Sarà un altro Natale “senza”, per le persone detenute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2023 Dall’inizio dell’anno 67 persone si sono tolte la vita. E in prossimità delle feste, quando la vita in cella diventa ancora più insopportabile, il bilancio si fa sempre più drammatico. Nonostante l’impegno delle associazioni dei volontari, il 25 e il 26 dicembre i reclusi resteranno in gran parte soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Il Natale è una festa da passare con i propri cari, ma per le persone detenute è un Natale “senza”. Senza i figli, senza i genitori, senza fratelli e sorelle. E quei figli, quei genitori, quei fratelli e sorelle hanno sempre un posto vuoto a tavola. Nelle patrie galere, le festività natalizie accentuano inevitabilmente il senso di solitudine per la lontananza dalle famiglie, nella assenza di proposte “trattamentali” (con la sospensione dei corsi scolastici e delle attività lavorative) e nella riduzione, causa ferie, di un personale già sotto-organico durante il resto dell’anno. A compensare, in minima parte, questo dramma ci pensano i volontari del Terzo settore, la Chiesa, le comunità come quella di Santo Egidio, ma anche il Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino con le loro visite. Il carcere è un luogo separato, una sorta di extraterritorialità dove a piene mani si raccolgono, si respirano, si toccano la malattia, la debolezza, l’abbandono, l’emarginazione, il dolore. Il Natale, in particolar modo, amplifica tutto ciò. I giovani sono quelli più colpiti. Come non ricordare l’evasione di Natale avvenuta due anni fa da parte dei ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano? Come ha ricordato la garante Monica Gallo all’indomani del suo dossier “Giovani dentro e fuori”, quell’episodio “ripropone in maniera plastica i ritardi non solo di natura organizzativa e operativa, ma di visione e impostazione dell’esecuzione della pena, soprattutto nei confronti della fascia più giovane della popolazione detenuta”. L’impennata dei suicidi. In prossimità delle festività, inesorabilmente c’è l’appuntamento con la morte. Anche quest’anno, si fa la macabra conta delle morti nel mese di dicembre. Pensiamo al carcere di Montorio dove un giovane marocchino di nome Oussama Saidiki, proveniente dalla quinta sezione, si è impiccato nella sua cella di isolamento. La notizia giunge a poche ore dalla morte di un altro detenuto avvenuta nell’ospedale di San Vittore a Milano, che ha commesso il gesto mortale durante la diretta della Prima della Scala di Milano. L’ultimo suicidio è avvenuto mercoledì scorso. Un detenuto ucraino di 51 anni, sposato con figli, si è impiccato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Era accusato di omicidio. Il giorno prima aveva partecipato ad un’udienza. È il terzo suicidio nel 2023 nello stesso istituto, rende noto il garante regionale Samuele Ciambriello. Siamo così arrivati a 67 suicidi dall’inizio dell’anno. La galera diventa più insopportabile soprattutto nei giorni festivi. Il Natale in primis. Alla frustrazione di essere chiusi in una cella si aggiunge il dolore causato dal non poter essere vicino ai propri cari, in una serata di festa per stare con loro. Le feste in carcere amplificano le lontananze. Nonostante, come già detto, la buona volontà di chi opera nel sociale, per due giorni - Natale e Santo Stefano - la maggior parte dei reclusi delle patrie galere rimarranno inevitabilmente soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Si capisce che la vera aria del Natale carcerario, l’aria triste, si insedia nelle celle dopo la Santa messa. Proprio quando inevitabilmente volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne vanno, ciascuno a fare Natale con i suoi. Nessun regalo in arrivo - Il vero regalo di Natale che i detenuti attendevano non è mai giunto. Non vi è stato alcun miglioramento della situazione carceraria, solo un modesto contentino con qualche telefonata in più. Invano speravano almeno nei 75 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, proposta di legge del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, ma che è rimasta nel cassetto. Come ben sappiamo, nulla di tutto ciò si è concretizzato. Dopo la parentesi della pandemia, che aveva di fatto liberalizzato le chiamate e introdotto, seppur minima, misura deflattiva, tutto è tornato alla normalità precedente. Ciò significa un ritorno al fallimento del sistema, con passi indietro che rappresentano un fallimento totale, anche nei confronti delle detenute con figli piccoli, giungendo persino a proporre che le detenute incinte possano restare dietro le sbarre. Il sovraffollamento sta gradualmente raggiungendo i livelli che hanno provocato la sentenza Cedu “Torreggiani”, ma non è l’unico fattore che contribuisce alla violazione dei diritti umani. Il trattamento disumano e degradante in carcere può verificarsi indipendentemente dal rispetto dello spazio vitale in cella. Pensare che garantire una superficie di tre metri quadrati per detenuto possa evitare violazioni è un clamoroso errore. L’ordinanza che ha risarcito il detenuto dei Casalesi grazie all’istanza dell’avvocata Pina Di Credico, dimostra che sono decisivi altri fattori. Questo rappresenta il dramma delle carceri italiane, che si aggravano sempre di più a causa delle misure restrittive. Trattamenti disumani e degradanti - Per una comprensione più approfondita, è necessario fare riferimento alla sentenza della Corte Europea nel caso Mursic contro la Croazia. I giudici della Corte di Strasburgo hanno ritenuto che numerosi altri fattori, quali la durata della detenzione, le possibilità di attività all’aperto, le condizioni fisiche e mentali del detenuto, e così via, giocano un ruolo importante nel decidere se le condizioni di detenzione rispettino o meno le garanzie dell’Articolo 3 della Convenzione, ovvero il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante. È importante ricordare che, in ottemperanza alle richieste espresse dalla Corte Europea con la sentenza “pilota” Torreggiani, il legislatore italiano ha introdotto l’art. 35-bis nell’ordinamento penitenziario, che disciplina il procedimento per il reclamo giurisdizionale, oltre all’articolo 35-ter, che prevede i rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 Cedu. L’articolo 35 ter, quindi, deve richiamare i principi interpretativi e applicativi derivati dalla giurisprudenza comunitaria e interna che hanno trattato la questione delle condizioni di detenzione. Tra i casi rilevanti si annoverano Sulejmanovic, Torreggiani, Tellissi, G.C., Khlaifia, e altri contro l’Italia, insieme alla decisione della Grande Chambre nel procedimento Mursic contro la Croazia. Ma quali sono i fattori che determinano la violazione dei diritti umani in carcere? Lo Stato è obbligato a garantire che le condizioni di detenzione siano compatibili con il rispetto della dignità umana. Le modalità di esecuzione non devono sottoporre il detenuto a uno stress o a una prova che superi il livello di sofferenza inevitabile associato alla detenzione. Nel caso di individui malati, le condizioni di detenzione devono essere adeguate al loro stato di salute, sia in termini di cure fornite che in termini di compatibilità con il mantenimento dello stato detentivo. Per rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della Cedu, un cattivo trattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. Tale valutazione dipende dalla durata del trattamento, dagli effetti fisici o psicologici, nonché da fattori come sesso, età e stato di salute dell’individuo interessato. Sappiamo che la mancanza di spazio, soprattutto in situazioni di grave sovraffollamento, può costituire una violazione dell’articolo 3. Ma anche se vengono rispettati gli spazi minimi, ci sono altri fattori da prendere in esame, ovvero l’uso riservato dei servizi igienici, la ventilazione disponibile, l’accesso alla luce naturale, la qualità del riscaldamento, il rispetto delle esigenze sanitarie di base e le attività trattamentali, lavorative e ricreative offerte. Senza il miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere, l’implementazione delle attività sociali, lavorative, ricreative e della presenza del territorio, la costituzione di una cultura inclusiva, il riconoscimento del diritto all’affettività, la sanità e le misure deflattive, il carcere crea la disumanizzazione e quindi una violazione dei diritti umani. E tutto ciò diventa ancora più palpabile con l’avvicinarsi del Natale. “Il carcere duro ha rafforzato la mia corazza, non la mia responsabilità” a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 23 dicembre 2023 Nel nuovo pacchetto sicurezza è previsto che, se tre persone detenute che condividono la stessa cella si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, con modalità nonviolente (gli strumenti per punire le modalità violente già ci sono), scatterà la denuncia per rivolta e si potrà arrivare a una condanna fino a 8 anni di carcere senza accesso ai benefici penitenziari. Introducendo il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, invece di affrontare con strumenti efficaci la sofferenza, ma anche la rabbia che cresce nelle carceri, per condizioni detentive pesantemente illegali, si rischia di gettare benzina sul fuoco, e di togliere alle persone detenute anche quei margini di dignità e autonomia già oggi ridottissimi. Noi volontari e operatori che frequentiamo le carceri ogni giorno, ne abbiamo incontrati, di ragazzi che hanno accumulato anni di galera per trasgressioni come l’essersi rifiutati di rientrare in cella per richiamare l’attenzione, perché un loro compagno stava male, e non arrivavano i medici. Sembra che si voglia tornare al carcere che forma detenuti obbedienti, ma non certo cittadini responsabili. *Direttrice di Ristretti Orizzonti La testimonianza di R., detenuto a Frosinone Se cercassi di ripercorrere i miei anni di galera, partendo dall’arresto nel 2007, quando appena ventiduenne ho varcato la porta carraia della Casa Circondariale di Salerno, in piena notte con il trambusto di chiavi, volti giudicanti, incazzati già di loro, che mi aprivano cancelli e me ne chiudevano altri alle spalle, non potrei non pensare alla modalità costante del carcere, che ti fa sentire sempre e solo come un oggetto, un fascicolo vivente. È così che è cominciato il mio tour di trasferimenti nelle 12 carceri in cui sono stato: da quello gestito in modo decente, al più violento, tra proteste e disordini che pago ancora oggi. Denunce, isolamenti, passando da regimi ordinari a disciplinari, fino alle camere psichiatriche che spesso ti inducevano proprio al suicidio. Per affrontare il carcere ci si deve armare di coraggio e sopportazione, non tanto perché ti torturano fisicamente (ma può accadere), quanto perché sin da subito dovrai subire tante privazioni e ordini: mettiti qua, spostati di là, metti le mani dietro la schiena, cammina ai lati del corridoio, non fermarti a parlare con detenuti di altre sezioni. Quel tipo di carcere non solo ha contribuito a rafforzare la mia corazza, creata dal tipo di ambiente in cui sono cresciuto, ma a causa dei metodi poco rieducativi, ha finito per alimentare le mie parti difficili, spingendomi ad alzare l’asticella dello scontro in una guerra che negli anni mi ha annientato. Molti direttori e comandanti conoscono poco la popolazione detenuta presente nel loro istituto, in particolare i detenuti più problematici, se non per decidere le sanzioni da infliggere loro: rapporti disciplinari, giorni di isolamento, denunce e poi magari togliersi il peso con un trasferimento, che sposta continuamente il problema da una parte all’altra del paese, a meno che qualche direttore più attento non abbia il tempo e la voglia di ascoltare in modo diverso questi detenuti per avviarli verso un serio percorso di responsabilizzazione. Una pena lunga, fatta male, ti spegne e pian piano ti rende apatico, insofferente a tutto, non ti concede di proiettarti verso il futuro. Perché a te, amministrazione, che non sai cosa vuol dire stare da quest’altra parte e non vuoi neppure provare ad immaginarlo, ti è comodo battere la strada dell’indifferenza, della sfiducia verso di noi e dell’inflessibilità che mostri fieramente. Sarà proprio questo modello sbagliato che mi condizionerà e mi resterà incollato addosso, a meno che qualcuno non cominci a capire che trattandoci così non si fa il bene della società. Salute mentale: la sofferenza sociale comincia nelle carceri di Morena Pinto triesteallnews.it, 23 dicembre 2023 Qual è lo stato di salute prevalente nelle carceri italiane? La salute mentale di detenute e detenuti è una tra le questioni centrali per Antigone, associazione impegnata sul territorio italiano per la tutela dei diritti delle persone recluse negli istituti penitenziari. Ed è proprio da qui che parte l’incontro “La prigione come luogo di cura? La salute mentale nelle carceri italiane” organizzato da ConF. Basaglia per “Cambiare dentro/Costruire fuori”: progetto nato nella Casa Circondariale di Trieste rivolto anche alla cittadinanza per un confronto critico e collettivo sull’istituzione carcere. Valeria Verdolini e Luca Stecherle, introdotti al Circolo della Stampa da Giovanna Del Giudice, Presidente di ConF.Basaglia, sono invitati a riflettere sul legame tra chiusura degli OPG, salute mentale e lo stato attuale delle carceri italiane. La chiusura degli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari), per legge nel 2014 e nei fatti dal 2017 con il passaggio alle Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), è, infatti, spesso correlata, nel discorso comune, agli aumenti dei detenuti nelle carceri, aspetti trattati come due vasi comunicanti. “Bisogna considerare che il sovraffollamento delle carceri ha accompagnato, da sempre, la storia del penitenziario italiano”, afferma Verdolini, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Presidente di Antigone Lombardia. Dagli anni Novanta (35-40 mila detenuti) - continua Verdolin - le carceri hanno visto crescite progressive dei detenuti, calmierate spesso con una gestione politica basata sugli indulti. Nel 2010 - aggiunge - è stato raggiunto il dato più alto nella storia di detenuti con 67mila persone recluse. A seguire, un continuo saliscendi ha caratterizzato i numeri in carcere: un primo calo dei detenuti nel periodo riformista dopo le sentenze Torreggiani (2013-15), una risalita nel biennio successivo e l’ultimo calo a seguito della pandemia e delle rivolte penitenziarie sotto il governo Conte. Nel dicembre 2023, tuttavia, il sovraffollamento resta uno dei tratti prevalenti del carcere. “Si contano, ad oggi, più di 60mila detenuti reclusi nelle carceri italiane”, conclude Verdolin. “In un contesto di sovraffollamento, la conflittualità è un elemento molto presente in carcere: l’aumento della sofferenza sociale è un riflesso di quanto accade all’esterno”, sottolinea la ricercatrice. Il carcere diventa ‘un presidio malconcio’, uno spazio pensato per la contenzione della marginalità sociale, dove il personale è carente: mancano amministratori, operatori, polizia penitenziaria. “In un contesto simile, il farmaco è una soluzione immediata per la gestione del conflitto.” - evidenzia Verdolin. “L’acuirsi dei conflitti tra detenuti ed operatori è dovuta ad una popolazione carceraria sempre più numerosa, ma non più rispondente alla gestione del penitenziario: un sistema incentrato sulla premialità, o al contrario sulla sanzione”, racconta Stecherle, dottorando in Scienze sociali presso l’Università degli Studi di Padova e membro dell’Associazione Antigone. A prescindere dai comportamenti dei detenuti, infatti, molti di loro non potranno accedere ai benefici promessi: permessi premio, sezioni più decorose o il riconoscimento di alcuni diritti come il lavoro o l’istruzione. Stecherle racconta, inoltre, della grande ambiguità sul termine ‘detenuto psichiatrico’, spesso confuso con chi non si adatta al contesto carcerario o con chi dimostra un cosiddetto ‘comportamento anti-sociale’. “Esiste - ammette il ricercatore - una sottovalutazione e una difficoltà a cogliere le sfaccettature del malessere dei detenuti.” Secondo i dati del 19° Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti si attestano intorno al 10%, ma il 20% dei detenuti assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, e ben il 40,3% sedativi o ipnotici. A fronte di questo malessere, si contano in media 8,75 ore di servizio psichiatrico e di 18,5 ore di assistenza psicologica, ogni 100 detenuti. “Solo alcuni detenuti sono, inoltre, definiti psichiatrici a livello giuridico”, sottolinea il ricercatore. Devono esserci alcuni fattori sociali come l’assenza di un permesso di soggiorno, la mancanza di una rete familiare sul territorio o una ridotta disponibilità di risorse economiche. Il concetto di cura sembra, quindi, molto lontana dall’istituzione carcere. “Molte persone hanno addirittura una prima diagnosi di disturbo psichiatrico in carcere, con un etichettamento iniziale che definisce l’accesso alle risorse già in partenza”, conclude Verdolin. Mattarella nomina Palma grande ufficiale. E intanto il governo punta su un Garante “dimezzato” di Liana Milella La Repubblica, 23 dicembre 2023 I detenuti aumentano di 400 al mese e saranno 65mila a fine anno. Nel 2013 la Cedu accusò l’Italia di disumanità quando erano 67mila. E nel frattempo si avvicina il cambio della guardia. Una foto può dire tutto. E quella del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre consegna al Garante delle persone private della libertà Mauro Palma l’onorificenza da “grande ufficiale” dice tutto. Eccoli tutti e due al Quirinale il 18 dicembre. Mattarella sorride mentre consegna la medaglia a Palma che non nasconde la commozione per un gesto che mette il sigillo su sette anni di impegno per lo Stato. È ancora al lavoro, in giro da un carcere all’altro, perché questo è il dovere che deve compiere fino all’ultimo. Anche se il governo, rispetto alla sua scadenza, ha impiegato cinque mesi - cinque - per scegliere il nuovo Garante. In verità quel verbo - scegliere - è un fuor d’opera. Perché quando davvero si sceglie si punta all’uomo migliore sul mercato, in quanto con le carceri non si scherza. E puntare su un Garante come Felice Maurizio D’Ettore, che la maggioranza in Parlamento è costretta a “proteggere” da un’audizione sia alla Camera che al Senato per evitargli le prime brutte figure, è un fatto che non ha neppure bisogno di chiose d’alcun genere. È un fatto che sta lì, e che pesa. Ma D’Ettore è il nuovo Garante, e il 21 dicembre, il Quirinale ha firmato il decreto di nomina. Il consiglio dei ministri l’aveva scelto ad agosto. Lui, un dipendente della Pubblica amministrazione in quanto professore di diritto a Firenze, era incompatibile. Ma nel frattempo deve aver provveduto a mettere le carte a posto. C’è voluto tempo. Ce ne vorrà ancora per la firma di via Arenula, per il Guardasigilli Carlo Nordio che obbediente ai diktat di Giorgia Meloni lo ha piazzato lì, anche se la sua prima scelta sarebbe stata Rita Bernardini, la leader di ‘Nessuno tocchi Caino’. Ma Nordio è un ministro “elastico”, lo sappiamo. Lui, che si vanta di essere stato pm per 40 anni, non vede neppure le violazioni del segreto d’ufficio di Andrea Delmastro. E sicuramente non deve aver scoperto che l’ex deputato di Forza Italia D’Ettore, passato con Coraggio Italia e poi con FdI perché i forzisti non l’avevano ricandidato, non sa nulla di carceri. Tant’è che non affronta il fuoco di fila delle domande nelle commissioni. Adesso l’ultima firma spetta alla Corte dei conti per registrare l’incarico. Infine palazzo Chigi dovrà formalizzare il giorno dell’insediamento. Nel frattempo Mauro Palma ha continuato a fare il Garante. Per quel senso del dovere e dello Stato che è insito in lui. E per senso di umanità. Un Garante angosciato in questi ultimi giorni. Perché i detenuti hanno ormai superato quota 60mila. E aumentano di 400 persone al mese. Un trend pazzesco. Perché questo significa che nel giro di un anno nelle carceri italiane ci saranno quasi 65mila persone. E quando ce n’erano 67mila, era il 2013, l’Italia subì la più pesante condanna mai subita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per i trattamenti disumani e degradanti che i detenuti erano costretti a subire per via del sovraffollamento. E mentre tutto questo accade, Nordio va a caccia delle caserme dismesse e il governo nomina un Garante “dimezzato” dal fatto che di carceri non sa nulla. Mentre il Garante che per oltre sette anni, ogni giorno, è corso da una prigione all’altra, riceve da Mattarella non solo un inequivocabile sorriso, ma la più alta onorificenza che il Quirinale può assegnare. Bisogna guardare bene la foto che ritrae Mattarella e Palma. E forse, proprio in quell’immagine c’è il perché di una riforma costituzionale che impone un presidente “dimezzato”. Già, proprio come il Garante dei detenuti. Da Assolavoro a Sant’Egidio, la parola d’ordine è “reinserimento dei detenuti” di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2023 Nel quadro di riferimento dell’accordo interistituzionale con il Ministero della Giustizia, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro sta attivando una rete di collaborazioni sul tema del lavoro, formazione e studio in carcere come strumento di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva. Assolavoro (Associazione Nazionale di Categoria delle Agenzie per il Lavoro) - L’intesa siglata dal Cnel con le Agenzie private per il lavoro è finalizzata alla realizzazione di analisi dei fabbisogni occupazionali delle aziende presenti sui territori, individuando le competenze maggiormente richieste, che andranno sviluppate attraverso il sistema di formazione e riqualificazione professionale a favore dei detenuti, con l’obiettivo di rispondere al mutamento dei profili occupazionali e alle esigenze delle imprese. Oggetto della collaborazione è anche l’implementazione di modalità di certificazione del lavoro svolto all’interno degli istituti penitenziari, per attestare le competenze spendibili all’esterno. Cnel e Assolavoro, inoltre, collaboreranno nel valutare l’introduzione di incentivi occupazionali finalizzati a favorire l’assunzione di ex detenuti e a individuare risorse specifiche per finanziare percorsi formativi in carcere. Comunità di Sant’Egidio - La Comunità di Sant’Egidio, da sempre impegnata nel sociale, nel corso della sua lunga attività ha svolto progetti e iniziative per il reinserimento sociale, lavorativo e formativo dei detenuti, sia all’interno degli istituti di pena che all’esterno. L’intesa con il Cnel prevede la messa a punto di un’agenda condivisa in questo ambito di attività, oltre ad altre aree d’intervento congiunto legate all’inclusione dei segmenti più fragili della popolazione. Per la programmazione delle iniziative saranno attivati gruppi di lavoro ad hoc con il coinvolgimento anche di università, fondazioni, enti di ricerca e altre istituzioni. Ente nazionale per il Microcredito - Il protocollo d’intesa ha l’obiettivo di promuovere l’educazione finanziaria, la cultura dell’impresa e l’inclusione sociale dei soggetti che stanno scontando la parte finale della pena detentiva all’interno di una struttura carceraria o che stanno scontando pene alternative alla detenzione, nonché degli ex detenuti. Trai punti più rilevanti dell’accordo c’è la promozione delle opportunità di sostegno economico e di tutoring a microimprese e professionisti. Verranno promosse in particolare le opportunità di finanziamento tramite lo strumento del microcredito. Sono, inoltre, in via di perfezionamento accordi di collaborazione con Cassa delle ammende. A scuola di tecnologia per non tornare dentro Un importante momento di confronto sul lavoro in carcere si è avuto lo scorso 13 dicembre, con il convegno “Tecnologia solidale 2023”, organizzato dalla Fondazione Pensiero Solido, una realtà importante del Terzo Settore nata nel novembre 2022 per volontà di Antonio Palmieri. Il Cnel, oltre a ospitare l’evento ha preso parte attiva nei lavori del panel dedicato a “Insegnare i mestieri del digitale nelle carceri come strumento di riabilitazione”. Tale sessione ha avuto come suo fulcro la realizzazione operativa dell’accordo siglato lo scorso giugno tra il Cnel e il Ministero della Giustizia, per promuovere il lavoro e la formazione come strumenti di reinserimento sociale per le persone detenute. Hanno partecipato alla discussione anche tre aziende che si sono particolarmente distinte in questo ambito, realizzando alcune best practice di grande rilievo: Cisco Italia, Tesselis e Digita1360. Cisco Italia opera nelle carceri con proprie Academy, tramite una cooperativa ideata e gestita dallo specialista informatico Lorenzo Lento. È intorno a lui che ruota l’insegnamento dell’informatica ai detenuti, un’attività che contribuisce in modo determinante a contrastare il fenomeno della recidiva: “Degli oltre i.000 studenti che sono passati dalle mie classi - spiega - nessuno ha fatto ritorno in carcere. Noi li accompagniamo, non li lasciamo soli al loro destino”. Nel 2000 Lento riesce ad aprire la prima Academy Cisco nel carcere di Bollate e da lì inizia un percorso difficile, che è però arrivato a coinvolgere diversi penitenziari italiani e oltre mille detenuti. La decennale esperienza Cisco ha dimostrato che si possono trasformare in esperti digitali persone senza esperienza preventiva ma con la giusta attitudine e volontà. Tesselis, azienda nata dalla fusione di Tiscali e Linkem, ha invece sviluppato tre aree di opportunità in ambito penitenziario. La prima nasce dalla constatazione che nei magazzini vi sono moltissimi apparati di telecomunicazioni sostituiti prima di perdere il loro valore. Di qui la creazione di quattro centri operativi in carcere, che in tre anni hanno coinvolto circa cento persone, a cui è stata data una formazione e una certificazione, grazie a cui a fine pena hanno potuto trovare un lavoro. La seconda è legata alla mancanza di manodopera molto qualificata per la posa di reti in fibra e per le installazioni di apparati wireless. In questo ambito è stato effettuato un primo corso-test da parte dell’azienda Sirti nel carcere di Torino, con dodici ragazzi, poi avviati ad un’attività all’esterno. La terza riguarda esperti verticali in alcune attività digitali e in particolare quella della sicurezza informatica, dove si stima un fabbisogno di oltre 10mila addetti. Quanto a Digita1360, è una società benefit che ha avviato un’azione volta a formare imprenditori del digitale partendo dalle carceri. Tutto ha inizio quando, dopo un adeguato percorso di formazione, due carcerati hanno dato vita alla cooperativa Atacama, che fa video aziendali. Nessuno tocchi Caino e le feste condivise con chi le vive in carcere Il Dubbio, 23 dicembre 2023 Anche quest’anno Nessuno tocchi Caino non farà mancare la sua presenza ai detenuti anche durante le feste natalizie. Domenica 24 dicembre Rita Bernardini (Presidente di NtC), Roberto Giachetti e Maria Elena Boschi deputati di Italia Viva, e una delegazione di avvocati tutta al femminile formata da Maria Brucale, Armida Decina, Giada Vastano, Teresa Serra, faranno visita alle 10 al carcere di Rebibbia Femminile. Domenica 31 dicembre, Parma, alle 15, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, rispettivamente Segretario e Tesoriera di Nessuno Tocchi Caino con Sabrina Renna, Antonio Coniglio, Mara Rossi del Consiglio direttivo e Marina Rossi, Domenico d’Ascenzio, Daniela Bucci e Marco Scarpati, parteciperanno al laboratorio Spes contra Spem nel carcere di Parma. Mentre a Capodanno una delegazione formata da Rita Bernardini, Matteo Angioli, Fausto Malucchi, Elena Baldi, Alessandra Impallazzo, Manila Michelotti, Lorenzo Malucchi, Don Vincenzo Russo, Vaddana Keo, Don Massimo Biancalani, visiteranno alle 10 la Casa Circondariale di Pistoia. Dopo le 120 visite del 2023, che hanno fornito un quadro preoccupante delle condizioni di detenzione nel nostro Paese sia per i reclusi che per il personale penitenziario, Nessuno tocchi Caino ricorda che la mozione approvata al X Congresso dell’Associazione tenutosi nel carcere di Opera a metà dicembre impegna gli organi dirigenti e gli iscritti a indire per il 2024 un Grande Satyagraha di azioni nonviolente che favoriscano un provvedimento di clemenza senza tralasciare, anzi dandole impulso immediato, il sostegno alla proposta del deputato Roberto Giachetti di modifica della liberazione anticipata speciale (75 giorni ogni semestre come ristoro) e ordinamentale (60 giorni ogni semestre per il futuro), così come a tutte le altre proposte - da qualsiasi parte provengano - che abbiano come finalità la riduzione del sovraffollamento e il miglioramento delle condizioni di vita della comunità penitenziaria. Ossessione securitaria e populismo penale di Eriberto Rosso* Il Riformista, 23 dicembre 2023 Nuove ostatività e 4 bis, rave illegali, nuove pene per traffico di migranti e reati di violenza di genere: la spinta securitaria ha di nuovo preso il sopravvento con il disegno di legge in materia di sicurezza, approvato lo scorso 16 novembre. Concesso qualche respiro alla componente liberale, con i disegni di legge sull’abuso di ufficio, piccoli maquillage sulle intercettazioni (ma non si sa il dibattito che fine abbia fatto) e poco altro, la spinta securitaria ha di nuovo preso il sopravvento con il disegno di legge in materia di sicurezza, approvato lo scorso 16 novembre. Salvo un serio ripensamento in Parlamento, ecco cosa vorrebbero fare. Si incomincia col rendere penalmente rilevante la detenzione del materiale contenente istruzioni sulla preparazione di ordigni bellici e/o la sua diffusione; insomma, difesa anticipata che travolge idoneità degli atti e indirizzo della condotta. In materia di sicurezza urbana nessuna misura contro il degrado ma una strenua difesa della proprietà privata: innalzamento di pene e previsione di nuove figure di reato. Si interviene in particolare sulla scansione dei tempi della “liberazione” dell’immobile occupato da parte della Polizia giudiziaria; l’accertamento sulla sussistenza della arbitrarietà è addirittura riservato direttamente alle forze dell’ordine, che procederanno al reintegro del denunziante nel possesso. In materia di truffa si prevede invece una ulteriore ipotesi di aggravamento se commessa in danno di persona in condizioni di minorata difesa e l’arresto obbligatorio. Daspo urbano anche per i denunciati per reati contro il patrimonio, aumento di pene per l’accattonaggio con minori e madri condannate, in carcere anche se con figli piccoli. E ancora. Quando il funzionario pubblico porta la divisa, il reato di resistenza si complica al punto da incidere anche sul bilanciamento con le aggravanti. Nuovo inasprimento di pena, nonostante l’ultima modifica sia dì appena qualche mese fa, per le lesioni in danno di un pubblico ufficiale. Botte da orbi (in termini di trattamento sanzionatorio, ovviamente) a chi deturpa gli edifici pubblici, ma questa volta con la finalità di ledere il prestigio dell’istituzione. Con lo schema il Governo fornisce le linee programmatiche per affrontare l’emergenza carcere; altro che Stati Generali dell’Esecuzione Penale! Chi è in carcere deve solo ubbidire e la protesta, anche quando esercitata in forma non violenta, diventa fonte di nuovi reati e nuove pene. Idem per i migranti rinchiusi nei centri di accoglienza (sic!). Ai detenuti addirittura si sottrae una parte della mercede per il lavoro in carcere, per destinarla ai fondi vittime. E poi. Poliziotti sempre armati. Possono girare fuori servizio con fucili, manganelli e pistole, diversi da quelli di ordinanza. Il diritto penale moderno ha sempre guardato con sospetto le norme che prevedono una rafforzata tutela dei pubblici funzionari, norme tipiche di uno stato autoritario, previste dal codice fascista Rocco, perché non conformi alla Costituzione e da sempre ne ha auspicato la parificazione a quella di tutti i cittadini. Dottrina e giurisprudenza si sono sperticate a individuare un diverso oggetto della tutela penale; le nuove norme proposte, destinate a una superiore protezione di organi di polizia recuperano appieno quella vocazione autoritaria che letture costituzionalmente orientate hanno tanto faticosamente tentato di superare. Garantisti e anime liberali non possono certo abbassare la guardia. *Avvocato penalista Anche la nonviolenza, se praticata dai detenuti, diventa reato di Alberto de Sanctis* Il Riformista, 23 dicembre 2023 Disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: il nuovo art. 415 bis c.p. criminalizza la resistenza passiva organizzata da almeno tre detenuti con un comportamento non violento di disobbedienza civile. Già ci sarebbe da interrogarsi sulla necessità di introdurre un reato specifico per un fenomeno, quello delle sommosse violente in carcere, che potenzialmente si manifesta con la commissione di un’ampia serie di reati (tra gli altri: danneggiamenti, lesioni, evasioni). C’era forse un vuoto legislativo che doveva essere colmato per impedire ai detenuti di devastare gli istituti penitenziari? La risposta alla domanda, posta evidentemente in modo retorico, è scontata. Per l’ennesima volta il diritto penale simbolico prevale sulla ragionevolezza. Meno scontata è la risposta che mi sento di dare ad un secondo ed inquietante interrogativo: è legittimo, come prevede il disegno di legge con il nuovo art. 415 bis codice penale, criminalizzare la resistenza passiva organizzata da almeno tre detenuti con un comportamento non violento di disobbedienza civile? Potrei fare delle riflessioni esegetiche sull’inedita nozione penalistica di “rivolta”, credo per la prima volta protagonista di una norma penale incriminatrice. E già questa novità (la rivolta come reato) è - almeno dal punto di vista dell’attitudine culturale - un sintomo della volontà politica di ridisegnare i confini, almeno inframurari, della libertà di espressione del dissenso. Senza iperboli libertarie che rischiano talvolta di apparire come forme malcelate di vittimismo, questo non è affatto un bel segnale per la libertà di espressione del pensiero nel nostro Paese. Mi limito a dire che se la nuova figura di reato ha la pretesa di rimanere nell’alveo della Costituzione certamente bisogna intendere per “rivolta” una sommossa contro l’ordine ed il potere costituito di natura violenta, ai danni di cose e persone. Ed allora diventa arduo incasellare in questa nozione un comportamento inerte e pacifico come quello di un gruppo di detenuti che si rifiuta di eseguire un ordine. Proviamo ad immaginare una protesta non violenta in carcere, nata per manifestare indignazione contro il sovraffollamento e le condizioni igienico-sanitarie delle celle. I detenuti, in un numero pari o superiore a tre, potrebbero rifiutarsi di pulire e ordinare la camera, non adempiere agli obblighi lavorativi, persino rifiutarsi di fare la doccia. Trattasi di condotte che possono essere legittimamente prescritte dal regolamento penitenziario. La nuova norma penale prevede proprio la resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. Fino ad oggi, a tutto concedere, poteva configurarsi un illecito disciplinare. Domani, se verrà approvato il disegno di legge, i pacifici “rivoltosi” verranno puniti con la reclusione da uno a cinque anni e, se promotori o organizzatori, con la reclusione da due a otto anni. La norma pare evidentemente incompatibile con il principio di sussidiarietà del diritto penale e persino con il principio di meritevolezza di pena, che trova la sua copertura costituzionale nell’art. 27 Cost. Come affermato, ormai da decenni, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di resistenza a pubblico ufficiale, in uno Stato di diritto non si può qualificare come reato il semplice rifiuto all’obbedienza e l’inerzia rispetto ad un ordine impartito. Ciò vale, a maggior ragione, per chi è ristretto in un carcere e non ha la libertà di manifestare altrimenti il proprio pensiero critico verso l’autorità costituita se non inscenando una protesta non violenta. Le drammatiche condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari meriterebbero risposte politiche ben diverse per rendere la vita in carcere dignitosa e la pena funzionale alla rieducazione del condannato. Il Governo, invece, segue scorciatoie biecamente liberticide, orientate solo a reprimere con la forza il dissenso, pacifico e non violento, di chi la libertà l’ha già persa. *Avvocato penalista La legge anti stampa è un pasticcio giuridico inutile e inapplicabile di Glauco Giostra Il Domani, 23 dicembre 2023, 23 dicembre 2023 L’intento di tutelare la presunzione di innocenza è meritorio, ma lo strumento giuridicamente inapplicabile. Inquieta la tendenza a coprire con il garantismo insistenti proposte di segreto. Meritorio e condivisibile l’obbiettivo che dichiarano di voler perseguire i promotori del recentissimo, discusso emendamento che modifica “l’articolo 114 c.p.p. prevedendo il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero sino al termine dell’udienza preliminare”. Giuridicamente, realisticamente e democraticamente impraticabile è lo strumento scelto per perseguirlo. Si dice che la disposizione sarebbe funzionalmente collegata con la presunzione di innocenza e, coerentemente con questa errata premessa, la si incista in una legge di delegazione di attuazione della direttiva europea n. 343 del 2016, di cui applicherebbe gli articoli 3 e 4. Ma da questi articoli si evince esattamente il contrario. L’articolo 3 impegna gli stati ad assicurare che agli indagati e agli imputati “sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza”: non solo non si può dire che l’emendamento in questione sia attuativo di questa prescrizione, ma è con essa in aperto contrasto, là dove prevede che l’ordinanza si possa poi pubblicare ad indagini o ad udienza preliminare concluse. Se il divieto di pubblicazione fosse davvero funzionale al rispetto della presunzione di innocenza dovrebbe perdurare sino all’accertamento definitivo della colpevolezza. L’articolo 4, poi, pretende che le dichiarazioni pubbliche e le decisioni giudiziarie intermedie “non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza” e “le decisioni preliminari di natura procedurale fondate sul sospetto o su indizi di reità”. Pur scrutando in ogni interstizio di questa disposizione non si riesce a trovare un posto dove alloggiare un divieto come quello che ad essa si vorrebbe ricondurre. Per ridimensionare il vulnus al diritto di informazione, i proponenti precisano che l’emendamento in questione non vieta di dare notizia per riassunto del contenuto dell’ordinanza. Affermazione che suscita un duplice ordine di perplessità. Non è scontato, anzitutto, che “divieto di pubblicare per estratto” equivalga a “divieto di parziale pubblicazione testuale” del provvedimento, non foss’altro perché, nello stesso art. 114 c.p.p., quando il legislatore ha voluto perseguire questo obiettivo lo ha fatto più nitidamente vietando “la pubblicazione anche parziale” degli atti e consentendo la pubblicazione del contenuto. Il termine scelto quindi è semanticamente ambiguo, oscillando tra stralcio testuale e narrazione sintetica e la sua collocazione in una disposizione affollata di sinonimi ne accentua l’ambiguità. Non è difficile prevedere vistosi e deleteri sbandamenti interpretativi. È controproducente - Ma anche a voler accedere alla lettura che ne offrono i proponenti, risulta evidente quanto la nuova disposizione oltre che inutile sia addirittura controproducente. Non si comprende per quale ragione, infatti, dovrebbe risultare meno pregiudizievole per l’immagine dell’indagato una sintesi giornalistica dei motivi che ne hanno determinato la custodia cautelare rispetto alla motivazione del giudice. Tanto più che il provvedimento legislativo emanato in attuazione della stessa direttiva europea vieta all’autorità giudiziaria e non all’operatore dell’informazione “di indicare pubblicamente come colpevole” l’indagato “fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza irrevocabile”. Democraticamente, infine, inquieta la tendenza a coprire con le paludate vesti del garantismo insistenti proposte di segreto; di quel segreto che per Beccaria è il più potente scudo della tirannia. È evidente che nessun intento meno che democratico ha mosso i proponenti dell’emendamento in questione, ma ciò da cui si vuol mettere in guardia è il rischio che per piccoli, involontari smottamenti declini pericolosamente il sole della trasparenza e dell’informazione da cui attinge ogni energia vitale una moderna democrazia costituzionale. Resta, beninteso, il grave problema della non infrequente, degradante esposizione mediatica del soggetto coinvolto in un procedimento penale: vuoi perché non si dà conto della unilateralità e della provvisorietà di certe acquisizioni, vuoi perché si divulgano notizie processualmente irrilevanti, la cui conoscenza non corrisponde ad un interesse pubblico, ma soltanto ad un morboso interesse del pubblico. Tuttavia, la meno insoddisfacente soluzione - in mancanza dell’unica, risolutiva e degna di un Paese civile, che consiste in una crescita culturale e democratica di chi informa e di chi vuol essere informato - consiste nel reprimere l’abuso e non già nel conculcare un diritto. Come da tempo proviamo sommessamente a proporre, si potrebbe pensare ad una Autorità di garanzia a struttura composita (ad esempio da giornalisti, magistrati, avvocati) in grado di sanzionare anche con ricadute reputazionali cha abbia indebitamente vilipeso la reputazione di chi è stato coinvolto in un procedimento penale. Sisto: “Legge bavaglio? Il diritto di cronaca ha dei limiti” di Davide Varì Il Dubbio, 23 dicembre 2023 Il viceministro della Giustizia parla dell’emendamento Costa e della riforma della prescrizione, che slitta a gennaio. “Il Terzo Polo? La maggioranza non cambia”. Prescrizione e legge-bavaglio “non sono riforme berlusconiane”: questa può anzi essere la “legislatura della riconciliazione” tra toghe e politica. Lo sostiene in una intervista alla Stampa il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto di Forza Italia. Che però dopo il voto all’emendamento di Enrico Costa non apre le porte al Terzo polo: “La maggioranza resta quella uscita dal voto”. La discussione sulla prescrizione è slittata a gennaio: “C’erano altri argomenti all’ordine del giorno della Camera. Pura fisiologia parlamentare”. Le Corti d’appello dicono che la riforma ‘paralizza la giustizia’. “Nel merito - osserva il viceministro - le loro proposte presentano notevoli e gravi rischi di incostituzionalità, con violazione del principio di retroattività della norma sopravvenuta più favorevole al reo. E poi c’è una questione di metodo”. “Quando sono arrivate queste critiche - racconta Sisto - il provvedimento era già in aula, ad un punto estremamente avanzato. Ora, in questa fase, non può che essere il Parlamento a decidere il destino del provvedimento. Ognuno ha il diritto di intervenire nel dibattito, ma non si può pensare di interferire con le dinamiche parlamentari della riforma. L’articolo 101 della Costituzione dice che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, ma almeno a quella...”. Tornando all’emendamento Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, Sisto spiega che ‘legge ‘bavaglio’ “è una sintesi infelice di una scelta matura del legislatore. Ma c’è di fondo un problema italiano. L’idea che il processo serva ad accusare. Non è così: il dibattimento accerta la verità. Per tutto quello che avviene prima della sentenza definitiva vige, ai sensi dell’articolo 27 della Carta, la presunzione d’innocenza”. Rispetto al diritto di cronaca, “l’articolo 21 non prevede un diritto di cronaca indiscriminato, senza frontiere: deve essere rispettoso degli altri diritti costituzionali, a partire proprio dalla presunzione d’innocenza. Vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare non impedisce di dare notizie, ovviamente pertinenti a un procedimento, utili a informare su un fatto. Quello votato non e’ un divieto assoluto”. Tuttavia la sintesi giornalistica rischia di essere meno scrupolosa dell’atto stesso: “Le norme si scrivono per affermare dei principi, non in previsione delle possibili patologie. In questo frangente il bene protetto è la presunzione d’innocenza, meglio di non colpevolezza”, ha concluso Sisto. La santa alleanza tra giornali e pm ha dato vita alla gogna mediatica di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 23 dicembre 2023 Il giornalista ha il dovere di informare, senza farsi complice delle toghe. Ma anche senza avere la pretesa di un “controllo democratico sul processo”. Forse è arrivato il momento di sostituire il termine “garantismo” con quello di “legalità”, cioè il rispetto della norma e delle regole, a garanzia dei diritti dei cittadini. Quel criterio per cui i processi li fanno il giudice, il pm e l’avvocato e non la pubblica opinione o i tribunali del popolo. E il giornalista ha il dovere di informare, possibilmente con distacco, senza farsi complice delle toghe, come invece sempre accade. Ma anche senza avere la pretesa di quel “controllo democratico sul processo”, invocato da Alessandro Barbano per spiegare il suo dissenso sul voto del Parlamento in favore dell’emendamento del deputato Enrico Costa che vieta la pubblicazione del verbale delle ordinanze di custodia cautelare. Barbano vorrebbe promuovere il giornalista al ruolo di “ancella della giustizia” e del “controllo democratico” sullo sviluppo dei processi. Come se ogni giorno questo ruolo di “cane da guardia” della democrazia non si sia invece risolto, proprio attraverso la pubblicazione passiva del documento ufficiale del giudice, nella compartecipazione complice della violazione del principio di non colpevolezza e di violazione della privacy con conseguente danno di reputazione. La verità è che, proprio tramite quella pubblicazione, il ruolo del cronista si è ridotto a quello di voyeur gaudente delle disgrazie altrui. Ma sarebbe ancor più pericoloso se ogni cronista avesse la pretesa di assumere un ruolo attivo nelle inchieste giudiziarie. Né complice né controllore. Ma rispettoso dei diritti dell’indagato. È pur vero che la Costituzione valorizza, insieme a principi fondamentali come quello di non colpevolezza e del giusto processo, quello della libertà di stampa. Ma insieme anche il diritto alla riservatezza e tutela della privacy per ogni cittadino. Non sono principi confliggenti, e andrebbero rispettati tutti. Prima di tutto da coloro che rivestono ruoli istituzionali, nel rispetto della divisione dei poteri. Nessuno dei quali è legittimato a controllare gli altri. Il Parlamento fa le leggi e i magistrati le applicano. La stampa informa. Punto. Non esiste un principio costituzionale che consenta alle toghe quel che molti loro sindacalisti continuamente invocano, e cioè il “controllo di legalità”. La legalità consiste nell’applicazione della norma, e non è scritto da nessuna parte che il magistrato si debba trasformare in controllore della moralità pubblica, in sacerdote o sociologo o storico. Allo stesso modo il giudice che nel processo penale emette la sentenza parla con la bocca della legge. In rappresentanza del popolo, certo, ma non in compagnia del popolo, da cui ha ricevuto una delega. Il suo modo di interpretarla negli ultimi tempi piace sempre meno, specie se si discosta da quel tribunale della pubblica opinione in cui si è trasformato il processo, specie nella sua parte che dovrebbe essere più riservata, quella delle indagini preliminari. I due soggetti che hanno da tempo trasformato il processo in uno spettacolo costruito non per accertare responsabilità ma per costruire un abito di disapprovazione morale addosso all’indagato, sono il magistrato e il giornalista. Se c’è un provvedimento di custodia cautelare del gip, la sua pubblicazione, con tanti bei virgolettati che mostrano come il cronista “abbia in mano” l’ordinanza, è lo strumento perverso del processo-show. È ordinaria amministrazione, non eccezione. Tutti noi che abbiamo un passato o un presente di cronista giudiziario sappiamo quanto sia importante il pezzo di carta. La carta canta, diceva quel simpaticone di Tonino Di Pietro. Ma che musica intona, questa benedetta carta? Ipotesi, tesi e opinioni dell’ufficiale di polizia giudiziaria, prima di tutto, costruiti sulla base principalmente di intercettazioni. Il travaso di questo materiale sulla scrivania del pm è automatico e altrettanto lo è, troppo spesso, su quello del gip. Che dovrebbe essere “terzo”, perché è pur sempre un giudice, anche quando lo dimentica. Prassi quotidiana, non eccezione. E il giornalista si accoda. E non è vero quel che dice l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in un’intervista di ieri alla Stampa, e cioè che i casi di pubblicazione delle ordinanze del gip che hanno danneggiato la reputazione di cittadini poi assolti o neanche indagati sono pochi e precedenti alla riforma Orlando che ha “liberalizzato” la pubblicazione degli atti riservati. Sarebbe sufficiente dare un’occhiata per esempio a un po’ di giurisprudenza dei tribunali calabresi. Citiamo solo un caso, ma potremmo aggiungere i nomi dell’ex presidente della regione Mario Oliverio o del vertice del consiglio regionale Domenico Tallini. Parliamo del signor Giuseppe, arrestato nell’inchiesta “Basso profilo”, quella che aveva coinvolto anche l’innocentissimo Lorenzo Cesa, leader dell’Udc. Le intercettazioni, copiate dall’ordinanza di custodia cautelare che danneggiavano gravemente la reputazione del signor Giuseppe avevano invaso i giornali. Ma non era lui, quella voce non era la sua e faticosamente l’avvocato era riuscito a ottenere una perizia fonica che lo dimostrasse e lo facesse scarcerare. Faticosamente, perché un altro problema di questi processi del popolo è che il difensore, l’altra gamba, destra o sinistra, oltre al pm, del triangolo processuale che vede il giudice al vertice, è spesso considerato più un complice del proprio assistito che non un “soggetto insostituibile” di garanzia dell’equilibrio tra le parti, come ha ricordato di recente il presidente del Cnf Francesco Greco. Perché questo è il processo, regole e garanzie. Ma deve essere “freddo” nelle sue regole, senza che vi si introducano soggetti spuri come il controllo dell’opinione pubblica o dei giornalisti. Lasciamo ad altre follie della storia i “tribunali del popolo”. E lasciamo sulla scrivania del giudice la sua ordinanza, le notizie potremo darle lo stesso, come abbiamo sempre fatto. Informazione libera non significa fuori controllo e senza regole di Francesco Petrelli Il Dubbio, 23 dicembre 2023 Caro Alessandro Barbano, come sai gli atti che appartengono alla fase delle indagini non sono di regola pubblicabili, anche oltre la chiusura della fase delle indagini preliminari. Non lo sono per più ragioni, che vanno dalla tutela degli esiti delle investigazioni, alla tutela della verginità cognitiva del futuro giudice del dibattimento, che quegli atti di indagine non potrà e non dovrà conoscere. Si tratta di un sistema introdotto dal legislatore del codice accusatorio dell’88, che è sicuramente un codice di impronta democratica e non autoritario. Il necessario equilibrio fra l’esigenza di un controllo democratico dell’attività giudiziaria svolto attraverso l’informazione e quello relativo alla difesa di quel fondamentale valore di matrice costituzionale e convenzionale costituito dalla presunzione di innocenza di ogni indagato, non viene alterato affatto dalla riforma in quanto “non pubblicabile” non significa non conoscibile e dunque nulla viene sottratto al sindacato dell’informazione. Tutti i contenuti probatori riprodotti nell’ordinanza di custodia cautelare restano fruibili attraverso la sintesi giornalistica, libera di apprezzare il valore e il disvalore delle sue motivazioni e di informare il pubblico del significato di un’iniziativa giudiziaria. Il controllo dell’informazione in ambito giudiziario dovrebbe essere peraltro decisivo ai fini di un efficace e proficuo controllo del potere giudiziario, ma il fatto è che, a ben vedere, di un’ordinanza cautelare non si va mai a verificare la effettiva validità dell’indizio o la mancata valutazione di elementi di prova a favore dell’indagato (lo hai mai visto fare?), ma si provvede solo a enfatizzare il virgolettato dei passaggi delle intercettazioni più di effetto o magari il passaggio nel quale il giudice stigmatizza l’amoralità o il cinismo del presunto autore del reato. Condivido interamente le critiche che tu fai alle degenerazioni del nostro sistema processuale ed alle distorsioni determinate da strumenti investigativi invasivi e pervasivi come il trojan. Non vi è dubbio che questo sistema processuale con le sue distorsioni sistemiche determini sviluppi parossistici anche nel mondo dell’informazione, ma sarebbe a mio avviso un errore non cogliere invece il reciproco incremento che un certo modo di intendere la giustizia penale, ed il corrispettivo modo, subalterno alle Procure, di intendere l’informazione giudiziaria, forniscono al nostro attuale scomposto sistema. Quando tu stesso dici “non mi nascondo che nella prassi degli ultimi decenni il controllo popolare sul processo è stato declinato dalla stampa nella gogna”, apri la finestra sul problema centrale, senza tuttavia offrire una alternativa plausibile, perché certo non basta che il giudice si limiti ad inserire nell’ordinanza cautelare “solo elementi di prova pertinenti con l’imputazione”, perché si tratterebbe di un vincolo assai debole ed in alcun modo sanzionabile, se non altro a causa della vaghezza del principio di pertinenza. Ma anche di fronte ad una prova, allo stato degli atti, “pertinente” non vi è motivo di ritenere che la stessa debba essere diffusa al pubblico perché si tratta comunque di un dato provvisorio e il più delle volte falsificabile, che non può marchiare l’immagine di nessun presunto innocente. Insomma, gli approdi cautelari sono necessariamente parziali, fluidi e provvisori, produttivi di contenuti inevitabilmente fallaci, il cui utilizzo mediatico innesca fenomeni potenzialmente distruttivi nei confronti della persona e dell’immagine dell’indagato, per non dire di altri soggetti estranei alle incolpazioni eventualmente coinvolti nell’indagine, la cui dignità va protetta in ogni modo e di fronte al cui valore altri interessi devono inevitabilmente assestarsi. E non dimentichiamo che è il pubblico ad avere diritto ad una informazione corretta e completa e che questo diritto non si soddisfa fornendo una qualsiasi informazione (tale certo non può dirsi quella della gogna che tu stesso denunci) sottratta ad ogni regola e ad ogni misura. Credo che sia questo il modo più corretto di intendere l’art. 21 della Costituzione. La sentenza della Consulta sul caso Esposito può essere un freno allo strapotere delle toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 dicembre 2023 Nei prossimi giorni la Corte costituzionale, nell’indifferenza abbastanza generale, pronuncerà la sua sentenza su una vicenda fondamentale per la tutela dell’indipendenza del Parlamento dallo strapotere della magistratura, e dunque sul corretto funzionamento della nostra democrazia. Il caso è quello, già raccontato su queste pagine, che vede protagonista Stefano Esposito, ex senatore del Pd dal 2013 al 2018. Per tre anni, gli ultimi del suo mandato da senatore, Esposito è stato intercettato indirettamente circa 500 volte dalla procura di Torino, senza alcuna autorizzazione del Parlamento come invece richiederebbe la Costituzione (articolo 68). Indagando su un imprenditore attivo nel settore dei concerti (a sua volta intercettato addirittura 24 mila volte), i pm di Torino - Paolo Toso e Antonio Smeriglio prima, Gianfranco Colace poi - giunsero a intercettare indirettamente Esposito, continuando a farlo nonostante questi dopo tre settimane fosse stato già identificato come parlamentare e interlocutore abituale dell’indagato, di cui era amico d’infanzia. Alla fine le conversazioni riguardanti Esposito intercettate furono circa cinquecento, di cui 126 ritenute rilevanti ai fini delle indagini. Proprio sulla base di queste 126 intercettazioni, Esposito è stato rinviato a giudizio per turbativa d’asta, corruzione e traffico di influenze illecite, senza che né il pm Colace né la giudice Lucia Minutella si rivolgessero prima al Senato per chiedere l’autorizzazione a utilizzare le captazioni. Un fatto mai avvenuto prima, che ha spinto il Senato a sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato di fronte alla Corte costituzionale. Lo scorso 21 novembre la Consulta ha celebrato l’udienza sul caso e la sentenza è attesa a breve. Lo sfacelo compiuto dalle toghe torinesi appare così evidente che tutto lascia pensare a un verdetto favorevole a Esposito. Basti pensare che Pietro Grasso, ex magistrato, da presidente della giunta per le immunità del Senato si spinse a segnalare la vicenda al ministro della Giustizia e alla procura generale della Cassazione per valutare l’apertura nei confronti dei magistrati di Torino di un procedimento disciplinare, cosa poi effettivamente avvenuta. Insomma, dopo la sentenza dello scorso luglio sul caso che coinvolse Matteo Renzi, la Consulta potrebbe pronunciare nuovamente una sentenza favorevole al rafforzamento delle prerogative dei parlamentari, contro le invasioni di campo dei magistrati. In quell’occasione la Corte costituzionale accolse il conflitto di attribuzione proposto dal Senato nei confronti della procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sull’ex fondazione Open. I giudici stabilirono che i messaggi elettronici (come chat WhatsApp o email) scambiati da un parlamentare sono riconducibili alla nozione di “corrispondenza” tutelata dall’articolo 68 della Costituzione. Tradotto: quando i magistrati sequestrano smartphone o dispositivi elettronici di terze persone e riscontrano la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, devono sospendere l’estrazione di questi messaggi e chiedere l’autorizzazione del Parlamento. Una decisione ben diversa da quella con cui la Corte ha ammesso l’uso delle intercettazioni contro l’ex deputato Cosimo Ferri. In questo caso le captazioni, seppur chiaramente indirizzate a intercettare Ferri, sono state ritenute legittime perché l’allora deputato non era iscritto nel registro degli indagati. Una motivazione piuttosto debole, che infatti ha spaccato la Corte. La speranza è che su Esposito torni a prevalere l’attenzione sull’importanza del libero esercizio del mandato parlamentare. “Mia figlia uccisa dal fratello. Io presa di mira dai giudici perché accuso le istituzioni” di Alfio Sciacca Corriere della Sera, 23 dicembre 2023 Antonella Zarri: “In una chiara visione patriarcale le colpe sono solo della madre. Ma il vero obiettivo è smontare l’altra indagine sul centro di salute mentale e i poliziotti”. “Dopo un processo non sano non mi aspettavo altro che motivazioni costruite attorno a un teorema pregiudiziale. È un giudizio morale sulla mia persona, ma è anche un chiaro tentativo di isolarmi. Forse perché sono la più attiva nel denunciare e tenere viva la memoria”. È più combattiva che mai Antonella Zarri, la mamma di Alice Scagni, uccisa dal fratello Alberto il primo maggio 2022. Nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Alberto a 24 anni e 6 mesi la Corte d’Assise di Genova ritiene che la sua pericolosità è risultata chiara solo dopo l’ultima telefonata di minacce al padre, la mattina del delitto. Dunque non avrebbero fondamento le denunce dei genitori che accusano il centro di salute mentale e le forze dell’ordine di avere sottovalutato i rischi, nonostante i loro ripetuti allarmi. Non solo. L’atteggiamento della madre viene definito “ambivalente”, in quanto, a fronte degli allarmi di quei giorni, per un decennio non aveva mai denunciato il figlio. “È chiaro che tutto ciò serve a spianare la strada all’archiviazione nell’altra indagine sulle responsabilità di chi ha sottovaluto e non ha fatto nulla per salvare Alice”. Sente di avere avuto una “condotta ambivalente” nei confronti di Alberto? “Noto che, in una chiara visione patriarcale, le colpe sono solo e sempre della madre. Ma detto ciò, il vero obiettivo è indebolire me per smontare l’altra inchiesta (l’8 febbraio i giudici decideranno sulla richiesta di archiviazione del pm per i responsabili del centro di salute mentale e per due agenti, ndr). Forse perché faccio un po’ paura”. Pensa proprio che l’abbiano presa di mira? “Le dirò di più. Questo concetto dell’ambivalenza è stato mutuato da una valutazione fatta proprio dalla responsabile del centro di salute mentale che poi è una delle persone che abbiamo denunciato e che è indagata. Nel 2023, quando andammo per Alberto, nella scheda lei scrisse proprio così: “madre ambivalente”. Una sorta di perizia psichiatrica su di me”. I giudici dicono che per anni lei non lo ha denunciato? “Nelle motivazioni scrivono anche che Alberto abitava con noi e andava nella sua casa solo per dormire. E invece lui abitava da solo da quando aveva 18 anni. Un errore palese. Ma chiedo: come fai a imporre di curarsi a un 43enne che non vuole farlo? Con quali strumenti? Forse solo con un Tso o con la detenzione. E per quali motivazioni? La verità è che ci accusano di essere stati dei cattivi genitori per escludere le responsabilità di altri. Il problema della salute mentale di Alberto era solo un problema nostro”. Anche lei pensa, come il suo legale, che siamo di fronte ad una vittimizzazione secondaria? “Certo. È sempre così, quando lo Stato fallisce nella prevenzione di un crimine la colpa è della vittima che si è esposta. Esattamente come per i femminicidi”. Però nelle motivazioni si dice anche che l’allarme dato la mattina alle forze dell’ordine venne sottovalutato. “Su questo era un po’ difficile nascondere che nessuno si mosse dopo le telefonate a poche ore dal delitto”. Alberto come sta? “Appena meglio. Non è più un vegetale, ma si muove e si nutre ancora con grande difficoltà. È sempre fuori di testa, ma nessuno lo cura e lo curerà per il resto della sua vita”. Siete andati a trovarlo? “Sì, quando era intubato e e anche dopo. Non credo sia più recuperabile, se non in strutture adeguate. Da solo non ne può uscire. Neanche con l’amore materno potrei fare i miracoli che pensano i giudici. Davanti alla malattia mentale non c’è alternativa: va curata. In carcere è già tanto che non lo ammazzano. Ma di lui a chi vuole che importi?”. Va trattenuta la posta anonima per il detenuto al 41-bis di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2023 L’assenza di un mittente è indizio di pericolosità e giustifica la mancata consegna al destinatario, ma il giudice deve comunque valutare il contenuto dello scritto. L’assenza di un mittente nella posta indirizzata al detenuto al 41-bis è indizio di pericolosità, e va trattenuta. È, infatti, evidente lo scopo di nascondere agli organi di vigilanza l’identità di chi la spedisce. Per queste ragioni le missive possono essere “fermate”, una precauzione che tuttavia non esonera il giudice dal valutare l’effettiva pericolosità dello scritto in base al contenuto, al contesto comunicativo, al profilo del destinatario e alle modalità di trasmissione. La Corte di Cassazione, con la sentenza 51399, accoglie il ricorso del Pm di Sassari, contro la decisione della Tribunale di sorveglianza, che aveva invece considerato fondato il reclamo di Alfredo Cospito contro il trattenimento di un telegramma. Missiva priva di firma indirizzata all’anarchico, detenuto al 41-bis, che da ottobre 2022 ad aprile 2023, ha fatto uno sciopero della fame contro l’applicazione del carcere duro nei suoi confronti. Cospito è stato condannato per aver gambizzato nel 2012 l’ad di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e per tentata strage per aver piazzato due ordigni esplosivi fuori da una caserma di Cuneo nel 2006, anche se non ci furono né morti né feriti. Le valutazioni da fare. Ad avviso del tribunale di sorveglianza il tenore del telegramma non era allarmante, e il no alla consegna a Cospito non era in linea - malgrado l’assenza di una firma utile a identificare l’autore dello scritto - con le esigenze di sicurezza e prevenzione dell’istituto di pena, in cui è detenuto quello che gli investigatori considerano il leader della Fai la Federazione anarchica informale, movimento composto da vari gruppi dediti all’intimidazione armata rivoluzionaria e ritenuto dagli inquirenti un’associazione per delinquere con finalità di terrorismo. Diversa la tesi del Pg ricorrente, secondo il quale, il Tribunale aveva sbagliato ad affermare la non pericolosità della corrispondenza anonima, quando proprio la mancanza di indicazioni sul mittente giustifica il no all’inoltro al destinatario, sottoposto al regime speciale del 41-bis. In più il Pg aveva denunciato l’assoluta illogicità della scelta del Tribunale di sorveglianza di riportare - all’interno del provvedimento con il quale accoglieva il reclamo di Cospito - l’intero testo, informando così il detenuto sul contenuto di uno scritto sottoposto a censura. Le garanzie costituzionali - La Suprema corte accoglie il ricorso della procura, ma fa qualche distinguo. Per i giudici di legittimità l’assenza di firma legittima il sospetto di pericolosità e dunque rende lecito trattenere la posta. Ma il tutto va fatto nel rispetto dei diritti primari di rango costituzionale che riguardano la sfera privata e personalissima dell’individuo. Diritti che possono essere compressi o addirittura eliminati per alcune categorie di condannati, ma solo in via preventiva. Il rispetto dell’articolo 15 della Costituzione - secondo il quale la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione è inviolabile e può essere limitata solo con un atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie di legge - impone, infatti, che il controllo a cui la libertà di corrispondenza è sottoposta, non sia solo formale, ma concreta in base al contento della posta anonima. Tracciato il perimetro entro il quale il giudice deve muoversi, la Cassazione annulla, con rinvio, la decisione del Tribunale di sorveglianza e censura la scelta di rendere noto a Cospito il contenuto di uno scritto ancora sotto il controllo dell’autorità giudiziaria. Toscana. Detenuti al lavoro per restaurare beni culturali con Seconda chance e la Piacenti spa di Marco Ferri Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2023 “Quando fai del bene, la notte dormi più felice; e se poi trasmetti questa tua volontà a un gruppo di persone, magari queste lavorano meglio, col sorriso e tutti siamo più contenti”. Non si tratta di una frase tratta dal copione de La vita è meravigliosa di Frank Capra, ma il pensiero di Giammarco Piacenti, presidente dell’omonima società per azioni con sede a Prato, in Toscana, che porta il cognome suo e della sua famiglia che da 150 anni si occupa di restauro di beni culturali, tra cui la Chiesa della Natività di Betlemme, la Reggia di Caserta, gli Uffizi di Firenze e tanti altri luoghi in Italia e mezzo mondo. Le prossime festività natalizie coincideranno, dopo una fase interlocutoria che si è esaurita in tempi relativamente rapidi, con l’inizio del lavoro di cinque detenuti delle carceri di Porto Azzurro (Isola d’Elba) e della Dogaia di Prato, presso un cantiere (nell’Isola di Pianosa) e un laboratorio di Prato della Piacenti Spa. Per tutti e cinque - due marocchini, un albanese, un rumeno e un italiano - si apre così la via per il loro reinserimento nella vita sociale e civile attraverso il lavoro, così come prevede la Costituzione della Repubblica Italiana. L’opportunità si è presentata grazie all’azione di Seconda chance, associazione presieduta da Flavia Filippi e che, grazie ad alcuni giornalisti, cerca imprenditori come Piacenti e altri, che vogliano provarci o soltanto avvicinarsi alla problematica: in fin dei conti si tratta di una seconda possibilità anche per coloro che fanno, o abbiano fatto finora, altro nella vita. “È stato proprio il mio amico Stefano Fabbri, giornalista e associato a Seconda chance, a farmi riflettere - ha aggiunto Piacenti -: di 100 persone che escono dalle carceri, 95 vi rientrano perché ricommettono reati; se invece trovano lavoro la recidiva è pari a zero. Ma allora la soluzione è facile, mi sono detto; perché tutte le imprese italiane non cercano di tirar via dalla detenzione almeno quegli elementi compatibili col loro lavoro? Quante persone, che hanno pagato il loro debito con la giustizia e fatti dei percorsi di rieducazione, potrebbero essere impiegate? Io son sincero: i ragazzi che ho con me adesso mi stanno già dando delle soddisfazioni, sono persone che meritano di essere reinserite nella società, anche se ancora il conto con la giustizia non l’hanno finito di pagare, ma godono di condizioni per cui possono lavorare all’esterno del carcere. Se vogliamo tutti una società migliore, dobbiamo tutti fare qualcosa. Personalmente mi son rimboccato le maniche e ho detto: ci provo”. I cinque detenuti sono tutti assunti per un anno con il contratto nazionale dell’edilizia industriale e lavorano in cantieri dove possono recarsi secondo le regole delle carceri: “Se si integreranno bene nell’azienda e intensificheranno determinate qualità - prosegue Piacenti - il rapporto potrà proseguire; e per ora penso che in molti casi ciò accadrà”. Due detenuti lavoreranno in un cantiere archeologico alle Terme di Agrippa, sull’Isola di Pianosa, mentre gli altri tre sono impiegati nel laboratorio di Prato dove ci si occupa di una miriade di interventi. Di questi tre, uno già vive all’esterno del carcere e due escono al mattino per lavorare e rientrano alla fine del turno. Si tratta di persone che hanno già operato nel settore dell’edilizia, ma Piacenti è subito rimasto impressionato dall’impegno che tutti stanno mettendo nel loro lavoro: “Loro hanno bisogno di essere reinseriti nella società civile ed è per questo che hanno mostrato sin da subito una gran voglia di riscattarsi, una cosa che mi ha fatto molta impressione - ha aggiunto Piacenti - perché si vede che hanno capito che questa seconda chance se la devono giocare bene, perché allo stato attuale è abbastanza raro che capiti. Anche se mi auguro che questa mia azione… contagi altri. Ci sono tanti settori che hanno bisogno di manodopera, per cui non dovrebbe essere un problema creare occasioni come questa”. In questo periodo tutti e cinque i neoassunti sono impegnati negli obbligatori corsi per la sicurezza, dopodiché lavoreranno come tutti gli altri dipendenti della Piacenti Spa: “Il loro livello d’ingresso è quello di base, conclude Piacenti - ma l’obiettivo di farli crescere. Ho già visto l’entusiasmo e il sorriso su quei volti, che è la più bella cosa che si possa vedere sul volto di chi ha passato anni durissimi per espiare i propri errori, che non devono essere più commessi. Fino a ieri ero distante da quel mondo, lo leggevo sul giornale e finiva lì. Ma adesso è diverso e siamo tutti molto ottimisti”. Roma. Regina Coeli, a me basterebbe che fosse chiusa la settima sezione di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 23 dicembre 2023 Quasi falsa è la notizia che ieri ha dato l’Ansa e che oggi Avvenire ha riportato, la notizia di un nuovo suicidio a Regina Coeli. È falso che fosse avvenuto ieri, ma il fatto era vero: era la inconsapevole ripetizione di un caso effettivamente accaduto nel mese di marzo, come quasi sempre nella settima sezione dello storico istituto romano. La settima sezione è nello stesso tempo una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario e chi più ne ha più ne metta. Per una ragione o per l’altra, quasi tutti i detenuti sono incompatibili con quasi tutti gli altri, e quindi sono costretti in cella tutto il giorno, salvo quell’oretta che riescono ad andare a turno in un cubicolo scoperto che chiamano aria, manco fossero al 41bis. Ieri mattina ero lì per un sopralluogo in una stanza dedicata all’isolamento Covid: completamente priva di suppellettili, con una branda ancora parzialmente carbonizzata da un precedente incendio, la finestra che è stata forzata per poterla aprire, il bagno senza porta e così via. Solo ieri mattina, e solo sul lato destro della sezione, è partito il riscaldamento, dopo settimane di freddo che non può essere temperato neanche dall’acqua calda, che nelle stanze non c’è. Ci sono le coperte, certo, ma non sempre le consegne sono tempestive e più di un detenuto mi ha riferito di aver passato almeno una notte all’addiaccio, senza coperta, spesso senza lenzuola e senza cuscino. In settima sezione finanche il tavolo e le sedie sono un miraggio: i detenuti siedono e mangiano per terra o sul letto. Quelli più fortunati, che hanno avuto delle celle con armadietti in dotazione, li rimuovono e li mettono a terra, per sedersi, mangiare o giocare a carta con i coinquilini. Il Consiglio comunale di Roma, incrociando anche il favore del ministro Nordio, vorrebbe che l’intero istituto di Regina Coeli fosse chiuso: progetto ambizioso, che richiede tempo e risorse (dove vanno a finire i circa mille detenuti che vi sono attualmente ospitati?). Nel frattempo a me basterebbe che fosse chiusa la settima sezione, o almeno drasticamente ridotta nelle presenze e nelle funzioni, così da garantire le quattro ore al giorno all’aperto previste dalla legge, e che le camere detentive siano normalmente dotate di riscaldamento, sedie, tavoli, coperte, lenzuola e cuscini, in attesa che ci arrivi l’acqua calda. È chiedere troppo per la dignità delle persone che vi sono costrette? Torino. “Carceri, servono più psicologi e meglio pagati” di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 23 dicembre 2023 Il disagio psicologico causato dal carcere, se non adeguatamente trattato, rischia di vanificare il reinserimento sociale a fine pena. La situazione delle carceri italiane, spesso con problemi strutturali e di sovraffollamento, rischia di vanificare la funzione educativa e sociale della pena, sancita dalla Costituzione, riducendola al solo aspetto punitivo e rendendo ancora più difficile il reinserimento delle persone dopo l’espiazione della pena. Un adeguato supporto psicologico, all’arrivo nel penitenziario e durante il periodo di carcerazione, è uno degli aspetti fondamentali ai quali le istituzioni devono provvedere, sia per il rispetto del benessere e dignità delle persone detenute e del personale carcerario, sia per ottenere un pieno recupero delle stesse a una nuova vita al di fuori della prigione. I servizi di aiuto psicologico negli istituti di pena sono generalmente gestiti con un numero insufficiente di specialisti, come avviene in quello torinese “Lorusso e Cutugno”, dove si registra, spiega il documento, l’equivalente di 4 posti a tempo pieno per una popolazione carceraria che arriva in certi periodi a superare le 1400 unità. Da questi presupposti parte una proposta di ordine del giorno (prima firmataria, Amalia Santiangeli) esaminata ieri in una riunione congiunta delle commissioni Legalità e Servizi sociali, presiedute da rispettivamente da Luca Pidello e Vincenzo Camarda. Il documento chiede alle autorità governative e all’ASL, competente quest’ultima per la sanità nei luoghi di detenzione, di stanziare fondi aggiuntivi che consentano di incrementare il numero - e adeguare i compensi oggi troppo bassi - degli specialisti impegnati nel servizio di supporto psicologico presso le case di reclusione. Il documento, che ha incontrato il consenso di molti consiglieri e consigliere intervenuti in Commissione, verrà sottoposto al voto in una delle prossime sedute del Consiglio comunale. Torino. Abusi nel carcere, l’ex direttore non denunciò per tutelare i rapporti con gli agenti di Rosita Rijtano lavialibera.it, 23 dicembre 2023 Non voleva “alterare i rapporti di equilibrio con la polizia penitenziaria” Domenico Minervini, l’ex direttore del carcere Lorusso-Cutugno di Torino. Ecco perché, anche se era a conoscenza di una situazione “grave e critica” in uno dei padiglioni dell’istituto penitenziario, “ha di fatto preferito non interessare l’autorità giudiziaria, omettendo di denunciare quanto via via a sua conoscenza”. Una scelta “consapevole” e dettata dal “timore” di dover dare conto di un’azione “dovuta ma impopolare”, cioè denunciare. È quanto emerge dalle motivazioni, depositate oggi dalla giudice Ersilia Palmieri, della sentenza che lo scorso settembre ha condannato Minervini a pagare 300 euro di multa per non aver denunciato i presunti abusi commessi dagli agenti nei confronti dei detenuti, che gli erano stati segnalati più volte, e da più fonti. Anche se è caduta l’accusa di aver aiutato gli agenti a eludere le indagini, avanzata dal pubblico ministero, è una pronuncia importante, sottolinea l’avvocata Benedetta Perego, del team contenzioso dell’associazione in difesa dei diritti dei detenuti Antigone che si è costituita parte civile insieme al garante dei detenuti nazionale, regionale e cittadino: “Si tratta della prima condanna nei confronti di un soggetto apicale dell’istituzione penitenziaria - dice -. Mette in risalto una catena di responsabilità che raggiunge i vertici, senza spezzarsi. Speriamo sia anche il segno di un cambiamento all’interno della cultura penitenziaria in tutta Italia e in particolare in Piemonte (al momento, nella regione si contano quattro inchieste per violenze che riguardano i penitenziari di Torino, Ivrea, Cuneo e Biella e coinvolgono più di 100 agenti, ndr) “. L’inchiesta sulle presunte torture nel carcere di Torino - L’indagine sul carcere Lorusso-Cutugno riguarda oltre 20 poliziotti penitenziari, accusati di maltrattamenti commessi nell’arco di tre anni: dal 2017 al 2019. Una delle ipotesi di reato è la tortura. L’inchiesta è partita dopo le segnalazioni della garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, venuta a conoscenza di ripetuti episodi di violenza e dell’uso improprio di alcune celle dove i detenuti che mostravano segni di scompenso psichico sarebbero stati isolati, quando invece il regolamento penitenziario prevede il trasferimento in una sezione ad hoc. Gli abusi avrebbero coinvolto soprattutto gli autori di reati sessuali detenuti nel padiglione C. Torture nel carcere di Torino: “Impossibile che i vertici non sapessero” - La maggior parte degli agenti imputati ha scelto il processo ordinario, ancora in corso, mentre a optare per l’abbreviato sono stati in tre: oltre Minervini, l’ex comandante degli agenti di polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, e l’agente Alessandro Apostolico. Il pubblico ministero Francesco Pelosi aveva domandato un anno di carcere per Minervini e un anno e due mesi per Alberotanza, entrambi accusati di omessa denuncia e favoreggiamento. Aveva poi chiesto quattro anni per Apostolico, accusato di avere provocato “acute sofferenze fisiche” a un detenuto, con “violenze gravi” e “crudeltà”, e di averlo poi minacciato per assicurarsi l’impunità. La sentenza per i tre imputati in rito abbreviato - Alberotanza è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Ad Apostolico è stata, invece, comminata una pena di 9 mesi: per la giudice non si sarebbe trattato di tortura, ma di abuso di autorità. “Non emerge nel caso di specie, in maniera univoca, che dietro il comportamento arbitrario dell’agente vi sia stata una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza quanto piuttosto l’evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione, in rapporto non solo al caso specifico ma anche alla delicatezza dell’incarico svolto, verosimilmente anche in ragione di una scarsa preparazione a trattare con particolari categorie di detenuti”, si legge nelle motivazioni. “Condivido solo in parte le conclusioni a cui è giunta la giudice dell’udienza preliminare”, aggiunge Francesca Fornelli, avvocata della garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Torino. “Questa sentenza, se da un lato dà atto dell’omertà che regna all’interno del carcere, dall’altro ridimensiona le responsabilità dall’agente Apostolico sulla base di elementi non idonei a giustificare la riqualificazione del reato di tortura in abuso di autorità”. Il ruolo di Minervini - Rimane la condanna per omessa denuncia di Domenico Minervini. A inizio processo, la sua difesa ha puntato sul fatto che l’ex direttore non fosse del tutto consapevole di quanto accadesse all’interno del carcere, giudicando le tante segnalazioni ricevute dalla garante Gallo “troppo generiche”. Ma per la giudice “per la qualità e la quantità dei casi segnalati, per la fonte da cui promanavano, per la persistenza nel tempo di criticità anomale legate ad atteggiamenti prevaricatori e aggressivi tenuti nei confronti dei detenuti, per la specifica casistica (numero di sinistri accidentali nel padiglione C), per l’inefficacia di altri strumenti messi in campo (quali le procedure di raffreddamento dei conflitti), non sembra potesse realmente residuare alcuno spazio di discrezionalità”. Occorreva quindi “chiedere all’autorità preposta gli accertamenti del caso e non pretendere che un soggetto, quale la garante, potesse attivarsi per ricercare informazioni più dettagliate, non avendo lei peraltro accesso a tutta una serie di registri interni”. “È quindi possibile - si legge ancora nelle motivazioni - ritenere provato che effettivamente, quantomeno a partire dal 2018, se non prima, Minervini fosse a conoscenza di una situazione critica e grave che andava attenzionata e monitorata, in particolare con riferimento al padiglione C. Le segnalazioni via via più gravi, provenienti dalla garante ma, come visto, anche da altri soggetti qualificati con il quale il direttore si rapportava e che non avevano interessi di parte, di fatto sono state sottovalutate e non hanno indotto alcun mutamento nell’atteggiamento generale tenuto dal Minervini che, sia di fronte alla notizia di criticità rilevanti nel blocco C ovvero inerenti l’utilizzo abusivo di alcune celle sia di fronte alla notizia di vere e proprie vessazioni e violenze ai danni dei detenuti, ha di fatto preferito non interessare l’autorità giudiziaria, omettendo di denunciare quanto via via a sua conoscenza”. La scelta di Minervini, conclude la giudice, è stata consapevole e “dettata dal timore di dover dar conto di una diversa azione, dovuta, ma impopolare”. Da notare che, scrive Palmieri, solo a un certo punto, “a indagini iniziate, e comunque quando ormai non poteva fare diversamente, Minervini ha iniziato a tenere un comportamento diverso”. E a delegare gli accertamenti necessari per poi trasmetterli alla procura della repubblica. Minervini e i fatti di Asti - “Se fossi stato a conoscenza di episodi simili avrei preso provvedimenti. Non ho mai insabbiato nulla, come dimostra tutta la mia carriera”. Così Minervini aveva deposto come testimone della difesa nel processo contro degli agenti della polizia penitenziaria accusati di gravi episodi di violenza contro alcuni detenuti del carcere di Asti avvenuti nel 2004, all’epoca in cui l’istituto era sotto la sua responsabilità. Non c’era alcuna imputazione a suo carico, ma il suo nome era stato fatto da alcuni testimoni d’accusa, un agente e un’operatrice che sostenevano di aver riferito a lui su alcuni episodi oggetto del processo, e Minervini aveva approfittato della testimonianza per smentire. Il processo si è concluso nel 2012 con il proscioglimento per prescrizione degli agenti penitenziari imputati, ma nel 2017 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che due detenuti furono vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti condannando lo Stato italiano a risarcire i due ex reclusi con 80 mila euro ciascuno. Il ritardo e il processo parallelo - Tornando alle presunte torture al Lorusso-Cutugno, il 4 luglio si è svolta la prima udienza del rito ordinario, fissata a due anni dal rinvio a giudizio e a un anno dalla richiesta delle parti civili di anticiparne la data per la possibile prescrizione dei reati, respinta dall’allora presidente della terza sezione penale del tribunale di Torino, Marcello Pisanu. Un ritardo già denunciato da lavialibera e reso ancora più significativo considerato che, dopo un breve periodo di sospensione, alcuni agenti sono rientrati in servizio venendo persino a contatto con le presunte vittime. “Siamo dispiaciuti”, aveva rimarcato Fornelli a lavialibera. “Una data così lontana nel tempo rischia di pregiudicare l’accertamento stesso delle responsabilità dei soggetti coinvolti, visto che alcuni episodi si sono verificati nel 2017”. Quasi tutti gli imputati in aula non hanno autorizzato le telecamere Rai a filmarli. Erano molti gli agenti presenti, mentre si notava l’assenza dell’ispettore Maurizio Gebbia: l’ex coordinatore della sezione dove si sarebbero verificati gli episodi e a cui - secondo la ricostruzione dell’accusa - farebbe capo la regia delle violenze. Torino. “Il reato di tortura è un freno alle violenze, dev’essere difeso” di Elisa Sola La Repubblica, 23 dicembre 2023 Il presidente della Camera penale di Piemonte e Valle d’Aosta Roberto Capra: “Un traguardo raggiunto in Italia con molto ritardo rispetto ad altri Paesi. Ci sono disegni di legge per abrogarlo, ma sarebbe un errore”. “Tra personale sotto organico, carenza di cure mediche, assenza di educatori, la situazione delle carceri piemontesi è critica. Questo crea terreno fertile per tensioni e contrasti tra detenuti e operatori”. Roberto Capra, presidente della Camera penale di Piemonte e Valle d’Aosta “Vittorio Chiusano” è parte civile a fianco dei garanti dei detenuti (con l’avvocato Davide Mosso) nel processo a carico dell’ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini e dell’ex comandante degli agenti di polizia penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza. Minervini e Alberotanza erano stati accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per i presunti reati di tortura commessi in carcere tra aprile 2017 e ottobre 2019. Alberotanza è stato assolto da tutte le accuse in primo grado, mentre Minervini è stato assolto per l’ipotesi del favoreggiamento ed è stato invece condannato a una multa per l’omessa denuncia. Una cosa in particolare ha a cuore: “Il reato di tortura è una conquista che in Italia è arrivata anni dopo rispetto ad altri Stati ed è imprescindibile mantenerlo perché determina un freno alle condotte violente. Lo dico perché ci sono disegni di legge che vorrebbero rivederlo o abrogarlo”. Avvocato Capra, ci sono quattro inchieste per torture in una sola Regione: siamo di fronte a “un caso Piemonte”? “Va premesso che alcune indagini sono ancora in corso e che vale sempre la presunzione di innocenza. Certo, le carceri piemontesi sono in emergenza e questo può essere l’innesco per fare esplodere la tensione”. Cosa intende per emergenza? “Gli istituti penitenziari sono sotto organico, non solo di agenti. Non ci sono educatori, per esempio. Abbiamo avuto difficoltà ad avere anche i direttori, ce ne sono alcuni a scavalco tra un carcere e l’altro”. Da avvocato crede, in generale, che i detenuti siano maltrattati? “Credo che in Italia siamo assolutamente sotto il livello di adeguatezza nel rispetto dei singoli e dell’uomo”. La Polizia penitenziaria è formata per avere rapporti con i detenuti, anche a livello umano? “Ci sono agenti validi e altri insufficienti. Ma si può lavorare molto per migliorare”. Quindi i poliziotti non hanno una formazione? “Ce l’hanno, ma le situazioni sono difficili e spesso i profili del controllo del singolo agente si è rivelato carente”. Napoli. “La voce dei giovani a Nisida”, il progetto promosso da Giffoni e Comune Il Roma, 23 dicembre 2023 Presentato all’Istituto penale per i minorenni di Nisida il progetto del Comune di Napoli, Giffoni Experience e Giffoni Innovation Hub, “La voce dei giovani: Nisida”. Un progetto di formazione al linguaggio cinematografico e alla scrittura creativa che coinvolge i ragazzi dell’Istituto, con l’obiettivo di produrre e distribuire uno Short Movie per raccontare Napoli attraverso le loro storie. I giovani detenuti da gennaio a marzo 2024 avranno la possibilità di seguire un percorso di educazione e formazione all’audiovisivo: 8 lezioni tenute da Emanuele Vicorito, regista dello short movie nato da ‘La voce dei giovani: Napoli’: Un po’ per uno presentato durante la 53esima edizione del Giffoni Film Festival a luglio scorso che i giovani detenuti hanno guardato insieme al direttore dell’Istituto Penitenziario per Minori di Nisida Gianluca Guida, Ferdinando Tozzi Delegato del Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi per l’audiovisivo e l’industria musicale, Antonino Muro Cvo e Co-Founder e Luigi Sales Head of Content and Productions di Giffoni Innovation Hub. Una sorta di anteprima che può servirgli come sprone ad impegnarsi nel progetto che li vedrà protagonisti. “Industria dell’audiovisivo - spiega Tozzi - è anche attenzione ai luoghi del disagio e avviare i semi di una formazione professionale sempre necessaria anche per la straordinaria presenza di produzioni a Napoli; con Giffoni il comune di Napoli per la prima volta quest’anno ha avviato una virtuosa sinergia che si spera possa continuare negli anni a venire”. Al termine della fase di formazione che prevede la visione di spezzoni di film, analisi e lezioni in presenza con i formatori della Unit Academy di Giffoni Innovation Hub, un corso di scrittura creativa che metta i ragazzi nella condizione di poter scrivere un soggetto cinematografico, la storia che racconta il loro punto di vista su Napoli diventerà un cortometraggio prodotto da Giffoni Innovation Hub e Mad Entertainment che verrà presentato in anteprima al Giffoni Film Festival 2024 in una delle sale della Multimedia Valley davanti ad una platea di 250 giovani. “Siamo davvero contenti - sostiene Jacopo Gubitosi, Direttore generale di Giffoni - di dare il nostro contributo a questo progetto che risponde in pieno allo spirito e alle finalità che Giffoni da oltre cinquant’anni porta avanti. Il linguaggio del cinema può essere strumento di coesione e di socialità e può rappresentare un terreno fertile su cui far germogliare il desiderio di conoscenza. Giffoni ha nel proprio patrimonio genetico la formazione. Promuoviamo con costanza opportunità di crescita culturale con l’obiettivo di contrastare un fenomeno sempre più preoccupante come quello della povertà educativa. Questo progetto, che condividiamo con il Comune di Napoli, rappresenta l’occasione per dare ai ragazzi di Nisida la possibilità di sperimentarsi, di mettersi alla prova, di seguire la strada della creatività. L’auspicio è che questo progetto possa essere per loro una tappa, anche illuminante, nel loro non facile percorso di recupero sociale. La cultura rende liberi, la creatività può dare loro le ali per raggiungere finalmente una nuova dimensione di vita basata su valori positivi”. Il linguaggio cinematografico come strumento utile ai detenuti minorenni dell’Istituto penale di Nisida ad acquisire competenze e a sfruttare la loro creatività per raccontare la città in cui torneranno a vivere, magari guardandola con occhi di diversi, una volta scontata la pena. “Come Giffoni Innovation Hub abbiamo accolto con entusiasmo la proposta del Comune di Napoli di portare per il secondo anno il format “La voce dei giovani a Nisida” - dice Muro - Sono certo che con questo progetto sfrutteremo al meglio la creatività dei giovani di Nisida dandogli un obiettivo da raggiungere, formandoli e mettendogli a disposizione la nostra esperienza per aiutarli a realizzare un loro sogno o progetto. Siamo abituati ad investire sui ragazzi, ad impegnarci per tirarne fuori il meglio e ad affiancarli nei percorsi che decidono di intraprendere anche quando, come in questo caso, non sono privi di ostacoli. La mia speranza è che questa possa essere per loro una prima occasione di riscatto per gettare le basi di un futuro diverso rispetto ad un passato che non deve segnarli per sempre”. Torino. Messa con Don Ciotti all’Istituto penale minorile Ferrante Aporti di Marina Lomunno Avvenire, 23 dicembre 2023 “Nasce anche in questo carcere il Dio scartato”. “Ragazzi, diffidate di chi parla di voi ma non parla con voi. Diffidate dei seduttori, affidatevi agli educatori che vi vogliono bene e sono con voi per costruire il vostro futuro dopo la detenzione. Approfittate di questo tempo per rientrare in voi stessi, per prendere coscienza delle vostre responsabilità: fatevi aiutare dalla direzione, dagli psicologi, gli educatori, i volontari e gli agenti che sono qui per voi. La vostra libertà non è in vendita, non lasciatevi tentare dalla società spacciatrice di illusioni”. Così don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, in uno dei passaggi più toccanti della sua omelia, ha parlato ai giovani reclusi nell’Istituto penale per i Minorenni di Torino “Ferrante Aporti”, invitato dal cappellano, il salesiano don Silvano Oni, a presiedere ieri mattina la Messa di Natale. Nonostante i quarantaquattro ristretti siano per la maggior parte stranieri non cristiani, in molti hanno chiesto di partecipare alla liturgia: così l’altare è stato allestito nella sala polivalente perché la cappella non poteva contenere tutti tra giovani, educatori, insegnanti, volontari, agenti accompagnati dalla vicedirettrice Gabriella Picco e dal comandante della polizia penitenziaria. Don Ciotti ha indossato la stola di don Tonino Bello, stola “che mi regalò tanti anni fa a Molfetta, un vescovo innamorato di Dio e degli uomini. Mi disse: “non mi interessa chi sia Dio, mi basta sapere da che parte sta, con gli ultimi e i più deboli”. Per questo Gesù, un Bambino venuto al mondo da una giovane donna in una stalla perché per lui non c’era altro posto, nasce anche qui oggi al Ferrante Aporti: un Dio che nasce e viene scartato. Ecco perché il Natale dei cristiani è innanzi tutto la festa degli umiliati, degli offesi, dei senza tetto, dei carcerati e di chi è senza consolazione: un Dio che sconvolge, si fa Bambino per calarsi in tutto nella nostra umanità fragile, fino alla sofferenza estrema”. Ad animare la Messa sono stati i seminaristi salesiani che ogni settimana, con il maestro dei novizi don Enrico Ponte e il cappellano, incontrano i ragazzi come faceva don Bosco - il quale, su consiglio del suo padre spirituale, don Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati, fu mandato a metà ‘800 alla “Generala”, così si chiamava allora il “Ferrante Aporti”. Il santo dei giovani, come fanno oggi i suoi figli (per questo è tradizione che al “Ferrante Aporti” i cappellani siano salesiani) visitava spesso ragazzi detenuti, li ascoltava, giocava con loro, li consolava, come in un oratorio dietro le sbarre: e in quei pomeriggi trascorsi con i “giovanetti discoli e pericolanti” inventò il suo sistema preventivo, come ha ricordato don Ciotti invitando a pregare don Bosco “primo cappellano del Ferrante e per tutti i magistrati, i volontari, gli operatori, gli agenti defunti e anche qualche giovane che tanti anni fa ho incontrato qui e non ce l’ha fatta”. La Messa era iniziata con un saluto: don Ciotti, citando il cardinale Carlo Maria Martini, “torinese, nato in questa città di santi sociali, scrisse: “Dio non è cattolico. Dio ama tutti, Dio è di tutti”. Per questo sentitevi benvenuti questa mattina qualunque sia la vostra provenienza e la vostra fede perché Dio vi ama tutti e non vi lascia soli”. E così si è conclusa la celebrazione: don Ciotti ha chiamato all’altare per la benedizione la vicedirettrice, il comandante, un’educatrice, un insegnante e due ragazzi reclusi: “noi siamo strumenti che ricevono la benedizione da Dio e dobbiamo trasmetterla ai nostri compagni di viaggio. E insieme vi benediciamo. Forza, la speranza non vi abbandoni mai. Tutti possiamo rinascere, Dio è qui con voi!”. Ed è partito un applauso tra gli abbracci e i volti rigati dalle lacrime. Pavia. Natale in carcere, i detenuti pranzano con le loro famiglie ilticino.it, 23 dicembre 2023 È Natale anche per coloro che vivono all’interno del carcere di Pavia. L’area Trattamentale di Torre del Gallo insieme alla direttrice Stefania Mussio e agli educatori, hanno organizzato alcuni eventi significativi ed importanti per condividere le feste: sabato 23 dicembre ci sarà il pranzo rivolto alle famiglie delle persone detenute nel teatro della casa circondariale, in collaborazione con Sant’Egidio Pavia. Il momento riunirà le famiglie in un vero pranzo di Natale offerto da due ristoratori del territorio (Cumino Drinkeria di Pavia e La Locanda della Contea di Torre d’Isola). In totale saranno 70 le persone che vi prenderanno parte e ogni famiglia avrà il proprio tavolo decorato con oggetti natalizi, ci saranno anche musica e animazioni in sala. I bambini potranno fare foto ricordo con i loro papà e arriverà anche Babbo Natale. Il 25 dicembre i detenuti prepareranno il pranzo della Comunità di Sant’Egidio per le famiglie in difficoltà: dieci detenuti cucineranno per circa 300 persone con entusiasmo e voglia di fare e uno di loro uscirà dal carcere per servire al tavolo durante il pranzo. Antono Palmisano, docente del Cossa di Pavia, è docente di cucina ed è impegnato in prima persona coordinando il lavoro dei detenuti nelle cucine. “Si tratta di momenti importanti per tutti - commenta Daniela Bagarotti, educatrice del carcere di Pavia -: non è scontato per la famiglia di una persona detenuta poter condividere un pranzo con il loro caro che vive in carcere. Così come non sono scontate le fotografie che sarà possibile scattare ‘in famiglia’ e con il proprio papà: tanti bimbi con padri detenuti non ne hanno. Il pranzo vuole essere proprio un momento per la famiglia”. Ferrara. Spettacolo teatrale in carcere, detenuti protagonisti di Federico Besio Il Resto del Carlino, 23 dicembre 2023 Grande partecipazione di pubblico nella Casa circondariale per assistere al tradizionale show pre natalizio del Teatro Nucleo. Martedì 19 e mercoledì 20 dicembre c’è stato, presso il carcere di Ferrara, lo spettacolo “Fegato”, ispirato al mito di Prometeo, prodotto dal Teatro Nucleo e dal Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Emilia Romagna. Lo spettacolo è stato diretto dal regista Marco Luciano, con ben undici attori detenuti di varie nazionalità che hanno dato vita allo show. Con Luciano hanno collaborato Andrea Zerbini, Veronica Ragusa e Giovanni Simiele. “Dal 2005 abbiamo questo laboratorio all’interno del carcere di Ferrara, mentre questo processo creativo- spiega il regista Luciano- è nato a settembre e lavorato fino a questi giorni tre volte a settimana. Il festival ‘Trasparenze di Teatro Carcere’ è arrivata alla sua terza edizione con questo evento che si svolge prima del Natale, che non viviamo come uno spettacolo, ma come una prova aperta a tutta la cittadinanza”. A gennaio riprenderemo a lavorare e poi cercheremo di presentare un altro spettacolo a maggio in un teatro ferrarese, presumibilmente al comunale come gli scorsi anni”. Il regista poi ci dice quanto per lui e per tutto il Teatro Nucleo sia importante creare un ponte tra la società civile e la comunità carceraria: “Molti vedono questi posti come luoghi fuori dalla città, quando in realtà al suo interno c’è una vera e propria comunità, composta non solo dai detenuti, ma anche dagli addetti ai lavori e dal personale della Polizia Penitenziaria. Oltre agli agenti delle forze dell’ordine, ci teniamo a ringraziare la Comandante e l’area pedagogica della casa circondariale ‘Costantino Satta’ di Ferrara”. Le due serate organizzate all’interno del centro penitenziario hanno visto una grande partecipazione. “Siamo molto soddisfatti della presenza dei tanti spettatori - commenta Luciano- con una platea mista, composta da cittadini paganti che vengono fuori dal carcere, dai detenuti e dagli agenti della struttura. I settanta posti a sedere previsti per le persone esterne alla struttura, sono andati tutti sold out. Anche il pagamento di un biglietto per entrare in carcere per noi è stato uno spunto di riflessione. Creare un rapporto personale con loro è fondamentale. Speriamo nei prossimi anni di effettuare più eventi come quelli di questi giorni, con anche più posti a sedere. Stasera alle 20 i detenuti attori andranno in scena al teatro ‘Julio Cortazar’ di Pontelagoscuro con lo spettacolo ‘Agnusdei’, ispirato alle lettere dal carcere di Gramsci, sempre con la regia di Luciano, lo aveva già presentato lo scorso giugno al teatro comunale. L’evento sarà svolto da persone che hanno già scontato la pena, ma anche da chi nelle scorse due sere si è esibito nello show ‘Fegato’. Roma. Nordio: “Teatro in carcere, una leva di cambiamento” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 23 dicembre 2023 Il teatro è “una delle possibili leve per accompagnare i detenuti nel loro percorso di cambiamento e nella prospettiva del reinserimento nella società da liberi”. Lo sottolinea il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel suo messaggio in occasione del debutto della compagnia di detenuti-attori di Rebibbia al teatro Argentina con lo spettacolo “Dalla città dolente”. In scena, alcuni canti della Divina Commedia. Una prima speciale, a 20 anni dalla nascita della compagnia Teatro libero di Rebibbia all’interno del penitenziario: “un traguardo” che, commenta il Guardasigilli “per me è motivo di orgoglio”. Il Ministro si sofferma sul titolo della rappresentazione, che lascia presagire “tutto il peso del luogo da cui provengono gli attori di questo spettacolo”. E tuttavia, evidenzia Nordio, “Iniziative del genere rappresentano un ponte tra la ‘città dolente’ del carcere e il mondo di fuori”, pur senza dimenticare “i tanti bisogni e le molteplici criticità”. Sul teatro nelle carceri, il Guardasigilli ribadisce l’impegno, insieme al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, “per favorire la diffusione delle attività teatrali”, soprattutto per mantenere una tendenza in aumento di queste attività. Lo stesso Ministro sottolinea che dalle prime compagnie nate negli anni ‘80 a Rebibbia, San Vittore e Volterra, si giunge alle più di 80 di oggi. Un impegno, soprattutto perché “il teatro e la cultura in generale”, insieme a sport e lavoro, ricorda il Guardasigilli, “sono fondamentali alleati dell’attuazione del delicatissimo compito di rieducazione, fine ultimo della pena come sancito dalla Costituzione”. Trieste. Basket e carcere, nasce la squadra formata da detenuti redattoresociale.it, 23 dicembre 2023 Le selezioni dei giocatori sono quasi ultimate e presto ci sarà la rosa dei 14 detenuti giocatori. È il progetto The Cagers che oggi ha effettuato l’ultima giornata di selezione presso il carcere di Trieste. Presto anche un docu-film. Il lungo viaggio dello staff tecnico per le selezioni del progetto The Cagers in giro per l’Italia sta per concludersi. Nei giorni scorsi i coach Stefano Attruia, Federica Zudetich e Donato Avenia sono stati protagonisti di una giornata di riprese a Roma, con il Colosseo a fare da sfondo, nella emozionante cornice del playground di Colle Oppio messo a disposizione da Sport e Salute. Perché The Cagers è un progetto sociale e di recupero che diventerà anche un docu-film dove si racconterà la storia di un gruppo di detenuti/giocatori pronti a trasformarsi in una vera e propria squadra di pallacanestro. Gli allenatori negli ultimi mesi hanno percorso migliaia di chilometri per scegliere, all’interno delle carceri italiane, 14 candidati che formeranno The Cagers. Ieri è stata la volta del carcere romano di Rebibbia mentre oggi è stata effettuata l’ultima giornata di selezione presso il carcere di Trieste. La città giuliana ed il carcere Ernesto Mari saranno poi la sede dove la neonata squadra inizierà il suo percorso sportivo. “Abbiamo incontrato tanti detenuti - commenta Stefano Attruia, dello staff tecnico di The Cagers - in ogni angolo d’Italia. Abbiamo ascoltato le loro storie, abbiamo effettuato degli allenamenti di basket e, dopo la tappa di Trieste, saranno scelti definitivamente i 14 che comporranno la rosa. Questa, per ora, è la parte più difficile, soprattutto emotivamente. Ognuno di loro avrebbe avuto diritto di poter ottenere una possibilità di far parte della squadra ma non è, purtroppo, possibile. Speriamo però che questa iniziativa apra, non solo simbolicamente, le porte delle carceri italiane per dare ai detenuti, attraverso lo sport, una possibilità in più di riscatto per il loro reinserimento nella vita quotidiana”. La squadra inizierà il proprio percorso sportivo con l’avvio della preparazione atletica agli ordini di Caterina Todeschini. Un nuovo ingresso di grande valore nello staff di The Cagers. Caterina Todeschini è preparatore fisico della Pallacanestro Femminile Famila Schio (con cui ha vinto 4 scudetti, 5 volte la Coppa Italia ed altrettante la Supercoppa Italiana). Da 17 anni è anche Strength and Conditioning Coach delle Squadre Nazionali della Federazione Italiana Pallacanestro da 17 anni e preparatore fisico dei Centri di Alta Specializzazione giovanile FIP del SSNF. Parità di genere, tutta la strada che ancora resta da fare ai 14enni italiani di Francesca Borgonovi* e Laura Palmerio** Corriere della Sera, 23 dicembre 2023 I risultati choc dello studio della IEA International Civic and Citizenship Study (ICCS): i ragazzi di terza media “tiepidi” su parità di opportunità e stipendio uomo-donna. E uno su 5 pensa che gli uomini siano più qualificati delle donne come leader politici. In Italia ogni anno sono centinaia le vittime di femminicidio. La violenza contro le donne è, tuttavia, la manifestazione estrema di una mancanza di parità che purtroppo persiste tra uomini e donne nella nostra società. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha toccato profondamente la società italiana e anche il mondo della scuola e ha posto al centro dell’attenzione il ruolo che la comunità educativa deve svolgere per raggiungere l’Obiettivo 5 di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, che mira a raggiungere la parità di genere entro il 2030. Le istituzioni scolastiche hanno il dovere e la responsabilità di contribuire a prevenire la violenza contro le donne e educare le nuove generazioni al rispetto reciproco e alla parità di genere. Per prevenire e contrastare la violenza maschile nei confronti delle donne e la violenza domestica il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha annunciato lo stanziamento di 15 milioni di Euro per favorire percorsi educativi destinati agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. Questi interventi sono necessari ma viene da chiedersi se non manchino di ambizione - data la natura facoltativa e opzionale del programma - e se possano essere abbastanza incisivi, rivolti come sono ai ragazzi delle scuole superiori. Molta attenzione è stata riservata nelle scorse settimane ai risultati dello studio OCSE PISA, in particolare al triste primato dell’Italia: il paese in cui il divario di genere nelle competenze in matematica tra i quindicenni a favore dei maschi è più pronunciato. Tuttavia, per comprendere quanta strada ci sia da fare per promuovere la parità di genere in Italia e riflettere, se si vuole veramente cambiare, sul valore di un’azione precoce, è importante allargare lo sguardo e analizzare a fondo i dati dello studio della IEA International Civic and Citizenship Study (ICCS) che sono stati pubblicati pochi giorni prima dello studio PISA. L’indagine si è svolta nella primavera del 2022 e ha coinvolto oltre 4000 studenti 13-14enni dell’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado. Lo studio ICCS rivela dati sconcertanti su come già prima dell’ingresso alle scuole superiori molti - troppi - ragazzi dichiarino atteggiamenti che sono poco in linea con una vera parità tra uomini e donne in ambiti chiave utilizzati per identificare il livello di parità di genere, quali la partecipazione al mondo del lavoro e la rappresentanza politica. Lo studio mostra che solo il 63% degli studenti maschi indica di essere molto d’accordo con l’affermazione che uomini e donne dovrebbero avere la stessa retribuzione quando fanno lo stesso lavoro. Ci si dovrebbe consolare per il fatto che il 28% indica di essere d’accordo? Ma perché dire che sono d’ accordo e non molto d’accordo? La scelta di questa opzione di risposta lascia pensare che la loro convinzione non sia esattamente granitica. Tra le ragazze ben il 91% dichiara di essere molto d’accordo e solo l’8% di essere d’accordo. Inoltre ben il 9% dei ragazzi, ma solo l’ 1% delle ragazze, indica di non essere d’accordo o di non essere per nulla d’accordo che uomini e donne dovrebbero avere la stessa retribuzione quando fanno lo stesso lavoro. Sembra poco ma è praticamente la differenza che c’è tra 1 su 10 e 1 su 100. Sempre sulla stessa linea, solo il 48% degli studenti maschi dichiara di non essere per nulla d’accordo che quando non ci sono molti posti di lavoro disponibili, gli uomini dovrebbero avere più diritto a un posto di lavoro rispetto alle donne. Tra le ragazze questa percentuale è dell’80%. Inoltre, ben il 21% dei ragazzi, ma solo il 6% delle ragazze, dichiara di essere molto d’accordo o d’accordo che gli uomini dovrebbero avere più diritto delle donne a un posto di lavoro quando non ce ne sono molti disponibili. Secondo i dati dell’ultima rilevazione del 2016 dello European Social Survey, in Italia il 25% degli uomini dichiara di essere molto d’accordo o d’accordo che gli uomini dovrebbero avere più diritto delle donne a un posto di lavoro quando non ce ne sono molti disponibili, un dato non molto diverso da quello che si osserva tra i ragazzi delle scuole medie sei anni più tardi. Sono emerse differenze altrettanto marcate quando ai ragazzi e alle ragazze sono state chieste le loro opinioni sulla parità di genere in politica. Ad esempio, il 21% dei ragazzi, ma solo il 5% delle ragazze, è d’accordo o molto d’accordo che gli uomini siano più qualificati delle donne per essere leader politici. Il 32% dei ragazzi e il 13% delle ragazze non è d’accordo o non è per nulla d’accordo che ci debba essere lo stesso numero di uomini e donne in parlamento. Infine, mentre tra i ragazzi il 76% è molto d’accordo che uomini e donne debbano avere pari opportunità di far parte del governo, tra le ragazze la percentuale sale al 92%. Infine, quando ai ragazzi e alle ragazze è stato chiesto se gli uomini e le donne dovrebbero avere gli stessi diritti in ogni ambito, il 91% delle ragazze, ma solo il 69% dei ragazzi, ha indicato di concordare fortemente con quest’affermazione, l’8% delle ragazze e il 24% dei ragazzi ha indicato di concordare con quest’affermazione, e mentre solo l’1% delle ragazze ha indicato di non concordare con quest’ affermazione, lo ha invece fatto ben il 7% dei ragazzi. In Italia, alla fine del percorso di scuola secondaria di primo grado, solo il 16% degli studenti partecipanti allo studio ICCS ha indicato di essere in scuole in cui il dirigente scolastico riportava la possibilità per gli studenti di frequentare corsi opzionali sulle questioni di genere (ad esempio, equità di genere, stereotipi di genere e diversità di genere). La media nei paesi partecipanti era del 26% e nella Spagna delle molte recenti riforme per rafforzare la protezione delle donne questo dato si assestava al 47%. L’omicidio di una giovane ragazza, Giulia, per mano di un suo coetaneo ci porta a riflettere, ancora una volta, sull’importanza di lavorare fin dall’infanzia alla creazione di relazioni positive e paritarie tra maschi e femmine e di supportare e sostenere attivamente chi si adopera per promuovere il cambiamento. *Responsabile del team su Analisi delle Competenze presso il Centro Ocse per le competenze **Responsabile Area indagini internazionali Invalsi La tesi ultima della cultura woke è che al razzismo non c’è rimedio di Mario Giro Il Domani, 23 dicembre 2023 Dagli studi subalterni alla guerra tra vittimismi il passo è breve: anche la fluidità gender si adatta a tale lotta e ciò che doveva sfidare il populismo alla fine lo aiuta. La sinistra occidentale rischia di rimanere intrappolata dalla frattura razziale. Doveva essere la nuova forma ideologica della sinistra globale: l’arma per sconfiggere il sovranismo e i populismi vari della destra ma anche per reagire al moderatismo stinto dei centrosinistra blairiani o socialdemocratici. Alla fine invece l’ideologia woke o neo-antirazzista sta finendo per dar ragione ai suoi nemici, diventando un boomerang anche per chi la abbraccia. Dividere la società in gruppi razziali o di genere ha provocato un’anarchica e narcisistica guerra tra vittimismi, che possono essere presi à la carte come aggrada. Come dimostra la politica alla Wilders, si può essere queer e anti-immigrati, gender fluid e intolleranti allo stesso tempo. La teoria critica della razza - In principio c’è la critica delle “grandi narrazioni” cioè contro le ideologie del Novecento, gli archetipi del marxismo e del liberalismo con cui si interpretava il mondo. Da lì sono sorti gli studi post-coloniali o subaltern e cultural studies, che hanno messo in evidenza la storia negata dei popoli oppressi e subalterni, di cui si era persa traccia o la cui cultura era stata compressa o vietata. Tale ondata di ricerca ha occupato progressivamente le università americane e in seguito anche le europee, iniziando da quelle britanniche, per poi saldarsi con gli ambienti militanti dell’associazionismo. Da un punto di vista intellettuale la prima polemica famosa è quella di Edward Said contro gli “orientalisti” occidentali: l’accusa è che questi ultimi pretendono di comprendere e studiare le altrui culture secondo i propri parametri. Ne sono nate infinite querelles tra studiosi che all’inizio stentavano a uscire dall’ambito accademico. Ma con la “teoria critica della razza” si è cercato di sistematizzare il dibattito per investire tutta la società. I suoi seguaci sostengono che per capire davvero il mondo occorre concentrarsi sulle categorie identitarie di base: razza e genere (e orientamento sessuale). Ogni valore universale che tenda a diluirle o a cancellarle è essenzialmente falso o si tratta di un artificio per celare la verità dei fatti. Le trappole - Di conseguenza - sempre secondo costoro - i princìpi a cui siamo abituati come quelli sull’integrazione, il dialogo o il colorblind (neutralità sulla razza, come si dice negli Usa) vengono definiti come una trappola che perpetua le ingiustizie basate sull’identità. Per progredire davvero bisogna al contrario disfarsi di tali valori universali o delle regole di neutralità, per accettare di coesistere in base alla reale identità, cioè in base alla razza e al genere. In altre parole le persone devono pensare a sé stesse come a irriducibili creature razziali o di genere, accettandone tutte le conseguenze. Una società fatta di gruppi razziali o di genere sarebbe la condizione di base per ridefinire in modo giusto le condizioni della convivenza, ribaltando ciò che è accaduto in passato. Ciò permette di mettere sotto accusa il predominio secolare della razza bianca dominante, in particolare il maschio bianco padrone anche nella categoria dei generi. Secondo la cultura woke (termine afro-americano per definire una coscienza risvegliata) tali elementi sono irriducibili ed essenziali: nessuno se ne può liberare. Robin Di Angelo che insegna all’università di Washington così lo spiega: “Noi bianchi americani viviamo in una società che è profondamente separata ed ineguale a causa della razza. I bianchi sono i beneficiari di tale separatezza e diseguaglianza. Il risultato è che siamo stati preservati dallo stress razziale mentre allo stesso tempo ci sentiamo autorizzati a meritare tale vantaggio. Ciò è dovuto al fatto che sentiamo poco il disagio razziale dentro una società che dominiamo senza aver avuto bisogno di creare una resilienza razziale. Socialmente inseriti all’interno di un profondo senso di superiorità di cui non siamo coscienti o che in ogni caso non potremmo mai ammettere a noi stessi, siamo divenuti molto fragili nel portare avanti conversazioni sulla razza. Consideriamo ogni sfida alla nostra visione sulla razza come una minaccia alla nostra identità: quella di persone brave e morali. Così percepiamo ogni tentativo di collegarci con il sistema razzista come un’ingiusta offesa morale. Il più piccolo stress razziale ci diviene intollerabile”. Essenzializzazione - Come si osserva il fatto razziale è essenzializzato in maniera irriducibile, accettando la logica degli stessi razzisti. Il medesimo ragionamento viene applicato alla teoria di genere. La logica alla base della critical race theory è che le persone sono diseguali e che lo resteranno, senza possibilità di remissione. Ne sorge una sorta di “anti-razzismo razzializzato” che vorrebbe correggere il razzismo sistemico ribaltandolo, ma finisce per riprodurlo. Le persone non contano per ciò che pensano, dicono o fanno ma per ciò che “sono” nel senso della razza o del gender. Per tutti il maschio bianco è l’avversario: intrinsecamente e irrimediabilmente razzista, misogino e pericoloso. Senza rimedio - In tal modo la contestazione dell’ordine dominante diventa etno-identitaria e ogni fatto di cronaca viene vivisezionato secondo tale approccio. Secondo l’attivista anti-coloniale Rokhaya Diallo, giornalista francese di origini africane “il razzismo sistemico è un razzismo che non dipende dagli individui o dalla loro volontà. Non dipende dunque dalla morale personale o dalla responsabilità individuale. Si tratta di un fenomeno politico indissociabile da una storia che ha creato rapporti di forza sfavorevoli per le persone delle minoranze - neri, arabi, rom. Le persone prese individualmente possono non essere razziste ma, trovandosi in un ambiente che lo è, vi contribuiscono malgrado loro stesse”. Da ciò si desume che non c’è possibilità di rimedio: tutto viene cristallizzato nelle identità (razziali o di genere) di partenza. In tale prospettiva ogni bianco può (e deve) essere accusato di beneficiare del “previlegio bianco” e di incarnare - malgrado sé stesso - il razzismo sistemico. La conseguenza è la razzializzazione crescente delle lotte politiche: la vecchia frattura sociale si trasforma in frattura razziale o di genere. La rilettura del passato secondo la lente della razza collega ricercatori universitari e attivisti della società civile organizzata, alleati in una moderna caccia alle streghe (anzi agli stregoni), come vediamo accadere nelle università americane e britanniche (ed ora anche un po’ in quelle francesi). Alla fine tutto questo diventa una forma socialmente accettata di “hate speech” che vuole riscrivere la storia e considera il passato una colpa inespiabile. Di questo fanno le spese attualmente gli ebrei nelle università Usa, non considerati più una categoria ammissibile al vittimismo (malgrado la shoà) perché bianchi dominanti, mentre i palestinesi sono ascrivibili ad una razza minoritaria subalterna. Alla ricerca di nuove idee, molta parte della sinistra contemporanea (a partire dalla New Left americana) si è appropriata di tali teorie sotto lo slogan ambiguo dell’intersezionalità, che reinventa la razza e il genere come costruzioni sociali. Da qui discendono il “politicamente corretto” e la svolta identitaria, in cui ogni tipo di minoranza può cercare di assumere l’etichetta di vittima assoluta per contrapporsi alla razza o al genere dominante (ma deve anche guardarsi dalla concorrenza delle altre minoranze razziali o di genere). La mobilitazione delle minoranze sulla base di tale cultura vittimistica ha diversi effetti e viene sfruttata anche al di fuori dall’ambiente in cui è nata. La differenza tra “bianchi” e “neri”, tra europei e africani o afrodiscendenti (ma anche arabi ecc.), viene esaltata e fissata come se fosse immutabile. Così anche la separatezza tra i generi. La possibilità di scegliersi il genere che si vuole (e di cambiare a volontà) è soltanto un’applicazione successiva: enfatizzare la mutabilità, l’instabilità e la provvisorietà delle identità non cambia il meccanismo di fondo che consiste nel voler ribaltare i rapporti di forza e di dominio senza cercare nessun compromesso. Manganelli a Montecitorio contro gli studenti di Giuliano Santoro Il Manifesto, 23 dicembre 2023 Dopo settimane di mobilitazione le scuole romane manifestano in centro: volevano consegnare una lettera-documento con le loro richieste al governo. Volevano consegnare una “Lettera delle scuole occupate alle più alte cariche del nostro paese”, gli studenti dei collettivi di diverse scuole superiori romane che sono stati attaccati dalla polizia in assetto antisommossa tra il Pantheon e Montecitorio. In quella lettere, ci sono alcune delle rivendicazioni che hanno elaborato nel corso delle scorse settimane di occupazione e mobilitazione: educazione sessuale e all’affettività per una “scuola transfemminista”, uno sportello psicologico “finalizzato a tutelare la salute mentale di tutte le persone che attraversano la scuola” e “una sezione sperimentale che preveda l’abolizione del voto numerico a favore di una valutazione costruttiva”. Il corteo non autorizzato si è spostato dal Pantheon nel tentativo di raggiungere Palazzo Chigi; sono stati però bloccati dalle forze dell’ordine all’angolo tra piazza Montecitorio e via della Colonna Antonina. A quel punto sono arrivati i colpi di manganello, che bisogna dire non hanno intimorito i manifestanti: sono rimasti tranquilli e uniti per un po’ per poi accettare di indietreggiare. Risultano alcuni ragazzi identificati, si sta vagliando la loro posizione. “Non si manganellano gli studenti che protestano - denuncia il capogruppo del Partito democratico alla commissione Lavoro della Camera Arturo Scotto - Con loro si parla, non si usa la violenza. È inaccettabile che questo accada nel 2023 e a pochi passi dal Parlamento. Il governo dia spiegazioni sul perché si usa la mano forte nei confronti di ragazzi minorenni”. Il portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli parla di “deriva autoritaria”. Che pericolo rappresentavano degli studenti, la maggioranza minorenni, che volevano solo far sentire la loro voce davanti al Parlamento? - chiede Bonelli - Studenti e studentesse, operai e operaie vengono mandati lontano per non disturbare. Il decreto sicurezza manda in carcere fino a sei anni chi blocca le strade perché protesta. Perché questa violenza gratuita? Meloni può venire in Parlamento a spiegarlo?”. La protesta di ieri arriva dopo diverse settimane di mobilitazione nelle scuole romane. All’inizio del mese erano state occupate in contemporanea nove scuole e nel giro di poco si contavano più di venti istituti in mobilitazione. “Chiediamo ascolto - si legge nel documento preparato dai ragazzi - affinché i tavoli richiesti vengano concessi, in modo tale da concretizzare le nostre rivendicazioni”. E poi: “Il vostro tempo è finito, ora c’è il nostro”. Parole che devono essere parse indigeste a chi ha scelto di governare in nome del ripristino dell’autorità e dell’ideologia neoliberale del merito. Migranti. “Io, accusato ingiustamente di essere uno scafista, ora voglio giustizia” di Federica Rossi Il Manifesto, 23 dicembre 2023 Al via la campagna “Capitani Coraggiosi”. La vicenda del giovane senegalese alla proiezione del film “Io capitano”. Cosa accade al protagonista di Io capitano, Seydou, una volta terminata la sua traversata dal Senegal verso le coste europee? “Tutto quello che succede dopo, da lì parte davvero il film” dice Alaji Diouf, 33 anni, anche lui originario del Senegal, dopo la proiezione organizzata dall’associazione Baobab Experience insieme al regista Matteo Garrone a Roma. Sbarcato in Italia nel 2015, mischiato a una folla di oltre cento migranti come lui arrivati su un barcone salpato dalla Libia, un uomo ha indicato Alaji come la persona che aveva guidato l’imbarcazione. In pratica lo scafista, e questo gli è costato 7 anni nel carcere di Taranto per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Un caso aggravato dalla morte avvenuta a bordo di 8 persone per asfissia e dall’aver agito - secondo l’accusa - con fini di profitto. Tuttavia, Alaji non aveva neanche toccato il timone. “Mi hanno rubato un sogno e ora voglio fare ricorso - spiega - perché tante persone come me subiscono quest’ingiustizia”. “Per molti migranti il momento dello sbarco è il più pericoloso perché è lì che si decide il loro futuro”, spiega l’avvocato Francesco Romeo. Ma le dinamiche sono opache e senza organi di garanzia. “Lì nasce e matura la figura dello scafista - prosegue il legale - un migrante destinato a essere sacrificato, un capro espiatorio su cui far ricadere tutta la responsabilità del viaggio”. Chi guida il gommone, infatti, è una persona scelta tra le tante, spesso sotto ricatto. La non conoscenza della complessità del fenomeno migratorio costa il carcere a centinaia di persone ogni anno. La proiezione del film di Garrone, da ieri nella short list tra i 15 titoli come miglior film internazionale in gara per l’Oscar 2024, come l’esperienza di Alaji, aiuta ad accorciare la distanza tra realtà e immaginazione, un terreno perfetto per raccontare una storia. Gli attori che interpretano i protagonisti nel film hanno lo stesso sogno dei loro personaggi: lasciare Dakar e andare in Europa. “È stato un lavoro collettivo e tutte le comparse che abbiamo scelto sono persone che hanno vissuto quelle esperienze - spiega Garrone - sono state quelle comparse a scegliere l’attore che impersona il torturatore libico per esempio, perché sanno quale livello di aggressività doveva trasmettere”. Cultura e politica si contaminano a vicenda e in questo crocevia risiede una vittoria. Nell’ultima scena, il protagonista attira l’attenzione di un elicottero della guardia costiera italiana e la telecamera stringe su un primo piano capace di trasferire l’emozione di chi si sente finalmente in salvo. Ma se la voce di Seydou che grida “io capitano” inizialmente primeggia sopra tutto, poi viene sovrapposta, fino a scomparire, dal rombo delle pale dell’elicottero. Ed è forse quello che accade anche nella realtà: i migranti, una volta arrivati in Italia, non hanno più voce. “Per due anni non ho parlato con nessuno, né avvocati, né la mia famiglia. Ho subito molte violenze mentre ero in prigione - racconta Alaji - ma ora che sono libero voglio far conoscere al mondo la verità”. Insieme ad Alice Basiglini, di Baobab, e all’avvocato Romeo, Alaji ha deciso di lanciare la campagna “Capitani Coraggiosi” e, per la prima volta in Italia, instaurare un giudizio di revisione per annullare questo tipo di sentenza di condanna. In molti ormai cominciano a conoscere il caso di Alaji, non solo per gli anni ingiusti di carcere che ha dovuto scontare, ma anche per la possibilità di arrivare a una revisione della controversa figura dello scafista. “Riuscirci sarebbe importante anche per un altro migrante, Bakari, suo compagno di cella e di viaggio e accusato anche lui di essere uno scafista”, dice il legale. La campagna chiede la modifica dell’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione (favoreggiamento all’immigrazione clandestina) per superare - spiega Basiglini - l’equiparazione “tra le vittime dei confini e i solidali da una parte e coloro che sui muri, le frontiere e i respingimenti hanno costruito un giro d’affari”.