la gogna della magistratura nella notte dell’Hotel Champagne, l’infamia di Roma nelle mani dei boss, i trentatré suicidi della Prima Repubblica picconata da Mani Pulite, se la supina condiscendenza dei cronisti al pm di turno si fosse manifestata per riassunto? No, non l’avremmo scongiurata per niente. Anzi, la necessità di sintetizzare avrebbe trasformato la subalternità del racconto in un’interpretazione, più realista del re, della parte in causa più forte. Avrebbe eliminato l’ambivalenza che talvolta le parole nella loro concatenazione logica e sintattica portano con sé, e che pure potrebbe attivare lo spirito critico e il dubbio. Talvolta è accaduto. Talvolta a fianco al racconto colpevolista dei più, uno solo o pochi hanno provato a spiegarla in modo diverso. Certo, non quanti ne sarebbero serviti per costruire una coscienza alternativa. Ma negare a quei pochi il diritto-dovere della complessità vuol dire cedere all’emergenza, arrendersi all’idea che il controllo dell’opinione pubblica sulla forza autoritativa dello Stato si risolva per forza, come dice Tiziana Maiolo, nel rito sacrificale officiato dal tribunale del popolo. Non è per questo che è nata la libera stampa. Non è per questo che dobbiamo sopprimerla, cedendo all’idea che la democrazia e i suoi fragili statuti siano da archiviare solo perché sono imperfetti. È facile che ciò accada in un tempo in cui una suggestione tecnocratica c’illude che una società perfetta possa realizzarsi, anche se al prezzo di rinunciare ad alcune libertà. Ma c’è un altro rischio, sotteso al divieto votato dal Parlamento. Che la giustizia diventi, ancor di più di quanto già non sia, una questione di soli esperti, una contesa tra magistrati e avvocati attorno alla natura scientifica di un reperto, l’imputato di turno. È il rischio più grande, perché in una democrazia giudiziaria trasformata in una ridotta corporativa può accadere che le intercettazioni siano estese ad libitum, prima della legge e poi da una prassi che le autorizza senza che esistano i presupposti, che siano trascritte male e interpretate peggio, e da ultimo che siano inserite nelle ordinanze di custodia cautelare anche se la loro pertinenza è inesistente e se la loro valenza probatoria è zero. E poi siccome nessuna maggioranza, nessuna categoria, nessuna lobby è capace di smontare questo mostruoso apparecchiamento di microspie e captatori informatici, anzi alla fine quasi ci si è tutti un po’ abituati a conviverci, a qualcuno viene in mente l’idea di nasconderlo ai cittadini. Ma a chi la si vuole raccontare? Cari giornalisti, quando tornerete a fare il cane da guardia del potere? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 28 dicembre 2023 La Fnsi diserterà la conferenza di fine anno per protestare contro l’emendamento Costa: i cronisti vogliono le migliaia di pagine piene di intercettazioni da ricopiare e sbattere in pagina. I giornalisti-sindacalisti della Fnsi non saranno presenti alla conferenza di fine anno della premier Giorgia Meloni, che per ora è comunque rinviata. Uno sciopero bianco. Non per la libertà di stampa, ma per la difesa dell’informazione giudiziaria, il diritto da parte dei giornalisti di collocarsi al fianco delle toghe, contro quel voto del Parlamento che vieta la pubblicazione, in toto o in parte, delle ordinanze di custodia cautelare fino al termine delle indagini. Era già capitato due anni fa con il governo Draghi e la ministra Cartabia, con la protesta di pubblici ministeri e cronisti uniti nella lotta contro il voto del parlamento che, nel recepire con grande ritardo una direttiva europea del 2016, fissava le regole perché indagati e imputati non fossero presentati all’opinione pubblica come già colpevoli. E infatti, un mese dopo quel voto, la Fnsi, sindacato di categoria, aveva presentato un ricorso alla Commissione europea competente per protestare contro le modalità con cui il Parlamento italiano aveva aderito alla direttiva dell’Europa. Il triangolo della protesta ha anche un risvolto politico esplicito, che si unisce al sindacato dei giornalisti e a quello delle toghe, e che viene espresso dai partiti di minoranza, il Pd, il Movimento cinque stelle e Alleanza verdi sinistra. Fa impressione questa sorta di squadrone compatto, per chi ha memoria di movimenti di giornalisti che addirittura facevano contro-informazione, tanto poco si fidavano delle versioni di magistratura. Oppure di quel settore di Magistratura Democratica sinceramente garantista. O infine di quella parte del Pd che un tempo credeva nello Stato di diritto, come l’ex senatore Giovanni Pellegrino, che ancora oggi dice “Non capivo perché il mio partito fosse sempre dalla parte dell’accusa. Lo ritenevo demenziale”. Ma oggi c’è Sandro Ruotolo, responsabile informazione del Pd per il quale la libertà di stampa non esiste in Italia da trent’anni. Eh si, viviamo tutti in un gulag almeno dai tempi delle guerre puniche. Oggi abbiamo giornalisti che vanno sottobraccio ai pubblici ministeri senza vergognarsene e che arrivano fino a uno sgarbo istituzionale come quello di disertare l’appuntamento di fine anno con il Presidente del consiglio pur di difendere il diritto di mettere qualcuno alla berlina. Perché questo è quello che sta rivendicando il sindacato della stampa: vogliamo le mani libere di conoscere e far sapere, attraverso la ricopiatura con le virgolette delle ordinanze di custodia cautelare, tutto ciò che un qualunque “pentito” o vicino di casa ha detto per telefono sulla persona indagata. Vogliamo le migliaia di pagine piene di intercettazioni da ricopiare e sbattere in pagina con titoli suggestivi. Il sindacato dei giornalisti è arrivato a tal punto di umiliazione della categoria, da dire quanto sia preferibile questa attività di ricopiatura delle ordinanze del giudice rispetto all’interpretazione soggettiva della notizia da parte del singolo cronista. E’ la stessa cosa che dicono i magistrati, ed è comprensibile, perché vogliono continuare a essere loro a tenere il coltello dalla parte del manico, vogliono che ciascun procuratore sia il deus ex machina della comunicazione. Per questo non hanno digerito quel voto di due anni fa che dettava le regole sulla presentazione di blitz e arresti, concentrando nelle sole mani dei capi degli uffici e nei soli casi di vera emergenza pubblica la possibilità delle conferenze stampa. E imponeva il rispetto della persona come impone l’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza. Nel suo ricorso contro quel voto la Fnsi usa un argomento sorprendente, perché quel provvedimento limiterebbe la libertà dei magistrati, e solo come conseguenza di questo anche quella della stampa. Dove è finito il famoso “cane da guardia” delle istituzioni che la stampa dovrebbe rappresentare? E la controinformazione, le ricostruzioni alternative rispetto alle indagini ufficiali? Ora i giornalisti dovrebbero lottare per la libertà delle toghe? Serpeggia qua e là, nell’ambito di questa sacra alleanza, la tentazione alla disobbedienza. Non parliamo solo del Fatto quotidiano, che sulle gogne e l’informazione giudiziaria campa da quando esiste. Ma anche del procuratore di Potenza Francesco Curcio, il quale afferma che continuerà a passare le carte ai cronisti, visto che comunque è vietata solo la pubblicazione e non anche la consegna. Obiezione di coscienza che si affianca allo sciopero bianco del giornalisti-sindacalisti. Una domanda comunque pare non si ponga mai: siamo sicuri che sia indispensabile inondare quello che è solo un atto destinato spesso a essere contraddetto o annullato, con migliaia di pagine e di intercettazioni? Un po’ più di sobrietà, anche per il rispetto dell’indagato, sarebbe comunque preferibile. E anche la capacità, da parte dei cronisti, di ragionare con calma, di non avere fretta di presentare all’opinione pubblica la “preda”, prima che si arrivi alla conclusione delle indagini. Perché non solo tutto può succedere, quando le carte del pm planano sulla scrivania del gip, del tribunale del riesame e della cassazione. Ma anche perché, nel sistema accusatorio, il vero e unico momento del processo, quello in cui si verificano le prove nel confronto scontro tra accusa e difesa è quello dell’aula. È l’aula, la sovrana. E questo ogni bravo cronista giudiziario dovrebbe saperlo. Emendamento Bavaglio, Cantone: “Norma ingiustificata. Non negherò gli atti pubblici” di Vincenzo Iurillo La Stampa, 28 dicembre 2023 Il procuratore di Perugia: “Questa legge è un passo indietro rispetto a meccanismi di trasparenza innestati con il rilascio di atti ai giornalisti da parte degli uffici giudiziari. Se qualcuno inizierà a negarle, dovranno procurarsele al mercato parallelo di chi ne ne ha disponibilità”. Il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, fu tra i primi magistrati - forse il primo - a sollevare il tema della trasparenza delle fonti nella comunicazione giudiziaria fino a teorizzare la creazione di uffici stampa nei tribunali. “Scrissi un articolo nel 2013 in cui riferivo questa ipocrisia: i giornalisti potevano scrivere notizie relative ad atti processuali pubblici, ma non potevano avere accesso a quegli atti. I giornalisti dunque sapevano ma non si capiva come. Dando per scontato che le carte arrivassero loro sottobanco in maniera più o meno legittima. Chiesi di aprire un dibattito e di qui la proposta”. A Napoli nel 2019 il procuratore Giovanni Melillo va nella direzione della trasparenza e introduce la prassi del rilascio di copia delle ordinanze cautelari ai giornalisti... È prassi anche a Perugia. Ora l’emendamento Costa vuole vietarne la pubblicazione. Lei continuerà a rilasciarle? Va detto con chiarezza che stiamo parlando di una legge che non c’è ancora. Se è quella di prevedere il divieto di pubblicazione integrale, ma delle ordinanze si può scrivere, come già prima della riforma Orlando, non ho dubbi che sarà possibile continuare a rilasciarle, sia pure con le dovute cautele, come quelle a tutela delle parti offese. Ad esempio non rilascerei mai una ordinanza su un caso di violenza sessuale. Già è così. Detto ciò, c’era bisogno di questa legge? Non è né utile né opportuna. Nessuna emergenza la giustifica in questo momento storico. Il ministro Nordio ha ripetuto spesso che si pubblicano troppe intercettazioni... Il Garante della Privacy in più occasioni ha ricordato che siamo tornati a livelli di ordinarietà, che non ci sono più eccessi. Questa legge è un passo indietro rispetto a meccanismi di trasparenza innestati con il rilascio di atti ai giornalisti da parte degli uffici giudiziari. Se qualcuno inizierà a negarle, dovranno procurarsele al mercato parallelo di chi ne ne ha disponibilità. Ovvero avvocati, magistrati, polizia giudiziaria... E per i magistrati e la pg potrebbe configurarsi un illecito disciplinare. Ritornare al mercato parallelo rappresenterebbe un arretramento culturale. Un giornalista che accede ufficialmente agli atti lavora meglio o peggio? Meglio perché non deve ringraziare nessuno ed è libero di dare torto anche a chi glieli rilascia, criticando nel merito. Una garanzia pure per gli indagati di cui scrive. Ma perché questa proposta arriva proprio adesso? Non ne ho idea. Nulla la spiega, nemmeno il contesto normativo in cui è inserita. Un contesto spurio, tecnicamente scorretto, la legge che recepisce le direttive comunitarie. Tra le quali quella sulla presunzione d’innocenza, che secondo Costa il divieto rafforzerebbe. In base a questa direttiva, molte procure già da tempo diramano comunicati senza i nomi degli arrestati... Anche a Perugia lo facciamo, tranne quando non è indispensabile. Solo riferimenti all’età, alla provenienza, ai fatti oggetto delle indagini. Però quando leggo che il divieto di pubblicazione dell’ordinanza rafforzerebbe la presunzione di innocenza dell’arrestato, non capisco il collegamento. La presunzione d’innocenza è fornire una informazione corretta per evitare che si formino pregiudizi. Quindi è il contrario: un’informazione incompleta potrebbe produrre danni all’indagato, impedendo di riferire elementi utili alla sua difesa, al contesto in cui ha agito. La completezza dell’informazione è la migliore garanzia per tutti: per l’opinione pubblica, per l’indagato, per le parti offese. Da ex presidente dell’Anac, ha un commento sugli attacchi che l’agenzia sta subendo dal governo? Non entro nel merito, ma indebolire l’Anac significa indebolire la lotta alla corruzione. Gli anti-Costa, tra buffonata e ignoranza di Piero Sansonetti L’Unità, 28 dicembre 2023 La crociata dei “mai più senza la gogna”. L’ex vicepresidente della Consulta, Maddalena, dice che ci avviamo alla dittatura, ma la legge era così quando lui era alla Consulta, e forse non lo sapeva. Le Procure, il sindacato dei giornalisti, molti giornali, e poi, oltre ai 5 Stelle, anche i partiti di sinistra. Tutti contro l’emendamento Costa che scalfisce appena, in modo molto molto blando, il diritto al processo mediatico che il fronte giustizialista ritiene essere un caposaldo della democrazia. Paolo Maddalena, giurista di livello - credo - ed ex vicepresidente della Corte Costituzionale (e anche presidente facente funzioni), quindi il top del top del diritto, ha rivolto un appello accorato al Presidente della Repubblica perché non firmi l’emendamento-Costa alla legge che disciplina la pubblicabilità degli atti giudiziari. Ha detto Maddalena: “Continuando così non si fa altro che galoppare verso la dittatura”. E poi ha aggiunto che l’emendamento-Costa è una scelta “infame e pericolosissima”. Come capite, la situazione è molto grave: stiamo rischiando la dittatura, come successe cent’anni fa. E neppure una dittatura qualsiasi: una dittatura infame. Per colpa dell’irresponsabile deputato di Azione Enrico Costa. Un uomo che potremmo paragonare all’onorevole Facta che nel 1922 spalancò le porte a Mussolini… C’è una cosa però che mette in dubbio il teorema Maddalena: l’emendamento-Costa non fa altro che riportare la legge che disciplina la pubblicità degli atti giudiziari a come essa era fino al 2017. Esattamente uguale. E quindi quando il dottor Maddalena presiedeva la Corte, credo tra il 2009 e il 2011, noi ci trovavamo a vivere, a nostra insaputa, in una dittatura che aveva cancellato la libertà di stampa e aveva violato l’articolo 21, anzi aveva stracciato la Costituzione. E la cosa - questo è l’aspetto curioso - avveniva anche all’insaputa dello stesso dottor Maddalena. Che tranquillamente presiedeva la Corte Costituzionale di un regime dittatoriale senza saperlo. Forse ho sbagliato, nelle righe iniziali di questo articolo, a definire il dottor Maddalena…. Vabbé, lasciamo stare Maddalena. Parliamo degli altri. Per esempio della Fnsi, cioè il sindacato giornalisti, parliamo dell’Anm, cioè del partito dei Pm, e poi parliamo dei Cinque Stelle e addirittura del Pd. Dicono che con l’emendamento si torna al Medioevo. Sì, dicono così. E quale sarebbe questo Medioevo? Quello del governo Letta, immagino, quello del Governo Monti. Durante i loro governi, sostenuti soprattutto dal Pd, la legge era esattamente quella che sarà dopo l’approvazione dell’emendamento Costa. Ma - dicono all’unisono giornalisti, Pm e partiti di opposizione - in questo modo i procedimenti giudiziari saranno segreti e il cittadino non potrà sapere. Albamonte, ex capo dell’Anm, sostiene addirittura - sembra di capire da una sua intervista - che l’Italia diventerà come la Cina comunista, dove le persone spariscono sequestrate e annientate dallo Stato. E’ così? No. A nessuno sarà impedito di sapere niente. Nulla cambierà nei processi. Nessuna prova a carico, o indizio a carico, sarà minimamente scalfito o storpiato o silenziato da questo nuovo regime. Nulla cambierà nel funzionamento del processo. Succederà semplicemente che alcuni aspetti delle indagini che generalmente rimangono segreti - e a disposizione solo della polizia giudiziaria che indaga e del Pm- per diversi mesi, a volte per più di un anno, resteranno non segreti ma semplicemente non pubblicabili ancora per qualche settimana o - in caso di lentezza della giustizia - per qualche mese fino alla conclusione delle indagini preliminari. I giornalisti continueranno a disporre di tutto il materiale che vogliono, semplicemente saranno costretti a lavorarci un po’ sopra e non potranno più fare il copia incolla del materiale fornito loro dal Pm che di solito è parziale e fazioso. Tanto parziale e fazioso che ogni anno lo Stato deve pagare milioni di euro di risarcimento agli ex detenuti che sono finiti in prigione o per degli errori o per la malevolenza dei Pm. I quali ex detenuti non saranno mai comunque risarciti in nessun modo per la gogna subita dai giornali e dalle Tv. In ogni caso non cambierà praticamente nulla. Anche perché alcuni giornali annunciano già che faranno obiezione di cosciencioè violeranno la legge. Coraggiosissimi. Il radicale Roberto Cicciomessere, scomparso qualche mese fa, fece obiezione di coscienza al servizio militare e finì in prigione. Credo che ci restò tre mesi. Qualche anno prima era toccato a Pietro Pinna, che, a due riprese, scontò circa un anno e mezzo in una prigione militare. Padre Balducci e don Milani furono processati soltanto per avere approvato l’obiezione di coscienza in alcuni loro scritti. Quanta prigione dovrà fare Travaglio se per obiezione di coscenza, cioè spinto da una grande forza morale - pubblicherà le ordinanze prima del tempo violando la legge? Nessun giorno di prigione. 250 euro di multa. Perché allora questa rivolta, che ha tutti i crismi della pagliacciata? Per una ragione, credo, semplice: gli editori - fate attenzione, quando siete in presenza di una forte rivolta dei giornalisti è quasi sicuro che a guidarla siano gli editori - temono che questa norma, che in maniera molto molto molto blanda accenna al diritto alla presunzione di innocenza, possa essere la porta dalla quale passano poi nuove riforme che in modo effettivo ristabiliscano lo stato di diritto e smontino quell’obbrobrio italiano dei XXI secolo che è il processo mediatico, il quale di fatto, almeno a certi livelli, ha sostituito del tutto il processo penale. Temono riforme che vadano in questo senso, perché almeno da un quarto di secolo gli editori hanno fondato tutte le proprie strategie editoriali sul processo mediatico. Gli altri settori del giornalismo sono passati in secondo piano e lasciati degradare. Capite che un ritorno pieno dello Stato di diritto raderebbe al suolo queste strategie, e in parte anche le strategie dei partiti, specialmente di quelli di sinistra e naturalmente di quelli qualunquisti. E così, l’opposizione che non aveva mosso paglia quando è stato abolito il reddito di cittadinanza, che ha tolto risorse vitali a milioni di poveri, e ha subito abbastanza in silenzio anche il rifiuto del reddito minimo, stavolta si scatena. “Toglietemi tutto ma non il mio breil…” la ricordate quella pubblicità? Beh, il “mio breil” oggi è la gogna. Cioè il più reazionario dei simboli della reazione. Persino su un giornale come il manifesto - presidio storico del garantismo di sinistra, erede di Rossana Rossanda - persino sul manifesto appaiono articoli filo-gogna. Indignatissimi. Io dico che la sinistra, se si riduce a questo rincattucciamento patibolare, ha le ore contate. In Costituzione la tutela delle vittime. L’idea di FdI piace anche a Scarpinato di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 dicembre 2023 L’asse tra la destra e il M5s. Lo scorso luglio Zanella (Avs) aveva portato alla Camera una proposta simile. Bazoli (Pd): “Ricadute sul processo penale”. Il pericolo del giudizio mediatico. Per ora è solo un’idea. Peraltro non nuova, visto che periodicamente il tema torna a serpeggiare, ma questa volta la sensazione è che potrebbero esserci i numeri per consentire l’ingresso in Costituzione della giustizia mediatica. L’idea è stata rilanciata dal senatore di FdI Alberto Balboni, peraltro presidente della Commissione affari costituzionali: aggiungere all’articolo 111 della Carta, quello sul giusto processo, una riga: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Detta così si potrebbe pensare che non ci sia nulla da obiettare, anzi, quasi stupisce che la questione non sia mai stata presa in considerazione in quasi otto decenni di vita repubblicana, ma in realtà sarebbe uno stravolgimento in piena regola del diritto processuale, con l’ingresso costituzionale di una nuova parte nei dibattimenti, le vittime, andando in questo modo molto al di là della parte civile attualmente ammessa come tutela per chi ritiene di aver subito un reato. La proposta di Balboni, accolta con freddezza da Forza Italia, Italia Viva, Lega e Pd, ha trovato una sponda nel M5s, con l’ex magistrato (e ora senatore) Roberto Scarpinato che si è detto entusiasta dell’idea e sarebbe pronto a sottoscriverla, in un per nulla inatteso asse con la destra sulle questioni di giustizia. “Valuto positivamente la proposta, perché recepisce le indicazioni sulla tutela delle vittime di reato, e perché valorizza l’importante ruolo svolto dalle parti civili nell’ambito del processo penale”, sostiene Scarpinato, secondo il quale un provvedimento del genere superebbe anche alcune parti della riforma Cartabia. “L’aumento di una tutela costituzionale per le vittime di reato supererebbe le limitazioni presenti nella riforma Cartabia - sostiene l’ex pg della Corte d’Appello di Palermo -, che reca disposizioni di natura esclusivamente risarcitoria e trascura il danno morale subito dalla vittima, che potrebbero più efficacemente essere valutate sul piano della legittimità costituzionale”. Dalle parti di Forza Italia, però, Pierantonio Zanettin preme sul freno: “In tempi recenti si è imposta l’idea sostenuta anche da robuste campagne mediatiche che la sentenza pronunciata dal giudice debba essere il più possibile aderente al concetto di giustizia proprio della parte offesa. Il fenomeno prende a tal punto piede che le stesse Corti di assise hanno finito per essere fortemente condizionate dall’opinione del pubblico e dalla stampa con conseguente pregiudizio delle garanzie costituzionali”. Anche nel Pd ci sono parecchie riserve sul punto. Dice il senatore Alfredo Bazoli: “È indispensabile una riflessione sulle possibili ricadute della norma sul processo penale e in particolare sul tema della costituzione delle parti civili”. Lo scorso luglio, la deputata di Avs Luana Zanella aveva presentato una proposta molto simile a quella di Balboni, sostenendo la necessità di aggiungere all’articolo 111 della Costituzione questa frase: “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”. Questo per rendere il processo penale “più giusto per tutte le parti e quindi anche per le vittime dei reati”. Il problema, però, a questo punto non riguarda solo quello che accade dentro le aule di giustizia, ma anche ciò che si muove fuori, con una spettacolarizzazione talvolta eccessiva dei casi di cronaca nera, tra talk show che passano ore a celebrare processi di fatto in diretta televisiva e ascoltatissimi podcast che danno voce quasi solo alle indagini, dimenticando poi spesso di raccontare quel che poi accada davanti a un giudice o a una corte. Il processo penale, del resto, esiste proprio per evitare che la giustizia sia uno scontro diretto tra le vittime e i presunti autori dei reati. Negare il giusto processo a chi commette crimini inumani farebbe crollare la nostra civiltà giuridica di Augusto Conte Il Dubbio, 28 dicembre 2023 Il condannato non può essere sottoposto a pene degradanti, non potendo lo Stato usare gli stessi metodi violenti ponendosi sullo stesso piano degli autori dei delitti più atroci. La “legalità” è una condizione e un attributo dello spirito dell’uomo, e una disposizione della coscienza di tutti gli uomini, enunciabili con comportamenti, atteggiamenti e parole, fondati sulla conoscenza di principi ed etica universali, concretizzati in regole negli Ordinamenti Giuridici, che devono essere intese, acquisite e fatte proprie dalla collettività, con l’apprendimento di modelli virtuosi e con insegnamenti appropriati. La persona, che dismette il senso dell’“umano”, mettendo in crisi il consorzio sociale, l’assetto della convivenza civile e lo stesso Ordinamento, retroagendo allo stato primordiale, non può far regredire, nello stesso stato, di homo hominis lupus, l’intera cittadinanza, che esprime reazioni emotive. Per la conservazione dell’Ordinamento giuridico dello Stato di diritto, fondamentale è l’amministrazione della giustizia, cui è connesso ontologicamente il diritto/dovere di difesa, universalmente riconosciuto, concretamente e positivamente realizzato nella Costituzione repubblicana, che prevede lo svolgimento di un processo giusto. Il giusto processo, in attuazione della giustizia, è quello realizzato rispettando l’esercizio della difesa, assicurato dalla presenza dell’avvocato nel processo, di fiducia o di ufficio, a pena di inutilizzabilità o nullità degli atti, come confermato, ove ce ne fosse bisogno, dalla Corte Costituzionale nel 1979 che ha dichiarato imprescindibile e irrinunciabile la difesa, comunque esercitata, della quale volevano liberarsi le Brigate Rosse, favorendo l’omicidio del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, ucciso alla soglia di ottanta anni. Il profondo e inestinguibile dolore delle famiglie delle donne vittime di violenza è condiviso da tutti i cittadini e in particolare quello arrecato a Giulia e alla sua famiglia, per la giovane età della laureanda, per la tenerezza dei sentimenti che rivelano le sue parole e che trasmette con la finezza del volto e perchè la vicenda che l’ha vista vittima non è “catalogabile”, non è paragonabile ai delitti, pur efferati, commessi in questo ultimo anno e non solo, ha comportato reazioni impulsive. Normalmente, se si può parlare di normalità, i “femminicidi” avvengono quando un legame è logorato, per tradimento o altre grave fatto (non può usarsi il termine “ragione”); il rapporto tra Giulia e Filippo stava nascendo con un inizio inquieto, che dava segni di non essere duraturo; la fine della relazione, a quel che appare, è stata vissuta con disperata immaturità e allucinazione, mancanza di autocontrollo, non avendo il giovane percepito e accettato la realtà dell’abbandono. Diversi significati si possono trarre dalla atroce vicenda occorrendo una riflessione che va oltre le leggi in materia di tutela delle vittime della violenza di genere: la collettività esige una cultura di sensibilità al rispetto non solo delle donne e una consapevolezza di essere presenti a sé stessi e della responsabilità delle proprie azioni che ci pongono in relazioni agli altri; ed esige anche un senso scrupoloso del diritto. La giurisdizione è riservata alla Magistratura e la difesa alla Avvocatura (unica professione prevista dalla Costituzione): mentre è possibile criticare le decisioni pronunciate dai giudici e le difese messe in atto dagli avvocati, non è possibile, specialmente da chi le leggi le compone, “suggerire” ai giudici i provvedimenti da adottare, e vietare agli avvocati di assumere tutte le difese utili all’assistito (ivi comprese, ove ne ricorrano i presupposti, l’istanza per accertare la imputabilità dell’imputato), in adempimento al rapporto fiduciario assunto e alla doppia fedeltà al cliente e all’Ordinamento giuridico. Il condannato non può essere sottoposto a pene degradanti, non potendo lo Stato (e pretendere i singoli cittadini) di usare gli stessi metodi violenti e disumani, ponendosi, come carnefice, sullo stesso piano degli autori di delitti; come è previsto nella Costituzione Italiana “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; non risponde a a comportamenti legali e a coscienza, anche di fronte a delitti efferati che sconvolgono il consorzio sociale, in adempimento dell’art. 54 della Costituzione che fa obbligo a tutti i cittadini di osservare le leggi, invocare la impiccagione sulla pubblica piazza dell’imputato (e dopo la condanna, del condannato), o consegnare l’imputato alla famiglia, che con compostezza e senso di responsabilità rifiuta il suggerimento, per esercitare vendetta privata e per farne scempio, tornando alla vendetta privata primordiale. La società esige una educazione preventiva alla legalità e al rispetto coscienzioso e responsabile degli altri, da adottare nelle famiglie e nelle scuole e in ogni luogo in cui si uniscono, specialmente le giovani generazioni: ultimamente sono entrate in vigore le norme che dispongono la “mediazione penale”, che non consiste in una legislazione “premiale”, ma rafforza il criterio di ristabilimento della legalità successiva al delitto, e che ha la finalità di comporre la riconnessione del tessuto sociale turbato e compromesso da azioni delittuose. Piemonte. Chi c’è dietro all’improvvisa rimozione del commissario Roberto Streva? di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2023 Chi è il responsabile della rimozione improvvisa del comandante Roberto Streva dai vertici del nucleo investigativo della Polizia penitenziaria? La risposta alla domanda è urgente e richiama alla mia memoria fatti gravissimi, d’altri tempi. Ma andiamo con ordine. Il 20 dicembre, sulle pagine locali de La Repubblica di Torino, è apparso un articolo di Elisa Sola, un articolo molto circostanziato, che non mi pare sia stato contraddetto. Cosa racconta Sola? Una storia nota in premessa, ma complicata da un colpo di scena: da diversi anni in Piemonte alcune Procure hanno acceso i riflettori sulle carceri di Torino, Ivrea, Biella, Cuneo, raccogliendo denunce di abusi, torture e violenze che sarebbero stati perpetrati da agenti della Penitenziaria nei confronti dei detenuti. L’articolo ricorda che a svolgere le funzioni di polizia giudiziaria delegate dalle Procure è stata in questi anni la stessa Polizia Penitenziaria, attraverso il proprio nucleo investigativo (un eloquente segnale di fiducia da parte della magistratura nei confronti del Corpo di Polizia Penitenziaria). A coordinare l’attività investigativa delegata dalle Procure c’è stato il sostituto commissario Roberto Streva che, si legge, per circa vent’anni è stato comandante del nucleo investigativo: non un pivellino insomma. Indagini molto delicate, che hanno ad oggetto le condotte di circa cento agenti, processi da celebrare, accuse tutte da provare (in abbreviato, sottolinea Sola, sono arrivate delle assoluzioni). Ma non è questo il punto. Il punto è che in un non meglio precisato giorno d’autunno, quando tutto era stato approntato in gran segreto per dare il via ad una vasta perquisizione che avrebbe riguardato gli indagati di Cuneo, Streva è stato rimosso dall’incarico. Questo fatto avrebbe talmente allarmato i magistrati di Cuneo da determinarli a ritirare immediatamente la delega delle indagini alla Polizia Penitenziaria, ad anticipare alla notte stessa la mega perquisizione che sarebbe stata invece programmata per il mattino seguente e ad affidarla ai carabinieri. Insomma, stando alla ricostruzione di Sola, la magistratura non avrebbe pensato nemmeno per un istante che quella rimozione fosse dovuta all’imminente pensionamento dello Streva, né al fatto che qualcuno al Ministero si fosse improvvisamente accorto (dopo quasi vent’anni di onorato servizio!) che Streva non avesse i titoli per ricoprire l’incarico di comandante del nucleo investigativo regionale. La magistratura quella rimozione non l’avrebbe proprio digerita, al punto che il capo del Dap, Giovanni Russo, si sarebbe precipitato a Torino per incontrare i magistrati e gettare acqua sul fuoco. Il chiarimento avrebbe però chiarito ben poco, se è vero che le Procure avrebbero deciso di delegare le indagini comunque allo stesso Streva coadiuvato da personale di sua stretta fiducia (nell’articolo si citano a questo riguardo le Procure di Cuneo e Ivrea, non di Torino e Biella). Questa vicenda merita di essere chiarita con urgenza nelle sedi più opportune e cioè niente di meno che il Parlamento, auspicando che venga fugato il dubbio che la rimozione sia stata decisa all’interno dell’amministrazione per togliere di mezzo un funzionario troppo solerte. Una interrogazione che andrà diretta al titolare della Giustizia, il quale chiederà conto al suo sottosegretario con delega al Dap ovvero Andrea Delmastro. Già, proprio quel Delmastro che ha rivendicato con orgoglio d’aver passato al suo sodale Donzelli informazioni riservate sulla gestione del 41 bis. È necessario fare chiarezza senza indugi, perché questa storia evoca oscuri fantasmi di un’epoca remota nella quale pezzi di Stato, in spregio ai principi democratici fondamentali, agivano per intralciare le indagini della magistratura, anche provocando tempestivi “dirottamenti”. *Attivista antimafia ed ex deputato del Partito Democratico Salerno: morto in carcere: scatta la denuncia La Città di Salerno, 28 dicembre 2023 Disposta l’autopsia dopo l’esposto dei familiari per un 31enne che ha perso la vita nella Casa circondariale di Bellizzi Irpino. Il dramma dell’emergenza personale, la tragedia di un giovane salernitano che ha perso la vita mentre era rinchiuso in una Casa circondariale. È il Natale da incubo del carcere di Fuorni e di un detenuto salernitano. Ieri, infatti, nella struttura di via del Tonnazzo, finita al centro delle cronache negli ultimi giorni dopo l’arresto di un “agente infedele” sorpreso mentre stava per introdurre droga e arrestato a Battipaglia dopo una fuga, c’è stata la visita del garante per i detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che ha trovato una situazione “drammatica” fra carenza di personale e situazioni problematiche. Il giallo della Vigilia - E proprio a Ciambriello, nelle scorse ore, si sono rivolti anche i familiari di un detenuto di 31 anni di Salerno, trovato senza vita nel giorno della vigilia di Natale nel carcere di Bellizzi Irpino, ad Avellino. Cagliari. Tiscali, patto di lavoro con i detenuti per rigenerare modem di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2023 L’azienda ha lanciato Laboratori Rework coinvolgendo tre strutture e 30 carcerati: un mix di lavoro, economia circolare e riscatto. Dopo l’accordo tra ministero della Giustizia e Cnel con imprese, sindacati e associazioni per offrire percorsi di training e lavoro ai detenuti, Il Sole 24 Ore racconterà in una serie di puntate l’impegno delle aziende operative su questo fronte. Il primo caso è quello di Tiscali che ha dato vita a tre laboratori in carcere. Il mix è costituito da lavoro, economia circolare e riscatto sociale. È la filosofia dei “Laboratori Rework” che Tiscali, azienda di telecomunicazioni con sede alla periferia di Cagliari, porta avanti in tre carceri coinvolgendo una trentina di detenuti tra Uta (Cagliari), Rebibbia e Lecce. Esperimenti in cui la responsabilità sociale dell’impresa riesce a concretizzarsi. Nei tre laboratori allestiti nelle strutture detentive, in virtù del protocollo avviato nel 2020 da Linkem (confluita poi in Tiscali che si è unita al progetto nel 2022) con il Ministero della Giustizia e della Trasformazione digitale, si porta avanti un programma in cui la formazione e il lavoro in carcere viaggiano assieme. “Per noi questa è un’attività che ha una duplice valenza - premette Massimo Favini, Chief of Staff di Linkem e, a partire dall’agosto 2022, di Tiscali -: da una parte aiuta le persone a riscattarsi e dall’altra fa bene anche all’azienda”. Il motivo è presto spiegato: “Con questa attività siamo riusciti a mettere in piedi un sistema che si regge e funziona ed è in grado di sostenersi anche in futuro con un management diverso”. Rigenerazione dei modem - I trenta dipendenti che lavorano negli spazi allestiti nella Casa circondariale femminile di Rebibbia “Germana Stefanini” di Roma, e quella di Lecce e Cagliari, si occupano di rigenerare gli apparati elettronici indispensabili per la connessione a internet: i modem che sono presenti nelle case e che permettono la navigazione. Si tratta dell’anello che chiude l’economia circolare di questi dispositivi. Perché una volta recuperati non finiscono in discarica o nei centri per lo smaltimento ma passano attraverso una serie di verifiche e interventi, per essere poi inseriti nel circuito. I detenuti si occupano di testare gli strumenti, quindi ripulirli e sistemarli all’interno delle confezioni prima di consegnarli agli addetti della logistica che provvedono alla distribuzione in tutta Italia. Risparmio economico, beneficio ambientale - “L’attività ci permette di avere un risparmio notevole - prosegue il manager -: comprarne uno nuovo costa in media 90 dollari, lavorarne uno ritirato dal mercato e rimetterlo nel circuito costa 30 euro. Se questo valore lo moltiplichiamo per 150 mila pezzi si capisce il valore del risparmio, si tratta di un valore che viaggia intorno ai 9 milioni di euro. Una cifra sicuramente molto importante”. A quello economico si aggiunge poi quello ambientale perché i pezzi recuperati non finiscono tra i “rifiuti” elettronici ma riprendono a funzionare, alleggerendo quindi costi di eventuali conferimenti e smaltimenti. “Questa formula ci ha permesso di reggere anche durante la tempesta perfetta del Covid - racconta Favini che, prima di essere Chief staff a Tiscali e Linkem è stato manager alla Procter&Gamble -, quando sul mercato non arrivavano più apparati ed è cresciuta invece in maniera esponenziale la richiesta. Diciamo che il lavoro dei laboratori ci ha permesso di superare la fase più critica che tutti quanti abbiamo dovuto fronteggiare”. Un modello rodato che va anche oltre la cosiddetta autosufficienza. Non è certo un caso che nel laboratorio di Rebibbia si porti avanti anche una sorta di attività conto terzi. “Le detenute che operano in quella struttura, oltre che della linea della nostra azienda - racconta ancora il manager - si occupano di rigenerare anche apparati di altre imprese impegnate nel settore”. Competenze dopo la pena - Per il gruppo imprenditoriale non c’è solo il fattore economico che è sicuramente importante, e le agevolazioni previste dalla legge Smuraglia per chi investe e porta avanti la propria attività nelle strutture detentive, ma anche quello sociale. “L’aspetto positivo è che si riescono a unire le due cose - aggiunge ancora Favini che nel 2001 con l’attuale Ad di Tiscali Davide Rota ha partecipato alla fondazione della compagnia Megabeam Italia S.p.A. - perché si creano anche delle competenze che possono essere utilizza dopo aver scontato la pena. Noi stessi alcune persone le abbiamo assunte e ora lavorano con successo”. E c’è anche qualche caso particolare: “Un detenuto di Lecce quando è uscito è stato assunto, è venuto a Roma e si è occupato di tutta la logistica che alimenta i laboratori e quindi la lavorazione - argomenta -. Poi si è presentata una opportunità interna per ricoprire l’incarico di responsabile area commerciale cui hanno partecipato in dieci. È risultato vincitore e ora si occupa di questo settore”. Una doppia vittoria, come sottolinea Favini, dato che “una persona, proprio con il lavoro e l’impegno è riuscita a tornare alla vita normale dopo aver pagato il debito con la società”. “Diciamo pure che non siamo solo una macchina che deve fare profitto ma riusciamo a svolgere un ruolo importante per la società e le comunità”. Trento. “Carceri, si istituisca un provveditorato regionale” Il Trentino, 28 dicembre 2023 Spini di Gardolo, la visita del centrosinistra: “Grave sovraffollamento. Detenuta suicidata, sono caduti dalle nuvole”. Valduga (Campobase): “Maggiore osmosi tra il dentro e il fuori” Zanella (Pd): “Assunzione del personale, a noi la competenza” Sovraffollamento (369 detenuti anziché 240), organico di polizia penitenziaria sottodimensionato (163 agenti anziché 227), carenza di educatori (2 anziché 8). In visita alla struttura di Spini di Gardolo (Trento), ieri i consiglieri provinciali del centrosinistra hanno denunciato le condizioni della casa circondariale. E avanzato una proposta: “Si istituisca un provveditorato regionale”. Attualmente la struttura ricade sotto il provveditorato di Padova, che gestisce altre 11 carceri. Un provveditorato regionale permetterebbe di decentrare tutti i compiti di segreteria, affari generali, personale, formazione, sicurezza e trattamento intramurale (ovviamente sempre secondo i programmi, gli indirizzi e le direttive disposte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Significherebbe avere una gestione più attenta alle esigenze delle carceri di Trento e Bolzano, secondo il centrosinistra, accompagnato ieri anche dai consiglieri bolzanini (Verdi e Pd). “Oggi - ha aggiunto Paolo Zanella, consigliere trentino del Pd - la Provincia ha la competenza del reinserimento sociale dei detenuti a fine pena. Dobbiamo fare in modo che la Provincia si prenda la competenza della rieducazione in carcere. Questo ci permetterebbe anche di assumere educatori. Oggi, con i numeri attuali, ne servirebbero 12, invece sono solo 2”. Anche il consigliere di Campobase Francesco Valduga ha sottolineato la necessità di “insistere su una maggiore osmosi tra il dentro e il fuori. È interesse di tutta la comunità. Il grado di civiltà - ha concluso - si misura dalla capacità di occuparsi della qualità di vita dei detenuti”. Nell ‘incontro con la stampa è emerso anche il recente, presunto, caso di suicidio, una bolzanina di 37 anni trovata impiccata nell’area docce e deceduta a distanza in ospedale. Sarà l’autopsia a fare chiarezza sulla morte. “In carcere ci hanno detto che sono caduti dalle nuvole”, ha detto Lucia Coppola, consigliera dei Verdi. Catanzaro. Un 2023 di laboratori e attività per i detenuti della Casa circondariale lametino.it, 28 dicembre 2023 La Casa circondariale ringrazia il Vescovo Maniago e tutto il personale per le attività realizzate durante il 2023: un anno ricco di impegni e di obiettivi. In occasione delle festività natalizie, la direttrice Patrizia Delfino, insieme ai vicedirettori Rubino e Trieste, desiderano rivolgere, in particolare, un ringraziamento al Vescovo Monsignor Maniago “per la vicinanza alla popolazione detenuta attraverso le messe celebrate in occasione della Santa Pasqua e del Santo Natale. Infatti è proprio in questi periodi delicati che aumenta maggiormente la fragilità dei detenuti con il rischio di eventi critici e di autolesionismo. È dunque importante garantire momenti di socialità e di convivialità come spettacoli musicali, donazioni di regali e tombolate, al fine di sostenere le persone ristrette che inevitabilmente, in questo periodo, pensano alla famiglia lontana”. La Direttrice del Carcere di Catanzaro esprime “una valutazione sull’anno trascorso ringraziando per la collaborazione tutto il personale la cui professionalità è messa costantemente a dura prova da emergenze e difficoltà, ma nonostante questo ogni operatore penitenziario contribuisce alla realizzazione del Progetto d’Istituto. In questo anno sono state svolte manifestazioni culturali grazie al contributo delle Scuole CPIA e dell’Istituto superiore “Vittorio Emanuele II” le cui insegnanti prendono in carico i detenuti iscritti alle attività scolastiche. Con il contributo del Provveditorato dell’amministrazione Penitenziaria Calabria, sono stati realizzati dei progetti affidati a realtà associative del territorio, a psicologi e mediatori culturali, per la prevenzione della violenza contro la persona e per la prevenzione del rischio suicidario. È proseguito il campionato di Calcio dei detenuti ed è iniziato il corso per Allenatori promosso dalla Lega Nazionale Dilettanti. Notevoli soddisfazioni provengono dai progetti, finanziati dalla Cassa delle Ammende, per la produzione della ceramica e per la realizzazione di dolciumi. In questo mese il laboratorio di Pasticceria ha venduto più di 500 panettoni tramite la Cooperativa “Mani in libertà”. E ancora non sono mancati i laboratori teatrali e di canto, l’attività di catechesi, il laboratorio di giornalino e di lettura e scrittura creativa. Fondamentale è la presenza di volontari stranieri che hanno fatto da interpreti con i numerosi detenuti provenienti dall’Est Europa. Alcuni detenuti sono impiegati in lavoro all’esterno ex art. 21 o.p. presso la Vigna dell’Istituto e hanno conseguito la patente per il trattore e per l’utilizzo della motosega”. Tutte queste attività, affermano infine: “non sarebbero state possibili senza il lavoro dei funzionari dell’Area Educativa e dell’Area Contabile, che provvedono alle autorizzazioni, alla selezione dei detenuti e supervisionano la buona riuscita dei progetti. È inoltre fondamentale il lavoro di sinergia con il Corpo di Polizia Penitenziaria, coordinato dal Comandante Montauro e dalle Vicecomandanti Irianni e Giannelli, poiché le iniziative pedagogiche si realizzano soltanto se vengono garantite l’ordine e la sicurezza interna. Con la speranza che le opportunità di crescita professionale e le attività trattamentali rivolte ai detenuti possano proseguire e migliorare anche nel 2024, la direzione rivolge un ringraziamento a tutto il personale penitenziario dell’Istituto più grande della Calabria”. Milano. “Benvenuti in galera”, il documentario sul primo ristorante in un carcere di Valentina D’amico movieplayer.it, 28 dicembre 2023 Giovedì 11 gennaio alla Cineteca Milano Arlecchino di Milano alle ore 21 la prima di “Benvenuti in galera”, documentario sul primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere, quello di Bollate, Milano. Giovedì 11 gennaio la Cineteca Milano Arlecchino di Milano ospiterà la prima di Benvenuti in galera, il documentario di Michele Rho che, dopo l’anteprima al Filmmaker Festival 2023, il film ora inizia il suo viaggio in sala dove rimarrà ancora in programmazione alla Cineteca Arlecchino, prima di girare gli istituti circondariali, dove sarà proiettato per i detenuti. Raccontando il progetto di In Galera, il primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere, il film documentario ci porta dentro un pentenziario cercando di abbattere queste paure e diffidenze attraverso le storie di chi sta cercando di riprendere in mano la propria vita lavorando. Per i ragazzi protagonisti il lavoro significa redenzione, vita e futuro: Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel sono uomini che hanno commesso errori e che stanno cercando una seconda possibilità dalla vita, molti di loro attraverso il lavoro. Ideato e supervisionato da Silvia Polleri, questo ristorante di alta classe (e progetto sociale) è aperto a tutti: i camerieri indossano divise, e lo chef ha studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi. Ma il ristorante non è solo un luogo di lavoro per i detenuti, è anche un modo innovativo per la comunità esterna di entrare in contatto con la realtà carceraria in modo nuovo e diverso: un ponte tra il carcere e il mondo esterno. “La parola “Benvenuti” è un benvenuto per tutti voi per conoscere meglio e non avere paura o diffidenza quando vedete un detenuto o entrate un istituto di pena” ha dichiarato il regista Michele Rho. “Il documentario condivide la straordinaria storia di In Galera, gestito interamente dai detenuti sotto la supervisione di una donna tenace, mia madre: ma il mio obiettivo non era raccontare solo la storia di un ristorante eccezionale né, naturalmente, la storia di mia madre. Così, il ristorante stesso è diventato una lente speciale attraverso cui esplorare il mondo del carcere, tema importante su cui confrontarci. Mi sono avvicinato al progetto chiedendomi come i detenuti percepiscano il mondo esterno, come si sentano, che cosa provino. Pensandoli dunque come esseri umani, al di là della colpa che hanno commesso, sempre e comunque nel rispetto e attenzione delle vittime delle loro azioni. A me interessano le storie. Ed è proprio il lavoro che diventa la chiave di tutto, per evitare il carcere, per essere accettati nuovamente dalla propria famiglia ed evitare di tornare alle attività criminali. Durante questo percorso ho incontrato moltissima umanità e ho capito quanto poco conoscevo e comprendevo il carcere e la vita dentro il carcere, perché la osservavo da fuori. È un piccolo cambio di prospettiva, ma determinante. Il documentario ha un tono agrodolce e volutamente non vuole “giocare” con il dramma. I detenuti sono esseri umani e la leggerezza rende la punizione più sopportabile”. Migranti. Fino a quando? La lunga attesa dei minori negli hotspot del sud Italia mediciperidirittiumani.org, 28 dicembre 2023 Novantasei giorni, tanto è passato dal momento in cui J., minore straniero non accompagnato di 16 anni, di origini camerunensi, ha messo piede nell’Hotspot di contrada Cifali, Sicilia Orientale. Come lui, molti minori stranieri non accompagnati restano negli Hotspot in attesa di un trasferimento ben più dei 30 giorni - recentemente aumentati a 45 - previsti dal Vademecum per la rilevazione, il referral e la presa in carico delle persone portatrici di vulnerabilità, redatto e pubblicato dal Ministero per le libertà civile e l’Immigrazione il 23 giugno 2023. Per assurdo i tempi medi di permanenza di un adulto negli stessi centri di prima accoglienza è di circa 7 giorni, secondo quanto rilevato dal team MEDU, che opera quotidianamente presso gli Hotspot della Sicilia orientale, portando supporto psicologico e orientamento legale. Quella di Cifali è una delle tre strutture allestite in Sicilia Orientale per identificare rapidamente i migranti e i richiedenti asilo al momento dell’arrivo, per poi trasferirli in strutture di accoglienza o di rimpatrio. La permanenza in queste strutture dovrebbe durare solo fino al termine delle procedure di identificazione, dunque un periodo estremamente breve. In molti casi, invece, i minori non accompagnati finiscono per restare negli Hotspot oltre tre mesi, senza potersi mai allontanare dalla struttura e in assenza di adeguati spazi, attività e servizi, disattendendo in buona parte le tutele definite al capitolo V.III.4 del Vademecum citato. Per J. le giornate nell’Hotspot di Cifali, scorrono lente senza certezze su quando arriverà il giorno del trasferimento. La struttura versa in condizioni a dir poco precarie, senza riscaldamento e con una sola doccia con acqua calda per una media di 100 ospiti. Un non-luogo in aperta campagna, circondato da alte sbarre, dal quale non è consentito uscire e sorvegliato costantemente da un cospicuo contingente di forze dell’ordine e dell’esercito. Il rimando al recente trascorso, fatto per molti degli ospiti di centri di detenzione, carceri informali, abusi e torture subite lungo le rotte migratorie e nelle carceri libiche è immediato, con il conseguente emergere o acutizzarsi di disturbi post traumatici, come confermato dagli psicoterapeuti del team. Ottantuno giorni dopo il suo arrivo, in data 5 dicembre, J. viene trasferito insieme a tutti gli altri 88 ospiti dell’Hotspot di Cifali - temporaneamente chiuso per ristrutturazione - presso l’Hotspot di Pozzallo. Il giorno dopo, dodici fuggono dal centro per il timore, secondo quanto riferito dai compagni, di essere rimpatriati o trasferiti in Albania. Timore, paura e rabbia, sono gli stati d’animo dei ragazzi incontrati dal team MEDU nei giorni seguenti. Timore di essere rimpatriati, paura per il futuro incerto e rabbia perché sospesi in un limbo indefinito da 3 mesi. Al 31 ottobre 2023 si registravano in Italia 23.798 minori stranieri non accompagnati e un totale di 6.006 posti disponibili in strutture SAI (Servizi Accoglienza Integrata) oltre a poche centinaia di posti in strutture FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione). Questo si traduce matematicamente nel fatto che solo il 25% dei Minori stranieri non accompagnati trova posto nei SAI o nelle strutture FAMI, il restante 75% in parte verrà accolto in famiglie (quasi tutti minori di nazionalità ucraina) o in strutture autorizzate di responsabilità regionale o comunale. I più sfortunati, come J., attenderanno in un limbo per più di 3 mesi, senza possibilità di spostarsi, in camerate enormi e prive di riscaldamento e con davanti un futuro incerto. A fronte di questa drammatica situazione, il Governo, con un emendamento alla legge di bilancio ha stabilito che i minori tra i 16 e i 18 anni saranno equiparati, in termini di tutele, ai migranti maggiorenni. In contemporanea, con lo stesso decreto, parte dei fondi (45 milioni di euro) dedicati all’accoglienza dei minori, sono stati riassegnati alla sicurezza. Ad oggi J. 16 anni, aspetta ancora dal 16 settembre, di sapere quale sarà il suo destino in Italia, il Paese che ha raggiunto dopo aver attraversato deserti, prigioni e la roulette russa del Mediterraneo, scampando alla sorte di accrescere il drammatico bilancio dei morti e dispersi nel Mediterraneo: 2.200, circa 8 ogni giorno nel 2023. MEDU chiede con fermezza al Governo che i minori non accompagnati vengano prontamente trasferiti in strutture di accoglienza adeguate, dove posano godere delle tutele sancite dalle convenzioni internazionali e dalle normative nazionali. In primo luogo, chiede che sia rispettato il tempo di permanenza massimo di 45 giorni nelle strutture di prima accoglienza così come definito dalle normative vigenti. Chiede inoltre che durante la permanenza vengano garantiti adeguati servizi, a tutela dei diritti e della salute psico-fisica di tutte le persone accolte con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili, tra cui i minori. La guerra in Medio Oriente inizia ad allargarsi, il rischio escalation con l’Iran di Vittorio Da Rold Il Domani, 28 dicembre 2023 Israele avrebbe attaccato con droni un campo profughi in Cisgiordania: almeno sei morti. Nel mirino dell’Idf anche i campi nella parte centrale della Striscia. Sale la tensione con Teheran. Dopo aver annunciato che la “guerra andrà avanti per mesi” Israele sta estendendo il conflitto in Cisgiordania dove è di almeno sei morti il bilancio di un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Nur Shams a est della città di Tulkarem. Nell’area si sono svolte battaglie tra le Forze di difesa israeliane (Idf) e la resistenza palestinese locale. L’emittente tv del Qatar, Al Jazeera, ha riferito che l’Idf ha condotto raid in diverse città e villaggi della Cisgiordania nelle zone di Tulkarem, Nablus, Hebron e Qalqilya. Vero è che Yoav Gallant, il ministro della Difesa, ha sostenuto che Israele è impegnato in “sette fronti”: Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran. “E noi abbiamo già risposto su sei di questi fronti”, ha aggiunto, facendo intendere che all’appello mancherebbe ancora l’Iran. Il ruolo dell’Iran - Al momento questa affermazione del ministro della Difesa, pare pura retorica a uso dell’opinione interna di Tel Aviv, anche se le sue parole arrivano dopo l’uccisione a Damasco di un alto comandante dei Pasdaran iraniani, Seyed Razi Mousavi. I guardiani della Rivoluzione iraniani hanno affermato che l’attacco di Hamas in Israele è stata la risposta per l’uccisione del capo della forza Quds, Qassem Soleimani, in un raid americano del 2020 a Baghdad. Hamas ha prontamente smentito le parole dell’Iran affermando che l’attacco a Israele è il frutto dell’occupazione. È molto probabile che l’Iran continuerà ad astenersi dall’entrare direttamente nel conflitto, evitando di enfatizzare l’uccisione di un singolo ufficiale, seppure importante. Teheran non ha alcun motivo per cambiare la sua strategia manifestata dall’inizio del conflitto a Gaza che prevede l’appoggio politico ad Hamas, ma non il suo coinvolgimento diretto. In sostanza per Teheran i ribelli Houthi dello Yemen ed Hezbollah stanno agendo in proprio e senza coordinamento iraniano. Tel Aviv è di avviso contrario. Il rischio escalation - Nel frattempo l’esercito israeliano ha esteso la sua offensiva di terra nella Striscia di Gaza, concentrandosi sui campi profughi nella parte centrale. L’obiettivo dell’esercito è far collassare Hamas al più presto perché l’opinione pubblica mondiale sta chiedendo a gran voce la fine immediata del conflitto. Il bilancio delle vittime secondo, il ministero della Sanità di Hamas è salito a oltre 21mila persone dall’inizio del conflitto. Con questi numeri drammatici di morti civili, e con soli 9 ospedali su 36 ancora in funzione nella Striscia, il governo Netanyahu sta rischiando di perdere la guerra mediatica e di immagine. A spingere per questa linea dura ci sono alcuni ministri nazionalisti del governo israeliano, tra cui quello della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, che vorrebbe cogliere l’occasione per spingere fuori dai confini della Striscia il maggior numero di palestinesi. Intanto testimoni hanno riferito di bombardamenti e raid nei campi di Nuseirat, Maghazi e Bureij. Sono tutti campi che ospitano le famiglie che sono fuggite dalle loro case durante la guerra del 1948. Ma c’è di più. Queste zone si sono popolate, da fine ottobre, di palestinesi che sono fuggiti dal nord di Gaza nelle prime ore dell’invasione israeliana proprio su segnalazione pressante dell’esercito di Tel Aviv, che prima le ha dichiarate zone sicure e poi, secondo un’inchiesta recente del New York Times e della Cnn sono diventate oggetto di attacchi che hanno provocato vittime civili, di cui due terzi donne e minori. L’Idf ha confermato anche l’operazione “in profondità” a Khan Yunis, nel sud di Gaza dove sono state distrutte alcune infrastrutture di Hamas. Lo scontro continua anche sul confine con il Libano. Hezbollah ha rivendicato di aver lanciato almeno 18 razzi su Rosh Hanikra con l’obiettivo di distruggere una base navale israeliana nell’area. Il futuro della Striscia - Non è ancora chiara l’exit strategy di Israele a Gaza. Secondo il quotidiano israeliano liberal, Haaretz, nei prossimi giorni una delegazione di funzionari dell’Autorità palestinese che non paga lo stipendio da due mesi ai suoi funzionari a causa della cessazione dei flussi finanziari, andrà al Cairo per discutere con l’Egitto il suo ruolo nel futuro della Striscia. Ma senza un chiarimento preventivo a tra Israele e Stati Uniti, le trattative sono destinate al fallimento. Russia. “Nel regime di Putin tutti gli oppositori sono ostaggi politici” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 dicembre 2023 Intervista all’avvocato Denis Shedov, difensore del dissidente russo Alexei Gorinov: il primo ad essere condannato per aver denunciato l’invasione in Ucraina. “La prigione lo sta uccidendo”. Alexei Gorinov, avvocato e deputato municipale del distretto Krasnosel’skij di Mosca, è stato il primo cittadino russo condannato per essersi espresso contro la guerra in Ucraina. Il tribunale del distretto di Mescankij, nella primavera del 2022, gli ha inflitto una pena a sette anni di carcere per aver esortato “la società civile a fare ogni possibile sforzo per fermare la guerra”. In questa intervista esclusiva il difensore di Gorinov, Denis Shedov - analista di OVD-Info e collaboratore di Memorial - fa il punto sulla detenzione del proprio assistito e sul rispetto dei diritti umani in Russia. “Dopo l’inizio dell’aggressione su vasta scala in Ucraina - dice al Dubbio Shedov - ci troviamo ad affrontare un nuovo livello di repressione e oppressione dei diritti e delle libertà civili. Una situazione senza precedenti nella storia della Russia moderna. Sono centinaia i prigionieri politici, tutti i media indipendenti sono vietati e incombe una severa censura militare. Allo stesso tempo, la società civile continua ad esistere. Avvocati coraggiosi difendono i prigionieri politici, le organizzazioni per i diritti umani aiutano le vittime delle violazioni e stanno nascendo nuove iniziative per aiutare i rifugiati ucraini che si trovano in Russia e vogliono andarsene. Viviamo tempi incredibilmente difficili, la popolazione russa contraria alla guerra è oppressa, ma continua a lottare per la pace e per i diritti umani”. Avvocato Shedov, come sta Alexei Gorinov? Il 25 dicembre, dopo quasi due settimane di ricerche, sono riuscito a trovare e visitare Gorinov nell’ospedale della colonia penale IK-3 a Vladimir. Alexei ha detto di essere stato ricoverato il 15 dicembre, quando le sue condizioni di salute hanno iniziato a peggiore a causa della febbre molto alta. Nella colonia IK-2 di Pokrov, dove stava scontando la pena, gli è stato somministrato solo paracetamolo e non è stato nemmeno esonerato dal lavoro obbligatorio, consistente nella rimozione della neve per molte ore all’aperto. Ho inviato diverse richieste all’amministrazione penitenziaria per fornire al mio assistito le cure mediche necessarie. Sono state tutte ignorate. Diversi anni fa, quando era ancora libero, Gorinov ha subito un delicato intervento ai polmoni. La prigione sta uccidendo Alexei Gorinov. Per molti giorni nessuno ha avuto notizie di Gorinov. Un trattamento simile a quello riservato ad Alexei Navalny? Questa situazione ci ha preoccupato moltissimo. Per quasi due settimane si sono perse le tracce di Gorinov. Durante la mia ultima visita, Alexei non si reggeva in piedi. Qualche giorno dopo non mi è stato più possibile visitarlo e avere informazioni sulle sue condizioni di salute. Per due settimane ho interpellato quasi tutte le carceri e colonie penali della regione di Vladimir. I colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Public Verdict hanno inviato una richiesta urgente alla relatrice speciale delle Nazioni Unite, Mariana Katzarova, sulla scomparsa di Gorinov. La rappresentante Onu ha predisposto una richiesta urgente, invitando le autorità russe a fornire informazioni sul luogo di detenzione di Alexei Gorinov. Una mobilitazione che ha interessato anche la stampa indipendente. Il giorno di Natale la svolta: sono stato autorizzato a visitare Alexei. Purtroppo, i prigionieri politici sono degli ostaggi nelle mani dell’autorità penitenziaria, sono molto vulnerabili e soggetti a decisioni arbitrarie. L’unico modo per sostenere i prigionieri politici è attraverso la solidarietà e l’attenzione mediatica. Gorinov è stato il primo condannato per i cosiddetti “falsi militari”. Una norma che, dopo il 24 febbraio 2022, ha creato una cappa in Russia? Sì, Alexei è stato il primo ricevere una condanna in base ad un nuovo articolo del codice penale russo, il 207.3. Secondo il progetto sui diritti umani OVD-Info, alla fine del 2023 in Russia sono state perseguite 243 persone in base alla nuova norma. In totale, 803 persone sono state processate per essersi espresse contro la guerra e 267 di loro sono state incarcerate. Dall’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina la repressione politica in Russia è aumentata. Qualsiasi espressione contro la guerra è vietata e severamente punita. I prigionieri politici vivono in condizioni dure e sono sottoposti a punizioni aggiuntive. Ad esempio, negli scorsi mesi di settembre e ottobre, Gorinov ha trascorso 48 giorni in una cella di isolamento punitivo. Possiamo considerarla una prigione nella prigione. Inoltre, a settembre, è stato avviato un altro procedimento penale contro il mio assistito ai sensi di una norma volta a contrastare la “giustificazione del terrorismo”. Secondo l’accusa, Gorinov, durante una conversazione con altri detenuti sulla guerra in corso, ha giustificato azioni terroristiche. Una tesi che ha ben poco a che fare con la legge. Purtroppo, questa è una pratica frequente che consiste nel fare pressione sui prigionieri politici e nell’inventare nuove accuse. Si creano degli ostaggi del regime di Putin a tempo indeterminato. In questo contesto anche per voi avvocati difendere gli oppositori politici diventa sempre più pericoloso? Gli avvocati che difendono i prigionieri politici in Russia sono dei veri e proprie eroi. Devono resistere all’arbitrarietà delle autorità e sono l’unica speranza per chi si trova in carcere per motivi politici. Con altri colleghi difendo Alexei Gorinov, lo assistiamo nei tribunali, lo visitiamo in carcere. Facciamo una quantità indescrivibile di lavoro. Ad esempio, cerchiamo Alexei per giorni interi mentre l’amministrazione penitenziaria tenta di nasconderlo. Gli avvocati che lavorano sui casi dei prigionieri politici sono soggetti a pressioni formali e informali. Pensiamo ai tre avvocati di Alexei Navalny, che sono stati arrestati con accuse inventate. Questa situazione ha allarmato la comunità giuridica russa. Inoltre, il caso Gorinov è stato al centro di istanze internazionali da parte di avvocati di diverse organizzazioni per i diritti umani, come il Centro di difesa dei diritti umani “Memorial”, OVD-Info, Public Verdict, nonché da parte di avvocati indipendenti per i diritti umani, come l’avvocata Rachele Lindon. È un esempio molto importante di solidarietà e cooperazione legale internazionale.