“Una pena lunga, fatta male, ti spegne e ti rende apatico” a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 27 dicembre 2023 Nel nuovo pacchetto sicurezza è previsto che, se tre persone detenute che condividono la stessa cella si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, con modalità nonviolente (gli strumenti per punire le modalità violente già ci sono), scatterà la denuncia per rivolta e si potrà arrivare a una condanna fino a 8 anni di carcere senza accesso ai benefici penitenziari. Introducendo il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, invece di affrontare con strumenti efficaci la sofferenza, ma anche la rabbia che cresce nelle carceri, per condizioni detentive pesantemente illegali, si rischia di gettare benzina sul fuoco, e di togliere alle persone detenute anche quei margini di dignità e autonomia già oggi ridottissimi. Noi volontari e operatori che frequentiamo le carceri ogni giorno, ne abbiamo incontrati, di ragazzi che hanno accumulato anni di galera per trasgressioni come l’essersi rifiutati di rientrare in cella per richiamare l’attenzione, perché un loro compagno stava male, e non arrivavano i medici. Sembra che si voglia tornare al carcere che forma detenuti obbedienti, ma non certo cittadini responsabili. *Direttrice di Ristretti Orizzonti La testimonianza di R., detenuto a Frosinone Se cercassi di ripercorrere i miei anni di galera, partendo dall’arresto nel 2007, quando appena ventiduenne ho varcato la porta carraia della Casa Circondariale di Salerno, in piena notte con il trambusto di chiavi, volti giudicanti, incazzati già di loro, che mi aprivano cancelli e me ne chiudevano altri alle spalle, non potrei non pensare alla modalità costante del carcere, che ti fa sentire sempre e solo come un oggetto, un fascicolo vivente. È così che è cominciato il mio tour di trasferimenti nelle 12 carceri in cui sono stato: da quello gestito in modo decente, al più violento, tra proteste e disordini che pago ancora oggi. Denunce, isolamenti, passando da regimi ordinari a disciplinari, fino alle camere psichiatriche che spesso ti inducevano proprio al suicidio. Per affrontare il carcere ci si deve armare di coraggio e sopportazione, non tanto perché ti torturano fisicamente (ma può accadere), quanto perché sin da subito dovrai subire tante privazioni e ordini: mettiti qua, spostati di là, metti le mani dietro la schiena, cammina ai lati del corridoio, non fermarti a parlare con detenuti di altre sezioni. Quel tipo di carcere non solo ha contribuito a rafforzare la mia corazza, creata dal tipo di ambiente in cui sono cresciuto, ma a causa dei metodi poco rieducativi, ha finito per alimentare le mie parti difficili, spingendomi ad alzare l’asticella dello scontro in una guerra che negli anni mi ha annientato. Molti direttori e comandanti conoscono poco la popolazione detenuta presente nel loro istituto, in particolare i detenuti più problematici, se non per decidere le sanzioni da infliggere loro: rapporti disciplinari, giorni di isolamento, denunce e poi magari togliersi il peso con un trasferimento, che sposta continuamente il problema da una parte all’altra del paese, a meno che qualche direttore più attento non abbia il tempo e la voglia di ascoltare in modo diverso questi detenuti per avviarli verso un serio percorso di responsabilizzazione. Una pena lunga, fatta male, ti spegne e pian piano ti rende apatico, insofferente a tutto, non ti concede di proiettarti verso il futuro. Perché a te, amministrazione, che non sai cosa vuol dire stare da quest’altra parte e non vuoi neppure provare ad immaginarlo, ti è comodo battere la strada dell’indifferenza, della sfiducia verso di noi e dell’inflessibilità che mostri fieramente. Sarà proprio questo modello sbagliato che mi condizionerà e mi resterà incollato addosso, a meno che qualcuno non cominci a capire che trattandoci così non si fa il bene della società. La non violenza in carcere diventa reato, il governo criminalizza la resistenza passiva di Alberto de Sanctis* Il Riformista, 27 dicembre 2023 Con il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica la rivolta in carcere diventa reato. Già ci sarebbe da interrogarsi sulla necessità di introdurre un reato specifico per un fenomeno, quello delle sommosse violente in carcere, che potenzialmente si manifesta con la commissione di un’ampia serie di reati (tra gli altri: danneggiamenti, lesioni, evasioni). C’era forse un vuoto legislativo che doveva essere colmato per impedire ai detenuti di devastare gli istituti penitenziari? La risposta alla domanda, posta evidentemente in modo retorico, è scontata. Per l’ennesima volta il diritto penale simbolico prevale sulla ragionevolezza. Meno scontata è la risposta che mi sento di dare ad un secondo ed inquietante interrogativo: è legittimo, come prevede il disegno di legge con il nuovo art. 415 bis codice penale, criminalizzare la resistenza passiva organizzata da almeno tre detenuti con un comportamento non violento di disobbedienza civile? Potrei fare delle riflessioni esegetiche sull’inedita nozione penalistica di “rivolta”, credo per la prima volta protagonista di una norma penale incriminatrice. E già questa novità (la rivolta come reato) è - almeno dal punto di vista dell’attitudine culturale - un sintomo della volontà politica di ridisegnare i confini, almeno inframurari, della libertà di espressione del dissenso. Senza iperboli libertarie che rischiano talvolta di apparire come forme malcelate di vittimismo, questo non è affatto un bel segnale per la libertà di espressione del pensiero nel nostro Paese. Mi limito a dire che se la nuova figura di reato ha la pretesa di rimanere nell’alveo della Costituzione certamente bisogna intendere per “rivolta” una sommossa contro l’ordine ed il potere costituito di natura violenta, ai danni di cose e persone. Ed allora diventa arduo incasellare in questa nozione un comportamento inerte e pacifico come quello di un gruppo di detenuti che si rifiuta di eseguire un ordine. Proviamo ad immaginare una protesta non violenta in carcere, nata per manifestare indignazione contro il sovraffollamento e le condizioni igienico-sanitarie delle celle. I detenuti, in un numero pari o superiore a tre, potrebbero rifiutarsi di pulire e ordinare la camera, non adempiere agli obblighi lavorativi, persino rifiutarsi di fare la doccia. Trattasi di condotte che possono essere legittimamente prescritte dal regolamento penitenziario. La nuova norma penale prevede proprio la resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. Fino ad oggi, a tutto concedere, poteva configurarsi un illecito disciplinare. Domani, se verrà approvato il disegno di legge, i pacifici “rivoltosi” verranno puniti con la reclusione da uno a cinque anni e, se promotori o organizzatori, con la reclusione da due a otto anni. La norma pare evidentemente incompatibile con il principio di sussidiarietà del diritto penale e persino con il principio di meritevolezza di pena, che trova la sua copertura costituzionale nell’art. 27 Cost. Come affermato, ormai da decenni, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di resistenza a pubblico ufficiale, in uno Stato di diritto non si può qualificare come reato il semplice rifiuto all’obbedienza e l’inerzia rispetto ad un ordine impartito. Ciò vale, a maggior ragione, per chi è ristretto in un carcere e non ha la libertà di manifestare altrimenti il proprio pensiero critico verso l’autorità costituita se non inscenando una protesta non violenta. Le drammatiche condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari meriterebbero risposte politiche ben diverse per rendere la vita in carcere dignitosa e la pena funzionale alla rieducazione del condannato. Il Governo, invece, segue scorciatoie biecamente liberticide, orientate solo a reprimere con la forza il dissenso, pacifico e non violento, di chi la libertà l’ha già persa. *Avvocato penalista Caso Dal Corso, il diritto di sapere di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 27 dicembre 2023 L’accertamento della verità, ossia delle circostanze che hanno portato alla morte di un uomo sotto custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini, dovrebbe essere una priorità. “Domanda di giustizia” è un’espressione che verrà pronunciata ripetutamente nel corso delle prossime cerimonie di apertura dell’anno giudiziario. E indica un insieme di aspettative e richieste, provvedimenti e misure, servizi e attività che rappresentano la sostanza viva di ciò che i cittadini chiedono alle istituzioni del diritto e ai tribunali. Ma “domanda di giustizia” è, nella materialità della vita collettiva e del dolore sociale, ciò che si esprime come richiesta di tutela dalle sopraffazioni e dalle iniquità. Qualcosa di molto concreto, che si misura attraverso il criterio di risposte altrettanto concrete o di rifiuti insensati; e attraverso la fatica di attese e dinieghi, di ore e giorni e anni. I familiari di Stefano Dal Corso, con eccezionale determinazione, insieme al legale Armida Decina, hanno posto per sette volte una richiesta elementare di giustizia alla magistratura, sollecitando che sul corpo dell’uomo trovato morto in una cella del carcere di Oristano venisse effettuata una autopsia. Come si fa ormai anche nei più ordinari casi di incidente stradale. Per sette volte la magistratura ha risposto negando quel diritto a conoscere la verità su una morte ancora piena di misteri (ne ha scritto Andrea Ossino). Se, poi, da questa singola vicenda si ha la pazienza di risalire al quadro generale, si avrà la conferma di quanto quella domanda di giustizia resti tanto spesso disattesa e, di più, mortificata e oltraggiata. Nel 2013 la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) si rivolgeva al governo italiano con queste parole: “La carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stato di sconforto né a una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione” (Causa Torreggiani e altri contro Italia). In quell’anno, il sovraffollamento nelle carceri aveva raggiunto il record storico: al 31 dicembre del 2013, 62.536 persone risultavano recluse, a fronte di una capienza di 47.709 posti. Dopo la condanna della Corte Europea, si registrò una rapida diminuzione della popolazione detenuta, che tuttavia non è durata nel tempo. Dieci anni dopo, infatti, i dati aggiornati del ministero della Giustizia ci parlano di 60.116 persone attualmente recluse nel sistema penitenziario italiano. Altro dato crudelmente significativo è il tasso di suicidi, costantemente in crescita e ormai di venti volte superiore a quello che si registra nella popolazione non detenuta. Lo “sconforto” di cui parla la sentenza della Cedu si traduce in patologia, senso di abbandono, abuso di psicofarmaci e, infine, autolesionismo e morte. Il carcere conferma così la sua natura di macchina criminogena e patogena, dove le storie individuali stentano a emergere, cancellate dall’anonimato dei processi di disumanizzazione. Tra le tante, c’è, appunto, quella di Stefano Dal Corso, morto nel carcere di Oristano, nell’ottobre del 2022. Aveva 43 anni, era padre di una bambina e sarebbe tornato libero da lì a poco: e nessuna circostanza aveva fatto immaginare la volontà di togliersi la vita. Nonostante le contraddizioni, le incongruenze, le molte carenze nella ricostruzione dei fatti e nonostante una recente testimonianza che avvalora l’ipotesi di un violento pestaggio, come si è detto, la richiesta di autopsia è stata ripetutamente rifiutata. L’ennesimo appello - l’ottavo - a effettuare l’esame autoptico è di queste settimane. L’accertamento della verità, ossia delle circostanze che hanno portato alla morte di un uomo sotto custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini, dovrebbe essere priorità dello Stato stesso, pena la crisi della sua legittimazione giuridica e morale. Giovedì 28 dicembre si terrà un incontro nel quartiere romano del Tufello, dove Dal Corso è cresciuto e dove, da quell’ottobre 2022, si susseguono iniziative pubbliche per chiedere che questa storia non finisca nell’oblio. È un interesse dei familiari e degli amici di Dal Corso, ma - va da sé - è un interesse di tutti noi, cittadini di uno Stato di diritto. La tutela delle vittime dei reati da inserire in Costituzione, maggioranza e opposizioni spaccate di Liana Milella La Repubblica, 27 dicembre 2023 In Senato si accende lo scontro sulla richiesta di cambiare l’articolo 111 della Carta su iniziativa del meloniano Balboni che trova a sorpresa il sostegno del 5S Scarpinato. Il Pd frena, contrari FI e Iv. Tutelare le vittime del reato, e metterlo in Costituzione. Una sola riga, ma comunque già divisiva. Con la maggioranza e l’opposizione che si frantumano. Succede, al Senato, sulla modifica costituzionale che propone il meloniano Alberto Balboni. Che recita così: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. La richiesta non è una novità, si trascina da tempo, e da più legislature. Alla Camera, una proposta simile l’ha fatta Luana Zanella di Avs e l’ha presentata il 17 luglio di quest’anno. Ma l’ipotesi Balboni, che è anche il presidente della commissione per gli Affari costituzionali, e che recita “la legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”, accende il dibattito, soprattutto considerata la voglia di cambiare la Carta che permea i meloniani. Ne discutono, proprio nella sua commissione, com’è prassi che sia quando si tratta di riforme che cambiano la Carta. Ma inevitabilmente è coinvolta anche la commissione Giustizia, visto l’argomento. E qui Balboni trova, a sorpresa, un alleato come l’ex pm, nonché ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore di M5S, che sottoscrive l’iniziativa. Ma dai consensi si va ai dissensi, o quanto meno all’esplicita richiesta di frenare e prendere tempo. Anche tra le fila dei partner di governo ci sono voci, come quella del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che hanno dubbi e vogliono approfondire. La pensa così anche il Pd con Alfredo Bazoli perché “è indispensabile una riflessione sulle possibili ricadute della norma sul processo penale e in particolare sul tema della costituzione delle parti civili”. Ma eccoci a Zanettin quando dice: “I cittadini, in qualità di singoli soggetti, si sono visti riconoscere sempre più tutele e garanzie nei confronti del potere pubblico che, in ambito penale, trovano oggi piena realizzazione nelle norme costituzionali che sanciscono il principio di legalità, la presunzione di non colpevolezza e la funzione di educativa della pena”. Ma c’è la preoccupazione dell’avvocato, qual è lo stesso Zanettin, per lo spazio della parte offesa: “In tempi recenti si è imposta l’idea sostenuta anche da robuste campagne mediatiche che la sentenza pronunciata dal giudice debba essere il più possibile aderente al concetto di giustizia proprio della parte offesa. Il fenomeno prende a tal punto piede che le stesse Corti di assise hanno finito per essere fortemente condizionate dall’opinione del pubblico e dalla stampa con conseguente pregiudizio delle garanzie costituzionali”. Ed è proprio a questo proposito che Zanettin dice testualmente che “sarebbe opportuno avviare una riflessione molto ponderata sui provvedimenti in esame che presentano sotto questo aspetto rilevanti elementi di problematicità”. La voce di Zanettin non è isolata nella maggioranza. Anche leghista Erika Stefani, pure lei avvocato, ritiene opportuno “un supplemento di riflessione sulla concreta ricaduta di una modifica come quella proposta”. Perché “pur nel riconoscimento della meritoria opera svolta dalle parti civili e della necessità di tutelare adeguatamente le vittime di reato andrebbe attentamente valutato il rischio di arrivare a configurare il processo penale come una sostanziale composizione degli interessi contrapposti delle parti, sulla base di categorie squisitamente civilistiche che ne cambierebbero la natura”. E qui invece arriva il parere favorevole, dai banchi dell’opposizione, del senatore Scarpinato che “valuta positivamente” la proposta Balboni, “perché recepisce le indicazioni sulla tutela delle vittime di reato, e perché valorizza l’importante ruolo svolto dalle parti civili nell’ambito del processo penale”. Scarpinato cita in proposito il processo per l’omicidio di Stefano Cucchi e quello sull’attentato alla stazione di Bologna, dove le parti civili “hanno favorito la possibilità di reperire di elementi probatori che altrimenti sarebbero rimasti ignoti al pubblico ministero”. E conclude che “l’aumento di una tutela costituzionale per le vittime di reato supererebbe altresì le limitazioni presenti nella riforma Cartabia, che reca disposizioni di natura esclusivamente risarcitoria e trascura il danno morale subito dalla vittima, che potrebbero più efficacemente essere valutate sul piano della legittimità costituzionale”. A schierarsi contro un’accelerazione invece è il senatore di Iv Ivan Scalfarotto che innanzitutto contesta “la tendenza a riversare in Costituzione una serie di principi per via di problemi non risolti”. “Il processo penale non è solo una questione tra la vittima e l’autore del reato” dice Scalfarotto che vede “una pericolosa tendenza alla privatizzazione del processo penale che tende ad assecondare le emozioni legittime delle vittime e il loro apprezzamento o meno di una sentenza”. E afferma che “il protagonista di un processo penale non è soltanto la parte lesa ma, appunto, anche il popolo italiano il nome del quale si emettono le sentenze”. Da qui come Zanettin l’invito a frenare. Il grado di liberalità di una democrazia si misura sulle carriere separate di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 27 dicembre 2023 Le pressioni delle toghe per arginare la riforma pensata dal ministro Nordio. La Giustizia va in ferie? In prossimità dell’imminente pausa per le festività natalizie e l’avvento del nuovo anno si avvicinano - anche per le attività parlamentari - le scadenze di fine anno. Tra queste, merita un’attenzione particolare la (sia concesso) “controriforma” Nordio la quale, tuttavia, come condivisibilmente scritto su questo giornale, se non paralizzata sembra essere stata posta nel congelatore. A dispetto, infatti, dell’iniziale timeline sembrerebbe esserci la possibilità di un’approvazione in blocco della riforma del Guardasigilli Nordio solo a partire dal nuovo anno, anche a causa dell’imminente e imprescindibile necessità di votare la legge di bilancio. Voto finale previsto per il prossimo 29 dicembre. Un’approvazione in blocco della Riforma Nordio che, quindi, si trascinerà inevitabilmente anche il già corposo dossier di emendamenti alla riforma. Tra i tanti temi abbracciati dalla Riforma, tra cui - lo si ricorda - quelli in materia di abuso d’ufficio, traffico di influenze illecite, intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento, contraddittorio, collegialità e misure cautelari, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, prescrizione e separazione delle carriere, quest’ultimi due sono tra i più divisivi. Sulla prescrizione, come sottolineato recentemente da chi scrive, la battuta di arresto si è avuta per effetto di un accorato e unanime appello da parte della magistratura la quale ha chiesto - quasi implorato di rivedere fortemente il disegno di legge, in primis, mediante l’introduzione di una disciplina transitoria, la cui assenza - si argomenta creerebbe significativi disagi agli uffici giudiziari. Sulla separazione delle carriere, il tema - forse - più ideologico e di principio fra tutti che trascende dal mero tecnicismo giuridico, si concentra la grande opposizione della maggior parte della magistratura che vede tale proposta come un vero e proprio vulnus alla democrazia. Eppure - chiosa il Guardasigilli (in occasione del Congresso nazionale forense), che di esperienza giudiziaria e dinamiche processuali alle spalle non è secondo a nessuno “quando sento parlare di ‘ vulnus’ alla democrazia, mi viene da sorridere quando penso che l’intercambiabilità dei ruoli di giudice, pm e avvocato, è in vigore nei Paesi che sono stati culla della democrazia come gli Stati Uniti d’America e il Canada… quando si discute della separazione delle carriere, la litania che sentiamo da parte dei magistrati, è quella che la separazione vulnererebbe la cultura della giurisdizione, che è una espressione metafisica abbastanza astratta’. Si tratta, ad avviso di chi scrive, della più politica tra le scelte, demandata dal popolo - in nome del quale la giustizia è amministrata - ai suoi rappresentanti, i quali costituiscono gli unici legittimati, in ragione del voto e programma elettorale (capisaldi delle moderne democrazie occidentali) a compiere tale scelta. Se è vero, come scrisse un grande pensatore e filosofo illuminista, che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, è indubbio - fuor di citazione - che la diversa sensibilità e approccio al tema della separazione delle carriere da parte dei diversi attori della giurisdizione costituisce la palmare evidenza della maggior o minor adesione ad una concezione realmente liberale - e non solo per slogan - della giustizia penale. Si auspica, dunque, che temi così delicati, espressione a tutto tondo della visione riformatrice (e visionaria) del Ministro Nordio, potranno trovare il giusto e doveroso spazio di riflessione gli stessi impongono… anche a costo di dover attendere l’anno che verrà! Albamonte: “Norma Costa pericolosa, le persone spariranno nel nulla come in Cina” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 dicembre 2023 Continua il dibattito sull’emendamento del responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, che mira a vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Domani la Federazione nazionale della Stampa non parteciperà alla conferenza stampa di fine anno della premier. Ne parliamo con il dottor Eugenio Albamonte, già Presidente dell’Anm ed ex Segretario di AreaDg. Immagino lei sia contrario all’emendamento Costa. Perché? Sono contrario perché realizza l’embargo dell’informazione giudiziaria. E questo va in danno dei cittadini che non sapranno più perché una persona è privata della libertà personale e della magistratura che si vuole parli soltanto con i suoi provvedimenti; in questo modo quest’ultima non potrà fare neanche questo e quindi sarà esposta alla narrazione partigiana degli indagati eccellenti e della politica faziosa che racconteranno le cose come pare a loro. In fin dei conti in danno della democrazia che si basa sulla trasparenza e sul controllo diffuso dell’attività pubblica affinché i cittadini possano esercitare nei confronti della giustizia, dell’amministrazione e della politica il loro giudizio critico, evidenziando gli eventuali errori e criticando quando avvengono le cadute professionali. Quando ho partecipato questa sua tesi, Costa ha sorriso perché sostiene che nessun giornale si preoccupa dell’indagato: non sono persone in carne ed ossa ma notizie... Ricordo a Costa che nella cosiddetta Repubblica popolare cinese il processo è segreto come anche la condanna e l’espiazione della pena. I cittadini semplicemente spariscono dalla circolazione e si viene a sapere che sono nelle mani dello Stato. Mi meraviglio che un sincero garantista come Costa non percepisca la differenza che si basa tutta sulla trasparenza dell’azione giudiziaria e il pieno accesso di tutti alle motivazioni per le quali un cittadino è privato della libertà. Lei non crede che comunque non sia sano, anzi eccessivamente osmotico, il rapporto tra procure e stampa e questo emendamento serva a spezzare questo cordone? Quello di cui non si parla mai è il rapporto tra l’avvocatura e la stampa. Molti cronisti giudiziari potrebbero testimoniare, salvo riservatezze delle fonti, come la maggior parte dei provvedimenti giudiziari, ed in particolare le motivazioni delle misure cautelari, vengano diffuse dai legali. E questo normalmente avviene per veicolare con maggior forza la tesi difensiva da loro sostenuta attraverso gli organi di informazione. Questo, insieme alla patologia di una eccessiva mediatizzazione delle indagini da parte di alcuni pm, contribuisce alla distorsione dell’informazione giudiziaria, che pure è un problema. Ma la cattiva informazione si combatte con la buona informazione e non con nessuna informazione. Però il suo giudizio potrebbe essere di parte. Lei è un pm e come sostiene Costa, siccome vi hanno tolto il giochino delle conferenze stampa, avete bisogno delle ordinanze di custodia cautelare per fare marketing giudiziario... Una cosa è certa: le direttive europee non prevedono questo tipo di misure e anche la restrizione imposta alla comunicazione giudiziaria dalla legge sulla presunzione di innocenza travalica abbondantemente i parametri europei. Questi invece prevedono un giusto bilanciamento tra una diffusa, capillare e dettagliata informazione giudiziaria e il contestuale rispetto del principio di non colpevolezza. Lo dice diffusamente Glauco Giostra in un recente articolo. A me sembra che Costa riveli con queste espressioni una tensione al conflitto tra tifoserie opposte che a me non appartiene. Chi ha appoggiato l’emendamento Costa sostiene che si tornerà alla normativa ante 2017 e allora nessuno gridava al bavaglio... Se mettiamo questa riforma insieme a quella sulla presunzione di innocenza emerge un quadro che in modo assolutamente consapevole vuole mettere in mano il monopolio dell’informazione giudiziaria agli indagati, ai loro difensori, alle rispettive tifoserie mediatiche ad alle strumentalizzazioni politiche. Una situazione nella quale il diritto di cronaca verrà orientato inevitabilmente in una unica direzione. Alessandro Barbano qualche giorno fa sul Dubbio ha ricordato che l’art. 292 cpp dovrebbe vincolare il giudice all’onere di dare rilievo ai soli elementi in diretto contatto con l’imputazione, ai fini del giudizio di gravità indiziaria. Però sappiamo che nella prassi accade il contrario e nell’ordinanza finiscono anche terzi estranei. “Piuttosto che legare le mani ai giornalisti, sarebbe necessario tipizzare criteri di pertinenza e di continenza, sanzionando con un illecito disciplinare ad hoc il magistrato che non rispetti questa norma”. Sarebbe d’accordo? Barbano evidentemente fa riferimento ad una stagione ormai passata e da me più volte pubblicamente stigmatizzata. Quando cioè nei provvedimenti giudiziari si metteva anche l’irrilevante, persino quando incideva profondamente nella privacy delle persone indagate e dei terzi, indulgendo a volte in particolari pruriginosi. Ricordo però che su questi temi è intervenuta la riforma dell’ex Ministro Orlando sulle intercettazioni che ha fortemente limitato la possibilità che ciò avvenisse e ha ridisciplinato completamente la tecnica di redazione dei provvedimenti cautelari. Tanto che in una recente audizione del Garante privacy alla commissione Bongiorno lo stesso ha riferito che dall’entrata in vigore della legge episodi come quelli ricordati da Barbano non si sono mai più verificati. La FNSI è mobilitata contro quello che definisce bavaglio. Tuttavia le aule di tribunale sono poco frequentate quando ci sono i processi. Al massimo i media vengono il primo e ultimo giorno. Anche il prof Spangher ha sostenuto che l’indagato è un morto che cammina perché anche se poi è assolto su di esso si cristallizza la narrazione delle indagini preliminari. Condivide la visione per cui c’è troppa attenzione sulle indagini preliminari e poca sul processo? Condivido assolutamente e questo è un difetto che però riguarda prevalentemente la mentalità di chi svolge attività di informazione. Anche io preferirei un processo nel quale l’unica parte pubblica oggetto di attenzione fosse quella del dibattimento. Ma per far questo non serve la riforma Costa che creerà soltanto un atteggiamento più morboso e meno equilibrato proprio sulla fase delle indagini preliminari senza spostare l’attenzione sul processo. Quindi secondo lei si alimenterà il mercato nero delle ordinanze di custodia cautelare? In verità l’emendamento Costa non vieta la diffusione delle ordinanze. Ne vieta soltanto la pubblicazione per intero o per estratto. Il che vuol dire che gli organi di informazione continueranno a poter disporre delle ordinanze ma, anziché pubblicarne dei virgolettati, dovranno riassumerne i contenuti e in un sistema comunicativo in cui gran parte dell’informazione sui temi della giustizia ha un approccio partigiano questo rimettersi alla discrezionalità del giornalista può creare più confusione e più danni di quanti ne possa risolvere. Paolo Maddalena: “Mattarella non firmi la legge-bavaglio” di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2023 “Continuando così non si fa altro che galoppare verso la dittatura. Se fossi il presidente della Repubblica non firmerei questa legge”. L’ex vicepresidente della Corte costituzionale, Paolo Maddalena, non ha dubbi: il divieto di pubblicare il testo delle ordinanze delle misure cautelari (quelle con cui i giudici delle indagini preliminari dispongono carcere, domiciliari o altre misure cautelari nei confronti degli indagati) fino all’udienza preliminare è “una norma deviante e incostituzionale, figlia di una deriva pericolosissima”. Presidente, l’autore dell’emendamento approvato a larga maggioranza, Enrico Costa di Azione, parla di “misura sacrosanta”, che intende rafforzare il principio della presunzione di innocenza contro la “dittatura della gogna”... Mi consenta una premessa. Questa è l’ultima misura in ordine di tempo in cui si registra un allentamento delle regole poste a presidio dello sviluppo democratico di questo Paese. E quando vengono allentate le regole con una forzatura che arriva a comprimere, come in questo caso, i diritti e le libertà costituzionali, di solito si finisce per fare un favore ai delinquenti. Questo con buona pace di belletti e delle salmerie usati per giustificare scelte di questa gravità. Quindi a suo avviso si tratta di una legge bavaglio? Ripartiamo dalle basi, dall’Abc. Le ordinanze cautelari sono un atto pubblico e il divieto di pubblicarle chiama in causa una serie di principi costituzionali inviolabili che vengono tarpati con uno scopo chiarissimo anche se non dichiarato. Qui stanno vietando la pubblicazione di un atto pubblico assunto da un giudice che agisce in base a precise condizioni di legge e per questi signori i contenuti di questo atto non devono essere conosciuti in ossequio non si sa bene di cosa. O meglio lo si intuisce benissimo. In ossequio alla presunzione di innocenza? C’è chi fa riferimento alla privacy… Qui la presunzione di innocenza non c’entra un fico secco. Qui siamo di fronte a una inaccettabile limitazione del diritto dei cittadini a essere informati. Su atti come quelli che implicano la limitazione della libertà personale che devono essere sempre motivati dall’autorità giudiziaria. Impedire di conoscere quali siano state queste motivazioni determina un grave vulnus di controllo democratico. Significa occultare la verità. A che scopo e per chi? Non per il popolo, ma contro di esso. È una disposizione infame e pericolosissima. Perché pericolosissima? Il diritto dei cittadini a essere informati è il fondamento della democrazia. E non mi pare cosa di poco conto limitarlo. I giornalisti parlano di legge bavaglio… Mi pare il minimo, anche se qui a protestare non dovrebbe essere solo la categoria dei giornalisti. Questa norma incide sulla funzione dell’informazione facendo strame dell’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa, ma anche sull’articolo 4 che al comma 2 dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Ecco: se un giornalista non può informare che giornalista è? Con queste limitazioni in cosa un giornalista può onorare la sua funzione concorrendo al progresso della società? Per protesta i vertici della Federazione della stampa non parteciperanno alla conferenza di fine anno della presidente del Consiglio Meloni e hanno fatto sin d’ora appello al presidente della Repubblica affinché non firmi la legge che ora attende l’ok definitivo del Senato... Se fossi nei panni del capo dello Stato come minimo rimanderei indietro la legge alle Camere con messaggio motivato. Ma temo, visto il clima determinato dal progetto di riforma costituzionale in animo al governo, che ciò non avverrà. Il Quirinale si trova nella morsa di una tenaglia. Anzi in una gabbia. Il Natale in cella. Vinciamo l’indifferenza e costruiamo ponti di Samuele Ciambriello* Il Mattino, 27 dicembre 2023 Il carcere è complesso, è rimosso. Sappiamo tutti che questo periodo di feste natalizie e inizio anno nuovo è quello più critico, insieme a quello delle vacanze estive. Gli agenti già carenti diminuiscono, le scuole sono chiuse, così come molte attività. Mi auguro che ci siano più telefonate e videochiamate, che le celle restino aperte per più ore, in particolare il 24 il 31 dicembre. Tante volte su questo giornale, attraverso la pagina settimanale del lunedì “Parole in libertà”, i detenuti di Poggioreale, e Secondigliano in particolare, hanno commentato dati, raccontato storie. L’Italia ha un problema che andrebbe risolto cercando di non identificare i detenuti come il problema, ma tutto il sistema nel suo insieme. Purtroppo la politica considera il carcere una risposta semplice a problemi complessi tra cui la sicurezza. Il 2023 non è stato un buon anno per i detenuti, si chiude con uno sguardo preoccupante sul carcere. Vorrei da questo giornale, sommessamente, lanciare un messaggio ed una proposta, perchè i dati sul carcere non servono solo a capirlo, ma a cambiarlo questo mondo. In Italia sono detenute 60.215 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 47000 posti. In Campania sono ristrette 7.327 persone a fronte di una capienza regolamentare di 6.165 persone. Ecco il sovraffollamento. I detenuti con condanna, pena inflitta, da un mese a tre anni in Italia in carcere sono 9086. Nella regione Campania 757. In Italia sono ristretti con residuo pena sotto i tre anni 22.635 persone. In Campania 3.538. Su questi dati, più che fare ragionamenti teorici vorrei intervenire concretamente istituendo una sorta di task force tra Amministrazione penitenziaria(Prap campano, direzioni delle carceri, Aree trattamentali), magistrati di Sorveglianza, Uepe, Garanti, Terzo settore per verificare quante di queste migliaia di persone, 3.285 per la precisione, sono effettivamente impossibilitate e perchè ad accedere alle misure alternative al carcere e quante continuano a rimanere in carcere perchè sole, dimenticate, invisibili. Sul carcere c’è un approccio polifonico e policromatico, un populismo penale, politico e mediatico. La sicurezza non si può semplificare con il carcere e non può essere declinata solo in termini di proibizionismo e punizione. Attendo fiducioso, complice l’empatia del Natale, che una porta Santa entri in ogni cella e che la politica e le Istituzioni ai vari livelli più che pensare al consenso vivano il senso della propria funzione. I lettori de Il Mattino da lunedì 8 gennaio 2024 potranno continuare a leggere “Parole in libertà”, sapendo che molte volte l’egoismo non è tanto vivere come ci pare, o vivere solo nell’indifferenza, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi. E l’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. Auguri di un sereno Natale e Felice anno nuovo. *Garante campano dei diritti delle persone private della libertà personale Storie e volti diversi: l’incapacità della legge di porsi nella differenza di don Carlo Cinciabella diocesimazara.eu, 27 dicembre 2023 Parlare di giustizia da cappellano delle carceri è una questione di particolare delicatezza, a causa di quell’imbarazzante senso d’impotenza che tradisce la sua costitutiva incapacità di mediare il “grido” del carcerato. Il detenuto piuttosto ricerca la restituzione a sé stesso, la piena reintegrazione della dignità umana smarrita, nonostante gli errori che abbia commesso. Nella Scrittura, il grido di Israele, ascoltato, invece, da Dio, è divenuto tradizione paradigmatica di possibilità di liberazione: esso, infatti, è la causa dell’azione liberatoria di Dio a favore dell’uomo da ogni sua forma di schiavitù. La ricezione della stessa legge data da Dio a Mosè, donata come espressione di quella paternità di Dio che vuole per i tutti i suoi figli una vita libera, secondo quella condizione umana di nudità prima della caduta, narrata nel libro della Genesi, invece, è stata recepita e vissuta dagli uomini come limite, regola e confine secondo l’egida sopprimente, dimensione etico-comportamentale, esiliando in questo modo la nostalgia di Dio. Aver smarrito il senso di Dio come ragione profonda del dono della legge, data perché questa educasse l’uomo nella possibilità di vivere a sua immagine, ha provocato in lui la scelta di averla intesa nella perversa costrizione etico-comportamentale senza alcuna curanza del suo sentire atteggiamento interiore. Si evidenzia dunque un contrasto tra il fuori e il dentro del sentire dell’uomo le proprie azioni. Fra l’uomo e il sentire il giusto, o l’ingiusto delle proprie azioni, è posto quel confine, in cui situandosi le azioni commesse, si inserisce la legge giudicante. Non lontani dalla prospettiva biblica, la legge dello stato (democratico) assolve il compito di guardare all’azione commessa, più che alle ragioni di essa, ad esempio, la povertà o una possibile forma di schiavitù, che ne hanno provocato le scelte e i comportamenti di chi ora si trova in detenzione. Questa incapacità della legge di cogliere e di porsi nella differenza delle storie, dei volti, delle motivazioni di chi delinque, appare come costitutiva la sua azione giudicante e consegna drammaticamente il detenuto a ciò che sembra paradossalmente la giustizia della legge, “l’uguaglianza di giudizio”, e che invece è la sua contraddizione. L’espressione affissa nei tribunali, la legge è uguale per tutti, evidenzia questa incapacità costitutiva, che non le consente di fare una autentica azione di giustizia della separazione tra l’essere colpevole e vittima allo stesso tempo. La legge cessa di essere criterio di giustizia quando riduce la persona al reato commesso. Il compito e la missione del cappellano, che entra e vive il suo ministero di salvezza dentro i luoghi di detenzione, che sono troppo spesso conniventi con esperienze disumanizzanti silenti e nascoste, è posto in una tensione tra la logica punitiva carceraria e la possibilità di riscatto evangelico della sua ulteriorità per la quale nessun uomo può essere ridotto al suo reato. Per un cappellano è disarmante riconoscere come il Vangelo lo costringa a ripensarsi dinanzi alla sacralità di ogni storia, aldilà delle colpe commesse, spinto a guardare, con uno sguardo non secondo la logica di questo mondo, a quell’uomo-carcerato nascosto e catturato nella solitudine delle sue ferite, riconosciute come segno e memoria delle stesse piaghe del Risorto, dove è rivelata un’altra logica, scandalo per i giudei stoltezza per i greci (1 Cor 1,22-23), riflesso della nudità genesiaca di chi non ha smesso di gridare quel desiderio di essere ri scattato da una legge, capace di restituirgli la libertà nell’unica appartenenza all’umanità. In una società orientata a pensarsi in una frammentata pluralità di appartenenze, che scadono in pregiudizievoli giudizi della banale differenza tra buoni e cattivi, viene meno il giudizio che sa guardare all’unicità di ogni singolarità. Da ciò ne consegue la vincolante scelta di una appartenenza forzata che spesso, per ragione di difesa, mette a tacere il desiderio di chi delinque in un possibile esodo di liberazione. *Cappellano del carcere minorile Malaspina di Palermo Sicilia. Vita impossibile dietro le sbarre: è allarme carceri di Salvatore Cannata L’Identità, 27 dicembre 2023 In Sicilia è allarme carceri. Un’altra rissa, l’ennesima, nel carcere Ucciardone di Palermo. È successo la vigilia di Natale e ci sono di nuovo agenti contusi. Un’altra, la pre-vigilia. Un quadro desolante. Anche nel 2023 risse, aggressioni ad agenti di polizia penitenziaria nelle carceri siciliane. Palermo e Catania. Ma anche Noto, Trapani, Messina, Termini Imerese, Siracusa, Caltanissetta. L’ultima quella del 24 dicembre denunciata dal CNPP - Coordinamento Nazionale Polizia Penitenziaria - all’Ucciardone di Palermo e a distanza di sole 24 ore da una simile nello stesso luogo: “Agenti contusi durante una rissa con detenuti della nona sezione, che volevano vendicare un loro compagno che aveva avuto una violenta lite con un carcerato straniero il giorno prima”. Parole di Maurizio Mezzatesta, segretario regionale del CNPP. In attesa del bilancio di fine 2023, quello disponibile del 2022 parlava di 137 aggressioni verso il personale di polizia penitenziaria da parte dei detenuti, 154 tentati suicidi di detenuti, 11 suicidi, sette tentativi di evasioni, una evasione in ospedale. Nel 2023, i dati sommari ma disponibili, dicono di numeri in aumento. Nel carcere minorile di Palermo, ad aprile, masserizie a fuoco per una protesta. A Catania, in piazza Lanza, lo scorso ottobre, il tentativo di un detenuto di strangolare un agente. Sempre nel carcere di Catania, a febbraio, sei detenuti che hanno picchiato una guardia carceraria. La protesta scoppiata a fine novembre al carcere Malaspina di Caltanissetta rientrata dopo qualche ora di forte tensioni ma anche quella del 30 agosto al Pagliarelli di Palermo, meno intensa ma altrettanto forte quando quasi tutti i 180 detenuti hanno cominciato a battere pentole e stoviglie contro le sbarre, chiedendo condizioni migliori di vita. Tutti episodi denunciati dai vari sindacati che rappresentano i baschi azzurri ma che, nei fatti, hanno prodotto solo una sequela di notizie e nulla più. Come se, sostanzialmente, al di là dell’eco più. O meno ampia del momento, tutto poi si riconducesse a una normalità che di normale ha ben poco. Il giorno di Natale, Antonio Nicita, senatore siracusano del Partito Democratico, ha diffuso una nota dopo avere visto, la vigilia di Natale, la situazione nei tre istituti penitenziari della sua zona: Cavadonna Siracusa, Noto e Augusta: “Riporteremo in una nuova interrogazione le criticità e avanzeremo soluzioni già contenute negli emendamenti PD alla legge di bilancio 2024 sul tema carceri”, scrive Nicita.ù Ha riscontrato criticità infrastrutturali nei bagni e nelle docce ad Augusta; personale insufficiente sempre ad Augusta ma anche a Siracusa; personale medico ed infermieristico carente in tutti e tre le strutture giudiziarie e, infine, scrive Nicita, “l’urgenza di assistenza psicologica ad Augusta e Siracusa”. Un quadro che definire disastroso appare quasi eufemistico. E quello che emerge sembra essere la punta d’iceberg che, per fortuna, non ha ancora prodotto situazioni limite, almeno in questo 2023 che va a chiudersi. C’è un’unica sacrosanta verità. Ed è quella che a luglio fu denunciata manifestando davanti l’Ucciardone, carcere simbolo degli istituti penitenziari siciliani: in Sicilia mancano poco meno di 1.200 agenti penitenziari rispetto all’organico minimo previsto. Dato allarmante, se raffrontato ad una popolazione detenuta di oltre 6.200 unità, di cui quasi 1.000 stranieri. Le condizioni di vivibilità sono al limite, il personale che vigila è a rischio di logorio fisico e sottoposto a stress operativo. Nell’isola ci sono le carceri di più difficile gestione rispetto al quadro generale del Paese: Trapani, Agrigento, Favignana, Gela, Castelvetrano, Piazza Armerina, Sciacca e San Cataldo. Ma, evidentemente, episodi, numeri e casi acclarati, non. Sono bastevoli per fare seriamente qualcosa. Sicilia. Perché oggi le pene contano il doppio di Salvatore Cannata L’Identità, 27 dicembre 2023 Anche in Sicilia i detenuti soffrono e la situazione è spesso “complicata”, anche se questa parola ormai non rende l’idea della reale situazione all’interno delle carceri. Un “piccolo mondo” avvolto dall’indifferenza. Sentito da L’ldentità Gaetano Agliozzo, segretario Fp Cgil Sicilia, spiega che attualmente nelle 23 carceri siciliane si contano oltre seimila detenuti molti dei quali psichiatrici e senza assistenza sanitaria adeguata perché le Rems, ovvero e le Residenze per l’Esecuzione delle misure di Sicurezza che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici, sono solamente due in Sicilia: una a Caltagirone e l’altra nel Messinese. Troppo poche e con liste d’attesa infinite. A tale deficit si aggiunge una carenza di 800 unità di polizia penitenziaria che se si somma alla mancanza di personale sanitario. Tutto questo la dice lunga sulla sicurezza all’interno delle carceri dell’isola. Anche la Federazione sindacati autonomi di polizia penitenziaria chiede nuovo personale. “La Sicilia - afferma Maurizio Mezzatesta, segretario Fsa Cnpp - risulta la regione con il personale più vecchio anagraficamente, 50 anni di media, e ciò espone il personale a rischio di logorio fisico e altissimo stress operativo, oltre alle lunghe convalescenze a seguito delle aggressioni fisiche da parte di detenuti non interessati al trattamento penitenziario. La regione con il tasso più alto di criminalità organizzata risulta priva di direttori nelle carceri di difficilissime gestioni, tra cui Trapani, Agrigento, Favignana, Gela, Castelvetrano, Piazza Armerina, Sciacca e San Cataldo. Una situazione drammatica e gravissima esasperata dagli ormai innumerevoli e pesantissimi eventi critici. Giorgio Bisagna, presidente regionale di Antigone, associazione che ispeziona periodicamente gli istituti penitenziari, punta il dito contro lo stato di degrado di tante strutture. “Carceri obsoleti - dice - che andrebbero sicuramente rivisiti o, meglio ancora, ricostruiti in altre zone. Basta pensare al carcere di Piazza Lanza a Catania con più di un secolo di vita dove si vive nel sovraffollamento e con carenze strutturali all’ordine del giorno. A Palermo il Pagliarelli ha un problema serio di sovraffollamento dopo la ristrutturazione dell’Ucciardone, destinato a Casa di reclusione e non più circondariale. Ad Agrigento abbiamo trovato una struttura fatiscente: molte sezioni inadeguate, quanto a cubatura per detenuto e solo una minoranza delle celle con una doccia. Ci sono poi aree totalmente inagibili e spazi aperti interdetti e non sembra che ci siano all’orizzonte interventi di ristrutturazione. Abbiamo trovato cento detenuti in più rispetto alla capienza originaria a fronte di personale inadeguato. Situazione molto critica sul piano della salute mentale che resta un grosso nodo irrisolto delle carceri. Fino a qualche anno fa, l’assistenza era curata dal ministero della Giustizia. Ora la competenza è delle Asp. I medici inoltre non se ne occupano a tempo pieno, vanno ad esempio una volta a settimana. Ad Augusta i detenuti con problemi psichiatrici sono 120 sui 450 ospitati attualmente. E questa è la nuova emergenza”. Ma oltre a sovraffollamento, un’altra emergenza conseguenza di esso è la scarsa condizione sanitaria. “Quando dico che la pena in diverse carceri si sconta il doppio non è una esagerazione - spiega Bisagna. “Chi sconta la pena dietro le sbarre deve fare i conti non solo con la carenza di organico e il sovraffollamento, perché si aggiunge la mancanza di sostegno mentale essendo la maggior parte dei responsabili di atti di violenza dietro le sbarre persone che da tempo manifestano un forte disagio psichico. Nelle carceri siciliane i temi della salute mentale e della giusta cura sono sottovalutati mettendo a dura prova il sistema che non è più in grado di assicurare la tutela per i lavoratori e livelli di assistenza sanitaria adeguata. Negli ultimi mesi sono aumentate le aggressioni al personale delle carceri e i suicidi di detenuti. La sanità penitenziaria necessita di grande attenzione e di decisioni e azioni da intraprendere in fretta”. Cosa fare allora per rendere le carceri più sicure? “Innanzitutto occorre che in carcere vada chi davvero deve andare. Il sovraffollamento infatti parte da qui e le conseguenze sono il sovraccarico di lavoro per il personale e tutti i fatti tragici che spesso sentiamo nei telegiornali. A questi problemi vanno trovate soluzioni. I tanti detenuti che si avvicinano alla fine della loro pena, ad esempio, potrebbero beneficiare di misure alternative alla detenzione e crediamo sia urgente fare sforzi significativi per garantire che il loro ritorno in libertà sia un successo. Purtroppo però dobbiamo constatare la carenza di educatori che rende difficile il reinserimento in comunità”. Torino. “Denunciare gli abusi in carcere sarebbe stata scelta impopolare” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 27 dicembre 2023 Violenze in carcere a Torino, il Gup: “L’ex direttore Minervini non denunciò per mantenere gli equilibri con gli agenti”. Il dirigente segnalò i presunti abusi quando le “indagini erano iniziate”. Un poliziotto condannato per abuso di potere e non per torture: “Non emerge una forma di sadica soddisfazione”. Domenico Minervini, ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno, era “a conoscenza di una situazione critica e grave che andava attenzionata e monitorata, in particolare con riferimento al padiglione C” dedicato ai sex offender. Ma ha “preferito non interessare l’autorità giudiziaria, omettendo di denunciare quanto via via di sua conoscenza” su presunte violenze subite dai detenuti. Una scelta “consapevole” dettata non dalla volontà di aiutare qualcuno a eludere le indagini, ma dal “timore” di dover dar conto di una decisione “impopolare” che poteva “alterare i rapporti di equilibrio con la polizia penitenziaria”. È quanto scrive il giudice Ersilia Palmieri nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato per omessa denuncia - una multa da 350 euro - Minervini (difeso dall’avvocato Michela Malerba), assolvendolo dalla contestazione di favoreggiamento. Il procedimento riguardava anche il comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza (difeso dagli avvocati Antonio Genovese e Claudio Strata) e un agente in servizio al padiglione C, Alessandro Apostolico (assistito dall’avvocato Alberto Pantosti). Alberotanza, che rispondeva di favoreggiamento, è stato assolto perché il “fatto non sussiste”: “Non sono emersi elementi specifici e inequivoci che possano far ritenere che egli si fosse attivamente adoperato per favorire qualcuno dei suoi sottoposti”. Apostolico, accusato di tortura per aver vessato alcuni detenuti, è stato condannato a 9 mesi (ma per abuso di potere): “Non emerge in maniera univoca che dietro al comportamento dell’agente via sia stata una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza, quanto piuttosto l’evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione, verosimilmente anche in ragione di una scarsa preparazione a trattare con particolari categorie di detenuti”. Nelle 120 pagine il giudice ripercorre le segnalazioni “via via più gravi” riportate a Minervini, tra il 2017 e il 2019, dalla garante dei detenuti Monica Gallo (che con le sue denunce diede il via all’inchiesta) e da altri “soggetti qualificati” che lavorano in carcere, in cui si faceva riferimento alle vessazioni che subivano gli ospiti - in particolare quelli del blocco C - da parte di un gruppo di agenti. Segnalazioni che “sono state sottovalutate”, scrive il gup. Il quale poi mette in luce il successivo cambio di passo di Minervini: “Solo ad un certo punto, a indagini avviate, e comunque quando ormai non poteva fare diversamente, ha iniziato a tenere un comportamento diverso” denunciando in Procura i presunti abusi. Dal canto suo, l’ex direttore non ha negato nella sostanza la conoscenza di alcuni episodi, ma “ha cercato di dargli una veste diversa, puntualizzando che si trattava di segnalazioni generiche”. Ma secondo il giudice, “per la quantità e qualità dei casi segnalati, per la fonte da cui promanavano, per la persistenza nel tempo di criticità anomale legate ad atteggiamenti prevaricatori e aggressivi tenuti nei confronti dei detenuti, per la specifica casistica (numero di sinistri accidentali nel padiglione C), per l’inefficacia di altri strumenti messi in campo (quali le procedure di raffreddamento dei conflitti), non sembra potesse realmente residuare alcuno spazio di discrezionalità”. Insomma, l’ex direttore avrebbe dovuto denunciare tutto alla Procura. Siracusa. Nicita (Pd): “Nelle carceri condizioni precarie e scarsa copertura sanitaria” di Gaetano Scariolo blogsicilia.it, 27 dicembre 2023 Sono precarie le condizioni delle carceri nel siracusano così come è precaria l’assistenza psicologica e sanitaria per i detenuti. Lo afferma il senatore del Pd, Antonio Nicita, che, nelle ore scorse, ha visitato le strutture di Siracusa, Augusta e Noto, insieme ai consiglieri comunali del Partito democratico. “Abbiamo verificato la sussistenza - spiega Nicita - di criticità infrastrutturali (bagni e docce) ad Augusta, il comune tema della insufficienza del personale effettivamente disponibile (Augusta e Siracusa), il comune tema dell’insufficiente copertura di personale sanitario e infermieristico (Augusta, Siracusa e Noto), all’urgenza della copertura di assistenza psicologica (Augusta e Siracusa)” Il caso Augusta - Il carcere di Augusta presenta varie criticità: negli ultimi anni è emersa una forte contrapposizione tra alcune sigle sindacali e l’amministrazione penitenziaria al punto che ad occuparsene è stato il Tribunale di Siracusa. Il giudice del lavoro di Siracusa ha, infatti, condannato, nei mesi scorsi, il ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la casa di reclusione di Augusta per condotta antisindacale nei confronti di un dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, agente penitenziario in servizio nel carcere di Augusta. La morte di due detenuti per sciopero della fame - Il sindacalista, tempo fa, si era reso protagonista di alcune denunce, attraverso comunicati stampa ed interviste rilasciate agli organi di informazione, legate alla gestione della struttura, tra cui l’organizzazione del lavoro, chiamando in causa l’amministrazione penitenziaria, inoltre aveva sollevato il caso dei due detenuti morti in ospedale per le conseguenze dello sciopero della fame. Le aggressioni ed i suicidi - E poi, emergono, in tutti e tre gli istituti i problemi di organico della Polizia penitenziaria ed il sovraffollamento delle strutture che rendono esplosiva la situazione. Sono, infatti, periodiche, come denunciato dai sindacati, le aggressioni sia tra detenuti sia contro gli agenti, per non parlare dei casi di suicidio. L’assistenza sanitaria - Nel 2021, il garante dei detenuti di Siracusa Giovanni Villari denunciò dei ritardi nell’esecuzione degli esami specialistici e degli interventi chirurgici nei confronti dei detenuti. Inoltre, lo stesso Villari scrisse una lettera alla direzione generale dell’Asp di Siracusa chiedendo di motivare le ragioni di questi ritardi sia per le visite diagnostiche sia per gli interventi chirurgici. Secondo Villari, la quasi totalità delle morti registrate come suicidi sono legate a condizioni di salute psicofisica gravi. Secondo Villari, la quasi totalità delle morti registrate come suicidi sono legate a condizioni di salute psicofisica gravi. L’interrogazione - “Riporteremo in una nuova interrogazione le criticità riscontrate e avanzeremo talune delle soluzioni già contenute negli emendamenti PD alla legge di bilancio 2024 sul tema carceri” spiega Nicita. Fossano (Cn). “Qui ho trovato il riscatto”: il nostro reportage nel carcere-modello di Marco Procopio rainews.it, 27 dicembre 2023 È l’unico penitenziario del Piemonte a custodia attenuata, in cui i detenuti possono muoversi liberamente. Non c’è sovraffollamento e negli anni sono stati avviati tanti progetti di reinserimento lavorativo. Babbo Natale con gli occhiali da sole e una renna in ferro battuto fanno capolino dal cancello. Superati i controlli, scopriamo che a realizzarli sono stati i detenuti del corso di saldo-carpenteria. “Oggi è l’ultimo giorno di lezione, stanno sostenendo l’esame finale di pratica per conseguire la qualifica”, spiega Antonella Ragno, responsabile dell’area trattamentale a Fossano. Con la direttrice, ci accompagna tra i laboratori che negli anni lo hanno reso un carcere modello. 97 detenuti su 136 posti, una struttura decorosa e integrata nel tessuto urbano. Dalla carpenteria alla ceramica - Il corso di saldo-carpenteria va avanti grazie all’agenzia formativa della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino. Proseguendo la nostra visita, arriviamo al laboratorio di ceramica, gestito dalla cooperativa Perla. “Diversi ragazzi si stanno cimentando nell’attività, uno di loro è stato inserito prima in tirocinio formativo e poi assunto direttamente dalla cooperativa”, chiarisce Ragno. “Ho sempre avuto la passione del disegno, cosa che avevo trascurato nella mia vita e che ho ritrovato qua in carcere”, racconta un detenuto. “Magari potrebbe tornarmi utile dal punto di vista lavorativo in futuro”. Cosa significa “custodia attenuata” - Salendo poche rampe di scale, si arriva alle celle. Questo è l’unico carcere a custodia attenuata del Piemonte. Significa che durante il giorno i reclusi possono muoversi liberamente. “La sorveglianza non è statica ma dinamica, c’è un gruppo di agenti che gira per le sezioni e i vari spazi a sorvegliare i detenuti”, chiarisce il sostituto commissario Marino Spinardi. Un modello simile a quello del carcere di Bollate, in Lombardia, che però non è facile da replicare in altri contesti. Un modello difficile da replicare - Qui infatti non arrivano persone in arresto, i numeri sono contenuti e c’è una selezione all’ingresso. “Verifichiamo tutti i requisiti che ha un detenuto, ad esempio un fine pena non lungo, un comportamento rispettoso e anche non particolari problemi di salute perché qua non abbiamo un servizio medico h24”, dice la direttrice della casa di reclusione, Assuntina Di Rienzo. Da quando è arrivata nel 2019, la direttrice sta portando avanti nuovi progetti insieme alla sua squadra. Il faro è l’articolo 27 della Costituzione: non punire, ma rieducare i condannati. “Le professionalità che acquisiscono qua dentro, ci fa piacere quando sono davvero spendibili all’esterno”, aggiunge. “Perché se hai fatto una detenzione fine a se stessa e non hai una buona rete familiare, è molto facile che torni a delinquere”. I numeri di chi lavora all’esterno - L’obiettivo di tutto lo staff è dunque quello di favorire il reinserimento sociale e ridurre il rischio di recidiva. “In questo momento abbiamo 24 persone che escono per fare delle attività, presso cooperative, aziende, oppure nei comuni”, chiarisce Antonella Ragno. “E poi c’è chi va a fare volontariato, come i detenuti in pensione”. Dentro il carcere è attivo anche un laboratorio di cucina, dove si lavorano gli ortaggi coltivati in cascina Pensolato, alle porte di Fossano. E poi c’è il laboratorio di panificazione gestito dalla coop Panatè, che ha già assunto due persone. “Qua è stata la fortuna, il mio riscatto”, spiega ai nostri microfoni un detenuto, nato in Albania e dagli anni ‘90 in Italia. “Io ho sempre cercato di vedere il lato positivo nella disgrazia e qui sono riuscito a entrare in un’azienda seria”. Il progetto di un negozio aperto a tutti - Il nostro giro termina in uno spazio ancora spoglio, ma che presto diventerà crocevia tra chi vive dentro e chi vive fuori da queste mura. “E’ in fase di realizzazione, entro il primo semestre 2024, un punto vendita dove venderemo i prodotti realizzati qui ma anche in altre carceri”, conclude Antonella Ragno. “Un modo per abbattere ulteriormente quelle barriere e quei pregiudizi che ci possono essere tra l’interno e la comunità esterna”. Bologna. Giusto processo tra i banchi di scuola: il Coa lancia il progetto di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 dicembre 2023 L’Ordine degli avvocati curerà un percorso formativo in sei moduli per promuovere la cultura dei diritti e l’educazione alla democrazia tra gli studenti di medie e superiori. L’Ordine degli avvocati di Bologna, presieduto dal professor Flavio Peccenini, ha avviato un progetto con il quale intende valorizzare nelle scuole del capoluogo emiliano, in collaborazione con l’Ufficio scolastico bolognese, l’educazione alla convivenza civile e alla legalità. L’offerta formativa riguarda le scuole secondarie di primo grado e le scuole secondarie superiori. Sono previsti interventi frontali, discussioni guidate e lavori di gruppo. La Commissione Scuola e legalità del Coa di Bologna si è attivata per collaborare nella diffusione della cultura della legalità e dell’educazione alla democrazia per il pieno sviluppo della persona umana e dei diritti di cittadinanza. Il progetto intende dare attuazione alle garanzie costituzionali in un’ottica coerente con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dall’Assemblea Onu, per costruire società pacifiche che rispettino i diritti umani, i principi di eguaglianza, e porre fine a ogni forma di discriminazione. Grazie alle competenze qualificate fornite dagli avvocati bolognesi sono stati creati alcuni format di interventi educativi nelle scuole. Gli studenti non saranno solo destinatari di una serie di lezioni, ma saranno anche protagonisti, confrontandosi con gli avvocati, nell’approfondire tematiche tra le più diverse, come quelle del rispetto delle regole e della partecipazione alla vita civile, sociale, politica ed economica per rafforzare la propria identità, costruendo responsabilità per il valore della democrazia, della legalità, della solidarietà e dell’interculturalità. La metodologia che verrà utilizzata prevede, tra le varie cose, simulazioni processuali e proiezioni multimediali. In merito alla parte dedicata alla Costituzione, ampio spazio verrà dedicato all’uso consapevole e sicuro del web e delle nuove tecnologie, con particolare riguardo ai rischi e ai pericoli dell’abuso della rete, alle discriminazioni e agli stereotipi, alla cultura delle garanzie e al giusto processo in riferimento all’articolo 111 della Carta. In totale sono sei i moduli (di durata diversa) che vedranno impegnati gli studenti. Quello sulla giustizia penale e sul giusto processo è particolarmente interessante; ha come punti di riferimento i principi costituzionali e sovranazionali con legami diretti con la cronaca giudiziaria, attraverso la simulazione di un processo penale. I temi di questo modulo della durata di otto ore (quattro incontri da due ore ciascuno) riguarderanno i principi del giusto processo, l’analisi di casi di cronaca giudiziaria, il processo mediatico, l’errore giudiziario e la simulazione di un processo. Con la presenza di un penalista in classe si intende fornire ai più giovani una serie di nozioni sul processo penale e sui principi costituzionali che lo presiedono, rendendo gli studenti protagonisti di un percorso educativo per una maggiore consapevolezza sul significato della giustizia, della responsabilità penale, dell’accertamento processuale e della finalità rieducativa della pena. Attraverso lo studio dei principi costituzionali degli articoli 13, 24, 27 e 111, verranno ripercorse le tappe di un intero processo, mostrando ai giovani cosa accade nella realtà al fine di fornire agli studenti le basi per comprendere il processo penale con l’approfondimento dei principi che regolano il funzionamento della giustizia. Inoltre, ci si soffermerà sul ruolo difensivo e sulla funzione che l’avvocato esercita all’interno del processo. L’obiettivo è quello di comprendere il ruolo svolto dalla giustizia penale nella tutela dei diritti umani fondamentali e di comprendere anche come la giustizia sociale debba muoversi oltre le logiche del colpevole-innocente, salvaguardando sempre la dignità delle persone. In particolare, verranno portati all’attenzione degli studenti i temi della tutela della dignità della persona, degli effetti del cosiddetto “processo mediatico”, sia delle persone vulnerabili - eventuali persone offese - sia dell’imputato, e delle conseguenze della decisione finale. Si analizzerà, infine, un caso di errore giudiziario con l’esame e lo studio della vicenda del giornalista Enzo Tortora e un viaggio nel sistema delle carceri italiane. Il referente di “Scuola e legalità” è il consigliere dell’Ordine degli avvocati di Bologna Francesco Maisano, coadiuvato dai colleghi del Coa Marta Tricarico, Alessandro Martinuzzi e Mario Turco. Sono componenti esterni del progetto gli avvocati Maria Luisa Caliendi, Marinella Oliva, Maria Antonietta Farati e Giulia Zanoli. Milano. Carcere di Opera, tra “dentro” e “fuori” un calendario che fa sognare chiesadimilano.it, 27 dicembre 2023 Con i testi dei detenuti e le immagini di Margherita Lazzati, è il frutto del Laboratorio di lettura e scrittura creativa condotto da Silvana Ceruti e Alberto Figliolia, e con il suo ricavato contribuisce a sostenerlo. Nel 30° anniversario del Laboratorio di lettura e scrittura creativa, condotto nel carcere di Opera da Silvana Ceruti e Alberto Figliolia, esce il nuovo calendario poetico 2024 (edito da La vita felice, 10 euro) con il contributo di riflessioni e poesie di alcuni detenuti della Casa di reclusione. Il calendario dal titolo “Sogni. Cerco di leggere il mio futuro tra carcasse di sogni” è arricchito dalle fotografie di Margherita Lazzati che spesso partecipa al Laboratorio creativo. “In nessun altro luogo più che in un carcere - si legge nella pagina di prefazione di Enrica Francesca Poli - si può immaginare che i sogni assumano questa veste dolente e violenta del desiderio mancato, dell’anelito impossibile, del rimpianto fatale, proprio perché sogni sognati o fantasie immaginate nel luogo della privazione per eccellenza”. Il calendario, giunto alla dodicesima edizione, crea un filo invisibile tra il “dentro” e il “fuori”, facendo dialogare i due mondi e dando respiro a entrambi. Emergono i “sentimenti di dolore, di tristezza, di rabbia”, ma anche di “amore, di desideri, di speranze, di sogni…”, poi ripresi in forma poetica nel calendario. Quale relazione c’è fra il linguaggio del sogno e quello della poesia? “Entrambi si nutrono di similitudini e metafore, toccano, sfiorano la realtà senza volontà di dominio, non la racchiudono in un unico significato, ma la rivestono di molteplici veli”, affermano i curatori. Un sogno a occhi aperti che esprime desiderio, speranza, utopia. “Ci vogliono delle sbarre per liberare la capacità di andare oltre a esse, quella che si chiama in forma aulica trascendenza, ma dovrebbe essere e continuare a rimanere il codice autentico dell’umano”, sottolinea Erica Francesca Poli nella prefazione. Le fotografie di Margherita Lazzati integrano i testi e diventano anch’esse similitudini e metafore, alludono a un sentimento ed evocano o introducono a un sogno. Accostare un’immagine a un testo facilita il rinvio reciproco e la poesia diventa immediata percezione visiva. Il ricavato della vendita contribuisce a sostenere il Laboratorio di lettura e scrittura a Opera. Richieste calendario: www.lavitafelice.it. Per informazioni: labletturaescritturacreativa@gmail.com Viaggi, social, podcast: “Mi presento, sono la Consulta” di Andrea Pugiotto L’Unità, 27 dicembre 2023 A dispetto dei suoi vastissimi poteri, è sconosciuta ai più. Nessuno in Italia marcerebbe in sua difesa, come accaduto per mesi in Israele. Il libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società” (Feltrinelli, 2023) narra quanto fatto per uscire da questo vicolo cieco. Nelle democrazie, è la volontà dei più a decidere: il pluralismo politico alimenta il dibattito e si riversa nel procedimento legislativo al termine del quale, però, ci si conta ed è la maggioranza a prevalere. Nelle democrazie liberali, invece, la volontà dei più non è onnipotente: a frenarne la tentazione egemonica è un delicato sistema di checks and balances a garanzia dei diritti, dell’eguaglianza, del pluralismo. Cioè a tutela della Costituzione. Laddove le istituzioni di garanzia manchino o siano neutralizzate, tutto precipita nell’ossimoro delle democrazie illiberali. C’è un sensibile sismografo per rilevare se un Paese è saldamente ancorato alla sponda liberaldemocratica o, invece, va alla deriva autocratica: l’esistenza di una Corte costituzionale autonoma e indipendente dagli altri poteri. Dopo il 1989, l’introduzione nei paesi dell’Est europeo di una giustizia costituzionale testimoniava la loro transizione verso lo Stato di diritto. Così come la messa sotto tutela governativa delle relative Corti costituzionali è uno dei segnali di regressione democratica in Polonia e Ungheria. In Israele, per mesi le piazze si sono riempite a difesa della Corte suprema che una riforma governativa intende svilire. Accadrebbe lo stesso in Italia, se la maggioranza parlamentare controllasse - de jure o de facto - la Consulta? Per il suo neo-Presidente Augusto Barbera, l’interrogativo tradisce l’”allarmismo di un costituzionalismo ansiogeno”. Le regole vigenti impongono lo scrutinio segreto e una maggioranza qualificata affinché le Camere riunite eleggano solo un terzo dei 15 giudici costituzionali: dunque, “la Corte non può occuparla nessuno”. Giuridicamente, Barbera ha ragione. Ma non ha torto chi segnala allarmato che all’attuale maggioranza di governo (349 parlamentari) mancano solo 11 voti per raggiungere il quorum richiesto dopo il terzo scrutinio (i 3/5 dei componenti l’assemblea, pari a 360 voti) E sarà proprio questo Parlamento ad eleggere, entro un anno, 4 giudici costituzionali. Ecco perché i meccanismi procedurali non bastano. La difesa delle Corti costituzionali deve radicarsi nella consapevolezza diffusa circa il loro ruolo nel sistema: “Tocca ai cittadini vigilare affinché i Governi non si approprino delle loro Corti e, per questa via, dei loro diritti”. Illusorio programma, verrebbe da dire. A dispetto dei suoi vastissimi poteri, infatti, la nostra Corte costituzionale è sconosciuta ai più. Lo dimostra un semplice test: quanti saprebbero declinare le generalità dei suoi giudici? Di altri (per dire: il sindaco, l’insegnante dei nostri figli, il proprio medico di fiducia) pretendiamo a ragione di conoscere tutto. Viceversa, di chi - per nove anni - decide con il suo voto sulle nostre libertà e sull’agire dei soggetti investiti di potere ignoriamo l’identità, figurarsi il curriculum vitae. Altrove non è così. Negli Stati Uniti, ad esempio, le nomine alla Corte Suprema, tutte politiche perché fatte dal Presidente, sono pubblicamente esaminate da una commissione del Senato. Opinioni politiche, pregiudizi, atteggiamenti pubblici e privati, orientamenti scientifici dei candidati sono passati al setaccio, richiamando l’attenzione dei cittadini ben consapevoli dell’incidenza delle loro decisioni sulla propria vita quotidiana. Nulla di ciò accade in Italia, dove la selezione dei giudici costituzionali avviene carsicamente. I membri della Consulta sono tali perché nominati (5 dal Quirinale) o eletti (5 dalle supreme magistrature, 5 dal Parlamento in seduta comune). Di ciò, i media danno sbrigativa notizia, raccolta e accolta per lo più distrattamente. Ogni tanto qualche sentenza costituzionale guadagna la ribalta della cronaca, mescolando di volta in volta favorevoli e contrari. L’opinione pubblica finisce così per cadere nella sindrome della sineddoche: se una decisione non è condivisa, il dissenso travolge l’organo che l’ha pronunciata, accusato di agire politicamente. La parte prevale sul tutto e il saldo finale è comunque negativo. Ecco perché quella posta inizialmente è una domanda retorica: nessuno marcerebbe mai in corteo a difesa di un tribunale costituzionale percepito quale potere invisibile e imperscrutabile. Il libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società” (Feltrinelli, 2023) narra, con autentica passione, quanto fatto a Palazzo della Consulta per uscire da questo vicolo cieco, pericoloso per tutti. È il racconto autobiografico di una grande operazione d’intelligenza collettiva che, in cinque anni (2017-2022), ha rivoluzionato il rapporto della Consulta con la società civile. Un’azione corale capace di inventare qualcosa che, nelle forme attuali, non esisteva prima. Il catalogo è davvero ricco. Le nuove regole processuali tese ad allargare l’istruttoria, la partecipazione e il contraddittorio a soggetti terzi, e a trasformare l’udienza in un’interlocuzione vera tra giudici e avvocati. I comunicati stampa che accompagnano le sentenze più rilevanti, offrendone una sintesi chiara ed efficace. Il ricorso alla tecnologia (sito web, app di servizio, canali social) per favorire la comprensione di ciò che avviene all’interno di Palazzo della Consulta. I Viaggi dei giudici costituzionali (nelle scuole, nelle carceri) per “parlare non alla società ma con la società”. La libreria dei podcast, la mostra fotografica, il docufilm, il concerto in Piazza del Quirinale, quali occasioni per costruire una “solida mentalità costituzionale”. Quanto realizzato rappresenta “un esempio virtuoso di comunicazione multimediale inclusiva”. La Corte costituzionale, infatti, non parla solo ai chierici del diritto, ma a tutti: deve “conoscere e farsi conoscere”, vuole “capire e farsi capire”, obbedendo così a un “dovere dell’istituzione” cui corrisponde un “diritto del cittadino”, nel nome del quale la giustizia costituzionale è amministrata. A suo modo, il libro è un inedito. Non sono mancati, in passato, scritti di giudici costituzionali sulla propria esperienza a Corte: memorie individuali, filtrate attraverso lo stile e il temperamento del testimone. Qui, invece, si racconta di un’esperienza collettiva che ha accompagnato almeno sei presidenze (Grossi, Lattanzi, Cartabia, Morelli, Coraggio, Amato) e l’intero collegio (sia pure con differenti gradi di adesione e coinvolgimento). Se ne narrano in dettaglio la genesi, gli ostacoli esterni, i dubbi e le riserve interne. Ne sono difese, convintamente, le ragioni di fondo in replica alle critiche di settori della dottrina. Si ricorda, opportunamente, come la policy comunicativa della Consulta si inserisca in una corrente transnazionale comune a molti altri tribunali costituzionali. Felice è la cifra stilistica del libro: storia fatta di storie, alterna “il dentro e il fuori” Palazzo della Consulta, intrecciando il formarsi delle decisioni su questioni esemplari (il suicidio assistito, l’ergastolo ostativo, i figli delle famiglie arcobaleno, il patronimico, i referendum) con le modalità della loro comunicazione. Il tutto raccontato con scrittura chiara e non reticente: l’esatto opposto del gergo tipico della corporazione dei giuristi. In questo modo, medium e messaggio si fondono coerentemente: come la Corte raccontata, così il libro cerca e trova un linguaggio comune a tutti. Arriva così a compimento un’esigenza che viene da lontano. Era il 23 aprile 1956 quando il suo presidente Enrico De Nicola, nell’udienza inaugurale, dichiarava il proprio impegno a far conoscere la Consulta e le sue funzioni “qui e fuori di qui”, perché “la nostra aspirazione è ottenere il rispetto e la fiducia di tutti gli italiani”. Molto ora è stato fatto, e bene. “Tornare indietro è impossibile”, scrivono gli autori, perché “comunicare non è (solo) una tecnica. È un’etica, una postura, una responsabilità”. Esatta previsione o wishful thinking? La risposta è affidata ai giudici costituzionali, attuali e futuri, e alla saggezza del loro presidente. Migranti. Cpr, carceri disumane a cielo aperto di Marco Croatti* Il Resto del Carlino, 27 dicembre 2023 Contro la creazione di nuovi Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) in ogni regione italiana, siamo contrari: luoghi degradanti che tolgono dignità e violano i diritti umani. Soluzioni adeguate per affrontare l’emergenza immigrazione sono necessarie. Siamo fermamente contrari alla creazione di nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e al progetto del governo Meloni che punta a costruire almeno un Cpr in ogni regione italiana. No dunque al nuovo centro previsto a Ferrara. Essi non sono altro che disumane carceri a cielo aperto che in alcun modo consentiranno un incremento dei rimpatri, come evidenziato chiaramente dal Dossier statistico immigrazione 2023. La solita vuota propaganda di un governo che fino ad oggi ha fallito sul tema dell’immigrazione e che continua a non trovare soluzioni adeguate per affrontare un’emergenza che in campagna elettorale aveva strumentalizzato in modo indecente per raccogliere voti. I Cpr sono luoghi degradanti che tolgono dignità e numerose sono le violazioni dei diritti emerse durante i sopralluoghi effettuati anche da portavoce del Movimento 5 Stelle nazionali e locali e denunciate più volte al Parlamento dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti. Si finisce in questi centri senza aver commesso alcun reato ma di fatto è come essere messi in carcere. Con condizioni addirittura peggiori per carenze sanitarie, igieniche, alimentari. Va evidenziato altresì che nei Cpr ci finiscono da sempre appena l’uno per cento degli irregolari. Una situazione inaccettabile che crea tensioni sociali e situazioni di grave pericolo per i migranti stessi e anche per le comunità locali. Per questo siamo contrari a nuovi Cpr e chiediamo che si affronti seriamente il problema dialogando con i Paesi di origine per rendere efficaci i rimpatri oppure concordando flussi umanitari per chi ha diritto alla protezione internazionale. A Ferrara intanto sta andando in scena una indegna farsa politica, con il comprensibile imbarazzo del sindaco e della giunta, politicamente dello stesso colore del governo, costretti a accettare un Cpr che la comunità ferrarese non vuole, con l’interesse pubblico piegato a logiche politiche lontane dai bisogni e dai desideri dei cittadini. *Senatore M5S Migranti. La strage nel mare. Strategia? Lasciarli morire per ridurre gli sbarchi di Piero Sansonetti e Angela Nocioni L’Unità, 27 dicembre 2023 Perché Roma ha avviato i soccorsi con ore di ritardo? Perché dice di averlo fatto “per conto dei libici”? Perché non ha detto che la nave Asso 30 era lì Per la strage avvenuta nel Mediterraneo tra il 14 e il 15 dicembre sono sempre più chiare le responsabilità delle autorità italiane. Primo, per essere intervenute in ritardo, provocando la morte di almeno 61 persone, tra le quali alcuni bambini. Secondo, per avere permesso, anzi favorito, il trasferimento - cioè la deportazione - in Libia dei 25 superstiti. Dei quali non sappiamo più nulla. È un comportamento che viola leggi e regole nazionali e internazionali. Quale strategia guida il nostro governo? Sembrerebbe una strategia piuttosto semplice. Quella che potremmo chiamare del push factor. Il calcolo è questo: oggi ci sono un po’ meno di dieci morti affogati al giorno, e gli sbarchi sono 150 mila all’anno. Forse - si immagina - se i morti aumentassero, magari a 20 al giorno, gli sbarchi potrebbero dimezzarsi. La strategia non ha nessuna possibilità di funzionare. In ogni caso è una strategia criminale. La magistratura per ora è impegnata con la Ferragni, ed è giusto così: quando avrà risolto la questione del pandoro, magari se ne occuperà. Il Comando delle capitanerie di porto della nostra Guardia costiera si comporta come se l’Italia fosse la Russia di Putin o il Nicaragua di Ortega. E né il Parlamento né la maggior parte dei giornali italiani gliene chiedono conto. Il Comando (l’Mrcc di Roma) è il comando di un corpo di un paese democratico, con degli obblighi di informazione e di trasparenza su quanto fa o omette di fare. Eppure si rifiuta da giorni di rispondere a domande su come, quando e con chi ha agito il 14 dicembre scorso nella operazione di soccorso a naufraghi in acque internazionali, avviata con un ritardo di ore, in cui sono morte 61 persone e 25 sono state salvate dall’annegamento per poi essere deportate illegalmente a Tripoli e rinchiuse nelle gabbie di Tarek Al Sika. L’Mrcc di Roma ha ricevuto alle 17 l’allarme di Alarmphone che ha inviato la posizione Gps del gommone sgonfio con 86 persone a bordo, posizione poi aggiornata con successivo messaggio un’ora dopo. Perché il Mrcc di Roma si è occupato di allertare i soccorsi con messaggio satellitare Inmarsat soltanto alle 21,40 dopo aver diffuso un Navtex soltanto alle 19,26? Il Comando delle capitanerie di porto si rifiuta di spiegarlo. La responsabilità di coordinamento di quel soccorso è stata assunta di fatto dalle autorità italiane, anche se tardi. Il Mrcc non ha mai detto nemmeno che sulla scena del naufragio c’era anche una nave italiana, il rimorchiatore Asso Trenta. Lo si è saputo perché l’ha scoperto Sergio Scandura di Radio radicale monitorando i movimenti in quello specchio di mare. Perché l’Mrcc l’ha taciuto? Ha partecipato ai soccorsi la Asso Trenta? E perché non ha preso a bordo nessuno? Si è preferito non far mettere piede a naufraghi su una nave italiana per evitare che venissero portati in Italia? La Asso Trenta risulta in zona fino alle prime ore del 15 dicembre, poi è tornata alla sua base nei pressi delle piattaforme offshore di Bouri Field, campo petrolifero controllato dai libici, cogestito da imprese italiane. (Una nave della stessa compagnia della Asso 30, il rimorchiatore d’altura Asso 28 anni fa ha soccorso naufraghi e li ha deportati in Libia. Per averli consegnati ai libici il comandante è stato condannato, sentenza confermata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli). Il fatto che il rimorchiatore Vos Triton - che su ordine dell’Mrcc ha effettuato nella notte tra il 14 e il 15 dicembre il salvataggio - batta bandiera di Gibilterra, nulla toglie al fatto che chi ha lasciato che i sopravvissuti fossero sbarcati in Libia - il comandante del rimorchiatore ma anche chi da Roma ha coordinato il soccorso lasciando che poi decidesse la Libia dove portarli - ha violato consapevolmente una serie di norme internazionali. Innanzitutto l’art.33 della Convenzione di Ginevra e il divieto di respingimenti collettivi imposto agli Stati membri dalla Cedu e l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. I naufraghi vanno sbarcati nel porto assegnato, che deve però essere il porto sicuro più vicino. Altrimenti quell’ordine va disobbedito. Porto sicuro non può essere considerato il territorio libico dove i sopravvissuti vengono illegalmente detenuti e torturati. L’Mrcc di Roma ha detto di aver diramato un avviso di soccorso “per conto della guardia costiera libica”. Deve dire quando l’ha fatto, e perché l’ha diramato “per conto dei libici” visto che la Libia non è porto sicuro. E deve dire se si è occupata subito, alle 17, di accertare che le bande di trafficanti di cui è composta la guardia costiera libica avessero mandato subito sul punto del naufragio delle motovedette. Cosa che non risulta abbiano fatto. D’altronde non fanno mai soccorsi, fanno soltanto catture. L’impressione è che anche questa volta il Comando delle capitanerie di porto di Roma abbia omesso di effettuare un soccorso tempestivo nascondendosi dietro la finzione che se ne sarebbero occupati i libici soltanto perché il gommone era in zona Sar libica, cioè in acque internazionali nel quadrante dove il soccorso è teoricamente affidato ai libici. Perché dentro la Guardia costiera, corpo fatto di gente di mare che ha sempre salvato vite e che continua a salvarne tutti i giorni, nessuno si ribella a lasciar morire naufraghi in mezzo al mare fingendo di aspettare che se ne occupino i libici? La Guardia costiera può escludere che questa volta la strage sia avvenuta per un buco nero nella catena dei soccorsi da cercare al Centro nazionale di coordinamento al Viminale? Si tratta di una struttura istituita con decreto del capo della Polizia il 20 gennaio 2012, modificato con pari decreto in data 26 ottobre 2015, con il nome National Coordination Center/Eurosur (Ncc). Perché nessuno nella Gc denuncia pubblicamente, ma dice solo anonimamente, che i vertici del Comando delle capitanerie di porto si lasciano ultimamente sempre piú sopraffare da quel centro al Viminale al quale potrebbero rivolgersi solo per l’assegnazione del porto di sbarco? Lo fanno per compiacere chi? Lì all’Ncc al Viminale prendono in mano la situazione quando c’è da organizzare un’operazione di polizia invece di un’operazione di soccorso marino. E se accade che operazioni di soccorso vengono trattate come se fossero operazioni di contrasto alla immigrazione clandestina (e diventano spesso naufragi senza salvataggi) è anche perché la Guardia costiera è stata scippata di molte sue funzioni. E se le è lasciate scippare. Quando il Centro di comando delle capitanerie di porto riceve un allarme per nave a rischio naufragio - e qualsiasi gommone sovraccarico lo è, tanto più se ci sono onde alte 2 metri e mezzo - deve attivare i soccorsi. È suo dovere farlo. Fonti della Guardia costiera spiegano invece che ormai l’Mrcc di Roma molto spesso invece di avviare subito i soccorsi avvisa l’Ncc, cioè il Viminale, che ci sono in mare potenziali naufraghi i quali, se non affogano nel frattempo, potrebbero essere considerati potenziali migranti da respingere con operazione di polizia. Affidata spesso e volentieri ai miliziani libici. La Guardia costiera ha forse l’obbligo di legge di avvisare prima di avviare i soccorsi questa struttura al Viminale? No. E’ un compito di rango amministrativo al quale la Guardia costiera si sottomette volontariamente ogni volta per decisione di singole persone. Lo scippo avviene tecnicamente perché chi sta di turno al Mrcc di Roma si preoccupa di attenersi a questa norma amministrativa che non configura nessun obbligo reale. Anche questa volta è andata così? Perché un allarme ricevuto alle 17 è stato ignorato per ore? Perché è avvenuta una strage nonostante da dieci ore il gommone fosse osservato dal cielo da ben tre missioni di voli Frontex? La notte di Natale la nave Sea watch 5, nave di ong, ha salvato in quella stessa zona di mare 118 persone. Porto assegnato dal Viminale: Massa Carrara. Porto lontano, come vuole il decreto Piantedosi che per spazzare via dal Mediterraneo centrale le navi delle ong le obbliga a sbarcare i sopravvissuti in porti lontani. Questo porterà la Sea watch 5 per giorni lontano dal Mediterraneo centrale dove le condizioni meteomarine sono in peggioramento. Droghe. Cocaina, la nuova pista africana di Marco Perduca Il Manifesto, 27 dicembre 2023 Che il traffico illegale di sostanze stupefacenti fosse un fenomeno trans-nazionale era noto ma grazie a recenti studi e analisi sono emerse diramazioni in zone che negli anni scorsi non erano prese in considerazione con la dovuta attenzione. Le Nazioni unite e alcuni istituti di ricerca indipendenti hanno iniziato a dedicare particolare attenzione alle “nuove” vie dei traffici illeciti di molecole vecchie e nuove. Un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) afferma per esempio che la Nigeria è in cima alla lista delle regioni del contrabbando di cocaina in Africa. Una novità legata anche al fatto che da un paio di anni la Nigeria ha iniziato a condividere con l’Onu dati debitamente elaborati. Il Global Report on Cocaine del 2023 segnala che, come spesso accade, la presenza di quella sostanza in quanto bene in transito, ha avuto anche un impatto sull’aumento della domanda. Sulla base delle informazioni aggregate dall’Unodc provenienti dal più popolato paese africano e da altri stati, relativamente alle principali rotte del commercio di cocaina nel periodo 2018-2021, il Rapporto documenta che il traffico dalla Nigeria si dirige “verso venti paesi o territori che vanno dai Burkina Faso, Mali, Niger, Ghana, Senegal e Liberia a paesi di transito Algeria, Etiopia, Marocco per arrivare e paesi e territori nella regione Asia-Pacifico come Australia, Cina, Hong Kong, Cina, India, Malesia, Sri Lanka”. Alcune delle partite arrivano fino in Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti oltre che in Turchia e Regno Unito: un vero e proprio hub mondiale. La cocaina arriva in Nigeria attraverso una varietà di canali comprese navi portarinfuse (navi che trasportano carichi non-liquidi e non aggregati in container o pallet) che giungono nei porti di Lagos, come Apapa e Tincan Island, o nelle zone costiere più a sud di Onne. Alte rotte interessano voli passeggeri verso gli aeroporti Lagos, Abuja, Enugu e Kanol, mentre le rotte terrestri interessano Seme (al confine con il Benin) e Llela (al confine col Niger) dove il commercio avviene tramite pacchi consegnati da corrieri o servizi postali formali e informali. Il paese da cui partono questi carichi di cocaina è il Brasile. I dati relativi ai sequestri di cocaina fanno ritenere che malgrado la presenza di trafficanti nigeriani all’interno di una consolidata rete internazionale, il volume di polvere bianca che transita sul territorio nigeriano è una quota relativamente modesta di quanto raggiunge l’Africa occidentale e centrale. La concorrenza si sta infatti facendo sempre più feroce e gli ultimi rapporti internazionali segnalano che almeno nove delle più grandi organizzazioni di trafficanti messicane e latinoamericane sono arrivate ad operare in Africa corrompendo la politica locale e facendo della Guinea-Bissau uno dei porti d’entrata più importanti della costa atlantica. L’aggressione russa dell’Ucraina ha riorganizzato, cioè ampliato, i traffici africani d’eroina proveniente dall’Asia centrale. In attesa che la jihad talebana conto il papavero da oppio entri in vigore, i raccolti dell’anno scorso continuano ad arrivare in Europa passando per porti iraniani e pakistani per arrivare a Mombasa in Kenya e proseguire verso nord passando per i deserti sudanesi e libici o restando in zona per finanziare anche le bande somale. Governi corrotti, giunte militari, gruppi di terroristi e mercenari, coste non controllate, deserti infiniti sono un paradiso per qualsiasi traffico illecito e quello delle piante, e molecole contenute nelle Convenzioni dell’Onu sulle sostanze psicotrope e narcotiche sembra fatto apposta per arricchire chi delinque e finanziare nazionalmente o internazionalmente chi li dovrebbe controllare. Il solito gioco a somma zero del proibizionismo mondiale. Dove i diritti umani vincono la battaglia: le buone notizie del 2023 Il Dubbio, 27 dicembre 2023 Il cambiamento è possibile: ecco il rapporto di Amnesty International sull’anno che finisce. Anche se i diritti umani sono gravemente compromessi in molti stati del mondo, attivisti e sostenitori di Amnesty International hanno dimostrato che il cambiamento è sempre possibile. Ecco una selezione delle migliori buone notizie sui diritti umani del 2023, scelte una per mese su un totale di oltre 280. Gennaio. Libertà di stampa - Filippine Il 18 gennaio la corte d’appello per i reati amministrativi ha assolto la giornalista Maria Ressa e la società Rappler, proprietaria dell’omonimo portale, dal reato di evasione fiscale. Un’ulteriore assoluzione, l’ultima relativa a pretestuose azioni giudiziarie mosse dal 2018 con intenti politici, arriverà il 12 settembre. Febbraio. Pena di morte - Zambia L’8 febbraio, dando seguito all’abolizione della pena capitale decisa sei settimane prima, il presidente Hakainde Hichilema ha chiuso i bracci della morte dello stato commutando in ergastolo le condanne di 11 donne e 379 uomini. Marzo. Pena di morte - Giappone Il 13 marzo l’Alta corte di Tokyo ha stabilito che Hakamada Iwao, nel braccio della morte per 45 anni, buona parte dei quali trascorsi in isolamento, ha diritto a un nuovo processo. La corte ha concluso che, quando nel 1968 venne condannato alla pena capitale, Hakamada venne privato del diritto a un processo equo. Aprile. Giustizia internazionale - Kosovo Il 3 aprile è iniziato, presso la Corte speciale per i crimini di guerra dell’Aja, il processo nei confronti dell’ex presidente Hashim Thaci e di altri tre ex comandanti dell’Esercito di liberazione del Kosovo, per crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante e subito dopo la guerra del Kosovo del 1998-1999. Maggio. Diritti delle donne - Bahrein Il 24 maggio il parlamento ha abolito l’articolo 353 del codice penale che esonerava dalla condanna gli stupratori che avessero sposato la loro vittima. Giugno. Difensori dei diritti umani - Turchia Il 6 giugno, sei anni dopo l’inizio di una persecuzione giudiziaria con fini politici, Taner K?l?ç, ?dil Eser, Özlem Dalk?ran e Günal Kur?un - i primi due, rispettivamente, ex presidente ed ex direttrice di Amnesty International Turchia -, condannati in primo grado nel luglio 2020 per reati di terrorismo, sono stati assolti. Luglio. Prigionieri di coscienza - Egitto Il 19 luglio il presidente Abdelfattah al-Sisi ha graziato Patrick Zaki, che il giorno prima era stato condannato a tre anni di carcere per “diffusione di notizie false”, e l’avvocato per i diritti umani Mohamed al-Baker, in carcere dal 2019 e che alla fine del 2021 era stato condannato a quattro anni di carcere per lo stesso “reato”. Agosto. Giustizia - Cile Il 31 agosto sono state definitivamente confermate le condanne a 25 anni nei confronti di un generale dell’esercito in pensione e altri cinque ex militari per il sequestro e l’omicidio del cantante e poeta Victor Jara, assassinato il 16 settembre 1973, cinque giorni dopo il colpo di stato. Settembre. Diritti delle donne - Messico Il 6 settembre la Corte suprema federale ha stabilito che “il sistema legale che criminalizza l’aborto nel codice penale federale è incostituzionale in quanto viola il diritto delle persone a prendere decisioni autonome sulla gestazione”. Ottobre. Diritti delle persone Lgbt - Mauritius Il 4 ottobre la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale l’articolo 250 del codice penale, risalente al 1898, che puniva le relazioni sessuali tra adulti dello stesso sesso con pene fino a cinque anni di carcere. Secondo i giudici, “la norma non riflette alcun valore nostrano ma è un lascito della storia coloniale britannica”. Novembre. Armi - Nazioni Unite Il 1° novembre la Prima commissione dell’Assemblea generale ha approvato con 164 voti a favore la risoluzione L56 presentata dall’Austria in favore di una normativa internazionale sui sistemi d’arma autonomi. La risoluzione era stata sollecitata dalla campagna “Stop Killer Robots”, di cui fa parte anche Amnesty International. Dicembre. Discriminazione - Nepal Il 5 dicembre un tribunale ha condannato 26 imputati, appartenenti a una casta dominante, per l’omicidio di sei giovani appartenenti alla casta oppressa dei dalit. I 26 imputati avevano aggredito un gruppo di dalit sostenendo che uno di loro aveva una relazione con una ragazza della casta dominante. Medio Oriente. Nel tempo delle guerre “identitarie” di Sebastiano Maffettone Corriere della Sera, 27 dicembre 2023 Questo acceca chi vede messa a rischio la propria identità e è così incapace di vedere il dolore altrui, come nel caso Israele-Palestina. “La guerra è un inferno” (war is hell), la frase attribuita al generale William T. Sherman durante la guerra civile americana, vale in realtà per tutte le guerre. Che sempre portano con sé morte, distruzione, miserie, lutti, disperazione. Ciò ammesso, va anche detto che raramente siamo stati esposti a tutto ciò come negli ultimi giorni sul fronte Israele-Palestina. Guerre, in verità, ci sono sempre state e spesso sono state crudeli come questa. Ma di solito non ce ne siamo resi conto, magari anche perché occupavano meno spazio sui media. O semplicemente perché erano lontane da noi, e riguardavano angoli sperduti di quello che una volta si chiamava terzo mondo. Ora, invece si combatte vicino e con la probabilità che un’espansione del conflitto possa riguardarci direttamente. Lo storico Yuval Noah Harari ha detto -nel corso di un’intervista a Lilli Gruber nel programma 8 ½- che la maledizione della storia consiste nel volere salvare il passato, mentre bisognerebbe guardare al futuro. Ci sono, in altre parole, quelli che usano le ferite del passato per seminare l’odio, mentre invece si dovrebbero curare queste ferite per cercare la pace. Naturalmente, in questo momento è molto complicato fare qualcosa del genere. L’efferatezza dell’attacco di Hamas rende infatti difficile se non impossibile fermare la reazione di Israele. La domanda, però, verte sulle ragioni profonde che spiegano la difficoltà o l’impossibilità di sanare queste ferite. Anche se spiegare - sia chiaro - non equivale a giustificare, e uccidere persone innocenti una alla volta, inclusi i bambini (come ha fatto Hamas), pur se trovasse una spiegazione non sarebbe giustificabile. Ci sono, come sempre, diverse ragioni che possono spiegare lo stato di cose attuale. A cominciare da quelle geopolitiche. La principale tra queste è, come è ovvio, l’incapacità collettiva di affrontare seriamente la questione palestinese. Ma ci sono anche ragioni geopolitiche più generali, come per esempio il declino dell’egemonia degli Stati uniti e l’emergere di potenze regionali che rendono più semplice lo scatenarsi di conflitti locali non controllabili. Ma, a parer mio, c’è qualcosa in più. Le guerre di cui ci occupiamo in questi giorni non sono combattute (principalmente) per ragioni economiche e politiche tradizionali. Non si lotta in nome del comunismo o del capitalismo, e neppure per desiderio di maggiore libertà e eguaglianza. Contano di più, invece, ragioni identitarie. Per dirla in maniera fantasiosa e paradossale, è come se nell’immaginario dei combattenti Marx e gli illuministi cedessero il posto a Freud. Cosa che tra l’altro appare con clamorosa evidenza se guardiamo a quanto accade in Medio-Oriente tra israeliani e palestinesi. Dove è chiaro che è in gioco il loro destino di popoli, con la loro storia, la loro religione, le loro forme di vita e tradizioni. Un pacchetto che nell’insieme costituisce l’identità di un popolo. Una riflessione del genere spiega anche la natura di gioco a somma zero di simili conflitti e di conseguenza l’atrocità cui assistiamo. Semplificando al massimo, sulle questioni economiche e politiche si può trattare. Su quelle identitarie invece no, e la sfida rischia di essere totale. Questo rende così impervio cercare la pace da parte dei contendenti che hanno subito le ferite di cui si diceva. Questo acceca chi vede messa a rischio la propria identità e è così incapace di vedere il dolore altrui. Questo fa sì che sia indispensabile il pensiero di chi è al di fuori dal novero di quanti hanno subito offese nel passato ed è perciò più in grado di progettare il futuro. Medio Oriente. Bombe su Gaza e omicidi mirati, ora è escalation di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 27 dicembre 2023 Durissima offensiva militare nella Striscia, colpito il campo profughi di Maghazi e la sede della Mezzaluna rossa. Iran e Hezbollah promettono vendetta. Un Natale di bombardamenti sulla Striscia di Gaza dove l’offensiva israeliana è ripresa con tutta la sua intensità e le comunicazioni (internet e rete telefonica) sono di nuovo interrotte. L’epicentro delle operazioni è nella città di Khan Younis, la seconda più popolosa dell’esclave palestinese teatro di feroci combattimenti e dove è stata colpita la sede della mezzaluna rossa in un raid aereo. Nelle ultime ore sarebbero morte oltre mille persone, denuncia il ministero della sanità di Gaza. L’Idf ha annunciato l’arrivo di altre migliaia di soldati, tra cui ingegneri militari, per rafforzare l’invasione di terra e arrivare alla resa dei conti con i miliziani di Hamas ma soprattutto con i dirigenti. Il ricercato numero uno è Yahya Sinwar, leader dell’ala militare che ha parlato per la prima volta dai pogrom del 7 ottobre. “Stiamo disputando una battaglia senza precedenti, ma non ci fermeremo, non ci sottometteremo all’occupazione”. Secondo Sinwar le Brigate al-Qassam dall’inizio dell’invasione avrebbero attaccato almeno 5.000 soldati israeliani, uccidendone un terzo e distruggendo oltre 700 mezzi blindati. Numeri in netto contrasto con il bollettino ufficiale delle forze israeliane (Idf) che parlano di appena 156 soldati rimasti uccisi. Ma al di là della propaganda incrociata, ci sono i fatti i quali ci dicono che l’azione del governo Netanyahu non si limita più alla furiosa rappresaglia nella Striscia, il nemico non è infatti circoscritto alla prima linea di Hamas ma nel mirino ci sono anche i suoi presunti padrini, in particolare il regime iraniano e le milizie sciite di Hezbollah contro i quali ha riattivato la strategia degli omicidi mirati. L’uccisione del generale iraniano Sayyed Razi Mousavi, colpito lunedì scorso in un attacco aereo in Siria fa salire di livello lo scontro, finora avvenuto “per procura”, tra lo Stato ebraico e il regime degli ayatollah. Anche perché Mousavi non era un ufficiale qualunque ma uno dei più influenti consiglieri del Guardiani della rivoluzione, quasi equivalente per fama e importanza al generale Qassem Soleimani, capo delle brigate al Qods ucciso in un raid Usa nel 2020. Tel Aviv sostiene che si tratta di azioni difensive e non si preoccupa degli effetti destabilizzanti in tutta la regione: “Siamo attaccati su sette fronti differenti”, ha detto in un intervento alla Commissione parlamentare per la sicurezza e la difesa, il ministro della Difesa Yoav Gallant, facendo capire che la guerra sarà lunga e complessa: “Ci attaccano da Gaza, dal Libano, dalla Siria, dala Cisgiordania, dall’Iraq, dallo Yemen e dall’Iran. Abbiamo già risposto e agito in sei di questi fronti. Voglio dirlo in maniera esplicita: chiunque agisca contro di noi è un potenziale bersaglio, non esiste immunità per nessuno”. Come se non bastasse anche gli Stati Uniti di Joe Biden, che erano rimasti dietro le quinte tentando di frenare le rappresaglie di Netanyahu, sono entrati in scena in Iraq colpendo con dei droni esplosivi alcune istallazioni iraniane e di Hezbollah nell’area di Erbil, nel nord del Paese. Quel che tutti temevamo sta dunque prendendo corpo: la guerra tra Israele e Hamas si allarga a macchia d’olio coinvolgendo sempre più attivamente gli attori finora in seconda linea, come le milizie sciite di Hezbollah che ora promettono ritorsioni nei confronti dello Stato ebraico e degli alleati statunitensi. Netanyahu ha intanto fissato tre requisiti per raggiungere la pace con i “vicini palestinesi di Gaza”, spiegando che l’offensiva va avanti fino al disarmo totale delle milizie islamiste: “Hamas deve essere distrutto, la Striscia di Gaza deve essere smilitarizzata e la società palestinese deve essere deradicalizzata. Questi sono i tre prerequisiti per la pace”, ha detto in un’intervista rilasciata al Wall Street Journal. Herzi Halevi, capo di Stato maggiore israeliano di ritorno dal fronte, fa intanto sapere che la guerra durerà “diversi mesi”, perché gli obiettivi dei generali di Tel Aviv sono molto difficili da raggiungere in una zona che pullula di civili: “Abbiamo eliminato molti terroristi e comandanti, alcuni di loro si sono arresi alle nostre forze ed abbiamo preso centinaia di prigionieri - ha aggiunto - abbiamo distrutto molte infrastrutture sotterranee e armi, ma ci vorrà tempo, mesi, per terminare l’opera”. Medio Oriente. Khalida Jarrar in carcere: l’attivista palestinese arrestata stamattina a Ramallah di Anna Lombardi La Repubblica, 27 dicembre 2023 L’esercito israeliano ha preso nella sua abitazione l’ex deputata più volte detenuta: “Sono arrivati alle 5 del mattino, hanno sfondato la porta”. Khalida Jarrar è di nuovo in carcere. Ex deputata palestinese, 60 anni, storica attivista dei diritti delle donne - soprattutto quelle detenute - dirigente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e membro del Consiglio Legislativo Palestinese, è stata prelevata in casa sua a Ramallah, Cisgiordania, dall’esercito israeliano. Secondo quanto confermato anche da suo marito Ghassan all’emittente araba Al Jazeera: “Hanno sfondato la porta alle cinque del mattino”. Non è la sola ad essere stata arrestata. Secondo un comunicato del Fplp - il movimento marxista bollato come “terrorista” da Israele (e pure da Stati Uniti e Unione Europea) - “l’esercito ha effettuato un ampio numero di fermi tra i leader e i membri dell’organizzazione, arresti che non spezzeranno la volontà del nostro popolo”. Fermi di questo tipo sono d’altronde ormai all’ordine del giorno: dall’atroce attacco di Hamas del 7 ottobre dove sono state massacrate 1200 persone, sono state almeno 4700 le persone arrestate in Cisgiordania, secondo numeri forniti dal “Club dei Prigionieri”, associazione che difende i diritti dei detenuti palestinesi. Anche l’esercito conferma l’arresto in un comunicato dove definisce la Jarrar “leader del Fplp in Cisgiordania” e la accusa di essere “ricercata per terrorismo”. In realtà non è la prima volta che la politica palestinese finisce nel mirino delle autorità israeliane. Negli anni è finita in carcere più e più volte, tanto che le mobilitazioni in suo favore sono sempre state numerose. Insieme agli appelli in suo sostegno da parte di associazioni per i diritti umani come Amnesty International: che hanno sempre sottolineato la mancanza di regolari processi in seguito a quei fermi. Il più clamoroso è stato quello nel 2019: arrestata dopo la morte della 17enne israeliana Rina Shnerb in un attacco terroristico, è rimasta due anni in fermo preventivo. All’epoca Gideon Levy, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz definì “grotteschi” i motivi della sua incarcerazione, scrivendo sul suo giornale: “La si accusa genericamente di opporsi all’occupazione, aver visitato un prigioniero liberato, aver chiesto la liberazione del leader del suo movimento, aver partecipato ad una fiera del libro concedendo interviste, aver partecipato a marce”. Della sua esperienza in carcere - e di quella di altri detenuti - Jarrar ha ripetutamente scritto, descrivendolo come un “luogo di sofferenze quotidiane e lotte costanti contro i soprusi di guardie e amministrazione, dove sopravvivono persone reali, ciascuna con la propria storia”. Raccontando di soprusi continui da parte della polizia e di condizioni terribili in cui sono costrette a vivere le detenute, spesso trattenute, proprio come lei, senza processo. Già prima dell’attacco del 7 ottobre, dove Hamas ha brutalmente assassinato 1200 persone, nelle carceri dello Stato ebraico erano reclusi 971 detenuti sottoposti a fermo amministrativo, un numero che segnava il triste record degli ultimi vent’anni (secondo dati riportati da Haaretz). Khalida Jarrer ha sempre trovato il modo di reagire alle ristrettezze del carcere. Nel 2019 organizzò una scuola al suo interno dopo il rifiuto delle autorità di fornire insegnanti alle minorenni che volevano continuare a studiare: “La prigione insegna a risolvere le sfide quotidiane con mezzi semplici e creativi, dal cibo al rammendo di vecchi abiti, fino al trovare un sistema comune per sopravvivere tutte insieme”. Iran. “C’è il serio pericolo che Ahmadreza Djalali venga impiccato per rappresaglia” La Repubblica, 27 dicembre 2023 L’allarme di Amnesty International. Nel Paese è in corso un’ondata di esecuzioni: ce ne sono state almeno 115 solo a novembre. Il detenuto è in carcere dal 2016. In Iran è in corso una spaventosa ondata di esecuzioni: ce ne sono state almeno 115 solo nel mese di novembre. Ora - denuncia Amnesty International - Ahmadreza Djalali, lo scienziato di nazionalità svedese e iraniana sottoposto a detenzione arbitraria in Iran dal 2016, rischia fortemente di essere messo a morte per rappresaglia. La possibile ritorsione. “Le autorità iraniane - si legge in una nota diffusa dall’Associazione umanitaria che dedica le sue attività in tutto il mondo nel monitoraggio del rispetto dei diritti umani - stanno minacciando di eseguire la condanna a morte di Djalali per rappresaglia, dopo che le loro richieste d’invertire il corso della giustizia in Svezia sono rimaste inevase. Questo crudele gioco con la vita di Djalali, subito dopo che un tribunale svedese aveva confermato in appello la condanna all’ergastolo dell’ex dirigente delle prigioni Hamid Nouri per il ruolo avuto nel massacro delle carceri del 1988 - prosegue il documento - aumenta le preoccupazioni che le autorità iraniane stiano tenendo in ostaggio Djalali per indurre la Svezia a uno scambio di prigionieri”. Lo ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. La richiesta di moratoria delle esecuzioni. “Gli stati della comunità internazionale, compresa la Svezia, devono immediatamente chiedere alle autorità iraniane di annullare qualsiasi proposito di mettere a morte Djalali”, ha aggiunto Eltahawy. “Le autorità iraniane devono scarcerare Djalali, porre fine al loro agghiacciante assalto al diritto alla vita e avviare una moratoria sulle esecuzioni. Infine, devono essere sottoposte a indagini per il reato di presa di ostaggi”, ha concluso Eltahawy. Gli antefatti. Il 20 dicembre, un giorno dopo la sentenza svedese, gli organi d’informazione statali iraniani hanno diffuso un video di propaganda contenente la “confessione” forzata di Djalali, nella quale egli dichiara di essere una spia israeliana. Djalali ha sempre negato queste accuse, sostenendo di essere stato costretto a “confessare” sotto tortura. Il video di propaganda contiene anche la “confessione” forzata di Habib Chaab, a sua volta svedese-iraniano, messo a morte in segreto nel maggio di quest’anno. Questa circostanza alimenta ulteriormente le già forti preoccupazioni che Djalali possa essere presto impiccato. Il 22 dicembre, secondo quanto riferito dai familiari di Djalali, un funzionario del potere giudiziario ha visitato il detenuto informandolo che il verdetto di colpevolezza e la condanna a morte erano stati “confermati” e che sarebbero stati “attuati presto”. Russia. Navalny riappare dal carcere più sperduto del pianeta: “Sono il nuovo Babbo Natale” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 dicembre 2023 Il messaggio del dissidente russo dopo tre settimane di silenzio: è stato trasferito in una colonia penale nel circolo polare artico. Alexei Navalny è vivo. Il più importante e temuto oppositore di Putin è stato trasferito nella colonia penale speciale “Polar Wolf”, nel villaggio di Kharp, a circa sessanta chilometri dal circolo polare artico. La notizia è stata diffusa il giorno di Natale dallo staff di Navalny. Per quasi tre settimane (e due udienze celebrate in sua assenza) si sono perse le tracce del famoso blogger, condannato nello scorso agosto a 19 anni di carcere con l’accusa di aver creato una “comunità estremista”. Ora l’annuncio della portavoce Kira Yarmysh, che ha dato la notizia del trasferimento di Navalny a Kharp, distante da Mosca circa duemila chilometri. Un luogo inospitale prima di tutto per le condizioni climatiche, dove si trovano un migliaio di detenuti appartenenti a categorie diverse, compresi i serial killer. Leonid Volkov, collaboratore del dissidente politico, ha evidenziato che la colonia penale di Kharp “è quasi impossibile da raggiungere”, come è quasi impossibile “inviare delle lettere”: “In questo luogo di detenzione si raggiunge il livello più alto di isolamento dal mondo”. Oggi sui social network, in particolare X e Telegram, è stato direttamente Navalny a comunicare il proprio trasferimento nell’IK-3 di Kharp. Nei post non manca l’ironia. “Sono il vostro nuovo Babbo Natale”, ha esordito il dissidente. “Ho un cappotto di montone - ha aggiunto -, un cappello con paraorecchie, presto mi daranno degli stivali. Mi sono fatto crescere la barba. I 20 giorni di viaggio sono stati piuttosto faticosi, ma sono ancora di ottimo umore, come si addice a Babbo Natale”. Il trasferimento nel circolo polare articolo non è stato rapido. Navalny ha affermato che si aspettava di essere rintracciato più tardi, a gennaio: “Sono rimasto molto sorpreso quando la porta della cella si è aperta e qualcuno ha annunciato: “Hai un avvocato”. Mi ha detto che mi avevate perso, qualcuno era addirittura preoccupato. Grazie mille per il vostro sostegno!”. Secondo un esponente dell’organizzazione Memorial, il trasferimento nella colonia penale di Kharp è finalizzato ad umiliare Navalny e a fare pressione psicologica nei suoi confronti. Platon Lebedev, socio dell’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, condannato per i guai della compagnia petrolifera Yukos, ha trascorso parte della sua pena nella colonia IK-3 di Kharp. Nel 2006 Novaya Gazeta pubblicò un reportage nel quale viene descritto questo luogo remoto: “In inverno, anche la notte polare ti porta nella depressione, quando il sole non appare all’orizzonte e la luce nuvolosa del cielo si accende per tre ore. Ma anche una giornata polare, quando il sole si muove in cerchio, sospeso ad angolo acuto rispetto al suolo, minaccia l’insonnia. A causa della recinzione della zona, sono visibili solo i pilastri e i tetti in ardesia del villaggio: gli alberi, qui, se non muoiono, non crescono così alti. Puoi guardare oltre le spine sulle montagne degli Urali polari, dove la neve giace in lingue a luglio”. La detenzione di Alexei Navalny nel circolo polare artico non è casuale. Il 7 dicembre il sito web della campagna “Russia senza Putin”, con il sostegno del “Team Navalny” e di altre organizzazioni anticorruzione, ha promosso l’affissione a Mosca, a San Pietroburgo e in altre città russe di alcuni cartelloni pubblicitari contenenti un codice QR che riportavano direttamente al sito “Russia senza Putin”. Su internet non veniva però fatto nessun richiamo ai portali riconducibili a Navalny. Il famigerato Roskomnadzor, il servizio federale che monitora e controlla l’accesso ai mass media in Russia, applicando di fatto la censura, ha ordinato di rimuovere i manifesti. A ciò si è aggiunta la decisione di non far pubblicare codici QR sulle nuove affissioni per impedire di reindirizzare gli utenti su siti internet dell’opposizione e leggere contenuti non approvati dal Cremlino. Un modo di agire delle autorità russe volto a silenziare chi non si adegua al Putin-pensiero. Questi avvenimenti si intrecciano con l’annuncio dell’8 dicembre di Vladimir Putin sulla sua ricandidatura per un nuovo mandato presidenziale, in vista delle elezioni del 17 marzo 2024. Un gesto di generosità - ha riferito l’entourage del Cremlino - per gestire al meglio il momento particolare che sta affrontando la Russia e continuare a proiettarla nel mondo multipolare.