Costruire-sul-difficile di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2023 11 febbraio 1999; a seguito di questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Padova la Corte dichiarò l’illegittimità degli artt. 35 e 69 O.P., “nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale”. Muovendo dalla premessa che “al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un Giudice in un procedimento di natura giurisdizionale”, con la citata sentenza, n. 26/1999 (Presidente Vassalli, Estensore Zagrebelsky), il Giudice delle leggi affermò che “l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti d’altronde è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costituzione e caratterizzanti lo stato democratico di diritto”. Si trattava, nel caso di specie, del divieto apposto dall’amministrazione penitenziaria a due detenuti alla ricezione di riviste, a cagione del loro carattere, asseritamente osceno; superando l’impostazione data alla questione dal Giudice rimettente, la Corte dichiarò fondata la questione senza porre distinguo tra i diritti in gioco, e dunque senza distinzione “tra diritti aventi e diritti non aventi fondamento costituzionale”. Malgrado la portata storica della pronuncia, al principio affermato si accompagnò il monito al Legislatore (inevaso per 14 anni) affinché venissero introdotti sistemi di protezione più acconci, poiché “gli strumenti del giudizio di costituzionalità sulle leggi non permettono di introdurre la normativa volta a rimediare a tale difetto di garanzia giurisdizionale”. Era, quello, un periodo storico in cui la Corte ancora utilizzava il tertium comparationis, le rime obbligate, e dunque alla solennità del principio fece seguito un silenzio assordante. E’ solo nel 2013, con DL 146/2013, che il Legislatore ha introdotto l’art.35 bis O.P. (reclamo giurisdizionale), al contempo modificando l’art. 69, comma 6, O.P., assegnando al Magistrato di sorveglianza, attraverso lo strumento di nuovo conio, il compito di provvedere sui reclami dei detenuti e internati concernenti (lett. b.) “l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”. Con la stessa fonte, per venire alle riflessioni che seguono, in ideale continuum con il principio affermato anni prima, venne istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Com’è noto, a seguito del D.P.R. 21.12.2023 a comporre il nuovo Collegio sono stati nominati il Professor Felice Maurizio D’Ettore, l’Avvocata Irma Conti e il Professor Mario Serio; a tutti loro, con sincero spirito di collaborazione, non si può che augurare buon lavoro, per i mille compiti che li attendono. Un passo indietro, riprendendo le parole di saluto al Senato del Presidente del GNPL, Professor Mauro Palma, lo scorso 1° dicembre. Con evocazione del dovere di solidarietà che l’articolo 2 della nostra Carta costituzionale richiama, per dare il proprio, piccolo contributo, a quell’imperativo per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli del successivo articolo (la “concreta utopia” di cui parlava Lelio Basso), Mauro (uso qui il nome proprio, perché è di un Amico - da cui ho imparato moltissimo - che parlo) ha posto questione “della responsabilità dei singoli componenti della collettività” al perseguimento di questo compito grande. “Costruire sul difficile”; partendo dalla premessa di una maturata “consapevolezza nell’opinione pubblica e nel quadro istituzionale del Paese dell’esistenza di una Autorità di garanzia che su tali temi fonda la propria raison d’etre, e che considera questi stessi temi al centro della costruzione di una democrazia adulta, togliendoli da quell’area di complementarietà minore o di attenzione specifica e volontaristica a cui molto spesso erano stati relegati” (giacché “i diritti affermati” - così riallacciandosi allo storica pronuncia già richiamata - “senza i sistemi di garanzie a proteggerli, divengono mere enunciazioni”), Mauro ha ricordato come “il primo diritto che l’umanità deve garantire è l’appartenenza a essa”. Fondamentale, “l’assoluta tutela del diritto al riconoscimento della propria dignità e dell’altrettanto assoluta tutela dell’integrità fisica e psichica delle persone private della libertà personale, […] da cui far discendere tutti i diritti”. Per fare questo, col contributo di tanti, occorrono innanzitutto competenza, rigore, indipendenza. Nel corso dei suoi primi sette anni di vita e di azione il Garante (il Collegio, l’Ufficio, gli esperti) ha garantito la sua presenza ovunque, in tutti i luoghi nei quali, de iure e de facto, la dignità è messa in pericolo, o gravemente compromessa; lo ha fatto mettendo a disposizione dello Stato e della democrazia la forza di un pensiero mai manicheo, sempre teso a comprendere, offrendo a tutti coloro che venivano interessati dai problemi possibili linee di intervento atte a risolverli. Del resto è noto; “se non si fa molta attenzione, [anche] la legge se ne va come neve al sole” (B. Brecht). Come ricorda F. Jullien, “se a fare grande un pittore è il fatto di aver incrociato l’inaudito”, possiamo ritenere che il Garante abbia onorato il suo ruolo, poiché è dai dintorni che si scorge meglio il centro, e per “far sgorgare il sangue vivo dei pensieri profondi […] bisogna rompere la crosta” (C. Ginzburg). Sotto la crosta, la purulenza, l’infezione, spesso sta nascosta nella normalità apparente, nelle pieghe di uno Stato di cose esistenti che si ha il compito di studiare, conoscere, nominare correttamente, e provare a cambiare. Sta nelle varie forme di incapacitazione, cosificazione, mortificazione, che il Garante nazionale ha denunciato in tutti i modi e in tutti i luoghi, fuori e dentro le aule di giustizia, come (uno per tutti) per la terribile mattanza della “settimana Santa” di Santa Maria Capua Vetere. E in quei luoghi bisogna stare. *Avvocato Guardate nelle celle. Sicuri che la pena di morte non ci riguarda? di Giovanna Di Rosa* L’Unità, 24 dicembre 2023 La pena di morte storicamente è stata cancellata dal nostro sistema. L’avevamo fino al 1889 nel Codice Penale, il fascismo l’ha reintrodotta, la Costituzione poi l’ha spazzata via. L’ha ripudiata, l’ha lasciata per le leggi militari di guerra ma nel 1994 è stata sostituita dall’ergastolo. E che declinazione ha assunto questo ergastolo per noi? Dopo un anno, devo dire che tutti i correttivi che la Corte Costituzionale, tutti gli aggiustamenti che sono stati adottati, la normativa successiva e le interpretazioni che ci sono state, non è che abbiano portato a questa grande svolta. Ai fini della concessione dei benefici carcerari, ci sono presunzioni di pericolosità sociale da superare che sono davvero di difficile vaglio: ad esempio, il superamento della famosa presunzione del non ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata, la prova negativa o quanto meno la prova fornita dall’interessato che non ci sia questo rischio. La prova negativa nel sistema costituzionale non è concepibile. Tra l’altro, il numero degli ergastolani in Italia è consistente: 1.259 secondo il Garante. E spesso questo sistema è sovrapposto anche al regime di 41 bis per il quale accenno solo una questione. La sua durata è prevista in quattro anni, la proroga di due anni in due anni. Ma come si può arrivare a prorogare un tale regime dal 1992, dal 1993? Forse c’è anche un sistema interno che non funziona. Poiché non è questo visto che noi magistrati pratichiamo le regole e la durezza di questo regime che comprime davvero i contatti e adotta con dovizia di particolari, a volte anche veramente specifici, tutte le cautele per limitare questi contatti, non si riesce davvero a capire come questi contatti possano essere reiterati, se non trascinando il vecchio reato e facendolo rivivere continuamente. Allora, dobbiamo domandarci che cosa è pena di morte? Pena di morte è solo quella che viene praticata negli Stati Uniti? O è anche questa modalità di portare le persone a una perpetuità della pena e di un regime carcerario al di là della ragionevolezza? O la morte per pena, di drammatica attualità con il numero dei suicidi in carcere? A questo proposito, vi racconto quel che mi è capitato di recente e sono colpitissima del fatto che nessuno ne abbia parlato, comunque se ne è parlato molto poco. La sera della prima della Scala, mentre tutto il mondo era attento a guardare i vestiti delle signore che andavano in platea a sfilare, proprio in contemporanea a questa manifestazione così patinata e al centro dell’attenzione anche delle istituzioni e di tutta la società, l’evento veniva riprodotto in vari carceri tra cui il carcere di San Vittore, dove si ripete da anni. A un certo momento lo spettacolo è stato interrotto perché un detenuto si è impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre del bagno attiguo alla cella tra l’altro molto vicina alla rotonda dove veniva trasmesso l’evento. La persona è stata subito soccorsa, con modalità drammaticamente intense per cercare di rianimarlo ma il danno era troppo grave e infatti è morto qualche ora dopo. Gli spettatori che c’erano nella rotonda per assistere allo spettacolo sono andati via toccando con mano che cosa vuol dire stare in carcere. Ma quello che mi ha colpito è stato il totale silenzio nel mondo della comunicazione. Ero attonita perché anche il resoconto di quella sera stessa e dell’indomani non ha colto la drammaticità di questa situazione, per cui mentre la gente si diverte, pensa agli affari suoi e a sé stessa, in carcere si muore. Muore una persona entrata il giorno prima in carcere e che ha un vissuto tragicamente solitario al punto che non si è riusciti a trovare un solo familiare da avvisare. Era una persona presa dalla strada la sera prima con problemi psichiatrici, portata in carcere e che si impicca dopo alcune ore, in maniera drammatica, e sotto gli occhi di tutti. Ovviamente, era una persona straniera, una persona della strada. La povertà non è solo quella materiale. È anche quella della vita, degli affetti, della disattenzione. Allora, noi dove siamo? Lo Stato dov’è? La società dov’è? E questa non è morte per pena o pena fino alla morte? Il sistema rifletta sulla questione della psichiatria in carcere, delle carcerazioni per reati come un piccolo furto che ti porta subito in cella e sulla necessità di trovare strutture adeguate a risolvere queste nuove problematiche con le quali tutti ci dobbiamo confrontare. Non è possibile chiudere gli occhi e pensare che tanto questi problemi si risolvono sbattendoli in carcere. Più in generale, dobbiamo pensare ai modelli di detenzione assolutamente inattuali che andrebbero superati e che, invece, sono totalmente condivisi e amati. Mi sento di dire grazie a Nessuno tocchi Caino e alla memoria di Marco Pannella che questo ha costruito e che è sempre presente nella quotidianità, nella mia quotidianità e nella quotidianità di tutti quelli che si occupano di carcere. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano (Sintesi dell’intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino” Dalla certezza della pena alla “certezza del carcere” di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 24 dicembre 2023 Il governo Meloni e l’urlo “in galera” del comico Bracardi. Chi ha un po’ di anni sulle spalle sa bene chi sia il signore ritratto in copertina. È Giorgio Bracardi, geniale comico della banda di Renzo Arbore, mentre si esibisce, con il Parlamento alle spalle, in una delle surreali performance che lo resero celebre. Qui interpreta infatti il personaggio che, di fronte a qualunque argomento lo irritasse o lo contrariasse, anche il più banale (“ti piace la minestrina?!”) cominciava ad urlare ossessivamente “in galeraaa! In galeraaa!”. Personaggio profetico, visti i nostri tempi di populismo penale vigorosamente imperante, checché voglia darci ad intendere il nostro Guardasigilli liberale. Bracardi incarna perfettamente l’idea di una politica della giustizia che ha eletto la pena carceraria e la sfrenata sovraproduzione di nuove fattispecie di reato a cifra identitaria della propria idea di giustizia. Le parole d’ordine securitarie, si sa, rendono elettoralmente, e tanto basta: assecondare la paura, la rabbia, la voglia di ghigliottina della pancia del Paese è ormai un classico della nostra politica, di destra e di sinistra, che in questo primo anno del Governo Meloni ha però raggiunto vette letteralmente parossistiche. Ad ogni notizia di cronaca che abbia fatto sussultare il sismografo dei social o delle trasmissioni populiste che impazzano in tv, segue il preannuncio: in galeraaa! Ed ecco lo sbizzarrirsi tra rave-party illeciti e omicidio nautico, reato universale di gestazione per altri e aggravanti speciali per l’incendio boschivo, reato di detenzione e diffusione di istruzioni per la preparazione di esplosivi, aumento di pene a pioggia, anzi direi a spruzzo, incremento delle ostatività rispetto alle misure alternative in carcere, fino alla punizione come reato anche degli atti di protesta non violenta in carcere con modalità di resistenza passiva, equiparate -davvero senza pudore- alle condotte rivoltose violente; e tanto altro, di cui parliamo in questo numero di PQM. Ciò che più indigna chiunque abbia a cuore i principi fondativi della idea liberale del diritto penale, è che questo livido armamentario di manette tintinnanti (a proposito, occhio al nostro talentuoso avvocato vignettista Lapo Gramigni) viene spacciato come ferma e rigorosa attuazione del nobile principio della certezza della pena. Il povero Cesare Beccaria si rivolta nella tomba, dovendo assistere impotente a questa becera trasfigurazione della certezza della pena nella certezza del carcere, che è come confondere le pere con le mele. Per sovrappiù, sappiamo tutti perfettamente, in primis chi se ne fa promotore, che tutto questo ringhiare “in galeraaa!” fa solo danni al tasso di civiltà giuridica del Paese ed al già collassato sistema carcerario, senza la benché minima efficacia social-preventiva. In definitiva, un mix esplosivo di isteria populistico-carceraria e di una discreta dose di cialtroneria politica. E quindi, chi meglio del grande Giorgio Bracardi? *Avvocato Obiettivo recidiva zero, ponte tra carcere e società di Carlo Nordio* e Renato Brunetta** Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2023 Ministero della Giustizia e Cnel hanno siglato un accordo interistituzionale di collaborazione con imprese, sindacati e associazioni di volontariato per offrire percorsi di training e lavoro ai detenuti. Un ponte tra il carcere e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un grande progetto di inclusione sociale che veda protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico e universitario e gli enti locali. È l’occasione per trasformare gli interessi di cui i corpi intermedi sono portatori in responsabilità e virtù civiche, cioè in un valore aggiunto per la comunità, attraverso una operazione che è vantaggiosa per tutte le parti in causa. È quella che si dice una scommessa winwin-win, da vincere in tre: detenuti, società e vittime. Gettare un ponte tra il carcere e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un grande progetto di inclusione sociale che veda protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico e universitario e gli enti locali. È l’occasione per trasformare gli interessi di cui i corpi intermedi sono portatori in responsabilità e virtù civiche, cioè in un valore aggiunto per la comunità, attraverso una operazione che è vantaggiosa per tutte le parti in causa: per i detenuti, a cui sarebbe offerto un percorso autentico di risocializzazione; per la società e l’economia, che vedrebbero trasformata la spesa del sistema penitenziario in investimenti produttivi; e per le vittime dei reati, a cui sarebbe restituita anzitutto la speranza che il male da loro sofferto non si ripeta, e nel cui fondo dedicato sarebbe convogliata una quota della ricchezza prodotta. È quella che si dice una scommessa win-win-win, da vincere in tre: detenuti, società e vittime. Il Ministero della Giustizia e il Cnel hanno deciso di affrontarla insieme. E con un accordo interistituzionale assumono l’impegno di garantire percorsi di formazione e lavoro per contrastare la recidiva e dare compiuta applicazione al principio costituzionale di rieducazione della pena. Il lavoro che manca - Perché la pena ha un senso se porta l’occasione di una rivoluzione interiore e di un cambiamento reale. Di questo cambiamento il lavoro è il laboratorio di una ricostruzione della persona. Ma in carcere il lavoro è ancora merce rara. Alla fine del 2022 su una popolazione carceraria di quasi 6omila persone, sono poco meno di ventimila i detenuti che lavorano, ma la stragrande maggioranza di loro, più di diciassettemila, sono impegnati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria in impieghi intramurari di tipo domestico, industriale, artigianale e agricolo, per i quali percepiscono una remunerazione pari ai due terzi di quanto stabilito dei contratti collettivi nazionali di lavoro, hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e ai contributi assistenziali e pensionistici. Per loro nel 2022 lo Stato ha pagato 2 milioni di euro, un impegno finanziario significativo a cui, tuttavia, non corrisponde un effettivo reinserimento. Sono invece solo 2608 i detenuti che lavorano per conto di imprese e associazioni private o del terzo settore, spesso all’esterno del carcere in attività di concreta risocializzazione. Questi numeri raccontano “un cronico e gravissimo problema di effettività”, che già la commissione per la riforma del diritto penitenziario, presieduta alcuni anni fa dal giurista Glauco Giostra, aveva evidenziato “nello scarso sviluppo del mercato del lavoro penitenziario, sia in termini di numero di posti, che di qualità dell’offerta”. A dispetto di decine di protocolli e progetti firmati in questi ultimi anni con imprese e associazioni più o meno da tutti gli istituti penitenziari della penisola, il risultato è che il carcere e la società sono ancora due universi separati e incapaci di comunicare. Perché anche le più lodevoli iniziative non fanno sistema, se poggiano unicamente sulla responsabilità e talvolta sulla solitudine dei singoli direttori delle carceri. Per ragioni di sicurezza e per garantire la certezza della sanzione afflittiva la nostra legge esclude dall’accesso al lavoro i condannati per i reati più gravi. Nondimeno, per la maggioranza dei detenuti, alcuni dei quali persino prossimi alla liberazione, l’accesso al lavoro è utile al loro reinserimento sociale, e quindi va favorito. Tuttavia c’è ancora una vocazione dell’intero sistema penitenziario volta alla custodia e alla sicurezza, e poco incline a gestire processi connessi al lavoro, anche per carenza di manager con specifiche competenze. E c’è la scarsa istruzione-professionalizzazione della popolazione detenuta. Il risultato è fin qui modesto: i 2608 detenuti coinvolti in processi produttivi, che fanno da ponte tra il carcere e la società, sono appena il 4% della popolazione carceraria. Almeno altri 15mlla potrebbero aggiungersi a questa minuta pattuglia alle dipendenze di imprese e cooperative. Nel 2022 sono 456 i datori di lavoro che hanno fatto richiesta di sgravi fiscali, assumendo 2275 detenuti, la metà dei quali fuori dal carcere. La quota di sgravi è cresciuta in un anno di un quarto, raggiungendo i dieci milioni di euro. Segno che qualcosa si muove. Ma si tratta ancora di progetti biunivoci, mai di sistema. Ci sono associazioni che stipulano accordi per portare il lavoro artigianale dentro il carcere e poi per avviare percorsi di qualificazione dei detenuti all’esterno. Ma manca una logica di rete che rappresenti per l’intera popolazione dei reclusi una prospettiva e insieme una speranza. La soluzione è portare in questa sfida il valore dei corpi intermedi, di cui il Cnel è la casa, far scendere insieme in campo la managerialità dell’impresa, la solidarietà del lavoro e la sussidiarietà del volontariato a sostegno dell’impegno del Ministro della giustizia, per aprire un’istituzione chiusa alla comunità. Il patto per i detenuti - L’intesa tra Ministero della Giustizia e Cnel è un patto di corresponsabilità con cui ciascuno dei due soggetti istituzionali assume compiti specifici. Il Ministero si impegna a snellire gli adempimenti per le imprese e le società del terzo settore che intendano assumere e formare i detenuti, semplificando anche la concessione di agevolazioni, incentivi e sconti fiscali. Il Cnel da parte sua coinvolge i corpi intermedi, e cioè datori di lavoro, sindacati e associazioni del terzo settore, con l’obiettivo di fare da ponte tra il carcere e il lavoro, fornisce supporto giuslavorista con i suoi esperti, implementa la formazione dei detenuti in carcere, d’intesa con il Ministero competente e la conferenza dei rettori promuove la copertura degli istituti penitenziari rispetto all’offerta di corsi universitari, studia fabbisogni occupazionali per orientare la stessa formazione all’interno dei carceri, pianifica una campagna informativa, anche attraverso open day e sportelli dedicati, sugli incentivi e i benefici fiscali previsti per chi dà lavoro ai detenuti. A coordinare queste attività sarà un “Segretariato Permanente”, istituito presso il Cnel e chiamato a dare impulso e coordinare la rete istituzionale dei soggetti pubblici centrali e locali coinvolti nel progetto, le parti sociali e il terzo settore. L’obiettivo è quello di arrivare a un vero e proprio hub di riferimento a livello territoriale micro e di prossimità per la costruzione, lo sviluppo e l’implementazione progressiva di veri e propri poli di inclusione lavorativa di detenuti ed ex detenuti, cui ricondurre la gestione operativa degli accordi e dei protocolli di intesa, la definizione di programmi e corsi di formazione professionale in accordo con regioni, province e comuni, la costituzione di punti unici di accesso per le imprese che vogliano accedere ai benefici e alle agevolazioni previste o programmare investimenti produttivi in siti carcerari, riconnettendo così le attività promosse dalle Regioni a quelle del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dalle forze sociali e del terzo settore nel suo complesso. Il binomio vincente - L’istruzione e la formazione sono parimenti centrali per il successo di questo progetto. Perché i dati, peraltro parziali in quanto riferiti a poco più della metà della popolazione carceraria, ci dicono che il 57 %dei detenuti è in possesso della sola licenza media, il 7% ha completato la scuola elementare, una quota non trascurabile pari al 6% risulta analfabeta o comunque priva di qualunque titolo di studio. Solo il 17% dei detenuti si colloca nella fascia media dell’istruzione, avendo conseguito il diploma di scuola superiore, e meno di 600 sono i laureati, in proporzione l’un per cento dell’intera popolazione carceraria. Questa distribuzione racconta la mappatura sociale di una popolazione altra rispetto a quella generale, il cui ritardo incide sulla stessa efficacia dei percorsi formativi. Non è un caso che solo il 31% dei detenuti sia iscritto a un corso scolastico, ma soprattutto che meno della metà di loro abbia ottenuto nel 2022 una promozione. Migliori sono i risultati della formazione professionale. Secondo una rilevazione della sezione di statistica del Dap, nel 2022 l’83% dei partecipanti a uno dei 38 corsi professionali svoltisi nelle carceri italiane ha conseguito il diploma. Ma si tratta sempre un numero esiguo di detenuti coinvolti, poco più di quattromila, meno del 10% dell’intera popolazione carceraria, e peraltro in calo rispetto ai decenni precedenti. Un percorso di studi e di formazione è di complemento al lavoro. L’impegno è di costruire una relazione virtuosa tra carcere, impresa e istruzione. Per esempio informatizzando tutti gli istituti di pena e collegandoli, attraverso accordi nazionali, alle scuole e alle università, per consentire ai detenuti la frequenza a distanza delle lezioni. La geografia sociale qui descritta e i ritardi accumulati fanno più urgente la sfida che Ministero della Giustizia e Cnel hanno deciso di giocare insieme. Nella convinzione che anche un solo risultato numericamente parziale di concreta risocializzazione avrebbe un impatto decisivo sul fenomeno della recidiva. Dimostrando nei fatti quanto la lungimiranza dei padri costituenti aveva ben compreso: la rieducazione non è un retaggio del perdonismo cristiano, che promuova l’indulgenza come un dovere di fede. E neanche del sociologismo ideologico, che scarichi sulla società le responsabilità individuali. Ma è piuttosto il più efficace strumento di politica criminale a disposizione dei governi. Poiché la rieducazione restituisce alla comunità cittadini redenti e risocializzati, ma soprattutto interrompe la trasmissione e il contagio della tendenza a delinquere tra le generazioni, scongiurando l’ereditarietà della devianza. *Ministro della Giustizia **Presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) “Carcere per le donne incinte? Il governo ci ripensi” di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2023 L’appello di associazioni e mondo dello spettacolo per implementare le case protette. Le opposizioni in blocco, sostenute da personalità del mondo dei diritti, attori e associazioni, hanno lanciato una petizione online per evitare che vengano modificati gli articoli 146 e 147 del codice penale. Oggi queste norme rendono obbligatorio il differimento della pena per le donne incinte o con figli di età inferiore a un anno, ma lo scorso novembre il governo ha inserito nel pacchetto sicurezza un intervento con cui il rinvio diventerebbe facoltativo. La modifica non è ancora arrivata in Parlamento ma, se approvata, permetterebbe ai giudici di ricorrere agli Istituti a custodia attenuata per madri (Icam), cioè strutture penitenziarie in cui i genitori possono tenere con sé i figli fino ai sei anni, prorogabili a dieci. Questa opzione è già prevista per le madri condannate con figli che hanno da un anno e un giorno a tre anni (art. 147 c.p.) e anche per chi si trova in fase cautelare (lg. 62/2011). Nel 2022, la Camera aveva approvato una proposta di intervento nella legge attuale che avrebbe implementato le case protette, prima opzione per le detenute con figli piccoli ma mai decollate. Ripresentata da Debora Serracchiani a inizio legislatura, è decaduta nel marzo 2023 per mancanza di accordo sul testo. Oggi non ci sono all’orizzonte disegni di legge che riprendano il potenziamento di alternative al carcere e il pacchetto sicurezza aumenterebbe le probabilità che un minore finisca dentro a una struttura detentiva. Nell’appello, presentato dal deputato di Europa verde, Devis Dori, si chiede al governo di rinunciare alla modifica degli articoli 146 e 147 in nome di due principi costituzionali: il primo (art. 27) che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, il secondo (art. 31) che la Costituzione “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù”. Tra i primi firmatari della petizione, politici e attivisti, come l’ex senatore Luigi Manconi, Susanna Marietti di Antigone, l’ex deputato Paolo Siani, ma anche personaggi del mondo dello spettacolo, della fotografia e dello sport, come l’attore Alessio Boni, la fotografa Anna Catalano, il calciatore Claudio Marchisio. Politica-toghe, Crosetto: “Costruire un tavolo di pace” di Angela Stella L’Unità, 24 dicembre 2023 Nell’informativa in Aula il ministro ribadisce le sue preoccupazioni e dice: “Non è possibile che da 30 anni ci sia uno scontro: riportare la discussione in Parlamento”. E Musolino (Magistratura democratica) lo invita a un confronto pubblico. Ieri il Ministro della Difesa Guido Crosetto è tornato in Aula alla Camera per una informativa urgente in merito alle sue dichiarazioni a proposito dell’esistenza di correnti della magistratura che spingerebbero per assumere un ruolo di opposizione giudiziaria al governo e alla maggioranza. Chi si aspettava rivelazioni choc è rimasto deluso perché il responsabile di via XX Settembre ha semplicemente letto, come già fatto qualche settimana fa rispondendo ad una interpellanza di +Europa, alcune dichiarazioni pubbliche di Eugenio Albamonte, ex Segretario di AreaDg, e di Stefano Musolino, Segretario di Md. Nulla di nuovo sotto il cielo. Come ha sottolineato Devis Dori (Avs) in pratica Crosetto ha fatto “Zelig: prima ha lanciato un allarme all’esterno, poi è venuto qui a fare l’istituzionale. Ha fatto la sua rassegna stampa, peraltro striminzita. Cosa c’è di eversivo in quelle frasi? Inoltre non ha fornito nessun elemento oggettivo per cui la magistratura vorrebbe condizionare le elezioni europee”. Però il Ministro ha voluto anche ribadire quale sia secondo lui il ruolo che deve avere la magistratura, ossia quello di bouche de la loi: “La volontà popolare risiede qui, la volontà popolare e le Camere fanno le leggi. I cittadini, i Governi, ognuno di noi rispetta le leggi. La magistratura vigila perché le leggi siano rispettate e, quando non vengono rispettate, commina le sanzioni necessarie. Questo è lo schema molto semplice che la nostra Costituzione definisce”. Allo stesso tempo ha voluto far intendere che una maggioranza relativa del Governo non vuole uno scontro con la magistratura: “Sarebbe l’ora di costruire un tavolo di pace nel quale si definiscono le regole per la convivenza nei prossimi anni. Non è possibile che ci sia uno scontro dal ‘94 a oggi senza riportare la discussione e la composizione all’interno di quest’aula, che per la Costituzione è il luogo dove le regole vengono fatte”. L’informativa è stata l’occasione per aprire in Aula un dibattito sulla giustizia. Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: “Immaginate rischi per il vostro governo per un’azione della magistratura, probabilmente per coprire i fallimenti emersi clamorosamente con la manovra finanziaria”. Della Vedova, +Europa: “Un governo con un magistrato come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e cioè Mantovano, che secondo articoli di stampa mai smentiti avrebbe bloccato la nomina di un giudice di Bologna ‘‘reo’’ di aver archiviato un caso relativo al suicidio assistito. Un governo che, a fronte di 30mila innocenti in carcere, si inventa nuovi reati che aumenteranno gli innocenti in carcere. Dov’è il garantismo del Governo?”. Giachetti (Iv): “Nelle rivelazioni del ministro Crosetto non vedo alcuno scandalo bensì la descrizione di una realtà che va avanti ormai da trent’anni: una parte della magistratura condiziona la vita dei governi e in parte anche della politica”. Mentre Stefano Musolino, Segretario di Md, invita il Ministro ad un incontro pubblico: “Non ci riconosciamo in un confronto tra avversari, ma solo in un dialogo tra esponenti istituzionali, mosso dalla ricerca di soluzioni comuni ai molti problemi che attanagliano la giustizia. A questo scopo, però, è necessario che sia chiaro quale sia il piano di confronto disegnato dalla Costituzione ed il ruolo in questo della magistratura. Per questo sarei onorato di incontrare, anche pubblicamente, il Ministro Crosetto per chiarire questi profili preliminari e da qui avviare una discussione sulle proposte volte a migliorare l’efficienza del servizio giustizia”. Ostellari: “Il 2024 sarà l’anno della nuova giustizia, via l’abuso d’ufficio” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 dicembre 2023 Il sottosegretario alla Giustizia: “Il Ministero è al lavoro per migliorare le condizioni di chi lavora in carcere e di chi è detenuto, puntando sul trattamento, su attività formative e professionalizzanti, su nuove circolari che garantiscano una maggiore armonia nelle sezioni”. “Il 2024 sarà l’anno delle riforme”, afferma il sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari. Sottosegretario, allora abolirete finalmente l’abuso d’ufficio? Il reato “prezzemolo” la cui applicazione da parte dei magistrati è a macchia di leopardo: per la medesima condotta a Bologna, ad esempio, si viene condannati, mentre a Napoli scatta l’archiviazione... Sì. Cominciamo il 9 gennaio con il voto del testo in Commissione giustizia a Palazzo Madama. Vede il rischio di una marcia indietro o di ripensamenti da parte di qualcuno? L’accordo raggiunto è chiaro ed è per l’abolizione, nella prospettiva di una ulteriore riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. L’obiettivo è liberare sindaci e amministratori dalla paura della firma. Durante le audizioni sul ddl Nordio che prevede appunto l’abolizione di tale reato, le uniche voci critiche sono state quelle dei pm. Gli stessi che ora criticano il divieto, approvato questa settimana, di pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare. È una coincidenza? Guardi, siamo in democrazia e le voci critiche sono benvenute. L’importante è raggiungere una buona sintesi e poi, però, decidere. Sarà il tempo a stabilire l’efficacia dei provvedimenti presi. L’Italia ha bisogno di riforme, non di pregiudizi e dei soliti no. E per quanto attiene il Consiglio superiore della magistratura? Andremo avanti anche su quel fronte. Bisogna liberare la magistratura dallo strapotere delle correnti. Gli strumenti sul tavolo sono molti. Ritengo sia necessario partire da un diverso sistema di elezione dei componenti togati. Riguardo, invece, l’azione penale? Io credo che vada riconosciuta al Parlamento la facoltà di individuare prioritariamente i criteri che la orientano. C’è un grande dibattito in questi giorni sulle regole che attengono il sequestro dello smartphone. È di tutta evidenza che non può essere considerato un sequestro come gli altri. Al suo interno, a parte la grandissima mole di documenti di ogni tipo, ci sono mail e chat che consentono di ricostruire anche a distanza di tempo le conversazioni che il suo possessore ha avuto, soprattutto attraverso l’invio di vocali, con le altre persone. E’ una ‘ intercettazione’ telefonica a tutti gli effetti, è inutile negarlo... Vorrei fare una premessa visto che Il Dubbio si è occupato del tema proprio questa settimana. Su tale materia si è detto molto, ma la verità è semplice: il governo non rallenta e non crea problemi. Semmai offre il suo contributo per risolverli. I giusti rilievi del testo Zanettin- Bongiorno meritano attenzione, ma il telefono cellulare non è la sola riserva di memoria e consente di trasferire e archiviare dei dati anche in cloud. Una riforma che non tenga conto di questa realtà sarebbe monca. Il surplus di approfondimento che il Ministero ha chiesto si spiega così. Ancora suicidi in carcere. Siamo quasi a 70. Dopo il terribile 2022 con 84 casi, è il numero più alto dal 1992. Cosa pensa di fare il Ministero? In Italia il processo è pubblico. Per qualche strana ragione, poi, l’esecuzione della pena viene considerata un fatto privato fra Amministrazione penitenziaria e condannato. Bisogna cambiare questa prospettiva. Il Ministero è al lavoro per migliorare le condizioni di chi lavora in carcere e di chi è detenuto, puntando sul trattamento, su attività formative e professionalizzanti, su nuove circolari che garantiscano una maggiore armonia nelle sezioni. Molti detenuti, va detto, soffrono di disturbi psichiatrici... Sì. Ed è un dato che non può essere trascurato. Sono tanti ormai i detenuti con disturbi psichiatrici, talvolta anche assuntori di sostanze. Serve quindi un impegno corale, insieme al sistema sanitario e alle Regioni, per garantire cure e assistenza alla popolazione carceraria, così diversa per composizione da quella di pochi anni fa. Ringrazio il ministro della Salute Orazio Schillaci con cui abbiamo avviato un’interlocuzione in questo senso. Una ultima domanda: i tempi della giustizia italiana, sia nel penale che nel civile, continuano purtroppo a essere biblici. Si riuscirà, prima o poi, ad avere prevedibilità della decisione e tempistiche in linea con quelle degli altri paesi occidentali? La domanda di giustizia dei cittadini deve trovare riscontri rapidi e certi. Per questo stiamo lavorando ad una nuova ridefinizione della geografia giudiziaria, che, nel suo perimetro attuale, penalizza gravemente alcuni territori. Penso ai Tribunali insulari, a quelli abruzzesi e all’area della Pedemontana veneta. Conto che il 2024 sia anche l’anno in cui finalmente chiuderemo la stagione delle proroghe e definiremo una nuova distribuzio-ne dei Tribunali italiani, in grado di evitare sprechi e contemporaneamente offrire ai cittadini i servizi che meritano. Petrelli (Ucpi): “Nessun bavaglio, è un freno alla macelleria mediatica” di Angela Stella L’Unità, 24 dicembre 2023 “Le ordinanze cautelari usate solo in chiave giustizialista, mai per controllare l’operato dei giudici. Lo stop riguarda la pubblicazione integrale di intercettazioni e altri elementi di prova fino a chiusura dell’indagine, i contenuti restano conoscibili”. L’emendamento del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa approvato alla legge di delegazione europea due giorni fa alla Camera, così come riformulato su richiesta del Governo, comporta una modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale (Divieto di pubblicazione di atti e di immagini) prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei principi sanciti dagli articoli 24 e 27 della stessa, il “divieto di pubblicazione integrale, o per estratto, del dispositivo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Ne parliamo con l’avvocato Francesco Petrelli, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Avvocato con l’approvazione dell’emendamento Costa è la fine della gogna mediatica? Non c’è dubbio che le ordinanze cautelari siano state utilizzate in passato dai media in chiave esclusivamente giustizialista, in violazione della privacy e della riservatezza ed in aperta violazione della presunzione di innocenza. Non mi pare invece che il contenuto probatorio delle ordinanze sia stato mai oggetto di controllo critico nei confronti dell’operato del giudice o dell’accusa in genere, come ci si dovrebbe attendere da chi ha il ruolo di “cane da guardia” anche del potere giudiziario. Va detto tuttavia che spesso le norme da sole non sono sufficienti e che si dovrebbe prendere atto che i processi hanno delle fasi e che i fatti si accertano in un pubblico dibattimento. C’è una seria controriforma garantista da porre in essere contro la dilagante cultura della presunzione di colpevolezza e del mostro sbattuto in prima pagina in barba ad ogni regola di civiltà. Era giunto il momento di tirare un freno a mano. Grazie alle ordinanze di custodia cautelare si è costruito un marketing giudiziario a favore delle procure sulle spalle di presunti innocenti? Il mix fra conoscenza di atti di indagine, informative di polizia giudiziaria non filtrate da alcuna mediazione, intercettazioni ambientali che discutibilmente vengono indicate come dotate di rilievo probatorio, si sono trasformate nel più micidiale collettore di inaccettabili gogne mediatiche, instaurando meccanismi perversi che nulla hanno a che vedere con la tutela del diritto di informazione e con un corretto e sorvegliato esercizio della funzione giudiziaria. Chi abbia avuto solo indirettamente esperienza di simili scempi può facilmente comprendere come le critiche avanzate all’emendamento Costa cadano del tutto fuori fuoco. È il primo risultato garantista di questo Parlamento, ottenuto anche a fatica perché Nordio all’inizio voleva dare parere sfavorevole? Si è trattato di una votazione piuttosto ampia a voto palese che ha coinvolto forze eterogenee, il che dimostra che la cultura del garantismo può avere una voce importante nel nostro Paese che se sostenuta con forza e con intelligenza è in grado di vincere anche le possibili resistenze interne e di sviluppare intese positive. La Federazione nazionale della stampa annuncia una mobilitazione e parla di “provvedimento liberticida non solo nei confronti dell’articolo 21 della Costituzione”. Come commenta? Nessun bene tutelato dalla Carta può prevalere sull’altro fino ad annientarlo producendo quei fenomeni di macelleria mediatica ai quali facevo prima riferimento. L’art. 21 della Costituzione deve proteggere soprattutto gli informati da simili degenerazioni e non chi le alimenta. Nessun bavaglio e nessuna lesione del diritto di informazione perché restano evidentemente conoscibili i contenuti delle ordinanze ed i motivi che giustificano la loro adozione, per cui sarà possibile per l’opinione pubblica formarsi una corretta idea delle ragioni e della estensione di una iniziativa giudiziaria. Ciò che non sarà possibile pubblicare sono i contenuti delle intercettazioni o di altri elementi di prova riprodotti nella loro testualità all’interno delle ordinanze, proprio a protezione della riservatezza delle persone coinvolte. L’interdizione alla pubblicazione fino alla chiusura dell’indagine con l’esercizio dell’azione penale costituisce una soluzione equilibrata e civile. Gli atti dell’inchiesta giudiziaria della procura di Ragusa su Luca Casarini e altri esponenti della Ong Mediterranea, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono finiti su molti giornali di destra. Una fuga di notizie che non ha risparmiato nemmeno intercettazioni tra Casarini e il deputato del pd Matteo Orfini, che forse non sarebbero dovute finire nel fascicolo dell’inchiesta. Che ne pensa? Si tratta dell’ennesima dimostrazione dell’insufficienza dei sistemi di controllo di fronte all’indistinta voracità dei mezzi di informazione che agiscono nell’ambito del cosiddetto circo mediatico giudiziario e della assoluta necessità di darci nuove regole a tutela dei principi costituzionali e convenzionali coinvolti. Qui si è trattato di atti che neppure avrebbero dovuto e potuto essere acquisiti all’indagine, sia per la qualità del soggetto colloquiante, sia per l’irrilevanza probatoria dei contenuti. Ma il meccanismo è sempre lo stesso ed è quello che troppo spesso travolge in maniera ingiustificata ed inaccettabile persone neppure indagate o che vengono poi riconosciute estranee ai fatti contestati ed assolte dopo che il furore di presunti processi fatti in piazza ha tuttavia determinato una compromissione definitiva delle loro vite e delle loro immagini pubbliche, che ne restano indelebilmente segnate. Il Procuratore Curcio: “Non sono secretate: continuerò a rilasciare ordinanze ai cronisti” di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2023 “È tecnicamente incomprensibile: una sintesi è sempre meno precisa del testo dell’atto”. Il primo a codificare questa prassi fu il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo nel 2019, quando era alla guida della Procura di Napoli, con una circolare sulla comunicazione giudiziaria: via libera al rilascio ai giornalisti delle ordinanze di custodia cautelare riguardanti fatti, personaggi e vicende di interesse pubblico, dietro il pagamento del bollo dei diritti di copia. Una prassi che ha fatto scuola e che hanno adottato diversi altri procuratori. Tra i quali il capo della Procura di Potenza, Francesco Curcio. Procuratore Curcio, continuerà a rilasciare copia dell’ordinanza ai giornalisti anche se l’emendamento Costa che introduce il divieto di pubblicazione dell’ordinanza, anche per estratto, dovesse diventare legge? Sì. Le ordinanze non sono state secretate, la loro conoscibilità resta possibile. Non sono pubblicabili i contenuti specifici, ma il giornalista, ottenuta la copia, mentre prima poteva riportare per estratto alcuni passaggi col copia e incolla, ora ne farà una sintesi secondo la sua sensibilità e il suo stile. Come giudica questa riforma sul punto? Tecnicamente non è comprensibile. Nel momento in cui un atto non è più segreto, perché noto all’indagato e quindi non più controllabile, non capisco perché obbligare i giornalisti a una sintesi sicuramente meno precisa rispetto al testo dell’atto. La spiegazione del legislatore è che così si assicura un maggiore rispetto del principio di innocenza dell’indagato. Questa spiegazione la convince? La questione non dovrebbe riguardare la colpevolezza o l’innocenza dell’indagato, ma l’esattezza del resoconto del procedimento penale in quel dato momento. La possibilità di riportare con esattezza il contenuto di alcuni passaggi rende quel resoconto più preciso e la presunzione di innocenza resta comunque in vigore fino al passaggio in giudicato di una eventuale condanna. Non capisco l’incrocio dei due temi. Forse si vuole evitare la pubblicazione delle intercettazioni? Forse è questo alla fine il solito spauracchio? Forse sì... Ma è meglio riportarle integralmente, che averne una sintesi che può essere sbagliata o non rendere bene le parole usate dagli interlocutori intercettati. La disciplina in vigore sulla pubblicazione degli atti giudiziari e delle intercettazioni è buona o può essere migliorata? La disciplina sugli atti giudiziari e sulle intercettazioni, e mi riferisco sia alla loro pubblicazione che alla loro disciplina di utilizzo processuale dopo le numerose riforme compiute, è un’ottima disciplina, salvo la recente modifica che prevede un quasi generalizzato divieto di utilizzazione delle intercettazioni per reati diversi rispetto a quelli per i quali si procedeva in quel momento. Non si capisce perché, se per entrambi i tipi di reato sono consentite le intercettazioni, in un caso posso usarle e nell’altro no. Un aspetto dell’attuale disciplina che non condivido, e che comunque applichiamo doverosamente. Secondo lei quale è lo scopo dell’emendamento Costa? Non ne vedo, vedo solo effetti peggiorativi per l’opinione pubblica e per gli stessi indagati. Forse bisognerebbe chiederlo a lui. La “nuova” vita di Davigo, con le uscite dure e pure tra tv e web (e ora il processo d’Appello) di Claudio Bozza Corriere della Sera, 24 dicembre 2023 L’ex pm e la frase da Fedez sui suicidi “con cui si perde una fonte”: certo che sono toccato. E poi: “Assurdo chi strilla contro di me”. A gennaio il secondo round dopo la condanna. Tic tac, il conto alla rovescia per (tentare) la rivincita è iniziato. Piercamillo Davigo, già pilastro del Pool, dopo aver arrestato decine di “mariuoli” (copyright by Bettino Craxi) e dopo la pensione dalla magistratura e l’addio forzato al Csm, si è ritrovato a sua volta condannato. Da “Mani pulite” a mani punite. La pena in primo grado: 15 mesi per “rivelazione di segreto d’ufficio” degli interrogatori dell’ex avvocato Eni Piero Amara, sulla presunta associazione segreta “loggia Ungheria”. Dicevamo del conto alla rovescia. Perché il 29 gennaio, sempre al Tribunale di Brescia (“Dove non sempre capiscono”, ha sferzato), inizierà l’Appello. È forse in vista di questo secondo round, che l’ex pm ha iniziato a rintuzzare i giudici che l’hanno condannato? Di certo, Davigo ha coltivato un rinnovato protagonismo in tv, in particolar modo per demolire la riforma della giustizia. Un crescendo strategico, per uno mediaticamente abile come lui. Contesti televisivi in cui il simbolo delle “toghe dure e pure” spicca per i suoi toni. Per poi culminare con l’ultimo palcoscenico scelto: il “Muschio Selvaggio”, trasmissione web super seguita condotta da Fedez. “Strategia mediatica? Ma non diciamo fesserie. Se avessi voluto trasformare la mia vicenda in un processo mediatico lo avrei fatto durante il dibattimento - dichiara Davigo al Corriere -. Invece ho ribattuto punto per punto a tutte le contestazioni. E poi queste cose le avevo già dette in aula durante il dibattimento: chiunque può riascoltare tutto su Radio Radicale”. Strali contro le toghe bresciane a parte, Davigo aveva poi virato su uno dei suoi (tragici) grandi classici: il tema dei suicidi durante Tangentopoli. “Purtroppo, per quanto sia crudo quello che sto dicendo, capita che gli imputati si suicidino”. Ma la crudezza è poi andata oltre: “Detto questo, è spiacevole ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su quelli che li scoprono e li reprimono”. Il suicidio di Gardini? “Certo che dispiace. Prima di tutto, il fatto che uno decida di suicidarsi... Poi lo perdi come possibile fonte di informazione”. Inscalfibile. Dopo la bufera innescata, ridirebbe quelle parole? “La frase sui suicidi è stata rovesciata - ribatte l’ex pm -. Certo che ne sono umanamente toccato. È il contesto che non è stato ben espresso”. E poi, afferma ancora al Corriere: “Quelli che oggi strillano sono quelli che ci accusano di non aver colpito il Pci ai tempi di Mani pulite - riflette -. Gardini era colui che aveva portato una tangente da un miliardo di lire nella sede del partito... Essendosi poi lui suicidato, da un lato veniamo accusati di aver creato le condizioni affinché si togliesse la vita, e dall’altro ci accusano di non aver fatto quanto dovevamo fare per appurare la verità”. Ma ora è il tempo di un brindisi natalizio, con l’auspicio, da parte dell’ex pm, che il 2024 porti un’assoluzione per quelle carte segrete che avrebbe passato per colpire (ex) colleghi nemici. Ma i giudici di Brescia “che non capiscono”? “Non hanno neanche capito che era una battuta. Sono assolutamente convinto che abbiano sbagliato di fatto e diritto”. Puglia. Potenziata l’accoglienza extra-carceraria per detenute con bambini al seguito La Repubblica, 24 dicembre 2023 200mila euro con l’intesa sottoscritta in Regione. L’assessora Barone: “La realizzazione di percorsi assistenziali che, nei casi previsti dalla legge, consentano ai figli in tenera età di genitori detenuti di non fare ingresso negli istituti penitenziari, o di uscirne il prima possibile, è un tema di estrema rilevanza sociale”. Promuovere a titolo sperimentale attività volte a favorire l’accoglienza extra-carceraria per genitori detenuti con bambini al seguito. È l’obiettivo del protocollo d’intesa, della durata di un anno, sottoscritto nell’ufficio dell’assessora regionale al Welfare, Rosa Barone, fra la Regione Puglia, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Puglia e la Basilicata, il Centro per la giustizia minorile Puglia e Basilicata e l’Anci Puglia. Con il protocollo d’intesa, la Regione Puglia impegna circa 200mila euro per sostenere i costi relativi al mantenimento di genitori detenuti con figli al seguito nelle strutture extra-carcerarie deputate. La giunta regionale ha disposto anche di dare corso a un Avviso pubblico per l’acquisizione della manifestazione di interesse per la predisposizione di un elenco di strutture valutate idonee per l’accoglienza di nuclei genitore con bambino/i al seguito da mettere a disposizione. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna e il Centro per la giustizia minorile si impegnano a trasmettere l’elenco delle strutture valutate idonee agli uffici Giudiziari presenti nel territorio regionale, per mettere questi ultimi a conoscenza dell’esistenza di posti disponibili ad accogliere i genitori detenuti con figli al seguito, così da rendere più immediati e fruibili gli accessi ai servizi di accoglienza extra penitenziaria. Anci Puglia si impegna a trasmettere l’elenco delle strutture valutate idonee ai Servizi sociali di tutti gli Ambiti territoriali sociali, nell’ambito del ruolo loro affidato. “La realizzazione di percorsi assistenziali che, nei casi previsti dalla legge, consentano ai figli in tenera età di genitori detenuti di non fare ingresso negli istituti penitenziari, o di uscirne il prima possibile - spiega l’assessora Barone - è un tema di estrema rilevanza sociale. Abbiamo voluto rafforzare la collaborazione con organi di giustizia e Anci, attraverso questo protocollo, perché riteniamo fondamentale il lavoro in sinergia e il confronto costante tra tutti gli attori che concorrono alla promozione e tutela del diritto del genitore detenuto di mantenere il legame con il figlio nell’interesse superiore dei minori”. “La nostra priorità - commenta la direttrice del dipartimento Welfare, Valentina Romano - è il benessere dei minori. Assieme a tutti gli altri attori coinvolti potremo avviare la sperimentazione di percorsi di accoglienza a favore di genitori detenuti con figli al seguito o persone sottoposte a una pena alternativa alla detenzione. Percorsi che rappresentano una opportunità di riscatto e, una volta scontata la pena, di concreto reinserimento nella comunità”. “La detenzione carceraria - dichiara invece la presidente di Anci Puglia, Fiorenza Pascazio - è sempre una grave frattura nella vita delle persone. E quando ci sono figli minori, sono loro a pagare il prezzo maggiore. Per questo abbiamo sottoscritto con convinzione e fiducia il protocollo, nella speranza di poter assicurare alle persone detenute e ai loro bambini, occasioni di vita familiare e di dignità”. “Siamo soddisfatti - dice Simone Francesco Gallo, direttore dell’Uiepe di Bari - di questo momento di intesa con la Regione Puglia. Il Protocollo intende realizzare dei percorsi assistenziali che, nei casi previsti dalla legge, consentano ai figli in tenera età di genitori detenuti di non fare ingresso in carcere. Ancora una volta la collaborazione fra gli organi della giustizia, la Regione Puglia e l’Anci, in questo frangente, trova una preziosa attività di impulso e confronto tra gli attori che a vario titolo concorrono alla promozione e tutela del diritto del genitore condannato di mantenere il legame con il figlio nel prioritario interesse del minore”. “La Direzione del Cgm per la Puglia e la Basilicata esprime il proprio apprezzamento per la sottoscrizione odierna di questo accordo di particolare rilevanza sociale, che, in perfetta sintonia con la mission istituzionale della giustizia minorile, consentirà la realizzazione di percorsi di assistenza e promozione finalizzati ad evitare l’ingresso negli Istituti di pena dei figli in età infantile di genitori detenuti, anche attraverso la predisposizione di progetti di intervento individualizzati in area penale esterna”, conclude Giovanna Allegri, reggente Cgm Bari. Cagliari. Il Rems di Capoterra è pieno, 23enne con problemi psichici “parcheggiato” in carcere L’Unione Sarda, 24 dicembre 2023 Appello della Garante: “In prigione non può stare, ci sono diverse ordinanze della magistratura, ha bisogno di un Rems. Subito una soluzione provvisoria”. Ha 23 anni e un grave disagio psichico che è alla base della sua vita tribolata. Dovrebbe stare in una struttura che gli garantisca un percorso riabilitativo e terapeutico, eppure passerà il Natale nel carcere di Uta, luogo non adatto per seguire casi come il suo. E non è un’opinione della Garante, lo pensa anche il direttore del carcere e ci sono diverse ordinanze della magistratura che indicano la necessità tassativa di ricovero nella Rems. “La Rems è quello che ci vuole per lui, la Residenza esecutiva misure di sicurezza è anche vicina, a Capoterra, è accreditata per accogliere sino a un massimo di 16 persone e gli ospiti hanno la possibilità di partecipare a percorsi terapeutici, riabilitativi e abilitativi su misura per lui”, è l’appello di Irene Testa, Garante delle persone private della libertà personale della Sardegna. La Garante è andata a fargli visita in diverse occasioni e ora ha scritto una lettera inviata tra gli altri alla Asl di Sassari - Dipartimento di saluta mentale e al Dap - Provveditorato Sardegna. A Capoterra non c’è posto per lui, la struttura è piena e il ragazzo è in lista d’attesa. Quanto tempo ci vorrà non è chiaro, dunque per il giovane si prospetta un Natale dietro le sbarre. “Occorre una soluzione provvisoria”, è l’accorato appello della Garante. La Asl di Cagliari non può intervenire, il ragazzo non risiede nel Sud Sardegna e la competenza territoriale è della Asl di Sassari: “Ma finora - spiega Irene Testa - non ci sono stati riscontri. Speriamo che arrivino al più presto, perché il ragazzo non può rimanere parcheggiato”. Un sos chiaro e diretto: “Il detenuto si trova in condizioni critiche che richiedono un interessamento tempestivo e volto ad attuare il principio costituzionale di tutela della dignità umana”. “Come già ha fatto più volte il direttore del carcere di Uta Mauro Porcu - conclude la Garante - sollecito gli organi sanitari di individuare quanto prima una struttura psichiatrica residenziale ad alta intensità terapeutica”. Milano. A Natale il Beccaria apre le porte a tutti di Lorenzo Garbarino chiesadimilano.it, 24 dicembre 2023 La sera del 24 dicembre alla Messa nella chiesa dell’Istituto minorile (tornata agibile quest’anno) sono invitati anche gli abitanti del quartiere: un’occasione per gettare un ponte tra la struttura e il suo territorio. Porte aperte al Beccaria per festeggiare il Natale. La sera della vigilia l’Istituto minorile di Milano tornerà infatti a celebrare la consueta Messa della vigilia nei locali destinati alla chiesa. Lo scorso anno l’inagibilità della struttura aveva reso necessario il trasferimento negli spazi adiacenti di Comunità Nuova, la onlus che si occupa di tossicodipendenze e disagio giovanile. L’appuntamento è fissato alle 22.30 in via dei Calchi Taeggi 20, nel periferico quartiere di Bisceglie. La celebrazione è aperta a chiunque desideri partecipare. L’auspicio di Don Gino Rigoldi, dal 1972 cappellano dell’Istituto minorile e fondatore di Comunità Nuova, è che questo incontro rappresenti un’occasione per collegare la realtà del Beccaria al quartiere: “In questa zona stanno finendo di costruire migliaia di appartamenti, e centinaia di persone abitano qui vicino già da diverso tempo. La parrocchia di San Giovanni Bosco, competente territorialmente, è distante per la Messa. Ci siamo accordati con il parroco affinché diventi la chiesa del nuovo quartiere che verrà”. Non serve aspettare però che sia Natale per avvicinarsi agli spazi riservati alla chiesa. Già oggi i locali del Beccaria adibiti alla Messa sono aperti al pubblico, e per chi da fuori desidera partecipare alle celebrazioni non è più necessario presentarsi con gli appositi documenti. Come in una chiesa comune, per entrare basta solo fare un passo oltre la porta. “Assieme ad altre persone abbiamo provveduto a rendere più semplice questo canale ecclesiale - spiega Rigoldi -, proprio per portare dentro al quartiere le storie e le necessità del carcere”. Raccontare le vicende di chi vive all’interno del Beccaria è fondamentale per rispondere alle sfide che oggi investono la società. A cominciare dai cambiamenti demografici: “Fino a qualche anno fa alla Messa c’erano anche diversi ragazzi; adesso non più perché la stragrande maggioranza è di fede musulmana e sono rimasti solo quattro cristiani. Cerco comunque di organizzare incontri per parlare insieme di Dio. Ho già invitato anche degli Imam, perché credo sia giusto che possano approfondire la loro religione. Il mio desiderio è che in futuro si riesca a organizzare assieme a loro incontri settimanali di un paio di ore. Vorrei che alcuni fossero dedicati in particolare alla giustizia, in modo che siano collegati alla situazione che i ragazzi vivono sulla loro pelle”. Assieme a don Rigoldi la celebrazione sarà presieduta dall’attuale cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’associazione Kayros. I due sacerdoti si soffermeranno soprattutto sui riferimenti alle carceri presenti nelle parole di Gesù: “Nel grande giudizio c’è un passaggio che dice: “C’è un venite benedetti e un via da me maledetti”. La specificità che io sottolineerei è che Gesù Cristo ha sempre trascorso la sua esistenza con chi non aveva da mangiare, chi era senza vestiti, straniero, chi trascorreva la propria esistenza nelle carceri o in ospedale”. Spoleto (Pg). Visita natalizia in carcere, monsignor Boccardo dà coraggio ai detenuti La Nazione, 24 dicembre 2023 “Capisco la tristezza ma è sempre possibile ricominciare, non siete un errore”. Sullo sfondo del presepe le immagini della guerra in Terra Santa. “L’uomo è capace di distruggere, ma Dio tende la mano: se vuoi, puoi ricominciare. Il bene è ancora possibile, nonostante le nostre azioni hanno provocato il male. Voi non siete un errore, buon Natale a tutti”. Con queste parole l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, monsignor Renato Boccardo, ha salutato i detenuti del carcere di Spoleto al termine della messa prenatalizia. Con il presule hanno concelebrato il cappellano monsignor Eugenio Bartoli e il collaboratore pastorale padre Marco Antonio Maria Uras, frate minore della Custodia di Terra Santa che vive nel convento di San Fortunato a Montefalco. Oltre ai detenuti e agli agenti della polizia penitenziaria erano presenti la direttrice del carcere Bernardina Di Mario; il comandante della penitenziaria Marco Piersigilli; il magistrato di sorveglianza Nicla Flavia Restivo. Prima delle celebrazione eucaristica Boccardo è stato accompagnato dinanzi al presepe allestito nel carcere: tutta la scena della Natività ha come sfondo le immagini dell’attuale guerra in Terra Santa. La visita dell’arcivescovo nella casa di reclusione è stata preceduta giovedì da quella di una delegazione della Caritas diocesana guidata dal direttore don Edoardo Rossi: a nome della Chiesa di Spoleto-Norcia è stato consegnato personalmente ad ogni detenuto, nei vari reparti, un piccolo dono di Natale. Ma soprattutto è stata donata una carezza di speranza agli abitanti di questa speciale casa. Nell’omelia Boccardo si è rivolto direttamente ai reclusi: “È sempre possibile ricominciare e misurare eventi e persone usando un altro metro. So la tristezza che c’è in voi soprattutto nel periodo del Natale. Ma l’affetto e i buoni sentimenti che provate per i vostri familiari ed essi per voi vanno al di là dei muri e delle sbarre. Questo almeno riscalda un po’ il vostro cuore. Il voler bene, l’essere voluti bene è una ricchezza che nessuna limitazione o struttura ci può togliere”. Sempre giovedì Boccardo ha cenato nella Locanda della Misericordia ‘Ponziano Benedetti’ insieme alle persone che ogni giorno vi consumano un pasto caldo e ai volontari. È stato un bel momento di fraternità e anche di festa. “Un serata - afferma don Edoardo Rossi, direttore della Caritas - per scambiarsi gli auguri di Natale e per dirsi una parola scontata ma sempre più difficile da pronunciare: grazie”. Catania. Arcivescovo e Caritas incontrano i detenuti del carcere di Piazza Lanza cataniatoday.it, 24 dicembre 2023 “Entriamo nella Casa circondariale con tanta speranza - ha detto l’arcivescovo Renna - sicuri che il Signore lavora nel cuore di tutti, soprattutto in questi giorni santi”. Si è tenuto stamattina il consueto incontro per lo scambio degli auguri natalizi con i detenuti della Casa Circondariale di “Piazza Lanza” alla presenza dell’Arcivescovo di Catania, Mons. Luigi Renna, accompagnato da don Nuccio Puglisi Galvano e da Salvo Pappalardo, rispettivamente direttore e vice direttore della Caritas Diocesana di Catania. “Oggi la nostra prossimità di Chiesa, che non si vive ovviamente soltanto nei giorni di festa come il Natale - evidenzia l’Arcivescovo, mons. Luigi Renna -, esprime tutto il desiderio di far sì che questi nostri fratelli riprendano in mano la loro esistenza, vivano il Natale sentendo che la gente vuole loro bene e li aspetta con un volto nuovo, con un desiderio nuovo. È quello che il Natale, che viene a restituirci dignità in quanto Dio si è fatto uomo, vuole annunciarci”. Un incontro destinato a infondere speranza e coraggio a quanti vivranno le feste lontani dalla famiglia. Per l’occasione sono stati distribuiti i dolci tipici della tradizione natalizia ai fratelli e alle sorelle che dimorano nella struttura catanese. “Essere qui, alla casa circondariale di Piazza Lanza - dichiara don Nuccio Puglisi, direttore della Caritas diocesana di Catania - è una delle tante forme attraverso le quali ci prepariamo al Natale. Nessuno è quello che ha, nessuno è quello che ha fatto. Tutti siamo ciò che Dio ha pensato quando ci ha creati. E, quindi, qualunque cosa ha la sua soluzione è la soluzione, tante volte proprio nelle persone che non si dimenticano di te”. Per tutte le feste i servizi della Caritas diocesana di Catania proseguiranno ininterrottamente, condividendo questi giorni con gli ospiti dell’Help Center e garantendo conforto umano e supporto materiale in un periodo dell’anno che accentua la condizione di marginalità e solitudine. Nel corso dei festivi, la programmazione dei servizi avverrà anche tramite collaborazioni con parrocchie, enti e associazioni della città, al fine di evitare sprechi alimentari e garantire, al contempo, pasti e assistenza. Dopo il pranzo del 24 dicembre all’Help Center della Stazione Centrale, nel giorno di Natale la Caritas supporta, con alimenti e presenza di volontari, altre realtà cittadine del terzo settore. Per Santo Stefano, consolidando una lunga tradizione, si terrà il pranzo organizzato dalla Parrocchia Santissimo Crocifisso dei Miracoli (via Enrico Pantano) con la collaborazione dell’organismo diocesano. Anche quest’anno è necessario un ringraziamento nei confronti di tutti coloro che permettono ai volontari di compiere il loro servizio quotidiano. A partire dal decisivo sostentamento garantito dall’8xmille della Chiesa Cattolica, fino agli enti e alle associazioni del terzo settore, ai donatori anonimi e ai tanti cittadini. Si ringraziano anche la Fondazione Marilù Tregua e il Quotidiano di Sicilia. Importante anche il contributo ottenuto tramite le donazioni del 5xmille alla Caritas Diocesana di Catania. Tra le tante associazioni della rete, che collaborano anche nel resto dell’anno e che, come da tradizione, hanno intensificato gli sforzi proprio nel periodo natalizio, si ringraziano la Caritas Carmelitana Italiana, rappresentata dall’avvocato Andrea Ventimiglia, l’Ordine Francescano Secolare Zona di Catania, gli “Amici del Rosario”, la sezione di Catania dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, la delegazione dell’Ordine dei Cavalieri di Malta di Catania, il gruppo di Catania del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta (CISOM), il Movimento di Rinascita Cristiana, le varie Caritas parrocchiali, i gruppi scout e i numerosi Service Club, Comunione e Liberazione, Archè, Suore di Madre Teresa di Calcutta e le Acli di Catania. Preziose le collaborazioni istituzionali che si sono formalizzate nel corso degli anni e che proseguono con rinnovato impegno: l’Università di Catania, l’Asp di Catania, l’Ussm di Catania e l’Udepe di Catania. Un augurio e un ringraziamento sentiti anche alle tante attività commerciali che donano frutta, ortaggi, pane, dolciumi e altri alimenti per il pranzo. Si segnalano, inoltre, il proseguimento delle collaborazioni con il Banco Alimentare Sicilia Onlus, con diversi panifici della città e dei comuni limitrofi. Per la presenza sul territorio e per le donazioni si ringraziano anche Polizia municipale del Comune di Catania, Capitaneria di Porto, Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Polizia di Stato e Carabinieri. Fondamentale, inoltre, l’apporto di Sicilbanca per gli interventi di microcredito. Importante anche il rapporto con diversi istituti scolastici e di formazione professionale, che hanno partecipato al progetto di educazione alla solidarietà “La Caritas a scuola”, e poi, sempre nell’ambito della formazione, si rinnova il prezioso rapporto con l’Istituto Salesiano San Francesco di Sales di via Cifali a Catania. Caselli dalle Br ai boss: la toga giusta che disse no alla politica di Ettore Boffano Il Fatto Quotidiano , 24 dicembre 2023 Un “padrone” (nel libro è citato proprio così, per dichiarare subito come la si pensa e, soprattutto, come si è vissuto) che spiegava, al figlio del suo autista e della sua segretaria, come il sindacalismo fosse “la prostituzione dell’intelligenza”. Poi, il signor De Carolis, un sindacalista appunto, amico del padre, capace di trasmettere a quel ragazzo l’idea che “la prostituzione dell’intelligenza” era invece il modo per disprezzare “il coraggio, il senso di libertà e l’amore per i diritti”. Infine, l’incipit del secondo capitolo di “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline: “Quando ci sei, ci sei”. Che vuol dire una cosa di un’etica assoluta e ineludibile: “Si è in parte, che tu lo voglia o no, ciò che si desidera essere e fare e in parte ciò che capita”. Eccole le fondamenta di Gian Carlo Caselli, il “lari e i penati” di un uomo e di un magistrato. Raccontati in un libro che se scritto 30 anni fa, in un’altra età della vita, avrebbe potuto intitolarsi “La giustizia spiegata a mio figlio”. Gli anni sono passati, però, e allora il diario breve di un’esistenza è diventato “Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita)”: scritto - con passione ed elegante chiarezza - assieme al figlio Stefano, giornalista del Fatto Quotidiano. La cui mano, da bravo cronista, si coglie di volta in volta nella cura dei particolari, nelle ambientazioni laterali per rievocare epoche, costumi e modi di vivere, nell’ironico e carsico richiamo alla comune fede calcistica per il Torino Calcio: anch’essa trasmessa dal signor De Carolis. In quelle pagine, un argomento è taciuto, ma la scelta di questa formula “familiare” è, senza alcun dubbio, anche un tributo del giudice istruttore delle Brigate Rosse e poi del procuratore capo di Palermo (e dei ripetuti tentativi del partito armato e poi di Cosa Nostra per ucciderlo) al sacrificio e alla vita blindata che, per decenni, lo hanno coinvolto con la moglie e i figli. I giorni memorabili sono dieci, scelti per sintetizzare una storia sia personale che collettiva: di Caselli, ma anche della magistratura italiana. E che, proprio per quel “coraggio e amore per la libertà”, gli sono valse ingiurie contraddittorie e altalenanti: “toga rossa”, “giudice fascista”, “pm mafioso”. L’esordio non è un’inchiesta di Caselli. Ma quella, invece, di un pretore di Livorno, Gianfranco Viglietta, e poi di un suo collega di Genova, Adriano Sansa, sui fanghi inquinanti della Montedison di Scarlino che portò, nel 1974, alla condanna di uno dei potenti di allora, Eugenio Cefis. L’archetipo della magistratura che agisce secondo il Codice penale, ma anche seguendo “coraggio e amore per la libertà”. Il resto sono davvero pezzi di storia che hanno cambiato l’Italia (e anche, in qualche caso, consolidato i suoi vizi e le sue piaghe peggiori). L’inizio degli anni di piombo a Torino e a Genova, il ricordo doloroso del procuratore Bruno Caccia poi ucciso dai killer della ‘ndrangheta, il pentimento di Patrizio Peci, vittima dei una vendetta brigatista che anticipa quella mafiosa nei confronti del piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido, l’istruttoria sui 64 morti del Cinema Statuto del 1983. Infine, il lento avvicinamento di Caselli a Palermo, prima al Csm (tra i pochi, addirittura fra i rappresentanti della sua stessa corrente, Magistratura democratica, a non mettersi di traverso alla nomina di Giovanni Falcone al vertice dell’ufficio istruzione di quella città), poi con la nuova chiamata del “Se ci sei, ci sei”: dopo Capaci e via D’Amelio. Ecco l’arresto del “capo dei capi”, Totò Riina, ecco il processo a Giulio Andreotti che la penna (è probabile) di Stefano Caselli definisce una “tragicommedia”, e poi la legge berlusconiana “contra personam” per impedirgli di diventare procuratore nazionale antimafia. La conclusione è il ritorno a Torino, per dirigere gli uffici giudiziari della sua città, con una grande inchiesta sulla ‘ndrangheta salita al Nord e infine sui movimenti violenti contro il Tav della Val Susa. Che gli “regalerà” l’incredibile accusa, sui muri vicini al palazzo di Giustizia, di essere un “pm mafioso”, e decreterà anche la sua uscita polemica da Magistratura democratica: proprio alla vigilia della pensione. Manca, è la sensazione leggendo il libro, solo un capitolo di quella storia. Un’omissione comprensibile e, forse, molto meditata. La spiegazione sul perché la “toga giusta” non ha mai voluto accettare le molte proposte di trasformarsi in un politico. Un no netto, anche se mai accompagnato da critiche alle scelte altrui. Quando “ci sei”, però, quando hai deciso di essere e fare ciò che ti piace, ma pure di affrontare ciò che ti capita, probabilmente sai anche che non devi accettare quello che altri vogliono farti fare. Do la voce di Mina (e qualche sogno) alle donne in galera di Maurizio Porro Corriere della Sera, 24 dicembre 2023 Porta a Lugano (e poi in tutt’Italia) lo spettacolo nel quale interpreta la cantante, riproponendo il suo ultimo concerto del 1978. Una performance nata in carcere a Messina. “Nei suoi brani troviamo i nascondigli dell’anima”. Sono praticamente trent’anni che Tindaro Granata, uno dei talenti più vivi e originali del teatro di oggi, rabdomante della nuova drammaturgia, sta provando Vorrei una voce, titolo dello spettacolo, prodotto dal Lac di Lugano, che giovedì 11 gennaio debutterà nella città ticinese. Non c’è bisogno di fare il giro dell’oca, il titolo porta subito a Mina e alla canzone che ha popolato delusioni e illusioni di ogni ordine e grado, La voce del silenzio di Paolo Limiti, Mogol ed Elio Isola (brano che andò a Sanremo nel 1968). Il piccolo Tindaro, nella sua cameretta, a dieci anni, col mangiadischi, già imitava e cantava in playback i successi di Mina: una voce, un mito, un modo di esprimere i sogni, un trampolino di immaginazione e di chissà quali storie d’amore. “Andiamo con ordine”, avverte Granata, nato a Tindari, dove d’estate organizza un festival nel teatro antico e che da anni gira l’Italia con uno spettacolo amarcord familiare, Antropolaroid, 400 repliche. “Nel 2019 insegnavo teatro alle undici detenute del carcere femminile di alta sicurezza di Messina, gestito in modo virtuoso da Angela Sciavicco. Mi chiedevo come raggiungere la loro femminilità reclusa. Ho pensato a Mina, mi sono truccato gli occhi come lei, ho incominciato a parlarne. Tutte la conoscevano e si identificavano nelle sue canzoni. Allora ho proposto di mettere in scena in playback con le carcerate nel teatrino da 90 posti del carcere, grazie all’Associazione Darteventi diretta da Daniela Ursino, l’ultimo concerto live della cantante, quello della Bussola, addì 23 agosto 1978. Entusiasmo generale di familiari e magistrati perché quelle canzoni erano il grimaldello per scoprire le loro storie nascoste ma senza parlare, affidando al playback sogni infranti, errori, drammi, tutti sul conto della musica di Mina e alla sua femminilità. Una replica sola, il 14 dicembre 2019, una serata indimenticabile con fiumi di lacrime, poi tutto si è fermato per la pandemia ma io tenevo nel cassetto un breve trailer dello show”. Secondo tempo: Granata, che intanto produce, scrive, dirige una scuola di teatro a Milano, Proxima Res, recita La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau in una gran caratterizzazione chapliniana, ha sempre in testa quelle detenute di Messina che cantavano La città vuota o Io vivrò. “Così - racconta a “la Lettura” - mandai il trailer a Massimiliano Pani, che mi ha risposto accettando con gioia l’idea di rifare quel concerto di sua madre a teatro con un io narrante che racconta l’esperienza nel carcere parlando di queste cinque donne che faccio entrare in scena, intervallando le loro storie con canzoni di Mina”. In scena, aggiunge, “sono sempre io, con la massima libertà espressiva: io, non più identificabile come uomo o donna. Solo il rimmel sugli occhi. Parlo di queste donne e in playback canto come Mina seguendo la traccia dell’ultimo show in Versilia, dopo aver studiato ogni movimento labiale. È stata una di loro, Vanessa, a dirmi: se vuoi mettere in scena noi, solo tu puoi rappresentarci”. Dopo l’emozione di aver varcato con alta pressione la soglia della casa di Mina, Tindaro si è buttato nell’impresa, non ha chiesto di incontrare la grande cantante che nel marzo prossimo sarà ottantaquattrenne: “Mi sembrava già molto essere nel suo salotto, se sarà destino vedremo. Il figlio mi ha parlato della curiosità attiva di sua madre e mi ha concesso di cantare in playback, oltre a La voce del silenzio, anche L’importante è finire, Ancora ancora ancora, Città vuota, Caruso di Lucio Dalla e Io vivrò di Mogol e Lucio Battisti, oltre a nove minuti di un medley finale con i suoi pezzi più famosi che lei regalò al pubblico quella famosa sera. Quindi sono tutti audio, ma ho studiato bene la mimesi vocale e dietro apparirà la foto di Mina e anche un breve video”. Che cosa lega il siciliano Tindaro, la “sua” Mina e le detenute di Messina? “Il fatto che il dolore inizia quando tu smetti di sognare e dentro allora ti muore qualcosa. Quando arrivai a Messina ero anch’io in questa condizione sofferente, in crisi con il lavoro di teatro che pure andava bene, in crisi con gli amici, in sofferenza generale con il mondo. Mi sentivo io stesso in carcere, mi ero arrestato da solo perché avevo smesso di credere nei sogni e non ascoltavo una certa voce che dovremmo sempre inseguire, l’istinto. Grazie a queste undici donne, espressione di un mondo femminile ora senza uscita, io mi sono ritrovato. E con lo spettacolo racconto questi pezzi di esistenze che si riconoscono in una nota, in un refrain, in un acuto. È la prima volta che Mina viene intesa non solo come grande interprete, ma con tutto il suo mondo interiore. Certo, lei non c’è, ma in qualche modo è come se con questo grande omaggio ritornasse”. Neanche le detenute ci sono, se non, ma sfocate e da lontano per regolamento carcerario, in un video finale di 4 minuti, al termine di questo grande processo di riunificazione: “Perché io che narro mi identifico con tutte le storie delle donne, ma raccontando le storie di queste amiche voglio abbattere i pregiudizi: non sono extraterrestri, le donne carcerate hanno amici e famiglie, sono nel nostro stesso contesto, potrebbero essere mie zie o cognate, non sono mostri ma persone che soffrono della loro detenzione, non hanno possibilità di esprimere la loro femminilità, i misteri del loro subconscio. Bisogna trovare, ovunque siano, anche in una canzone malinconica di Mina, i nascondigli dell’anima”. Migranti. Oim: +60% di morti nel Mediterraneo centrale. “Emergenza umanitaria” Il Manifesto, 24 dicembre 2023 Quest’anno nel Mediterraneo centrale sono morte 2.271 persone che tentavano di raggiungere l’Europa. O almeno, queste sono le vittime accertate, una cifra da considerare per difetto a fronte dei tanti naufragi fantasma di cui si sa poco e nulla. In ogni caso si tratta dell’84% del totale dei morti nel Mare Nostrum dall’inizio del 2023 e del 60% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (1.413). “Ancora una volta ribadiamo che quella degli arrivi via mare non è un’emergenza numerica, ma umanitaria”, afferma Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). La destra italiana aveva promesso di far diminuire sia gli sbarchi che i morti in mare, anche attraverso i crescenti ostacoli alle Ong rappresentate per anni come “pull factor” (tesi smentita qualche giorno fa persino da Frontex). È successo il contrario, ma le vittime sono cresciute più rapidamente dei migranti riusciti ad arrivare sulle coste italiane, che da un anno all’altro sono passati da 100mila a 153mila (+53%). “Di questo aumento del numero di morti dobbiamo innanzitutto ringraziare il disumano cinismo di Meloni e Salvini che hanno imposto norme che ostacolano il soccorso in mare causando tragedie come a Cutro e l’altro giorno altri 86 vittime al largo della Libia che potevano essere salvate”, attacca il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo. Dei migranti partiti dalle coste nordafricane 48mila sono stati intercettati dalla guardia costiera tunisina e 11mila dalle milizie libiche. Di quelli arrivati in Italia 18mila sono di origini guineana, 17mila tunisina e 16mila ivoriana. Seguono Bangladesh (12mila), Egitto (11mila) e Siria (9.500). Nelle strutture di accoglienza si trovano 140mila persone, divise tra i centri governativi (105mila persone) e i progetti della rete Sai (35mila). La Lombardia ospita il 13% di tutti i migranti, è la percentuale regionale più alta. Migranti intercettati in mare dalla guardia costiera tunisina e consegnati ai trafficanti libici di Leonardo Martinelli e Alessandra Ziniti La Repubblica, 24 dicembre 2023 Gravi violazioni dei diritti umani rivelati dal report dell’Organizzazione mondiale contro le torture e da Lighthouse. Ecco che fine fanno i migranti soccorsi in mare e riportati indietro. Gli ultimi tre mesi del 2023 hanno fatto tornare il sorriso sul volto di Matteo Piantedosi: il trend degli sbarchi si è decisamente invertito, 20.000 migranti arrivati da ottobre ad oggi contro i 34.000 dell’anno scorso. Il patto con il presidente tunisino Saied funziona, è l’analisi del ministro dell’Interno che non perde occasione per ricordare: “La Tunisia ha fermato 64.000 persone quest’anno, senza di loro ne sarebbero arrivati molto di più”. E che fine hanno fatto questi 64.000 riportati indietro dalla guardia costiera tunisina? Meglio non chiederselo, meglio far finta di non vedere quello che da mesi raccontano diverse Ong e osservatori internazionali che hanno raccolto testimonianze, foto e video. E cioè che il patto stretto dall’Italia con il presidente tunisino nasconde gravi violazioni dei diritti umani perché migliaia di migranti fermati in mare alla partenza dai guardiacoste tunisini vengono non solo deportati ai confini verso il deserto ma adesso anche consegnati direttamente ai trafficanti libici. Dunque intercettati in mare sulle coste tunisine e spediti nei lager libici. La misteriosa nave delle milizie - Esattamente come accade con altre migliaia di persone che, già arrivate in acque maltesi, si ritrovano improvvisamente di fronte una misteriosa nave blu con sulla fiancata il nome Tareq Bin Zeyad con a bordo misteriosi uomini armati, che farebbero capo a Saddam Haftar, figlio del generale Khlaifa Haftar. Li abbordano, li prelevano di forza e li riportano in Libia dopo aver ricevuto indicazioni sulle loro coordinate in mare dalle autorità maltesi e da Frontex. Insomma, la strategia della difesa dei confini d’Europa attuata anche attraverso accordi con Libia e Tunisia nasconderebbe gravissime violazioni dei diritti umani. Così raccontano le prove offerte da due lavori di inchiesta, il rapporto dell’Organizzazione mondiale contro la tortura e quello dei giornalisti di Lighthouse secondo i quali “Frontex e il governo maltese condividono sistematicamente le coordinate delle barche piene di migranti in fuga dalla Libia con una nave su cui opera una milizia legata ai russi, ai trafficanti di essere umani e crimini di guerra”. Ma se per i migranti che scappano dalla Libia la possibilità del ritorno nei lager è messa in conto, cosa ben diversa è per chi da un Paese che l’Europa definisce sicuro come la Tunisia si imbarca verso l’Italia e poi finisce per ritrovarsi consegnato ai trafficanti libici. Dalla Tunisia ai lager libici - È la teoria dei vasi comunicanti. I migranti che non arrivano più in Italia direttamente dalla Tunisia, ricompaiono nei centri di raccolta (veri e propri lager) in Libia, destinati poi anche da lì a prendere il mare per Lampedusa (con molti più rischi). Oppure si materializzano al confine tra Tunisia e Algeria, in pericolose zone desertiche, sballottati tra i due paesi e, anche in questo caso, destinati comunque più tardi a prendere il mare dalla Tunisia o dalla Libia. È il segreto di Pulcinella che gira da tempo a Tunisi: il calo delle partenze delle ultime settimane nasconde un meccanismo di deportazione ormai strutturato verso i confini desertici dei due stati vicini, rendendo ancora più disumano il destino dei migranti e non risolvendo alla base il problema migratorio. La realtà del fenomeno è scritta nero su bianco in un rapporto appena pubblicato dall’Omct realizzato sulla base delle testimonianze di una trentina di Ong attive in Tunisia, di una ventina di deportati e di missioni sul posto, alle frontiere). Da giugno almeno 5500 migranti, secondo il rapporto Omct, sono stati deportati al confine con la Libia e almeno 3mila a quello con l’Algeria. L’Ong sottolinea come da settembre l’operazione sia diventata (fino a oggi) “molto più strutturata”: “Le deportazioni e le espulsioni verso l’Algeria e la Libia sono realizzate in maniera regolare, in un clima di diniego dell’accesso alla giustizia e di non rispetto delle garanzie procedurali”. Sono i pullman della Guardia nazionale ma anche dei trasporti pubblici di Sfax, che sono requisiti addirittura con i loro autisti, a essere utilizzati per trasportare subsahariani, costretti a salire a bordo e poi scaricati alle frontiere. Deportati anche i richiedenti asilo - Si tratta anche di richiedenti asilo, già registrati dagli uffici dell’Unhcr in Tunisia. E si tratta pure dei migranti appena intercettati in mare dalla Guardia nazionale, mentre cercavano di raggiungere Lampedusa (quasi 65.000 dall’inizio dell’anno, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso): la loro deportazione, una volta riportati a riva, è “quasi sistematica”. I migranti trasferiti al confine con la Libia sono consegnati al Security support apparatus (Ssa), finanziato dal governo di Tripoli, che li distribuisce poi in centri di raccolta in Libia, dove vengono torturati e minacciati, perché chiedano soldi alle loro famiglie, necessari per essere liberati. La fonte di una Ong internazionale presente in Tunisia racconta che “la Guardia nazionale si farebbe pagare per questi migranti, che per i libici sono all’origine di guadagni”. Ma già sul territorio tunisino l’Omct documenta violenze subite dai subsahariani da parte delle forze dell’ordine, giungendo alla conclusione che “la Tunisia non è un paese sicuro per questi migranti”. Vista, però, la situazione così difficile per loro in Libia (e anche in Algeria) rispetto alla Tunisia, continuano a entrare in quest’ultimo paese dagli altri due fra i 300 e i 400 al giorno, in un assurdo balletto di deportazioni in un senso e di nuovi arrivi nell’altro. Bangladesh. Ha 10 mesi, vive in una cella del braccio della morte di Elisabetta Zamparutti* L’Unità, 24 dicembre 2023 Da due mesi la piccola è chiusa 24 ore al giorno in una cella di 9mq con la mamma e altre due condannate a morte. Ha perso già due chili. Non si sa quando uscirà. Nessuno tocchi Caino è quella bussola che permette di orientarsi anche quando il cielo si fa cupo, il vento ruggisce e la tempesta avanza a passi pesanti sulle relazioni umane. Orienta perché aiuta a vedere nelle tenebre il punto estremo a cui può arrivare il comportamento umano. E lì, su quell’eccesso di conseguenze, allestisce una sala dove interrogare la coscienza per trarne lumi. Tra le relazioni umane quella tra detenute madri e figli piccoli è indubbiamente una delle più delicate. Specialmente se la donna aspetta un bambino o questo è molto piccolo. Una delicatezza che il Codice Rocco ha considerato tale da dover, saggiamente, comportare il differimento dell’esecuzione della pena se la donna era in gravidanza o con bambini di età inferiore a tre anni. Qualche giorno fa mi chiedevo dove possa portare l’esortazione “Avanti così!” con cui Salvini ha commentato la recente proposta di calpestare il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nei confronti di donne (il riferimento è alle borseggiatrici Rom) in tali condizioni. Ecco allora che da un Paese che non fa molto parlare di sé, il Bangladesh, arriva una notizia relativa proprio a un punto estremo, un eccesso, oserei dire uno scandaloso possibile approdo di questo delicato rapporto tra detenute madri e figli. In Bangladesh esiste ancora la pena di morte. L’anno scorso sono state condannate a morte almeno 169 persone e 4 sono state impiccate. La cosa non fa notizia. Non si era mai sentito però che in un braccio della morte ci potesse essere anche una bambina. Eppure è successo. Perché Mahida, che ha 10 mesi, dal 26 ottobre sta nel braccio della morte con sua mamma Husna Akter dopo che il Tribunale per le donne e i minori di Habiganj l’ha condannata alla pena capitale, con altri quattro componenti della sua famiglia, per aver ucciso Ayesha Akter a Chunarughat. In Bangladesh i condannati a morte stanno sempre chiusi in cella, monitorati 24 ore su 24 fino all’esecuzione. E così Mahida se ne sta chiusa nella cella del braccio della morte del carcere di Habiganj con sua mamma e altre due condannate a morte, tutte recluse in uno spazio che misura circa 9 metri quadrati, dove l’unica finestra è sbarrata con delle assi, dove l’acqua corrente è un miraggio e non ci si può in alcun modo difendere dalle zanzare. Secondo il Daily Star, la bambina avrebbe perso due chili da quando è entrata in carcere. Un calvario di cui non è dato conoscere il momento finale poiché non si sa quando la Corte d’ultima istanza si pronuncerà per rendere definitiva la sentenza e dunque il momento dell’esecuzione. La vicenda è talmente scandalosa che la Corte Suprema, investita del caso dall’avvocato Tanvir Ahmed che ha agito in nome del pubblico interesse, il 18 dicembre ha chiesto alle autorità di spiegare, entro quattro settimane, come sia possibile che bambini siano costretti a vivere in queste condizioni senza alcuna tutela, attenzione, cura specifica. Il fatto non è circoscritto a Mahida perché risultano esserci 304 bambini reclusi con le proprie madri nelle 68 carceri del Bangladesh. Husna, la mamma di Mahida, non è una borseggiatrice Rom. Non ha sfilato un portafoglio dalla tasca di un ignaro passeggero su un autobus. Ha, almeno secondo la sentenza, sfilato la vita dal corpo di un’altra persona. Non basta però questo a far sì che, interrogando la coscienza, la risposta sia che Mahida si merita il trattamento a cui è, suo malgrado, sottoposta. E se è insopportabile per lei come possiamo accettare che lo sia per bambini costretti dietro le sbarre per fatti assolutamente minori in nome e per conto dei quali i capitani conducono la nave dello Stato di Diritto a incagliarsi negli scogli della sicurezza? Marco Pannella, più volte parlando delle riforme del codice penale, ha detto che la classe dirigente italiana in fin dei conti altro non ha fatto nel corso dei decenni che peggiorare il Codice Rocco. Ha ancora ragione. E allora, dico “Indietro tutta!”. Torniamo al codice Rocco ma anche prima ancora, ai testi millenari dove sta scritto “Nessuno tocchi Caino” e “Chi giudica chi” a indicare una soglia di intangibilità della dignità umana che non confonde l’uomo con il suo reato e lascia la speranza anche per Caino di divenire padre di molti popoli e costruttore di città. *Nessuno Tocchi Caino La leggenda di “Kizito” Sesana: “Non lascerò la mia Africa per finire in una rsa” di Riccardo Orizio Corriere della Sera, 24 dicembre 2023 La vita straordinaria del meccanico missionario partito da Lecco: “Ho 80 anni, sono venuto qui per tirare su case. Non mi basta essere esempio vivente di povertà, voglio che resti qualcosa di concreto”. Padre Renato “Kizito” Sesana, 80 anni: in Africa da oltre 50 anni, il missionario è stato direttore della rivista comboniana “Nigrizia” e ha fondato la comunità Koinonia. Porta una criniera bianca da vecchio leone, che tra barba, capigliatura e sopracciglia gli scolpisce un volto antico da Cristo sopravvissuto alla croce. Jeans qualunque, sandali qualsiasi, voce cristallina per nulla consueta. Mani nodose da operaio metallurgico di una volta. Gli occhi chiari, ma velati da mezzo secolo di Africa. Tra la Nairobi post-coloniale e i lontani monti Nuba, tra lo Zambia e mille angoli del continente, una vita da romanzo segnata da avventure, successi, delusioni, premi prestigiosi e attentati scampati per miracolo. Adorato da tanti, tradito non da pochi. Un ostacolo per molti superiori e colleghi. Ma una leggenda nelle baraccopoli dei dimenticati. Padre Renato “Kizito” Sesana ha compiuto 80 anni ed è un monumento vivente, uno di quelli che hanno cambiato la vita di migliaia e migliaia di persone, soprattutto ragazzi presi dalla strada e “tirati su” - una delle sue espressioni preferite - per dar loro un futuro dignitoso. Non li ha compiuti in silenzio. Dal Kenya, Paese dal quale in diversi hanno cercato di cacciarlo, ha tracciato su Famiglia Cristiana un bilancio della sua straordinaria vita, togliendosi qualche sassolino dalle scarpe. Una sorta di testamento dove alle prime righe compare inevitabilmente il verbo “fare”: “Com’è che ho ancora sogni per il futuro? È che ogni mattina quando mi alzo metto in fila le cose che vorrei fare quel giorno, e sono sempre troppe”. Questo missionario che assomiglia al ritratto dei missionari di una volta, quelli che partivano dai paesi della provincia italiana per terre lontane e popoli sconosciuti, è infatti uno che crede nella concretezza, nel costruire. Incontrarlo è un’esperienza che lascia il segno. E ancora di più il fatto che poi ti scrive una email per dire: “Ripensando all’intervista mi sono ricordato di non aver risposto pienamente alla domanda sul “fare”, perché ho divagato, come mi succede spesso. Una spiritualità senza il “fare” è un inganno. Il cristianesimo senza amore e servizio concreto al prossimo, al povero, è una dottrina esoterica estranea all’insegnamento di Gesù di Nazareth, il figlio di Dio. Lui ci ha detto la verità sul Padre, ma anche su di noi, sul senso della nostra vita. È sul fare che costruiamo il nostro “giudizio finale”. Poi ciascuno declina il fare come gli è possibile a seconda dei suoi doni e delle circostanze delle sua vita. Ma se l’amore non genera vita e non diventa visibile è un’illusione”. Divagare? Nei suoi 80 anni, padre Kizito ha fatto tutto eccetto che divagare. È partito da perito meccanico alla gloriosa Moto Guzzi, che aveva 1.500 dipendenti a Mandello del Lario vicino alla sua Lecco. “Dopo tre mesi di apprendistato mi hanno subito assunto e messo nel reparto Analisi tempi e metodi. Lavoro bellissimo”. Ma era un animo inquieto. “I miei genitori vendevano libri. A casa ero circondato dai classici della BUR. Mi nascondevo sotto il bancone nel negozio di mio papà e leggevo. A 8 anni I Promessi Sposi , poi l’ Imitazione di Cristo e così via. Mi affascinavano la spiritualità, la religiosità”, dice Kizito. Così l’operaio Sesana scrive una lettera al vicario generale dei Comboniani, che lo convoca subito per il noviziato. Renato va dal direttore del personale e gli dice che parte missionario. I vangeli al posto dei motori. “Avevo 21 anni. A quei tempi i missionari erano rispettati, credibli, e lui non cerca neppure di fermarmi e mi dice “Vai, fai bene, ti verremo a trovare, dovunque tu vada”. Sesana ha già in mente l’Africa. I Comboniani, infatti, sono gli eredi di quel Daniele Comboni che, partito dal Regno Lombardo Veneto, nel 1858 aveva stabilito il primo vicariato apostolico dell’Africa Centrale, nel Sudan ottomano-egiziano. Comboni era morto a Khartoum nel 1881 dopo aver fondato una rivista che farà storia, Nigrizia (esiste ancora), e rivoluzionato il pensiero paternalista che sperava di europeizzare il cosiddetto Continente Nero. Il famoso motto di Comboni, infatti, proponeva il contrario: “Salvare l’Africa con l’Africa”. Per padre Renato Sesana è l’inizio di una carriera fulminante. Ordinato nel 1970, due anni dopo nominato giovanissimo direttore di Nigrizia (“Sono giornalista da più di 50 anni!”), primo viaggio in Africa nel ‘71, nel ‘73 va insieme ai guerriglieri della Guinea Bissau. Poi lo mandano in Kenya a fondare radio e riviste edite dai Comboniani, che in Africa sono una potenza da ogni punto di vista e formano generazioni di classe dirigente. Scrive libri (ad oggi 14). Poi scopre che la sua vocazione non è solo quella del comunicatore, ma anche del costruttore. Come alla Guzzi. Invece di motociclette, speranza. Come? Aiutando direttamente i più fragili tra i poveri, i bambini. Inizia a “tirar su” case che li ospitano, offre studi, un tetto, formazione professionale, insomma un futuro. Costruisce, salda, ripara, compra terreni, si allarga. Nasce Koinonia, comunità che si ispira agli Atti degli Apostoli, dove genitori adulti volontari fanno crescere insieme ai propri figli quelli di famiglie disintegrate.