La guerra tra giustizialismo e garantismo si vince nelle carceri di Jonathan Piccinella Il Riformista, 22 dicembre 2023 Dati, storie, fatti e leggi alla mano, l’Italia ha un problema che andrebbe risolto cercando di non identificare i detenuti come il problema, ma tutto il sistema nel suo insieme. Le carceri sono sempre più il luogo dove poniamo i nostri problemi: risolvere la struttura significa salvare i detenuti. Il fine (della pena e del carcere) dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Questo scriveva Cesare Beccaria tra il 1763 e il 1764 nel trattato sulla giustizia “Dei Delitti e delle pene”. Oggi, a più di 250 anni di distanza di quello che è il manifesto illuminista su una giustizia basata sul senso di umanità della pena e sulla capacità riabilitativa del condannato, in Italia la situazione è più che mai lontana dalla via ipotizzata dal giurista milanese. Secondo lo studio proposto da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle misure alternative preso la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia del 2007, su 10 condannati che scontano la pena in carcere 7 torneranno a commettere un nuovo reato. Un sistema così non può definirsi efficiente. Ma cosa porta le nostre galere ad avere una recidiva così alta? L’associazione Antigone, nel suo rapporto XIX riguardo l’annata solare del 2023 sulle condizioni di detenzione italiane, ci aiuta a comprendere le cause del malfunzionamento delle nostre carceri. A fronte di una capienza ufficiale di 51249 posti, i presenti nelle nostre carceri sono 56674 circa. Questo vuol dire un sovraffollamento del 110% medio, con picchi sopra il 125% in Lombardia, Puglia, Friuli Venezia Giulia e Liguria. La popolazione detenuta nelle nostre carceri è composta per il 31% da stranieri, per il 70% da disoccupati e il 30% da over 50enni. I reati che principalmente riempiono le nostre strutture detentive sono quelli nei confronti del patrimonio, 30 mila circa, della persona, 23 mila, e del TU (testo unico in materia di sostanze stupefacenti), 19 mila. Perché abbiamo questi numeri? Perché abbiamo uno dei più importanti sovraffollamenti carcerari in Europa fa sì che 7 detenuti su 10 sono reintrodotti nella società non come “cittadini nuovi” ma come soggetti ancora più poveri, senza competenze scolastiche-lavorative e quindi più incline a tornare nella illegalità? Gherardo Colombo, ex magistrato protagonista delle inchieste sulla loggia P2 e sul caso Mani Pulite, giurista, saggista e scrittore italiano, nel suo libro “Sulle Regole” (edito per Feltrinelli) ci dice come il rispetto della dignità dell’essere umano impone che una misura tanto limitante quanto la privazione della libertà personale sia ammissibile esclusivamente quando siano messi a repentaglio diritti fondamentali di maggiore o pari rilievo. Secondo questa impostazione, il rispetto della dignità esclude che siano consentite sofferenze fine a se stesse, o determinate da istanze riduttive. La durata delle limitazioni della libertà deve essere proporzionata alla necessità di recupero piuttosto che alla gravità della violazione, e la neutralizzazione non può comportare la limitazione dei diritti personali che non confliggono con le esigenze di tutela della collettività. Il sistema carcere italiano è stato più volte nel corso degli anni e dei decenni di casi non isolati che dimostrano come sia un organismo malato, tendente ad opprimere l’individuo e a non rispettare quanto dettato dalla Costituzione sulla finalità della pena ovvero la rieducazione del condannato nella società e la riabilitazione dello stesso: Santa Maria Capua Vetere nel 2020, una mattanza che tuttora è sotto processo; Monza nel 2021, un abuso di violenza nei confronti di un detenuto documentato da immagini video della stessa struttura; Stefano Cucchi nel 2009, ucciso mentre era in custodia cautelare. Per migliorare l’organizzazione della nostra ossatura detentiva la politica deve impegnarsi su vari fronti, che sono già esistenti nel nostro sistema normativo o che devono essere migliorati. Rispetto ai sistemi già vigenti, il Parlamento potrebbe estendere i casi di pena che finiscono nella semidetenzione, già stabilita in Italia dalla legge 689/1981. Secondo Antigone la legge n. 689 del 1981 è stata negli anni applicata decisamente poco, sicuramente anche per il fatto che il limite dei due anni coincide con quello della sospensione condizionale. Dobbiamo a questo limitatissimo impiego l’esigenza sentita dal legislatore di ritornare sull’argomento all’interno della cosiddetta ‘riforma Cartabia’, che ha introdotto nuove sanzioni sostitutive e ha allargato le possibilità del loro utilizzo. Al di fuori del nostro paese un altro mezzo particolarmente usato negli altri ordinamenti è l’uso della pena a casa; basti pensare al fenomeno delle house probation che in Italia sarebbe possibile applicare se si fosse attuata la legge 67/2014. La legge in questione qualificava come sanzione principale la fase detentiva a casa per quei casi di pena non superiori ai tre anni e, se voluto dal giudice, anche per pene superiori a 5 anni. Se si vuole credere ad una giustizia garantista, che mette al centro il condannato e non la condanna, ulteriori misure da aggiungere e che il Parlamento avrebbe la possibilità di legiferare: prima fra tutte eliminare la l’ipotesi di andare in carcere prima del giudizio in primo grado. Attualmente un terzo dei detenuti e detenute è in carcere in attesa di giudizio nonostante la Commissione ministeriale presieduta da Francesco Carlo Palazzo, sotto i ministri della giustizia Cancellieri-Orlando, avesse modellato l’uso di “dimore sociali”: luoghi in cui poter eseguire la misura cautelare personale o la detenzione domiciliare nei confronti di chi un domicilio non ce l’ha. Voltaire già nel 1700 esprimeva un concetto chiave di quelle società che si definiscono liberali, democratiche e garantiste: Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione. Dati, storie, fatti e leggi alla mano, la nostra nazione ha un problema andrebbe risolto, cercando di non identificare chi va in carcere come il problema ma tutto il sistema nel suo insieme. Non è un buon anno per i detenuti di Andrea Oleandri* rossetorri.it, 22 dicembre 2023 Il 2023 si chiude con uno sguardo preoccupante sul carcere. La fine dell’anno è anche un momento per fare dei bilanci e, almeno quello sul carcere, è totalmente negativo. A fine novembre le persone detenute erano tornate ad essere oltre 60.000. Da prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 non si registravano numero così alti. I posti disponibili, invece, sono sempre 48.000. A destare preoccupazione, però, non è solo l’aumento della popolazione reclusa, quanto le politiche penali che il governo sta portando avanti da quando si è insediato e che sono ben rappresentati da due degli ultimi atti: il decreto Caivano e il pacchetto sicurezza. Una serie di nuovi reati e aumenti di pene che potrebbero avere un effetto drammatico proprio sulla crescita della popolazione detenuta. Se continuasse a questi ritmi, infatti, a fine 2024 non staremo a parlare di una possibile emergenza sovraffollamento, ma di una condizione in tutto affine a quella che portò l’Italia ad essere condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti generalizzati i suoi detenuti. Per evitare che ciò accada, abbiamo bisogno che il 2024 diventi un anno in cui il carcere sia al centro dell’attenzione politica e mediatica. Abbiamo bisogno di riforme, ma non nel senso in cui sono state condotte finora. Il carcere ha bisogno di maggiore apertura. Bisogna guardare ai diritti fondamentali: al lavoro, allo studio, all’affettività. Bisogna investire in misure alternative alla detenzione. Bisogna capire che la sicurezza non si costruisce buttando in cella una persona e facendola lì marcire, ma dando a quella stessa persona strumenti economici, sociali, educativi, per affrancarsi dal suo passato criminale. Questo è l’impegno che Antigone rinnoverà anche nel 2024. *Associazione Antigone Seconda Chance. Dalla detenzione a una vita nuova di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 22 dicembre 2023 L’associazione fondata da Flavia Filippi trova aziende disposte ad assumere chi sta in carcere o ne è uscito. Perché lavoro e formazione sono la via maestra per ridare un futuro. “Ho trovato lavoro a oltre 200 tra detenuti ed ex detenuti”. Quando pronuncia quel numero e ripercorre la strada compiuta, Flavia Filippi, giornalista del TgLa7, è ancora incredula. Grazie alla sua associazione, queste persone che rischiavano di restare “segnate” per sempre hanno un lavoro e possono credere in una seconda possibilità. Una Seconda Chance, come il nome che Filippi ha scelto per una realtà non profit (di cui L’Espresso ha raccontato i primi passi) che fa da ponte tra aziende e carceri puntando sulle agevolazioni fiscali e contributive consentite dalla legge Smuraglia. Il professore e partigiano, scomparso nel 2022, ha voluto infatti una norma che favorisse il reinserimento dei detenuti nella società a partire dal lavoro, riconoscendo alle imprese più attente un credito d’imposta fino a seimila euro l’anno. “Occupandomi di cronaca giudiziaria ho visto tanti sventurati che finiscono dentro per motivi lontani dalla delinquenza” e che spesso “smettono di immaginare un futuro”, racconta Filippi. È stata lei a prendere contatto con l’amministrazione penitenziaria, a bussare alle porte di centinaia di imprese e a rendere in soli tre anni Seconda Chance una realtà del Terzo settore presente nelle carceri di quasi tutta Italia. Ne è nata una rete che unisce collaboratori - “ancora pochi”, dice la fondatrice che ne sogna almeno uno per ogni città - e aziende come Terna, Istituto superiore di Sanità, Acqua Vera, Gruppo Palombini, Fattorie Della Piana, Conad Nord Ovest. Talora andando oltre la mission originaria e portando negli istituti penitenziari formazione, sport, attività ricreative, educazione ambientale. Poi si accompagnano i detenuti nella delicata fase di ritorno alla vita, quando hanno scontato la pena ma agli occhi del mondo restano criminali. “Sapevo che sarei finito in cella, era solo questione di tempo”. Gianluca, classe 1992, viene da Tor Bella Monaca, periferia di Roma nota per storie di spaccio. È entrato in carcere a 21 anni, ne parla come se fosse un destino scritto nella sua provenienza che contrasta con quella che la madre definisce “faccia d’angelo”. Parla del fratello a sua volta arrestato, di un’adolescenza difficile vissuta per strada e fatta di piccoli reati, di una famiglia molto povera: alla fine è stato facile cadere nella trappola dei “soldi facili”. Gianluca non si sottrae alle sue responsabilità. Ma non sopporta che “lo Stato, se sbagli, te fa’ marcì in carcere, te toglie ogni speranza de futuro”. La stessa terribile sensazione di Alessandro, che alle spalle ha un carico pesante: nasce al Laurentino 38, quartiere della Capitale vittima di degrado, in una famiglia legata alla banda della Marranella (costola di quella della Magliana). A sette anni trova il padre impiccato, cresce con un fratello e una sorella cocainomani e spacciatori. Precipita nello stesso inferno e finisce dietro le sbarre: “Avevo perso tutto, ero lacerato dai sensi di colpa per avere lasciato la mia compagna e i miei figli soli, senza nulla”. Dai suoi occhi scendono lacrime. Poi riprende: “Ho commesso tanti errori, lo so, ma il carcere mi ha tolto del tutto la dignità”. Ciò che accomuna questi detenuti è la rabbia nei confronti di un sistema che, a detta loro, sferra il colpo finale nel momento di maggiore fragilità. Ed è qui che s’inserisce Seconda Chance: ridà speranza, sopperendo troppo spesso alle lacune di un’organizzazione carceraria incancrenita. Come? Batte a tappeto il Paese, trova aziende disponibili ad assumere detenuti. Presenta le agevolazioni previste dalla legge e mette gli imprenditori in contatto con le carceri che, a loro volta, selezionano le figure più adatte alla mansione richiesta. I detenuti fanno un colloquio e, se tutto va bene, vengono assunti. “Come le persone normali”, dice Gianluca che lavora come cameriere nel Caffè Palombini di Roma. I settori più coinvolti nel progetto sono la ristorazione e l’edilizia. Il filtro dell’amministrazione penitenziaria per molti è una prima garanzia, come nel caso di Roberto Serafini, che - con il socio Roberto Pau - ha preso otto detenuti per Joule, azienda che si occupa della logistica di Conad Nord Ovest. Ma superare il pregiudizio è difficile. Lo conferma Carmelo Basile che nella sua impresa calabrese, la Fattoria Della Piana, ha assunto due detenuti e aspetta il terzo. “Sono arrivato ai colloqui molto prevenuto, poi ho ascoltato storie strazianti di persone che hanno commesso un errore. Ma chi non ha diritto a una seconda possibilità?”. Basile parla dei suoi lavoratori con orgoglio e sottolinea l’importanza di aver incontrato detenuti già formati. Esigenza intercettata subito da Seconda Chance, che fa entrare negli istituti la formazione con Acer (Costruttori edili di Roma), Ance Toscana, Mulinum di San Floro che realizzerà un panificio nel carcere di Vibo Valentia, Pioda Imaging che aprirà uno stabilimento di grafica in quello di Rebibbia. Dove il famoso gelatiere Andrea Fassi ha tenuto un corso per 25 detenuti e la stilista di abiti da sposa, Chiara Valentini, ne sta per avviare uno da designer. Ma Filippi vede lungo e, grazie ad aziende e persone di buona volontà, porta nelle carceri corsi di scacchi, teatro, arte, disegno e attività sportive. Technogym, per esempio, dona l’attrezzatura a Reggio Calabria e a Cagliari, Federtennis costruisce un campo da tennis a Rebibbia e Federpallacanestro uno da basket a Secondigliano. “Il nostro è un impegno a tutto tondo”, dice la giornalista. Che però è stanca per un’attività svolta senza sostegno economico e istituzionale. Ma senza mollare, anche quando i detenuti arrivano a fine pena. Come Antonio, 41 anni, campano, fuori dal 2022. In carcere non ha ottenuto il permesso per lavorare. Oggi vive a Battipaglia e ha un’attività sua: Seconda Chance l’ha messo in contatto con le aziende del circuito per vendere le sue mozzarelle. Gianluca, invece, da fine novembre è libero e Caffè Palombini lo ha tenuto. Alessandro, libero da un anno, continua a fare il muratore presso Icoref. Ora può pensare alla famiglia e permettersi un’auto. Un mese fa ha assistito alla nascita del quarto figlio: Maikol, “scritto come si pronuncia ma con la k”, precisa tra lacrime stavolta di gioia. Rinvio sulla prescrizione, giornalisti verso lo sciopero contro la legge bavaglio di Niccolò Carratelli La Stampa, 22 dicembre 2023 Alla Camera arriva un altro stop per la riforma del ministro Nordio, l’esame slitta a gennaio. Parte la mobilitazione di categoria sul divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare. Mobilitazione, presidi, fino allo sciopero generale. I giornalisti preparano la battaglia contro l’emendamento “bavaglio”. La norma firmata dal deputato di Azione, Enrico Costa, approvata martedì sera dalla Camera, che introduce il divieto di pubblicare il testo (anche solo brevi stralci) delle ordinanze di custodia cautelare fino all’udienza preliminare. Una forma di “censura”, dicono dalla Federazione nazionale della stampa, che ieri ha riunito la Giunta esecutiva, un modo per “limitare il diritto dei cittadini a conoscere le notizie”. Per cominciare, giovedì prossimo la Fnsi non parteciperà, in segno di protesta, alla conferenza stampa di fine anno della premier Giorgia Meloni. Quel giorno, invece, promuoverà una protesta simbolica. A seguire, il 3 gennaio sarà convocata la Conferenza dei Comitati di redazione per stabilire il percorso e le azioni che dovranno portare allo sciopero generale, “contro la censura di Stato” e per rivendicare “l’identità e la dignità della nostra professione”. D’altra parte, ancora ieri lo stesso Costa continuava ad assicurare che “non c’è nessun bavaglio”, ma che “dobbiamo bilanciare la presunzione di innocenza e il diritto di informare e di essere informati”. La pensano allo stesso modo anche i renziani di Italia Viva, che hanno votato a favore della norma e, più in generale, sostengono l’azione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, spesso con maggior vigore rispetto agli stessi partiti di maggioranza. Una dimostrazione si è avuta ancora ieri mattina, nell’Aula di Montecitorio, quando il capogruppo di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti, dopo il voto sul Mes, ha chiesto di rinviare a gennaio gli altri punti all’ordine del giorno. Tra questi, c’era anche la riforma della prescrizione, su cui l’interesse di Italia Viva è pari solo a quello di Forza Italia. Tanto che il capogruppo renziano, Davide Faraone, è stato l’unico a opporsi alla proposta di Foti, chiedendo di discutere subito di prescrizione: appello poi bocciato dalla maggioranza. “Nonostante lo stato drammatico in cui versa il sistema della giustizia italiana, la maggioranza ha scelto ancora una volta l’immobilismo - ha attaccato Faraone -. Una conferma del sospetto che Giorgia Meloni e il suo governo abbiano paura ad affrontare il tema”. Oltre alle eventuali riserve della premier, a suggerire il rinvio è stata anche una questione tecnica: sul ritorno alla prescrizione sostanziale, con l’abolizione della improcedibilità, si sono esposti tutti i 26 presidenti delle Corti d’Appello, con una lettera indirizzata al ministro della Giustizia e ai presidenti delle commissioni Giustizia della Camera e del Senato, in cui definiscono necessaria la formulazione di una norma transitoria. Fonti parlamentari della maggioranza fanno sapere che si sta ancora valutando il da farsi e non è escluso che si possa procedere in questo senso. In ogni caso, di prescrizione si riparlerà dal 9 gennaio. Il vero coraggio è guarire il processo. Non nasconderlo alla stampa di Alessandro Barbano Il Dubbio, 22 dicembre 2023 Un’ordinanza di custodia cautelare è uno dei provvedimenti più gravi che un giudice può adottare. Per questo non può essere sottratto al controllo democratico. Il garantismo, quello autentico, è una passeggiata a piedi nudi su una fune sospesa nel vuoto e unta di sapone. Non è stare da una parte, ancorché la parte del più debole, ma è piuttosto un proibitivo esercizio di equilibrio tra diritti contrapposti. Il divieto di pubblicazione “integrale o per estratto” delle ordinanze cautelari fino al termine dell’udienza preliminare è, per restare in metafora, una maldestra scivolata sulla fune. Di cui la Camera si è resa protagonista. Perché un provvedimento che limita la libertà personale non può essere sottratto al controllo dell’opinione pubblica, al pari di tutti gli atti giudiziari che hanno una motivazione. La cui funzione non è solo quella di consentire alla parte soccombente di adire con l’impugnazione il giudice superiore. Ma è anche quella di garantire un controllo democratico sul processo. Quando diciamo che il giudice amministra la giustizia in nome del popolo italiano, intendiamo che il limite al suo magistero è il complesso di valori costituzionali in cui si esprime una sovranità popolare. Che si esercita con la pubblicità delle udienze e attraverso il controllo critico dei cittadini fin dall’avvio delle indagini preliminari, in ragione del loro interesse a conoscere come viene amministrata la giustizia. Un’ordinanza di custodia cautelare è uno dei provvedimenti più gravi che un giudice può adottare, perché comprime la libertà senza che sia intervenuto un giudicato di condanna. Sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica per tutto l’arco temporale delle indagini preliminari vuol dire sterilizzare l’azione penale nella sua procedura. Ma quante volte dietro la legalità formale di un provvedimento cautelare si cela un abuso autoritativo dello Stato? Pensare che quest’ultimo sia sindacabile solo dentro la dialettica tra accusa e difesa significa decretare il divorzio del processo dalla realtà della vita. Non mi nascondo che nella prassi degli ultimi decenni il controllo popolare sul processo è stato declinato dalla stampa nella gogna, amplificando unicamente le ipotesi di accusa, quando non elementi privi di rilevanza penale, ma capaci di produrre un danno di reputazione agli indagati e ai terzi indirettamente coinvolti nell’indagine. Tuttavia questa distorsione non si risolve censurando il diritto-dovere del giornalismo di informare, ma piuttosto vincolando i magistrati a inserire nella richiesta e nell’ordinanza cautelare solo elementi di prova pertinenti con l’imputazione. Ormai da tempo, la contestualizzazione del fatto è diventata un alibi per istruire un processo mediatico, centrato sulle coordinate del moralismo, in cui si accerta non la colpevolezza ma piuttosto l’ingiustizia, affidando l’esecuzione della pena ai giornalisti. Non a caso la gogna si realizza quasi sempre attraverso intercettazioni, informative e altri atti istruttori che sono scarti di materiale probatorio, privi di alcuna rilevanza ai fini di una condanna. Che cos’è l’esito della maggior parte delle indagini condotte per mezzo del Trojan se non un processo alle intenzioni? Brandelli di confidenze, emozioni, desideri di rivalsa sono ricostruiti con un metodo congetturale che li pone a confronto non con le fattispecie penali, ma con la loro contrarietà alla morale. L’ingresso del captatore informatico nelle indagini ha segnato uno spartiacque nella fenomenologia del processo. Anzitutto per l’accelerazione che ha impresso alle investigazioni, costruendo una verità immediata, spesso priva di valenza probatoria sul piano giudiziario, ma percepita come incontrovertibile su quello mediatico. E poi per la pervasività con cui ha azzerato o ridotto qualunque area di riservatezza riferibile ai processi democratici. Le possibilità aperte dalla tecnologia si accompagnano all’idea per la quale tutto ciò che si può sapere è giusto che si sappia. E ciò che si sa è valutabile nel frammento di conoscenza che il Trojan porta in emersione, dando l’illusione che sia superflua una scrupolosa contestualizzazione dei fatti. Il decorso di processi “istruiti” dal Trojan, fondati su migliaia di intercettazioni che transitano da un procedimento all’altro, è comune: dopo una fase acuta che deflagra sui giornali si inabissano, cronicizzandosi nelle tortuosità del sistema giudiziario. Sono portatori di un vizio genetico: la loro prova è debole, perché costruita prevalentemente per un uso mediatico. Molti non sarebbero stati neanche istruiti, se il giudice per le indagini preliminari avesse svolto quella funzione di filtro che il sistema gli assegna. Sono il simbolo di una giustizia esplorativa che ha due conseguenze rilevanti, ancorché sottovalutate. La prima è che l’obiettivo dell’azione penale cessa di essere il reato e diventa la persona che finisce nel radar dell’indagine. È un cambiamento di paradigma decisivo: indaghiamo Tizio per estorsione, poi se scopriamo che non ha estorto, ma commette violenze domestiche, lo abbiamo incastrato lo stesso. Così l’intercettazione perde la sua funzione originaria e diventa uno strumento di controllo sociale. La seconda conseguenza riguarda la grammatica stessa dell’azione penale. La colpevolezza, su cui si fonda qualunque sistema sanzionatorio liberale, smarrisce il suo statuto di connotato essenziale, a vantaggio della pericolosità. Perché la ragione dell’intercettazione non è più il sospetto fondato che un fatto illecito sia stato commesso dal soggetto da sorvegliare, ma che quest’ultimo, in quanto pericoloso, possa aver commesso il fatto illecito. La pericolosità è un paradigma di polizia. In ordinamenti di matrice anglosassone legittima intercettazioni preventive altrettanto invasive nella vita dei singoli, ma i loro esiti non sono utilizzabili come prove nel procedimento penale. In Italia la pericolosità ha aperto una breccia nella giustizia come un’eccezione, e da quella breccia sta dilagando. L’intercettazione è uno dei suoi principali vettori: la sua pervasività infiltra la pericolosità nel processo, la sua egemonia narrativa la impone surrettiziamente come prova. È il paradigma della pericolosità che ha inquinato il ruolo già ibrido del pubblico ministero, per metà giudice, per metà poliziotto. Con i superpoteri della pesca a strascico è in grado di esercitare un controllo pervasivo sulla società, che si connota di una coloritura morale. Perciò la gogna non è solo una perversione della comunicazione. Ma è prima di tutto l’effetto di uno slittamento dell’azione penale in una logica di risultato rispetto a tre obiettivi che la magistratura negli ultimi tre decenni ha fatto propri: il contrasto all’emergenza criminale, la bonifica della vita pubblica e il connesso controllo di moralità sulla classe dirigente, l’espansione dei diritti individuali attraverso una giurisprudenza creativa che surroghi i ritardi della politica. Per frenare la gogna bisogna anzitutto riportare il processo alla sua funzione di accertamento di condotte e fatti costituenti reato. Anzitutto attraverso una riforma dei codici, che pure sembrava il primo degli impegni assunti dal guardasigilli Carlo Nordio nel suo primo discorso in Parlamento. L’articolo 292 del codice di procedura penale prescrive che l’ordinanza cautelare contiene “la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, l’esposizione e l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza”. Questa norma dovrebbe vincolare il giudice all’onere di dare rilievo ai soli elementi in diretto contatto con l’imputazione, ai fini del giudizio di gravità indiziaria. Però sappiamo che nella prassi accade il contrario. Piuttosto che legare le mani ai giornalisti, sarebbe necessario tipizzare criteri di pertinenza e di continenza capaci di prescrivere la diretta connessione di qualunque elemento probatorio all’imputazione del fatto costituente reato, sanzionando con un illecito disciplinare ad hoc il magistrato che non rispetti questa norma. Che vuol dire in concreto connettere le prove al l’imputazione? Un esempio pedagogico viene dal film Autonomia di una caduta, premiato al Festival di Cannes e in programmazione in queste settimane nelle sale cinematografiche del Paese. Racconta il processo indiziario contro una donna, accusata dell’omicidio del marito, precipitato da una finestra del cottage familiare e trovato cadavere dal figlio. L’indagine del magistrato inquirente si concentra sulla relazione dei coniugi ed esibisce quella che considera la prova regina: una registrazione di un litigio tra i due nei giorni precedenti la morte. Al termine dell’ascolto in udienza, una domanda della donna alla Corte spezza la suggestione colpevolista che si è prodotta: “Che c’entra tutto questo?” Che cosa prova la lite tra i due coniugi rispetto alla verità sull’omicidio? In che modo si connette con la supposta colpevolezza dell’imputata? La risposta che diamo a questa domanda può riportare il processo penale dentro la cornice liberale dell’accertamento fattuale della responsabilità, o piuttosto farne l’autobiografia di una società che cambia. Se il litigio dei due coniugi è pertinente quale elemento di prova, se basta da solo a fondare il movente del presunto omicidio, non c’è bavaglio al giornalismo che possa fermare la gogna. Tanto più se, in assenza di un’autentica terzietà del giudizio e di una parità di poteri delle parti nel processo, tutto inizia e finisce nel racconto del pubblico ministero. Se le fattispecie dei reati si dilatano in via legislativa e interpretativa, includendo sempre più non solo le condotte capaci di attentare ai beni giuridici protetti dalla norma, ma anche i propositi connessi alle condotte - immaginando per esempio una corruzione che si perfeziona nello scambio tra due vaghe promesse -, l’azione penale diventa totalitaria, perché per individuare la prova deve scandagliare l’intero universo fattuale, intenzionale ed emotivo dell’individuo. E la gogna sarà fisiologia di una patologia del diritto penale totale. Resta da capire se la stampa possa sottrarsi alle sue responsabilità deontologiche. Non è certamente questo il mio pensiero. Ma se una parte pubblica ha stabilito la pertinenza di una prova rispetto a un fatto di interesse generale, non si può chiedere al giornalista di rinunciare a cercarla, valutarla, raccontarla. Perché il giornalista non è vincolato né nel merito né nel metodo ai limiti di conoscenza che dovrebbero essere propri del processo penale. Al giornalista non può essere sottratta una prospettiva morale. Se, per fare un esempio, il giornalista scopre che la più nota influencer del Paese ha lucrato sulla beneficenza, ha pieno diritto-dovere di raccontarlo, anche se il suo racconto danneggia la reputazione dell’influencer e prescindendo dalla rilevanza penale dei fatti. In tal caso il giornalista soggiace a tre presupposti stabiliti da una storica sentenza della Cassazione quasi quarant’anni fa e tuttora validi: la verità effettiva o almeno putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca; l’utilità sociale alla conoscenza della notizia; la continenza espositiva. A queste condizioni la notizia lesiva della reputazione altrui è pubblicabile. Com’è giusto che sia. Perché non è il giornalista che va a prendere di notte l’indagato per portarlo in carcere in manette. In una democrazia liberale, una quota di metodologica anarchia del giornalismo è un fattore di equilibrio. In una democrazia liberale, un quadro normativo che vincolasse il giudice a una sorta di self-restraint espositivo promuoverebbe un garantismo virtuoso sull’intero racconto del processo. Ci ripensi la maggioranza parlamentare che, non sapendo in che modo guarire la giustizia, ha pensato di nascondere ai cittadini la sua grave malattia. Il bavaglino di Costa non è la fine del diritto di cronaca di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 dicembre 2023 L’emendamento sulla presunzione d’innocenza tra allarmismi e propaganda. Tra le conseguenze più nefaste della lunga era berlusconiana c’è l’impossibilità di avere un dibattito sano, o quantomeno decente, sulla giustizia: ogni indagine viene vista come un agguato, ogni legge viene considerata come un tentativo di ingabbiare la magistratura. Il tutto genera problemi che coinvolgono il giornalismo, tra libertà di espressione, dovere di cronaca e rapporti talvolta sin troppo stretti tra certe redazioni e certi uffici giudiziari, con annesso abbondante traffico di carte più o meno segrete e divisione del mondo in due metà, da una parte i cosiddetti giustizialisti, dall’altra i sedicenti garantisti. Questo è, in breve, il contesto all’interno del quale ci troviamo davanti all’ennesimo caso di (vera o presunta) legge bavaglio, questione che a cadenza regolare si ripropone senza che in realtà accada granché. La storia è quella dell’emendamento presentato dal deputato di Azione Enrico Costa che vieterebbe la pubblicazione “integrale o per estratto” delle ordinanze di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare, cioè l’inizio del dibattimento. Precisiamo subito che la faccenda andrà per le lunghe (mancano un passaggio al Senato e i decreti attuativi) e che, in fondo, parliamo solo di un mirabile esempio di grida manzoniana, un manifesto ideologico le cui conseguenze pratiche sono quantomeno incerte: un bavaglino, in pratica. Ad ogni modo, già leggiamo un considerevole numero di righe di preoccupati allarmi sul futuro della libertà di stampa. Addirittura il sindacato dei giornalisti annuncia una dura mobilitazione “in difesa della dignità della professione”, già messa a dura prova da situazioni come l’incredibile caso di sostituzione di persona reso pubblico ieri da Repubblica, laddove abbiamo appreso che il silenzio assenso è uno strumento dell’inchiesta giornalistica. Ma davvero l’informazione è minacciata? L’uso che si fa degli atti giudiziari è spesso terrificante, e non di rado le cronache giudiziarie vengono riempite con nomi di persone che alla fine non risultano innocenti, ma proprio estranee ai fatti. L’ultimo esempio, in questo senso, è la campagna che alcuni giornali di destra stanno portando avanti sui finanziamenti a Mediterranea, con sovrabbondante pubblicazione di atti dallo scarso o nullo valore penale al solo scopo di gettare fango sulle Ong che salvano i migranti in mare. Un’altra triste consuetudine giornalistica consiste nell’appiattire le cronache sulle tesi degli investigatori. Si è letto che con l’emendamento Costa saremmo stati meno informati ad esempio sull’inchiesta Mondo di mezzo. Forse è vero, ma non possiamo dimenticare che in questo caso parliamo di un’indagine naufragata, cioè cominciata con pesanti accuse di mafia e finita con una sentenza che escludeva quel reato. C’è anche chi si lamenta del fatto che, senza poter citare un atto, il cronista potrebbe fraintendere la notizia e darla male. Su quest’ultimo punto, in effetti, il giornalismo si gioca la faccia. E vale la pena ricordare lo Sciascia di Una storia semplice: “L’italiano non è l’italiano. È il ragionare”. Bavaglio alla stampa? Solo una legge sbagliata di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 22 dicembre 2023 Contro la demagogia delle buone intenzioni, servirebbe la valutazione di impatto pratico. Poiché si tratta di una legge delega, c’è da sperare che il governo non vada fino in fondo. Bavaglio alla stampa? No, perché nessuna legge insensata può mettere il bavaglio alla libera stampa in un Paese democratico. Legge insensata sì, anzi, poiché si tratta di una legge-delega, vi è la speranza che il governo non eserciti la delega, girata la pagina della demagogia e delle buone intenzioni, cui una saggezza popolare da sempre attribuisce il ruolo di lastricare le vie dell’inferno. Per le proposte di leggi di spesa vi è la valutazione della copertura, altrimenti niente “bollinatura” della Ragioneria dello Stato. Per diversi progetti è prevista la VIA, Valutazione di impatto ambientale. Come rimedio alla demagogia delle buone intenzioni occorrerebbe introdurre la VIP, Valutazione di impatto pratico. L’onorevole Costa canta vittoria sull’altare della tutela della privacy e della presunzione di innocenza, sembra dopo aver vinto resistenze anche dal ministero della giustizia ove sono abituati a misurarsi con la VIP. L’ordinanza del GIP (non del Pm è sempre bene ricordarlo) che dispone misure cautelari è conosciuta dai magistrati, dai loro collaboratori, dalla polizia giudiziaria incaricata dell’esecuzione, tutti soggetti tenuti al segreto d’ufficio. Ma il nostro sistema processuale, che prevede una ben precisa e delimitata fase segreta dell’indagine, stabilisce che sull’ordinanza è cessato il segreto; l’ordinanza è notificata agli indagati e i loro difensori che non sono tenuti al segreto. Una strategia difensiva e comunicativa può legittimamente comportare che una parte abbia interesse a divulgare l’ordinanza per le più diverse ragioni, ad esempio, tra i tanti, per ridimensionare la propria posizione rispetto a quella più grave di altri coimputati. La riforma Orlando del 2021 aveva rimosso la paradossale situazione di un atto non più segreto e dunque pubblicabile, non nel testo integrale o per stralci e dunque nel dato oggettivo, ma nella soggettiva interpretazione di chi ne propone un riassunto, evidenziando un aspetto piuttosto che altri. Non si tratta di inseguire l’impossibile oggettività assoluta dell’informazione, perché la libera stampa, con il solo limite del falso conclamato, ha il diritto di interpretare il documento e di evidenziarne le parti a sostegno di una tesi. Per la libera stampa vi è il diritto alla “parzialità”, ma l’accesso alle fonti e la possibilità di citarle sono la garanzia del pluralismo sul quale in democrazia si costruisce la pubblica opinione. Con la Legge Costa ad informazioni, legittimamente, parziali, distorte, tendenziose, faziose si potranno contrapporre solo altre opinioni, senza possibile supporto del documento originale. Con la liberalizzazione introdotta dalla legge Orlando si è data la possibilità ai giornalisti di disporre del documento, non sottobanco e per vie traverse (come sempre avvenuto in passato), ma richiedendone copia all’ufficio giudiziario. In molti abbiamo auspicato che questa più ampia e trasparente liberalizzazione avrebbe dovuto sortire l’effetto virtuoso di indurre già il Pm nella richiesta e poi il Gip nell’ordinanza a selezionare con estrema cura i materiali da citare, tra i quali trascrizioni di intercettazioni; ciò non solo, come si usa sottolineare, per riguardo ai terzi estranei, ma anche per rispetto della dignità della persona indagata, la cui privacy può essere violata solo nei limiti strettamente necessari per l’indagine. È presto per valutare se nel complesso questo effetto virtuoso sia stato raggiunto, ma è significativo che tutti gli esempi negativi citati in questi giorni di intercettazioni private, probabilmente non rilevanti, finite sulla stampa risale all’epoca pre-Orlando, in cui tutto ciò era rigorosamente vietato. Abbiamo visto anche il paradosso di articoli nei quali, a sostegno della Legge Costa, sono stati ripubblicati stralci di intercettazioni, di cui allora la pubblicazione era vietata, rinnovando a distanza di anni la violazione della privacy di persone a vario titolo coinvolte. E ancora, tra gli effetti virtuosi della legge Orlando, avrebbe potuto esserci un self restraint dei giornalisti: tutti hanno a disposizione il documento, non vi è il terribile rischio di “bucare la notizia” e dunque si può evitare di pubblicare dati che sono finiti nella ordinanza, ma che non sono essenziali. Sta entrando a regime, superate le difficoltà pratiche, il sistema (sempre legge Orlando) della udienza stralcio per le intercettazioni. Le difese hanno il diritto di avere accesso a tutte le intercettazioni e nessun filtro può essere affidato al pm, il quale in assoluta buona fede, potrebbe ritenere insignificante un dato invece utilissimo alla difesa; poi, deciso in contraddittorio ciò che non è rilevante, lo si destina all’archivio riservato, con divieto assoluto di pubblicazione. Un sistema armonico di divieti e di liberalizzazioni che appena in fase di sperimentazione si vorrebbe stravolgere. Legge “bavaglio”: stop alla gogna per gli indagati. Ma la stampa italiana promette battaglia di Paolo Pandolfini Il Riformista, 22 dicembre 2023 Il provvedimento non è stato ancora approvato in via definitiva dal Parlamento. Enrico Costa precisa: “Ciò che si vieta è la riproduzione dell’atto processuale - spesso centinaia di pagine zeppe di testi di intercettazioni - prima ancora che l’indagato possa difendersi”. “La Federazione nazionale della stampa dichiarando che ‘è pericolosissimo che non si sappia se una persona viene arrestata o meno’ dimostra di non aver neanche letto l’emendamento approvato, in cui non c’è nessun divieto di dare la notizia degli arresti, né di riportare il contenuto dell’atto”, ha affermato ieri il deputato e responsabile giustizia di Azione Enrico Costa, rispondendo alle critiche dei rappresentanti dei giornalisti che avevano invece parlato di “bavaglio”. “Si vieta invece la riproduzione dell’atto processuale, spesso di centinaia di pagine zeppe di testi di intercettazioni, prima ancora che l’indagato abbia potuto difendersi”. Anche altri esponenti della maggioranza difendono la norma, sostenendo che l’obiettivo è solo evitare la gogna mediatica, ha aggiunto Costa. Botta e risposta - “L’ordinanza di custodia cautelare non presenta la persona come colpevole. È un provvedimento fondato su gravi indizi, ma non sulla colpevolezza. È diventata pubblicabile nel 2017 quando la commissione Giustizia ha modificato l’articolo 114 del Codice di procedura penale. In quella stessa commissione Giustizia era presente l’onorevole Costa, cosa che ha sottolineato anche durante il dibattito l’onorevole Federico Cafiero De Raho. Tutti ci stiamo domandando perché allora l’onorevole Costa non disse nulla, anche se la direttiva europea che oggi cita era già entrata in vigore. Cosa è cambiato rispetto ad allora? A pensar male si fa peccato, ma secondo noi, ancora una volta, per proteggere il potere si vuole vietare ai cittadini il diritto all’informazione”, è stata la risposta di Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi. Il provvedimento non è stato ancora approvato in via definitiva dal Parlamento. Mercoledì è arrivato, dopo una riformulazione del governo che aveva espresso parere contrario al testo iniziale. La misura, oltre che dalla maggioranza, è stata votata da Iv e Azione tra le proteste del resto dell’opposizione. Tra presunzione di innocenza e diritto di cronaca - “Chiediamo fin d’ora al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di non firmare una legge che potrebbe essere fonte di immani distorsioni dei diritti”, aveva dichiarato in mattinata Costante, annunciando la decisione di disertare la conferenza stampa di fine anno della premier Meloni, annunciando per oggi una giunta straordinaria per organizzare “la mobilitazione della categoria, assieme alla società civile, contro il nuovo bavaglio al diritto di cronaca”. “Il divieto di pubblicare anche solo ‘stralci’ delle ordinanze di custodia cautelare non ha nulla a che vedere con il principio di presunzione di innocenza, ma costituisce una pesante limitazione del diritto di cronaca”, ha rincarato la dose l’Ordine dei giornalisti. Le proteste - Dopo la manifestazione dei giorni scorsi a Roma, sono stati i giornalisti liguri a mobilitarsi, presentandosi con la bocca coperta in segno di protesta in un flash mob a Genova. “La scelta di non consentire la pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia cautelare è in perfetta linea con il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza, la direttiva 343 del 2016, la legge 188 del 2021. Il legislatore non può che provvedere rispettando questi principi”, ha affermato invece il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, stoppando le polemiche. “Ma quale bavaglio, i giornali vogliono soltanto massacrare gli indagati” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 dicembre 2023 Con il divieto di pubblicare le ordinanze c’è il rischio di sottrarre il lavoro delle procure al controllo democratico? Parla il deputato di Azione, autore dell’emendamento al centro delle polemiche. Dopo l’approvazione del suo emendamento che vieta la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare non si placano le polemiche su Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione. Ne parliamo direttamente con lui. Il suo emendamento prevede la modifica dell’articolo 114 cpp. Come immagina che possa essere riscritto? Memore delle esperienze del passato quando deleghe un po’ generiche sono state interpretate dal Governo in modo distante dal pensiero di chi le aveva proposte - penso al fascicolo di valutazione del magistrato - ho fatto in modo che il mio emendamento fosse invece molto ben perimetrato. C’è un divieto e non si può interpretare in modo diverso. La FNSI dice: “È pericolosissimo che non si sappia se una persona viene arrestata o meno”. Ma nel riassunto si potrà fare il nome di chi viene arrestato? Ma certo che si potrà fare. A me pare che stia sollevando una tempesta usando argomenti sbagliati. Consiglierei a tutti i giornalisti di guardare il testo della norma e verificare la convergenza con la disciplina ante 2017. Il nostro obiettivo è tutelare la presunzione di innocenza, bilanciando il diritto all’informazione con quello a non essere sbattuti in prima pagina con un atto di accusa che può essere ribaltato dal Riesame o dalla Cassazione. Inoltre serve a tutelare anche i terzi estranei alle indagini che vengono comunque inseriti nell’ordinanza. Il paradosso oggi è che l’ordinanza si può pubblicare alla lettera ma la difesa nell’interrogatorio va pubblicata per riassunto. Come si risolve il problema per chi non rispetterà la norma? Nonostante i divieti, esiste il mercato nero della notizia. Dovrebbero essere previste sanzioni per i giornalisti che pubblicheranno comunque l’ordinanza ricevuta da fonti anonime? L’articolo 684 cp è una norma solo sulla carta. Tuttavia a mio parere sono sbagliate le sanzioni per i giornalisti. Esse invece dovrebbero essere indirizzate a quei soggetti che guadagnano dal mettere alla gogna i presunti innocenti, e mi riferisco agli editori. Questi ultimi usano uno strumento che non dovrebbero usare per fare gossip e guadagnare sulla pelle delle persone. Poi c’è ancora altro da fare. Cosa? Uno dei miei prossimi passi sarà dedicato al riserbo nella fase delle indagini. La questione non si esaurisce qui. Inoltre occorrerà trovare un meccanismo per responsabilizzare i magistrati: noi oggi abbiamo tante ingiuste detenzioni che non incidono minimamente sulle carriere di chi le ha provocate. Su diversi giornali hanno scritto che calerà il velo su inchieste di mafia, corruzione, femminicidi. Sarà così? Sono tutte invenzioni e estremizzazioni per schierarsi contro la norma. Ho già vissuto queste situazioni, le barricate contro di me. È impopolare far valere dei principi di garanzia come sto facendo io e ti metti contro la magistratura e la stampa perché spezzi il cordone che li lega a doppio filo. Da un lato c’è chi mi sconsiglia di proseguire però dall’altro il conforto del Parlamento è notevole. Vorrei che ci si concentrasse anche sul fatto che dai banchi dell’opposizione, al momento del voto, diversi parlamentari hanno lasciato l’Aula pur di non opporsi. Se ci fosse stato il voto segreto i sì sarebbero stati ancora di più. Non crede che paradossalmente questa modifica toglie di mezzo qualsiasi possibilità di controllo democratico e di verifica da parte della stampa rispetto alla tutela dell’indagato e all’operato della magistratura? Non mette in crisi la possibilità di verificare che dentro le carte non ci siano buone ragioni per tenere in carcere un innocente? La stampa che pubblica le notizie a tutela dell’indagato? Mi vien da sorridere. Per alcuni giornalisti gli indagati non sono persone in carne ed ossa. Sono notizie. E se ci fosse anche solo un giornale che voglia fare seriamente il mestiere? I media vanno a cercare l’elemento piccante, non a scavare per vedere se un innocente è stato privato ingiustamente della libertà personale. Qualcuno sostiene che io voglia proteggere i potenti. Ma questi ultimi hanno tutti gli strumenti per tentare di ribaltare la narrazione colpevolista. Io porto avanti questa battaglia per quelle persone disarmate contro il fuoco mediatico che si scatena quando si viene arrestati. Sul Corriere hanno riportato fonti di Azione per cui la sua dichiarazione su Repubblica su un appoggio esterno a Nordio sarebbe “inspiegabile, siamo saldamente all’opposizione”... Ho visto una agenzia di fantomatiche “fonti”. Le prenderò in considerazione se e quando si manifesteranno in carne ed ossa, uscendo dall’anonimato. Poi vorrei chiarire una cosa. Prego... Noi abbiamo applaudito Nordio - l’ho fatto io, l’ha fatto il mio Segretario - e alla sue linee programmatiche illustrate in Parlamento perché ha elencato riforme che sono anche nel nostro programma. Se lui realizzerà quelle riforme noi saremo dalla sua parte e cercheremo di aiutarlo e di toglierlo dall’influenza dei magistrati fuori ruolo. Ma lui è stato il primo a non opporsi al loro taglio risibile previsto dalla riforma del Csm... È vero. Ma cerchiamo di stimolarlo sui prossimi obiettivi, così come avvenuto con questo emendamento. Forse questo è il primo provvedimento garantista passato da inizio legislatura... Esatto. E quindi se funziona questo schema possiamo proseguire. “Il bavaglio sulle ordinanze non c’entra nulla con la presunzione d’innocenza” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2023 Intervista a Marina Castellaneta, ordinaria di Diritto internazionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari: “L’ultimo provvedimento approvato dal Parlamento è in contrasto con una serie di regole di diritto internazionale. Il nostro legislatore non sta rispettando obblighi Ue. La situazione è allarmante, si potrebbe sollevare la questione di costituzionalità”. Il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare? Con la presunzione d’innocenza “non c’entra nulla” ed è “in contrasto con una serie di regole di diritto internazionale”. Anzi, nell’emendamento approvato dal Parlamento la citazione della direttiva Ue è “fuori luogo”. Di più: l’intero decreto che con cui il governo di Mario Draghi ha recepito nel 2021 la direttiva 2016/343 non è “assolutamente in linea” coi principi comunitari enunciati in quel provvedimento. Parola di Marina Castellaneta, ordinaria di Diritto internazionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, giornalista pubblicista e autrice di numerosi saggi sulla libertà di stampa e sul diritto europeo. La professoressa critica duramente le norme che influiscono sulla libertà di stampa nel nostro Paese: non solo per le ultime leggi varate, ma anche per quelle che il Parlamento non ha mai approvato. “Noi abbiamo un legislatore che non sta rispettando obblighi internazionali”, spiega. Professoressa, partiamo dalla fine. L’emendamento approvato dalla Camera martedì chiede al governo di vietare la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare facendo esplicito riferimento agli articoli 3 e 4 della direttiva Ue 2016/343, quella sulla presunzione d’innocenza. Ma in che modo questa direttiva vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare? Intanto vorrei dire che il provvedimento è in contrasto con una serie di regole di diritto internazionale. Poi faccio notare che gli articoli 3 e 4 della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza non si occupano della stampa. Di cosa si occupano? L’intera direttiva ha un’unica norma sulla stampa che però prescrive di salvaguardarne la libertà. L’articolo 3 si limita a dire che deve essere garantita la presunzione d’innocenza agli indagati e agli imputati. Non devono apparire come colpevoli e dunque va esplicitato quale è il loro status: se sono indagati, imputati e non condannati in via definitiva. L’articolo 4 dice semplicemente che la persona non va presentata come colpevole. Nulla di nuovo rispetto a quanto noi prevediamo già nelle norme costituzionali e nel Testo unico sui doveri del giornalista. Cosa c’entra dunque il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare? Nulla. Si può prevedere di rafforzare la presunzione d’innocenza, ma sempre in linea coi principi della direttiva che equivalgono semplicemente a non indicare come colpevoli persone non ancora condannate in via definitiva. Ma questa è una cosa diversa dal far sparire le notizie. Anzi il Considerando numero 19 della direttiva dice espressamente che gli Stati devono fare salva la libertà di stampa e dei media. Dunque l’interpretazione estensiva che fa il legislatore italiano è scorretta e non è in linea con la direttiva, che è citata fuori luogo. Per questo motivo l’onorevole Costa, ispiratore della norma, è stato accusato di avere messo un bavaglio alla stampa. Accusa alla quale ha replicato facendo notare che si tornerà semplicemente al 2017, quando era vietato pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare. Poi, però, la riforma di Andrea Orlando ha modificato l’articolo 114. Questo ritorno al passato è in linea coi principi comunitari? Noi ormai abbiamo un quadro europeo che va chiaramente verso il rafforzamento della tutela della libertà di stampa. Abbiamo la Carta dei diritti fondamentali, è in via di ultimazione il regolamento del Media Freedom Act, c’è la proposta di una direttiva contro le querele temerarie. La Corte europea dei diritti dell’uomo varie volte ha detto che possono essere pubblicati atti d’indagine, intercettazioni, fotografie di persone indagate se questo serve all’interesse pubblico, cioè l’interesse della collettività a ricevere notizie. Quindi, secondo me, l’introduzione di queste norme potrebbe portare a far sollevare la questione di costituzionalità. È quello che sostengono i giornalisti della Lombardia a proposito del cosiddetto “bavaglio Cartabia”, cioè il decreto varato dall’allora guardasigilli del governo di Mario Draghi proprio per recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Che opinione ha di quel decreto? Che contiene sempre lo stesso errore di fondo: la direttiva Ue ha il fine di garantire la presunzione di innocenza, ma senza occuparsi della stampa. L’inserimento di norme che limitano la comunicazione giudiziaria, accentrando tutto il potere nelle mani del procuratore, eliminando la possibilità di interloquire con le forze dell’ordine e prevedendo la possibilità di indire conferenze stampa soltanto in ragione di un preminente interesse pubblico, rappresentano tutti freni alla libertà di espressione. Sia dal punto di vista dei giornalisti sia dal punto di vista della magistratura. Quindi il recepimento operato dal nostro esecutivo è sicuramente contrario alla direttiva dell’Unione europea. Quasi tutte le norme di quel decreto legislativo di recepimento sono delle aggiunte, elaborate dal nostro legislatore, rispetto a quanto troviamo nella direttiva. Cosa che non hanno fatto gli altri Stati membri. Cosa hanno fatto gli altri Stati membri? Alcuni, come la Francia, hanno comunicato alla Commissione europea che avevano già norme interne sulla presunzione di innocenza. Nel caso dell’ordinamento francese la direttiva era già rispettata attraverso l’articolo 9 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo ma anche grazie alle norme del codice penale. Poi c’è il caso del Lussemburgo, che non ha incluso alcuna norma sulla libertà di informazione. Non ho trovato provvedimenti analoghi a quelli introdotti dal legislatore italiano. Anche l’Italia si sarebbe potuta limitare a far sapere all’Ue di avere già le sue leggi sulla presunzione d’innocenza? Certamente, perché la presunzione di non colpevolezza è già prevista dalla Costituzione italiana. Abbiamo tantissime altre norme, incluso il Testo unico sui doveri dei giornalisti, che impongono di usare la corretta informazione giudiziaria cioè ribadire sempre che una persona è presunta innocente fino alla sentenza definitiva. E invece non solo l’Italia è intervenuta, ma ha inserito queste leggi limitative dell’informazione giudiziaria. Quel decreto, dunque, è stato solo un pretesto per mettere un bavaglio alle fonti giudiziarie? Per rispondere a questa domanda ricordo soltanto che le questioni riguardanti la comunicazione e il rispetto della presunzione di innocenza di altri organi come le autorità politiche non vengono proprio inserite nel nostro decreto di recepimento. Nella direttiva Ue si parla di politici? C’è un richiamo alle autorità pubbliche che devono rispettare nella comunicazione il principio della presunzione di innocenza. E nel rapporto della Commissione europea si chiarisce che quel richiamo riguarda anche i politici. Ma in che modo i politici dovrebbero rispettare la presunzione d’innocenza? Ci sono tantissimi esempi. Pensiamo ai casi di cronaca nera e alle persone additate subito come colpevoli, magari proprio dai politici sui social. E tutta questa parte non viene recepita in Italia? No, non c’è traccia. Lei ha scritto che il cosiddetto decreto Cartabia è uno “strumento il cui fine è proprio quello di limitare la comunicazione di informazioni alla collettività, con conseguenze negative sia per lo Stato di diritto sia per le vittime di reati”. In pratica ha un effetto completamente opposto rispetto a quello pubblicizzato: è corretto? Secondo me è assolutamente così. Tra l’altro io vedo anche dei margini di incompatibilità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Cioè? Il discorso sarebbe molto tecnico, però, certamente l’applicazione rigida di quelle norme ostacola il procedimento in base al quale il giornalista informa la collettività su questioni di interesse generale. Anche a livello temporale. In che senso? La Corte europea varie volte ha detto che le notizie di stampa sono un bene deperibile, quindi va assicurata anche la tempestività nella comunicazione delle notizie. Invece in varie procure si creano problemi perché a dare il via libera ai comunicati stampa può essere solo il procuratore. Ecco: come fa un procuratore, che non è un giornalista, a decidere se una questione è di rilevanza pubblica o no? Dovrebbe basarsi sui parametri della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quindi oggettivamente la sua attività è piuttosto complessa. Perché, per esempio, la Corte di Strasburgo ha detto che a volte anche una notizia piccola, detto tra virgolette, è comunque una notizia di interesse pubblico. Tipo gli incidenti stradali o i morti sul lavoro? Esatto, sono piccole notizie ma molto importanti per una piccola comunità. Però leggo che da quando è in vigore il decreto i giornalisti hanno spesso problemi a recepire anche i nomi delle vittime. Abbiamo citato il decreto Cartabia, ma c’è anche la riforma Nordio, che prevede il divieto di pubblicare intercettazioni non contenute nell’ordinanza di custodia cautelare. Dopo quest’ultimo emendamento approvato alla Camera, sembra che ci sia una sorta di attacco concentrico alla libertà di informazione, soprattutto a quella giudiziaria: è d’accordo? Assolutamente sì. Tanto più che, appunto, gli organismi internazionali hanno già sottolineato varie volte che l’Italia non rispetta gli standard in materia di libertà di stampa. Se agli elementi per così dire commissivi, in cui lo Stato è intervenuto limitando la libertà di stampa, aggiungiamo quelli omissivi, abbiamo sicuramente un quadro che ci deve per forza di cose allarmare. E non poco. A cosa si riferisce quando parla di elementi omissivi? Ad esempio alle norme sulla protezione delle fonti: l’articolo 200 deve essere modificato da tempo. Ma questa questione non è stata mai affrontata correttamente dal legislatore italiano. Oppure alla detenzione per i giornalisti, che è scomparsa dalla legge sulla stampa ma è rimasta nel codice. Tra l’altro la Corte costituzionale aveva chiesto al legislatore d’intervenire, ma il legislatore non è intervenuto. E non è mai intervenuto neanche sulle querele temerarie, utilizzate per avere il cosiddetto chilling effect, cioè un effetto paralizzante sulla libertà di stampa. Non è intervenuto nonostante gli appelli continui a governo e Parlamento... E nonostante i rapporti sul Rule of law, preparati ogni anno dalla Commissione europea sullo Stato di diritto, abbiano evidenziato come in Italia ci sia un problema derivante dalle intimidazioni e dalle querele temerarie contro i giornalisti. Quindi noi abbiamo un legislatore che non sta rispettando obblighi internazionali con rango costituzionale e sub costituzionale, cioè che prevalgono anche sulla legge interna. Ecco perché ripeto, secondo me, si potrebbe sollevare la questione di costituzionalità. Sud, il Medioevo delle mafie di Francesco La Licata La Stampa, 22 dicembre 2023 Diceva Giovanni Falcone che per battere la mafia, intesa come organizzazione criminale, sarebbe bastato schierare un buon esercito. Più difficile, se non impossibile sarebbe stato sconfiggere la mafiosità, cioè quella sottocultura medievale (contro cui lo scrittore Gesualdo Bufalino invocava l’intervento di un esercito, ma di maestri elementari) che in gran parte del nostro Meridione fa da supporto al potere arrogante delle cosche con un colpevole assoggettamento “ideologico” che finisce per tramutarsi, con i silenzi, l’omertà e l’indifferenza, in vero e proprio favoreggiamento. E non si può fare a meno di ripensare al monito del grande giudice leggendo cosa accade, nell’anno di grazia 2023, nel territorio calabrese di Palmi. Dunque: una giovane donna viene abusata da un branco di delinquenti. Una violenza continua interrotta solo quando la ragazza denuncia alla polizia e alla magistratura gli autori di quegli abusi. Sono giovani anch’essi, alcuni minorenni e in venti finiscono in carcere. Ma nel gruppo ci sono anche tre rampolli di capimafia e l’erede di un amministratore locale. Basta questo perché l’esistenza della giovane si trasformi in un vero e proprio inferno, alimentato soprattutto dall’atteggiamento dei familiari, che invece di schierarsi con la vittima la sottopongono a un martellante tentativo di convincerla a ritirare la denuncia. In questa vergognosa tortura si distinguono il fratello, la sorella e i loro rispettivi compagni. Violenza fisica e psicologica che si sarebbe spinta fino all’isolamento della ragazza (con la disattivazione della scheda telefonica) per impedirle di cercare aiuto e addirittura all’istigazione al suicidio. Un brandello di medioevo proprio mentre nel resto della società civile si piange per le donne vittime della violenza maschile e si dibatte sui possibili rimedi. Non è difficile immaginare quali argomenti possano essere stati utilizzati dai torturatori: la vergogna per aver ceduto al sesso perché per quelle teste ogni vittima è complice, il timore di divenire un “problema” per tutta la famiglia nel caso i genitori dei violentatori, mafiosi o potenti, decidessero di vendicarsi della “spiata” e del rifiuto di rimangiarsi le accuse. Un classico, quindi, l’invito al suicidio perché - decide un certo malinteso senso comune - chi si uccide ammette praticamente la propria colpa e questo può essere d’aiuto nel processo. Che inferno deve aver vissuto quella giovane vittima, abbandonata pure da chi avrebbe dovuto difenderla. Eppure di queste storie è pieno il nostro Sud, terreno di coltura di una logica capovolta che vuole le vittime maltrattate e poi solidali con i carnefici. Magari quella ragazza avrebbe potuto accettare un “risarcimento” (di cui avrebbe goduto l’intero nucleo familiare): il potere mafioso sa essere generoso quando gli serve. Una simile soluzione avrebbe avuto pure il merito di affermare ulteriormente dei concetti cardine della mafiosità: non si parla con gli “sbirri”, non si collabora con la giustizia e l’unica autorità riconosciuta deve essere “la mamma”, cioè la mafia. Chi potrà mai scordare Lea Garofalo? Anche lei calabrese, uccisa dal marito perché “aveva tradito il principio dell’omertà”, denunciando l’ambiente che la circondava. Anche lei fu sottoposta a un “accerchiamento” dai familiari, che volevano farla uscire dal programma di protezione e perciò indurla a ritrattare. L’ostinazione di Lea la porterà alla morte, ma non prima di aver piantato il seme di una nuova libertà cresciuto nella figlia che non ha esitato a confermare in tribunale le accuse della madre. È popolata di croci la storia delle donne del Sud. Lia Pipitone fu uccisa a Palermo, nel 1983, su mandato del padre-boss che non poteva sopportare l’onta di avere una figlia innamorata di un uomo che non era il “regolare” marito. La fece uccidere nel corso di una rapina simulata e poi fece uccidere anche l’amante, “suicidato” dai sicari di Cosa nostra. Una delle poche storie finite bene è quella di Franca Viola, rapita in Sicilia, ad Alcamo, da uno spasimante, boss respinto. L’uomo offrì il matrimonio riparatore (allora, anni Sessanta, possibile per legge) ma la ragazza ebbe la forza di opporsi ancora e mandarlo in galera. Fu fortunata, Franca, potendo contare su una famiglia sana che la sostenne fino all’ultimo Furono uccisi dai nazisti, l’Avvocatura dello Stato si oppone ai primi risarcimenti alle famiglie di Jacopo Storni Corriere della Sera, 22 dicembre 2023 Sono centinaia i parenti delle vittime delle stragi naziste che hanno fatto richiesta dei risarcimenti, in virtù del fondo da 61 milioni istituito dal Governo Draghi. L’Avvocatura italiana in quasi tutti i casi si sta opponendo. Il senatore Pd Parrini: “Atteggiamento vergognoso”. Ogni giorno, dalla finestra di casa, Mirella Lotti vede il bosco dove suo padre è stato fucilato insieme ad altre undici persone. Quel bosco, tra erba e vigneti, si chiama Pratale, così come l’eccidio nazista che si è consumato qui. È il 23 luglio del 1944. Al podere Pratale abitano le famiglie contadine dei Gori, dei Cresti e dei Raspollini, alle quali si aggiunge la famiglia Lotti, sfollati dalla vicina località di Fabbrica. La sera intorno alle 20, un gruppetto di tedeschi appartenenti alla Quarta Divisione Paracadutisti fa irruzione nell’abitazione, sorprendendo le quattro famiglie a cena. Vengono separati gli uomini dalle donne e dai bambini. Mentre il gruppo delle donne viene fatto allontanare in direzione di Fabbrica, gli uomini vengono fatti entrare nel bosco. Vengono allineati e uccisi a colpi di mitra. Sono passati quasi ottant’anni e Mirella Lotti, figlia di Giuliano, ci porta esattamente nel luogo dell’eccidio e ricorda quei momenti drammatici. “Avevo 11 anni, ero in collo a mio babbo, quando arrivarono i tedeschi gli chiesi se ci avrebbero ammazzati, lui rispose che sì, forse ci avrebbero ammazzati. Poi un soldato mi dette una spinta e caddi dalle braccia di mio padre. Lo vidi allontanarsi, e da quel momento non l’ho rivisto mai più. La mattina dopo le nostre mamme scoprirono che erano stati trucidati. Non ho mai smesso di soffrire. Quanto pagherei per riavere mio babbo almeno per un minuto, gli direi quanto gli ho voluto bene e quanto mi è mancato per tutta la vita”. Mirella resta in piedi di fronte al monumento ai caduti: una piccola lapide in mezzo al bosco, le cui indicazioni si leggono a malapena sulla strada principale. Per arrivarci bisogna fare quasi un chilometro di strada sterrata in auto, poi un altro pezzo a piedi tra i campi. “Questi poveretti sono stati uccisi e dimenticati” è l’amaro commento di Mirella, oggi a 90 anni. Anche per questo è importante ottenere giustizia, che mai è arrivata secondo la signora. “Ecco perché abbiamo chiesto il risarcimento tramite il fondo istituito dal Governo”. Mirella è una delle centinaia di parenti delle vittime delle stragi naziste che ha fatto richiesta dei risarcimenti, in virtù del fondo da 61 milioni istituito dal Governo Draghi. Sono migliaia i potenziali beneficiari dei fondi e sono già centinaia le cause civili mosse contro la Germania. Alcuni processi sono già terminati in primo grado con sentenze favorevoli ai parenti delle vittime. Tra loro c’è appunto Mirella: il giudice di Firenze ha stabilito per lei, in primo grado, un indennizzo di 50mila euro. E poi c’è Katia Poneti, nipote di Egidio Gimignani, che ha fatto richiesta insieme al fratello. Per loro il giudice ha stabilito, sempre in primo grado, un rimborso di 50mila euro. “Mio nonno non l’ho mai conosciuto, ma l’ho sentito vivere tramite le parole di mia madre. Avevo 11 anni quando mio padre è morto. Era un partigiano e viveva a San Donato in Poggio, vicino Firenze. Fu riconosciuto dai tedeschi perché era armato e portava un fazzoletto rosso. E per questo fu ucciso”. L’indennizzo economico, secondo Katia, “è una forma importante di giustizia, perché mia madre non si è mai ripresa dalla morte di suo padre e oggi, se fosse ancora viva e potesse accedere a questo risarcimento, si sentirebbe in qualche modo liberata dal dolore che non l’ha mai mollata”. Eppure non è detto che i risarcimenti monetari arriveranno effettivamente. L’Avvocatura italiana, che rappresenta lo Stato nelle controversie legali, in quasi tutti i casi si sta opponendo ai risarcimenti, che per arrivare a destinazione devono attendere la sentenza definitiva. I motivi dell’opposizione sono vari, tra cui i dubbi sugli effettivi danni procurati ai nipoti che non hanno mai conosciuto i nonni uccisi. L’Avvocatura ha sostenuto inoltre che in mancanza dell’accettazione dell’eredità l’erede non abbia diritto al risarcimento. È notizia proprio delle ultime ore, che l’Avvocatura ha impugnato anche le sentenze di primo grado di Lotti e Gimignani, in questo caso per motivi di natura procedurale: si andrà quindi in appello nel 2024, con buona pace (e relativa amarezza) dei parenti dei due uomini uccisi. I motivi della citazione in appello sono molto tecnici, come spiegano gli avvocati dei parenti delle vittime toscane. Nello specifico, spiega l’avvocato Iacopo Casetti, “l’Avvocatura contesta la forma e il contenuto della sentenza sostenendo che la Repubblica Federale di Germania venga estromessa da tutte le diciture, non deve essere proprio citata. A nostro giudizio è un ricorso più che altro politico, basato su poca sostanza, giusto per rimandare l’arrivo effettivo dei risarcimenti”. “È un’assoluta vergogna che lo Stato italiano ostacoli, invece di portare avanti e contribuire a definire, il percorso giudiziario che vede coinvolta la Repubblica federale di Germania nell’assunzione di responsabilità dei crimini nazifascisti perpetrati nel nostro territorio attraverso il risarcimento dei danni ai familiari delle vittime” ha detto il sindaco David Baroncelli del Comune di Barberino Tavarnelle, dove vivono Lotti e Gimignani. “I due appelli - continua il sindaco - sono identici e il fatto paradossale è che la contestazione è riferita non tanto al quantum del risarcimento né ai fatti presi in esame ma ai soggetti coinvolti. Secondo l’Avvocatura dello Stato il percorso giudiziario doveva far riferimento unicamente allo Stato italiano e non alla Germania. È chiaro che si tratta di un incomprensibile pretesto per allungare i tempi a danno dei familiari, di chi ha visto morire i propri cari”. Il senatore Pd Dario Parrini ha presentato a maggio un ddl - ancora non discusso - per chiarire che lo Stato non deve essere parte attiva nei processi e invitare l’Avvocatura a tenere conto della notifica delle cause alla Germania solo come avviso, non come richiamo a costituirsi in giudizio. “Un atteggiamento vergognoso quello dell’Avvocatura dello Stato - ha detto Parrini - che evidentemente ha la finalità non solo di ostacolare, nelle cause, le legittime richieste dei ricorrenti, ma anche con quella di indurre a desistere chi sta decidendo se intraprendere o no un’azione giudiziaria. Non si spiega in altro modo la decisione di sostenere argomenti che fanno accapponare la pelle, come quello secondo cui sarebbe da considerarsi prescritto il diritto al risarcimento per crimini contro l’umanità, o quello secondo cui non si dovrebbero indennizzare le due figlie di un uomo ucciso in un eccidio nazifascista perché all’epoca dei fatti erano troppo piccole per essere ritenute vittime di un danno reale”. Il disegno di legge è stato firmato da molti politici della commissione Affari costituzionali, tra loro anche il presidente Alberto Balboni (Fratelli d’Italia) e altri politici della maggioranza. Ex detenuto chiede l’indennità di disoccupazione: l’Inps gliela nega, ma il giudice gli dà ragione di Alessio Di Sauro La Repubblica, 22 dicembre 2023 Il tribunale di Milano ha accolto il ricorso per ottenere la Naspi di un uomo che nel 2021 in carcere aveva fatto l’imbianchino e l’aiuto cuoco: “È in regola con tutti i requisiti”. Ha lavorato per otto mesi come imbianchino e inserviente di cucina all’interno del carcere di San Vittore fino a quando è stato scarcerato per la concessione degli arresti domiciliari a Milano; ora ha diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione Naspi. È quanto ha stabilito il tribunale di Milano accogliendo il ricorso di un ex detenuto che aveva prestato attività lavorativa per conto dell’amministrazione penitenziaria e che, una volta tornato a casa, aveva citato in giudizio l’Inps per il mancato riconoscimento dell’indennità al termine della cessazione del rapporto di lavoro. Il detenuto, recluso a San Vittore da settembre 2020 a settembre 2021, era stato ammesso al beneficio del lavoro all’interno del carcere: aveva prestato servizio per otto mesi come imbianchino e per uno come aiuto cuoco, con un giorno di riposo a settimana, ricevendo regolare compenso, versando le tasse all’erario e i contributi all’Inps. Ma l’istituto di previdenza sociale aveva rigettato la sua richiesta di indennità sostenendo che il lavoro all’interno del carcere (cosa diversa invece per l’attività esterna alle dipendenze di soggetti terzi) avesse peculiari caratteristiche volte al reinserimento sociale in grado di escludere la concessione della Naspi. Tra queste il fatto che l’accesso al lavoro fosse possibile grazie a una graduatoria e, soprattutto, che fosse a rotazione tra i detenuti, che si avvicendavano periodicamente: circostanze che, secondo l’Inps, non avrebbero potuto essere assimilate al licenziamento, a cui è unicamente collegato il diritto all’indennità. Un diniego che il tribunale ha ritenuto infondato. Il giudice Riccardo Attanasio ha infatti stabilito che non esistono specifiche disposizioni che escludono il riconoscimento della Naspi ai detenuti: anche la scarcerazione e l’avvicendamento interno al lavoro previsto dai regolamenti penitenziari costituiscono condizione in grado di giustificare lo stato di disoccupazione involontaria, requisito essenziale per la concessione dell’indennità. “Questa è la terza sentenza che fa luce sull’argomento - spiega Ivan Lembo, responsabile del dipartimento delle politiche sociali di Cgil Milano, che ha assistito il detenuto assieme al patronato milanese dell’Inca -, ci sono state pronunce identiche a settembre del 2022 e a luglio del 2023. Stiamo già preparando nuovi ricorsi”. I detenuti ammessi al lavoro interno al carcere sono di solito circa il 30 per cento del totale, e percepiscono i due terzi della retribuzione prevista dal contratto collettivo di lavoro per la professione di riferimento. “L’Inps ha iniziato a negare i sussidi nel 2019, senza che fosse intervenuto nessun cambiamento nella normativa - osserva Davide Bandi, direttore di Inca Cgil. La legge stabilisce che i lavoratori che prestano servizio per l’amministrazione carceraria debbano godere dello stesso trattamento di coloro che lavorano fuori dalle mura del carcere per cooperative o datori terzi”. Mae, la consegna non può essere rifiutata solo perché la persona ricercata è madre di minori in tenera età di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2023 La Corte Ue in tema di mandato di arresto europeo chiarisce quando lo Stato si può rifiutare di procedere alla consegna in ragione del motivo fondato sull’interesse del minore figlio della persona ricercata. Con la sentenza sulla causa C-261/22 la Cgue risolve il rinvio pregiudiziale sottoposto ai giudici europei dalla Corte di cassazione italiana, affermando in primis che la consegna di una persona ricercata in base a un mandato d’arresto europeo non può essere rifiutata per il solo motivo che si tratta della madre di minori in tenera età. È, infatti, soltanto in caso di carenze sistemiche o generalizzate nello Stato membro emittente e qualora i diritti fondamentali degli interessati rischino di essere violati che tale consegna può essere “eccezionalmente” rifiutata. Il caso a quo - La vicenda riguarda una donna condannata in Belgio in un procedimento in assenza per gravi reati: tratta di esseri umani e agevolazione dell’immigrazione clandestina. Il giudice belga ha emesso un Mae nei suoi confronti ai fini dell’esecuzione di una pena superiore a 5 anni. La donna venne successivamente arrestata in Italia, quando era incinta e accompagnata dal figlio di quasi tre anni. Il giudice italiano incaricato dell’esecuzione del mandato non avendo ottenuto, da parte del giudice belga, informazioni relative alle modalità di esecuzione in Belgio di pene a carico di madri conviventi con figli minorenni, ha rifiutato la consegna. La Corte di cassazione italiana chiamata a risolvere la questione della legittimità o meno del rifiuto ha rinviato alla Corte Ue la questione interpretativa: se e a quali condizioni, il giudice italiano possa rifiutare l’esecuzione del Mae in una simile ipotesi. Facendo, in particolare, rilevare che una tale situazione non è espressamente indicata nella decisione quadro sul Mae fra i motivi che ne giustificano la mancata esecuzione. Il principio di reciproca fiducia - La Corte di giustizia risponde che il giudice non può rifiutarsi di dare esecuzione a un Mae per il solo motivo che la persona ricercata sia madre di minori in tenera età con lei conviventi. Tenuto conto del principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, sussiste, infatti, una presunzione secondo la quale le condizioni di detenzione di una madre di minori in tenera età nello Stato membro emittente siano adeguate a una situazione di questo tipo. Quindi il giudice non può, di regola, rifiutare l’esecuzione in base a tale unica circostanza, ma in via eccezionale può farlo se ricorrono due condizioni: 1) un rischio concreto di violazione del diritto fondamentale della madre al rispetto della sua vita privata e familiare e dell’interesse superiore dei figli minori, fondato su carenze sistemiche o generalizzate in ordine alle condizioni di detenzione di madri di minori in tenera età e di cura di tali minori nello Stato membro emittente; 2) motivi seri e comprovati di ritenere che nella specifica situazione personale gli interessati corrano il suddetto rischio. Caserta. Detenuto si suicida nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Il Mattino, 22 dicembre 2023 Nella giornata di ieri un detenuto ucraino di 51 anni, sposato con figli, si è impiccato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a Caserta. Era accusato di omicidio. Il giorno prima aveva partecipato ad un’udienza. È il terzo suicidio nel 2023 nello stesso istituto. “I motivi per cui i detenuti si suicidano afferma il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello sono tanti. Come nel caso di questo detenuto ucraino di 51 anni, svolgeva regolari colloqui con i figli. È un caso silente, non aveva mai mostrato nessun segnale critico. Pochi giorni fa aveva effettuato una visita specialistica e anche in quel momento non aveva fatto trasparire nulla. Probabilmente è stata qualche brutta notizia ricevuta rispetto alla sua situazione giudiziaria. Rispetto alle morti in carcere, ai tentativi di suicidio e ai casi di autolesionismo o agli scioperi di fame e sete, bisogna fermarsi e fare un lavoro insieme. Il carcere non va rimosso, ma negli istituti di pena ci devono essere più figure di ascolto, più assistenti sociali, psicologi, psichiatri ed educatori e proprio questi ultimi devono essere ancora più in contatto con i detenuti. Si deve creare una rete maggiore di ascolto, perché se parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte. La politica soprattutto per il carcere visto il sovraffollamento deve mettere in campo risposte concrete, non populistiche né mediatiche ma risposte di senso”. Milano. La storia di Cosma Palma, detenuto malato a Opera di Andrea Aversa L’Unità, 22 dicembre 2023 Ha 48 anni ed è affetto da diverse patologie. Nelle lettere alla sorella Paola la sua sofferenza. Ha sporto denuncia per trattamenti degradanti e disumani. La perizia medica di parte ha evidenziato la sua incompatibilità con il regime carcerario. Invece, per i sanitari del penitenziario milanese e per il magistrato di sorveglianza, può restare in cella. In una delle lettere inviate alla sorella Paola che l’Unità ha potuto leggere, Cosma Palma ha espresso tutta la sua insofferenza. Anzi la sua sofferenza. Sofferenza per le proprie condizioni di salute che si starebbero aggravando a causa di una condizione carceraria non adeguata al suo stato di salute. Nato nel 1975 a Salerno, Palma ha fatto il suo ingresso nel penitenziario di Secondigliano (Napoli) nel 2015. In totale, per le accuse di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti, lesioni ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, deve scontare una pena detentiva pari a 24 anni. Se tutto filerà liscio, il 45enne riabbraccerà la familiare nel 2039. Nel frattempo, è stato trasferito nel carcere di Sulmona e in seguito in quello di Opera a Milano. Nella struttura penitenziaria lombarda, Palma dovrebbe ricevere tutta l’assistenza sanitaria necessaria. La storia di Cosma Palma detenuto malato a Opera - Ma secondo il detenuto e la sua famiglia non è così. Lo scorso mese di luglio, Palma ha sporto denuncia presso la Procura delle Repubblica segnalando le sue condizioni di salute e di detenzione. Nell’atto che abbiamo potuto leggere, il 45enne ha descritto le condizioni nelle quali sta vivendo. Al di là delle sue patologie che ne stanno compromettendo la permanenza dietro le sbarre, Palma ha spiegato che è persino incapace di andare in bagno a causa degli spazi angusti. Egli, infatti, è affetto da obesità, pesa 126 chili ed è costretto a fare i suoi bisogni in un secchio, in cella. Tale situazione, a detta sua e della sua famiglia, sta facendo precipitare anche la propria stabilità psicologica. Cosma Palma: chi è il detenuto malato di Opera - In passato Palma ha compiuto gesti autolesionisti dovuti alla rabbia. Azioni che gli hanno causato la frattura di una mano e una lesione della fronte. L’avvocato difensore Mauro Porcelli lo scorso mese si è visto respingere l’istanza di scarcerazione nella quale chiedeva per Palma la possibilità di scontare la pena in modo alternativo (nello specifico al regime degli arresti domiciliari). Una prima istanza è stata presentata il mese precedente, ad ottobre. Ma il tribunale aveva rinviato la decisione per due motivi: il primo, era necessario attendere il parere dei medici di Opera; il secondo, bisognava verificare eventuali pericolosità sociale e domicilio del detenuto. Cosma Palma: la denuncia e l’appello della sorella - Pareri che divergono dalla perizia sanitaria eseguita dai sanitari di parte. Secondo questi ultimi Palma soffre di patologie polmonari e respiratorie, è affetto da cardiopatia, ipertensione, ansia, claustrofobia, diabete e arterite venosa. Per i medici il 45enne avrebbe bisogno di cure specifiche, di un’alimentazione ad hoc e di svolgere attività fisica. Tutte necessità difficilmente soddisfabili in un carcere. Ma per i periti di Opera non è così, anzi, sarebbe stato lo stesso Palma a causare il peggioramento delle proprie condizioni di salute, facendo lo sciopero della fame e decidendo di sottrarsi alle terapie prescritte. La sorella Paola ha lanciato un appello: “Mio fratello non sta bene, è giusto che paghi e che sconti la sua pena. Ma non deve morire in un penitenziario”. Cuneo. “Nel carcere gli agenti ci pestavano come fossimo animali” di Elisa Sola La Repubblica, 22 dicembre 2023 “Pensavamo che fosse tutto risolto quando hanno portato via dalla cella il compagno che stava male. Stavamo per andare a dormire. Dopo 15 minuti sono arrivati in 25. L’ispettore ha aperto senza bussare. Ha detto: “Buonasera”. Hanno picchiato prima quelli che erano di fronte alla porta. Poi gli altri. Ci picchiavano come animali. Uno, mentre lo faceva, diceva: Guardami negli occhi”. Comunque andrà l’indagine e in qualunque modo finirà il processo, i racconti dei detenuti che avrebbero subito le presunte torture nel carcere di Cuneo sono un pugno nello stomaco. Centotrenta pagine di verbali. Parole cristallizzate con l’incidente probatorio, perché potrebbero passare mesi prima di arrivare davanti a un tribunale. E i detenuti che hanno denunciato di avere subito violenze potrebbero, nel frattempo, dimenticare i dettagli di una notte - quella del 20 giugno scorso - che sembra un film diviso in sequenze. Prima il pestaggio nella cella 416, che prosegue sulle scale. Dopo la scena dell’infermeria, dove nessuno sarebbe stato curato, ma le violenze sarebbero continuate. Infine, l’isolamento. La parte finale. Con i detenuti chiusi per ore dentro a “una cella liscia”, senza acqua né cibo. Feriti, pieni di lividi. In mutande e ciabatte. In lacrime senza lenzuola, stipati in tre su un materasso. I carcerati sentiti come testimoni nei giorni scorsi davanti al gip hanno risposto alle domande del pm Mario Pesucci (era presente anche il procuratore Onelio Dodero) e dei legali degli agenti della polizia penitenziaria indagati, per ora 27. La procura non indaga solo sulla notte del 20 giugno ma su una serie di altri episodi, che nel complesso costituirebbero il reato di tortura. Lo stesso contestato dalle procure di Ivrea, Biella e Torino. “È ancora tutto da accertare e dimensionare, nella portata effettiva di quello che è stato denunciato”, ricorda l’avvocato Alessandro Ferrero, difensore di due poliziotti di Cuneo. E aggiunge: “Siamo in una fase iniziale, l’indagine è aperta. La cautela è la guida principale che deve ispirare il lavoro di tutti. I miei assistiti si dichiarano del tutto estranei ai fatti contestati”. Sono le 21.30 del 20 giugno quando nel corridoio della cella numero 416 inizia una protesta. I detenuti sbattono cucchiaini e caffettiere contro le sbarre. Fanno rumore perché uno di loro sta male da due giorni ma nessuno lo visita. Ha raccontato, davanti alla giudice, un testimone: “È arrivato un poliziotto e ha detto: “Che problemi avete? Continuate pure a fare rumore, tanto non arriva nessuno a visitarlo”. Dopo dieci minuti un agente lo ha portato via. È passato ancora del tempo. Sono entrate 20, 25 guardie e hanno iniziato a picchiare. Alcuni avevano l’uniforme, altri no. Uno aveva i guanti neri. Un altro gli occhiali da sole”. Ha detto un altro carcerato: “Hanno continuato a picchiare anche fuori dalla cella. Per le scale hanno schiantato la testa di uno contro il muro. Nell’infermeria ci hanno presi a calci e pugni. Un poliziotto ci picchiava con la sedia, ma un altro lo ha fermato. Dicevano: “Adesso parla italiano, che sai parlare, lo so che parli l’italiano”. Le vittime sono immigrate. “Pakistani di m...”, si sarebbero sentite dire. A un altro carcerato, un poliziotto avrebbe detto: “Se domani non ti tagli barba e baffi ti pesto di nuovo”. Le violenze di gruppo, così le descrivono i testi, sarebbero proseguite anche all’interno dell’infermeria. “Dopo che i poliziotti hanno finito di picchiarci hanno chiesto a chi era per terra se stava bene. Anche il medico lo ha domandato. Eravamo tutti impauriti, abbiamo detto di sì. Poi ci hanno portati via in una stanza, in isolamento. Abbiamo passato tutta la notte senza acqua e cibo. Ci hanno liberati verso le quattro di sera del giorno dopo. Per due o tre giorni non ci hanno fatti cambiare. C’è chi è andato al pronto soccorso solo al quarto giorno, dopo avere visto l’avvocato”. Molti non hanno nemmeno provato a chiedere aiuto. “Non ho chiesto di essere visitato perché avevo paura che mi avrebbero picchiato di nuovo”, è la testimonianza di un altro detenuto, che ricorda: “C’era anche chi guardava e non picchiava. Una guardia ai suoi colleghi diceva: Voi fate quello che volete. Io non so niente”. Sarebbe stato lo stesso agente che nel dare il via ai pestaggi avrebbe detto “buonasera”, a stabilirne la fine. “Eravamo in fila, seduti a terra, fuori dall’infermeria. Dopo che hanno picchiato, dentro, l’ultimo di noi, il poliziotto ha detto: “Ragazzi, adesso basta”. E a noi: “Alzatevi”. Volevo dire al medico che avevo male dappertutto. Ma la guardia ha detto: “No, sei a posto”. Sono uscito perché avevo paura. In isolamento ero in mutande e piangevo. Non c’era acqua nemmeno nello sciaquone del water. La mattina dopo è arrivata una guardia che ci ha detto: “Buongiorno ragazzi, adesso state bene?”. Vasto. Suicidio Trotta, la pm chiede l’assoluzione per la direttrice Giuseppina Ruggero Il Centro, 22 dicembre 2023 Assoluzione per la direttrice del carcere di Vasto Giuseppina Ruggero. Lo ha chiesto la pubblica accusa rappresentata dalla pm Silvia Di Nunzio nell’udienza tenutasi oggi davanti al Gup del tribunale di Vasto, Fabrizio Pasquale, per il caso del suicidio di Sabatino Trotta, dirigente medico della Asl di Pescara, avvenuto il 7 aprile del 2021 dopo il suo arresto. Il pm chiede l’assoluzione per la direttrice perché il fatto non sussiste e il rinvio a giudizio dell’assistente capo coordinatore in servizio della polizia penitenziaria e addetto alla sorveglianza dei detenuti, Antonio Caiazza. Trotta era stato arrestato per l’inchiesta della Procura di Pescara su una gara da oltre 11 milioni di euro indetta dalla Asl per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra-ospedaliere. Agli imputati sono contestati l’omicidio colposo e la violazione dell’articolo 40 del codice penale “cagionava o comunque non impediva il decesso di Sabatino Trotta” e di norme in materia di prevenzione di suicidi oltre che di sorveglianza dei detenuti nella sezione in cui si trovava Trotta. Il dirigente Asl si impiccò con il laccio dei pantaloni della tuta legandolo al gancio di apertura della finestra. Ai ciascuno degli imputati vengono contestate sia colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, sia la colpa specifica consistita nella violazione delle norme che disciplinano l’accoglienza e il sostegno dei detenuti negli istituti penitenziari nel caso della Ruggero, e per Caiazza nella violazione delle norme che disciplinano le mansioni degli addetti alla sorveglianza dei detenuti e l’accoglienza e sostegno ai detenuti nuovi giunti negli istituti penitenziari. Il giudice ha rinviato l’udienza al 18 gennaio 2024. Nei confronti della Ruggero si procede con il rito abbreviato, con il rito ordinario nei confronti di Caiazza. Modena. Detenuto morto in carcere: “Indagini non sufficienti, andremo a Strasburgo” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 22 dicembre 2023 Gli avvocati dei parenti di Couchane, deceduto nel 2020 durante la rivolta al Sant’Anna: “Per il governo non ci furono negligenze, abbiamo già presentato ricorso alla Corte europea”.. Secondo il Governo non ci furono negligenze e non si sarebbe potuto fare di più in una situazione emergenziale come quella: Chouchane morì perché partecipò alla rivolta, rubando e assumendo volontariamente il metadone. Non la pensano così i parenti della vittima che, attraverso i propri legali, hanno “replicato” al Governo. Nei giorni scorsi, il 18 dicembre infatti gli avvocati Prof. Barbara Randazzo e Luca Sebastiani, che rappresentano la famiglia, ovvero padre e fratello di Hafed Chouchane, uno dei detenuti morti durante la nota rivolta nel carcere di Modena l’8 marzo 2020, hanno depositato dinanzi alla Corte di Strasburgo la memoria di replica alle osservazioni del Governo italiano. I legali hanno contestato la ‘sommaria e superficiale ricostruzione dei fatti’ e l’invocazione del principio giurisprudenziale del cosiddetto “rischio eccentrico”, che riterrebbe lo Stato esente da responsabilità allorché la vittima si sia volontariamente messa in situazione di pericolo. Secondo la difesa infatti il Governo italiano, “appiattito sulle risultanze processuali interne, si era limitato a eccepire l’inammissibilità del ricorso per tardività e per mancato previo esaurimento dei rimedi interni, senza rispondere alle domande formulate dalla Corte sul merito delle violazioni a diversi articoli della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”. Il Governo era chiamato a rispondere proprio ai quesiti posti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che aveva ritenuto ammissibile il ricorso presentato dai legali circa le suddette presunte doglianze. Nel ricorso in questione presentato alla Corte Europea gli avvocati avevano fatto presente come il giorno della rivolta mancò la protezione dei soggetti fragili da parte dello Stato ma così non fu per il Governo: da qui la presentazione delle repliche attraverso le quali gli avvocati chiedono di riconoscere la violazione degli articoli 2, 3 e 13 della Convenzione. “La decisione non ha preso in considerazione i numerosi elementi contraddittori emersi nel corso delle indagini, quali l’orario e luogo in cui il signor Chouchane è stato messo a disposizione delle autorità - spiegano gli avvocati nella replica. In particolare il comandante, in una prima versione, avrebbe spiegato che intorno alle 19.30, durante la rivolta dei detenuti, alcuni di questi non identificati trasportavano Chouchane al vialetto interno del cancello centrale della struttura poiché non stava bene, lasciandolo a terra: trasportato all’Unità Sanitaria Mobile del 118, se ne sarebbe accertato il decesso per arresto respiratorio. In un’altra nota, invece, lo stesso comandante avrebbe affermato che “il corpo del detenuto è stato lasciato da altri detenuti al piano terra della scala riservata al personale della Polizia Penitenziaria. Nonostante incontrasse difficoltà dovute al continuo lancio di oggetti dalla stessa scala, il personale ha recuperato il detenuto e, con l’ausilio di una barella, trasportato l’individuo fuori dall’istituto, mettendolo a disposizione dei sanitari”. Le indagini insomma, secondo la difesa non avrebbero fatto luce sui fatti. Torino. Emergenza psicologi nelle carceri: alle Vallette in 4 per 1.400 detenuti torinoggi.it, 22 dicembre 2023 Il Comune di Torino incalza il Governo chiedendo un aumento di stipendio per i professionisti che lavorano con i detenuti. Ci sono pochi psicologi e stipendi troppo bassi per chi lavora nelle carceri. Questa è la preoccupazione del Comune di Torino, che deve fare i conti con soli 4 psicologi per i circa 1400 detenuti (oltre al centinaio di donne del reparto femminile) reclusi alle Vallette. Questi professionisti, poi, ricevo una retribuzione oraria di 17,98 euro lordi contro i 40 euro pagati per gli psicologi che lavorano negli istituti scolastici. Ed allora l’Amministrazione cerca di incalzare il Governo per arrivare a trovare una soluzione al problema: “La detenzione non deve essere solo punitiva ma offrire anche una possibilità di rieducazione per il soggetto - ha spiegato il consigliere del PD Amalia Santiangeli -Bisogna offrire ai detenuti un supporto sociosanitario adeguato che oggi manca. Chiediamo che il sindaco solleciti il governo a sostenere queste figure professionali”. “I margini purtroppo sono abbastanza ristretti, chi ha le competenze sappiamo che non ha l’interesse di garantire questi diritti ai detenuti - ha dichiarato il consigliere di Sinistra Ecologista Sara Diena - resta il problema di chi ancora vede le carceri come luoghi di serie B”. Non solo nelle carceri, ma anche nelle scuole e negli ospedali si fa fatica a trovare psicologi. Tra i banchi del Municipio c’è chi sottolinea questo aspetto ricordando di non lasciare indietro nessuno: “Secondo me bisognerebbe agire a livello più ampio, con un ordine del giorno che inviti fortemente il governo a potenziare il supporto psicologico in tutte le classi, nei quartieri, nelle scuole - ha detto il consigliere di Torino Bellissima Piero Abruzzese - Quindi preferirei non limitare questa richiesta solo all’ambito carcerario”. Deliberato l’atto, ora la città si spetta di avere maggiore supporto da Roma. Arezzo. Il paradosso del carcere: è agibile solo una cella su tre a causa delle porte troppo strette di Gaia Papi La Nazione, 22 dicembre 2023 “Lavori da fine 2024”. Cambio della guardia alla guida di San Benedetto tra Renna e Monacelli. Il giovanissimo direttore dovrà subito affrontare l’annoso problema. dell’ala inutilizzabile: “Così tutto il sistema toscano va in sofferenza”. Dopo cinque anni il direttore reggente della casa circondariale aretina, Giuseppe Renna lascia il suo posto ad un giovane direttore, Alessandro Monacelli classe 1992 fresco fresco di concorso. Gli lascia in eredità un istituto con troppee crepe che di certo non dipendono da lui. Renna, quali sono i problemi più attuali del carcere di San Benedetto? “Sicuramente quelli strutturali. Circa una decina di anni fa hanno ristrutturato le celle dimenticandosi di adeguare le porte. Troppo strette, non a norma. Col risultato che un’intera ala della struttura non è in regola, capienza ridotta da 104 posti potenziali ad appena 42. Un effetto a catena per l’intero sistema carcerario toscano, perché, come è ovvio, i detenuti che non possono essere ospitati a San Benedetto devono essere smistati in altre carceri”. A che punto sono i lavori? “È stato effettuato un intervento tecnico per valutare la tenuta della struttura, che risale al 1935. A breve arriveranno i risultati, ma già si parla di fattibilità. Quindi entro il prossimo anno verrà presentato il progetto, a cui seguirà una valutazione economica e il bando di gara non prima della fine del 2024. I lavori poi dovrebbero durare un annetto, quindi a fine 2025 la zona problematica sarà ristrutturata”. Altro problema, che riguarda anche il carcere aretino, l’organico... “Il San Benedetto è il carcere con la maggiore carenza di personale in Toscana. La copertura è del 33%, sono circa una trentina gli operatori. L’impegno a cui sono sottoposti è gravoso. In più manca un comandante, dividendosi di fatto con altre realtà. Figura che oltre a garantire sicurezza è necessario per l’organizzazione”. Impegno gravoso, ci spieghi meglio... “Gli agenti sono costretti a turni pesanti, dalle sei ore previste, quasi regolarmente vanno oltre le nove. Con serie difficoltà nell’organizzazione dei servizi. Questa è una delle maggiori criticità. La carenza di personale poi riguarda tutti i ruoli. Abbiamo un’area contabile sguarnita, stesso discorso, a breve, per quella trattamentale. In più il nostro personale è il più anziano in Italia”. Punti di forza? “All’interno si è creato un bel gruppo, uno dei migliori istituti in Toscana, in cui il detenuto è gestito bene. Tempo fa uno di loro mi disse: direttore lei qui non si deve preoccupare delle evasioni, ma delle persone che vorrebbero entrare”. Caratteristica riconosciuta anche dal nuovo direttore... “Le dimensioni, e non solo, dell’istituto facilitano il rapporto tra personale e detenuto. Qui tra i due c’è un rapporto vero. I poliziotti sono di esperienza e sanno perfettamente come gestire, anche i conflitti. Il detenuto qui è inserito in una comunità e i suoi rapporti non vengono censurati. Valore importante per la crescita dell’uomo”. E per quanto riguarda la carenza di organico, cosa ci dice? “Forse nei primi mesi del prossimo anno ci sarà un concorso per nuove forze, ma quelle che arriveranno non colmeranno totalmente la carenza. Saranno due o tre poliziotti. Ma già sarebbe una boccata di ossigeno. L’organico si sta dimostrando in grado di affrontare il duro compito, ma non si può chiedere oltre per la sicurezza e per l’organizzazione delle attività Questo perché il carcere non deve essere un parcheggio, le attività sono centrali nella formazione, ma servono risorse”. Progetti? “Proseguirò il percorso del direttore Renna. Una continuità con i suoi numerosi progetti volti alla cultura, alla formazione. Vorremo migliorare il servizio bibliotecario, e magari riuscire nell’unico sogno nel cassetto che Renna non è riuscito a realizzare: una scuola di antiquariato per valorizzare le nostre origini”. Trento. Pizzeria in carcere per reinserire i detenuti di Tiziano Grottolo Corriere del Trentino, 22 dicembre 2023 L’idea lanciata dal procuratore Raimondi: “Per questo importante progetto c’è il mio impegno personale”. Anche al tribunale di Trento è tempo di auguri, ieri le autorità si sono ritrovate per un momento convivale, condiviso con il personale della Procura. Lo speciale buffet offerto per l’occasione è stato preparato da degli chef d’eccezione, cioè i detenuti della casa circondariale di Spini di Gardolo. Alcuni carcerati infatti seguono dei corsi di cucina ad hoc, pensati per aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. “Con alcuni detenuti è più complesso ma con il tempo riescono a capire che c’è l’esigenza di creare sinergia”, spiega Gianni Brighenti, il docente dell’istituto Alberghiero di Levico Terme che tiene i corsi in carcere. “Ci sono degli allievi che ricordo in modo particolare, uno dei più bravi quando si presentò mi disse: “Sono venuto qui per imparare, appena uscirò dovrò accudire i miei genitori”, racconta Brighenti. D’altra parte come riporta la comandante di polizia penitenziaria, Ilaria Lomartire, i corsi di pizzeria organizzati nell’istituto penitenziario “sono stati accolti con entusiasmo e impegno, la professione in cucina vuole disciplina e il professore è un eccellente docente, molto esigente e zelante”. L’idea per il futuro è quella di potenziare ulteriormente questi corsi. “Il sogno - dichiara il procuratore capo Sandro Raimondi - è quello di realizzare una pizzeria all’interno del carcere”. Secondo il procuratore il locale potrebbe essere aperto al pubblico, oppure, in alternativa, si potrebbe pensare a un servizio catering. Una sorta di Deliveroo per consegnare a domicilio le pizze sfornate dai detenuti. “C’è il mio impegno personale per questo importante progetto - ribadisce Raimondi - magari prevedendo il coinvolgimento dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale di Trento”. Come sottolinea il procuratore è proprio attraverso queste esperienze che si può puntare alla rieducazione dei detenuti. “Questi corsi formativi - conclude Raimondi - sono un percorso tra società civile e autorità giudiziaria, con l’obiettivo di reinserire i carcerati nel mondo del lavoro togliendoli alla criminalità”. Quello della pizzeria è un progetto condiviso anche dalla direttrice del carcere, Anna Rita Nuzzaci: “Con l’aiuto della Caritas ci siamo già organizzati per far assaggiare quanto preparato dai detenuti alle mense dei poveri e ai dormitori”. Piacenza. Genitori detenuti e figli: la sfida di raccontarsi di Fulvio Fulvi Avvenire, 22 dicembre 2023 L’avventura letteraria e umana del “Laboratorio di scrittura autobiografica” nell’istituto emiliano: un modo per far uscire dalle mura emozioni e sentimenti iniziando un percorso di recupero. Togliersi un peso significa stare meglio. E se a farlo sono i detenuti scrivendo ciò che per timore o vergogna avrebbero voluto tenere nelle segrete dell’anima, l’effetto catartico è evidente. Il progetto si chiama “Genitori comunque” e da tre anni coinvolge alcuni reclusi della Casa circondariale delle Novate di Piacenza: chi vuole racconta, scrivendola, la propria esperienza di padre e di figlio condividendo il testo con i compagni e gli educatori del gruppo. Un modo per “liberarsi dentro” oltre che per imparare l’italiano, visto che più dei due terzi dei circa 400 ristretti qui sono stranieri. L’avventura letteraria e umana del “Laboratorio di scrittura autobiografica” nel carcere emiliano è iniziata nel 2020, quando la pandemia ancora costringeva a portare la mascherina: nel nuovo padiglione del penitenziario, dentro uno stanzone con le pareti bianche e gialle e le finestre aperte per far entrare il sole di primavera, si ritrovarono sei persone recluse e due conduttori esterni che, stimolati da brani di poeti, narratori e cantautori del nostro tempo, dalla Szymborska a McCormack, da Alda Merini a Lucio Dalla, misero nero su bianco pezzi della propria vita familiare quasi sempre lacerata e sofferta, spesso combattuta o dimenticata: dieci minuti, e non di più, con una penna in mano e un foglio sul tavolo, in un silenzio assoluto, assai raro in un carcere dove si urla e risuonano rumori di chiavistelli e ferri che sbattono. Il lavoro, portato avanti dall’associazione “Verso Itaca-Itinerari di giustizia” con la collaborazione dell’Azienda municipalizzata che gestisce i servizi sociali (attraverso l’impegno diretto, anche come volontario, del dirigente Brunello Buonocore) è proseguito per altri sei pomeriggi e si è ripetuto con successo negli anni seguenti. La direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, ci ha creduto sin dall’inizio e l’ha consentita e sostenuta, aprendo il portone dell’istituto di pena a scuole e realtà sociali per farla conoscere alla comunità cittadina. Alcuni brevi testi, vere confessioni a cuore aperto, sono stati pubblicati in tre quaderni, uno per ogni anno di esperienza: un altro modo per fare uscire dalle mura delle Novate emozioni e stati d’animo che i “liberi” spesso ignorano o faticano a capire. C’è il dolore dei figli offesi e mortificati come Pietro C.: “Ho avuto un’infanzia difficile, mio padre maltrattava mia madre: quando beveva diventava violento anche con me e i miei tre fratelli. Non ci ha mai fatto mancare nulla, ci manteneva in tutto per tutto, ma lo faceva a modo suo, con violenze, insulti, botte. Mi è mancato il suo amore”. C’è il pentimento e la voglia di riscatto di padri egoisti come Roberto D.: “Con uno dei miei due figli, che oggi ha 19 anni, da quando ne aveva due non mi sono mai fatto sentire. Pensavo solo a bere, ai soldi, ai locali notturni. E me ne vergogno. Mi sento un papà fallito ma adesso voglio rimediare”. Ma ci sono anche l’orgoglio e la tenerezza di Toni M.: “Mio figlio è nato che io ero dentro da una settimana ma quando mia moglie mi viene a trovare, con lui in braccio che mi chiama papà, mi vengono i brividi”. Padri indifferenti e figli feriti, come racconta Giovanni: “Mio padre, nota dolente della mia infanzia. Un ricordo di lui ce l’ho: sul divano mentre dorme dalle 15.30 alle 18. Dopo di che il nulla, praticamente non c’era mai. Passano gli anni, divento un giovanotto della Versilia by night. Incomincio a capire chi era quest’uomo dal quale non avrei dovuto prendere esempio, semmai distanza”. “Per i detenuti la scrittura autobiografica - spiega Carla Chiappini, anima e motore di questo e di altri progetti che ha portato anche nelle carceri di Parma, Verona, Milano Opera, Catanzaro e Palermo Ucciardone - è un incontro finalmente libero da maschere, paure, calcoli e ritrosie, suscita dubbi e domande. Ma è un lavoro da fare tutti insieme, non rinchiusi in cella e con l’apporto di persone esterne: l’obiettivo immediato è quello di mettere in comune le singole esperienze”. A Piacenza, in questo contesto, si è affrontato anche il tema “le mie radici sono”: “L’ascolto è fondamentale, ma ci vuole tempo per ottenere la reciproca fiducia - sostiene Chiappini - e infatti strada facendo il gruppo si assottiglia, c’è chi lascia perché non se la sente e chi rimane capisce che scrivere è un modo per avere cura di sé e scoprire qualcosa che non era ancora venuto fuori, percepisce questa attività come un bisogno”. Si scrive nel dolore, si raccolgono lacrime. “Ma si riflette anche - aggiunge - però guai a giudicare o interpretare, bisogna ascoltare e basta e farsi venire i dubbi, se necessario: lo scritto è sacro”. Poi racconta il caso di un detenuto del carcere di alta sicurezza di Catanzaro che dopo tre incontri in cui ha lasciato il foglio in bianco, preso dallo sconforto è andato in cella e ha scritto una lettera al figlio morto in una rapina: “Avrei voluto essere una persona diversa, non un modello per te. Finalmente posso dirti queste cose senza far finta, mi sono liberato di un peso”. Spesso i pensieri messi sulla carta vengono letti dai detenuti ai loro familiari e con essi discussi. E i benefici dietro le sbarre si vedono. “Ma nessun miracolo - precisa Chiappini si tratta sempre di storie complesse che possono diventare però un passaggio importante del percorso di rieducazione: noi non facciamo altro che dissodare un terreno per renderlo fertile”. Chi partecipa una prima volta al laboratorio poi chiede di tornare. “Significa che qualcosa nel loro cuore si è smosso, ma spesso non c’è il tempo per continuare perché nelle case circondariali come Piacenza, i detenuti entrano ed escono in continuazione”. Insomma, scrivere la propria biografia non è intrattenimento e nemmeno uno dei tanti modi per far passare l’interminabile tempo dietro le sbarre. “Sono da considerarsi alla stregua dei corsi di formazione - dice Chiappini - si tratta di incontri umani autentici, una sfida per tutti”. Parma. Quei cori liberatori dietro le sbarre di Sandro Cappelletto Avvenire, 22 dicembre 2023 Parla Gabriella Corsaro, la direttrice del Coro maschile del carcere di Parma: 20 elementi che fanno parte di un progetto di inclusione che ha avviato la collaborazione con il Teatro Regio. Alla fine di ogni nostro incontro, sento di avere vissuto tre ore di felicità; di aver fatto, in semplicità, una cosa bella. Ai miei coristi piace venire considerati anzitutto come persone. La nostra evasione si chiama bellezza”. Gabriella Corsaro è la direttrice del Coro maschile attivo nelle sezioni di alta e media sicurezza del Carcere di Parma. L’attività corale è una realtà diffusa in numerose carceri italiane: il Coro Papageno della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna è stato avviato nel 2011 per volontà del maestro Claudio Abbado. Quale è stata la principale difficoltà, all’avvio del progetto? Oltre alle difficoltà logistiche e di orario, che sono state risolte con la collaborazione della direzione del carcere e della polizia penitenziaria, per persuadere i detenuti a partecipare è stato decisivo dare loro l’impressione che il progetto non è effimero. Che dura nel tempo ed è finalizzato ad appuntamenti precisi. Solo il Covid ci aveva fermato, ora l’attività è ripresa. Come si è sviluppata la collaborazione con il Teatro Regio di Parma? Il teatro ha un suo codice etico, che dedica particolare attenzione al tema dell’inclusione. Prepariamo le parti corali delle opere che figurano nel cartellone del teatro e l’aspetto performativo consiste in questo: nell’auditorium del carcere viene allestito uno spettacolo con la presenza di un attore che racconta la vicenda di quell’opera con i necessari raccordi narrativi. Noi interveniamo con il nostro coro - formato attualmente da circa 20 elementi - al quale si aggiungono dei coristi professionisti. L’impegno di questi giorni è per Il barbiere di Siviglia, che debutterà il 12 gennaio. Alcuni dei nostri coristi, in regime di semilibertà, assistono anche alle rappresentazioni del teatro. Lei, Gabriella Corsaro, ha dovuto superare anche una personale difficoltà emotiva… Sono familiare di una vittima innocente di mafia. La mafia uccise un mio zio, aveva 46 anni e tre figli. Nel carcere di Parma non mancano i detenuti colpevoli di delitti di mafia. Accettare questa realtà ha significato per la mia famiglia compiere un percorso doloroso, ma fertile. Quanti detenuti conoscono o sanno leggere la musica? Quasi nessuno. È un coro dove sono presenti diverse etnie, alcuni carcerati sono analfabeti o provengono da nazioni che non adottano il nostro sistema di notazione musicale. Imparano ad orecchio. In genere, il livello di informazione culturale è molto semplice e dunque coinvolgerli nella trama di un’opera, comprendere le parole del libretto, approfondire i caratteri dei diversi personaggi, è una sfida professionale altissima. Non bisogna mai dare l’impressione che il risultato musicale a cui si tende sia per loro inarrivabile. Come si regola per correggere i loro errori, mentre cantano? In un coro normale l’errore spesso si supera con una battuta, ma per questo coro sbagliare è un problema delicato. L’ego di ciascuno può essere ferito e questa ferita riflettersi nelle loro relazioni. Lo sbaglio non deve diventare uno stigma. A volte cantando la faccia e la bocca assumono delle posizioni che possono apparire buffe, ridicole. Anche questo è un punto da sciogliere, ai detenuti non piace apparire ridicoli. È difficile mantenere la disciplina professionale richiesta a un coro? I detenuti condannati a pene molto lunghe, che hanno interiorizzato la disciplina del carcere, sono del tutto professionali. In chi deve scontare pene più brevi, prevale a volte un’attitudine frizzante. Ma il risultato si raggiunge sempre. Guardare negli occhi e avere pazienza è la regola che vale per tutti i cori. Cantare, e insegnare a cantare, spesso comporta un approccio fisico, per migliorare la postura, per insegnare la corretta respirazione. Come risolve questo aspetto? Ogni volta chiedo: “Mi autorizzi a toccarti?”. Quando tocca a me di venire toccata, ad esempio per far capire la corretta posizione del diaframma, lo fanno come se fossi di cristallo. Lettera di Natale. Vogliamo più sicurezza o più libertà? di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 22 dicembre 2023 Ci sentiamo sovraesposti alle crisi. Anche le immagini dei bimbi generano solo liti o rimozioni. Ma il nostro sguardo conta. Nelle immagini raccolte dai primi soccorritori israeliani, il 7 ottobre, i bambini uccisi dai terroristi di Hamas sono in pigiama. Stesi per terra, i volti pixellati, indossano per l’ultima volta la tutina con la faccia di Topolino sul petto o la camicia da notte estiva con le farfalle blu. Su ciascuno, un cerotto rosa per l’identificazione e la conta finale. Come per le ragazze stuprate, una parte consistente e robusta di mondo si è subito predisposta a rimuovere il massacro, compreso quello dei più deboli: non ha lasciato trascorrere neppure una giornata intera e ha cominciato a dubitare, soppesare, divagare tra contesti. Dei tanti video che da settimane raccontano la catastrofe di Gaza, travolta dall’invasione, ce n’è uno che sembrava poter calmare gli sguardi. Si vede una bimba palestinese, scalza: probabilmente si è disorientata durante la fuga dei civili spinti a forza verso Sud (qui il link al video sul sito di The Times of Israel), ha cercato un rifugio per la notte e ha finito per sdraiarsi davanti a una tenda dell’esercito israeliano, sul tappetino dai disegni arabeggianti. I soldati l’hanno trovata al risveglio, il filmato li mostra mentre le medicano e bendano i piedi insanguinati, scacciano via le mosche, provano a non spaventarla. Spaventosi sono i commenti sotto. Utenti israeliani: “A parti invertite, l’avrebbero ammazzata perché ebrea, come è successo nei kibbutz”. Utenti non israeliani: “Mostrateci la fine del video, nella scena successiva sicuramente le sparano”. Ci sentiamo forse tutti sovraesposti a crisi continue e senza soluzione: approdiamo a questo Natale così stanchi - sonnambuli attraverso paesaggi globali slabbrati - che neppure le storie dei piccoli riescono a sfilarci dai circuiti chiusi e prevedibili delle nostre reazioni. Risse o rimozioni, rimozioni e risse. Come avessimo sempre fretta di inveire attorno ai fatti oppure di svenire prima di dover ragionare. Ora l’obiezione è facile: ma se anche ci imponessimo di rallentare per osservare, ascoltare le voci, accostare le mappe, che cosa cambierebbe? In che modo, credenti o non credenti, potremmo santificare la vita, riconoscerne la sacralità in mezzo allo scompiglio rigeneratore e allo stupore di ogni nascita? Se anche ci fermassimo per una notte, noi, qui, quale mutamento potremmo mai indurre, quale breccia in muri cementati da decenni e secoli, da ideologie antiche come le torri dei fondamentalismi e giovani come il reticolo dei social network che avvolge le identità nel filo spinato? Il nostro sguardo non cambierà il mondo, certo, non spegnerà i roghi dell’odio o abbasserà la marea del dolore. Ma uno sguardo che prediliga la consapevolezza e l’empatia cambia, di sicuro, noi. E quindi, prima o poi, il mondo. Alla fine, la nostra esistenza prende - e riprende - forma riempiendosi delle persone e delle cose alle quali prestiamo attenzione. Tutto dipende dalla nostra libertà interiore, da quanto siamo disposti a rischiare rispetto alla tentazione di azzerare l’incertezza. Suggerisce Chandra Candiani, autrice e maestra di meditazione, ne Il silenzio è cosa viva: “Per essere nella presenza devo coltivare a lungo uno sguardo sull’io, anziché guardare tutto dai suoi occhi”. Invece di squadrare gli altri “fuori” muovendo dalla rabbia, dall’eccitazione o dalla tristezza, “guardo direttamente la rabbia, l’eccitazione e la tristezza”. Le guardo e riconosco: raccolgo i pezzi per ricomporli e tentare un senso. Consiglio d’Europa: l’Italia non garantisce alcuni diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2023 Poca attenzione sui diritti umani dei migranti, delle donne e sull’uguaglianze di genere, ma anche nei confronti della questione legata alla libertà di espressione a causa della mancata riforma volta a garantire che le cause legali non siano utilizzate come azioni intimidatorie nei confronti dei giornalisti. Tutto è aggravato dalla mancanza di una istituzione nazionale dedicata alla vigilanza sui diritti umani. È ciò che emerge dal rapporto del Consiglio d’Europa stilato a seguito della visita effettuata dalla delegazione guidata da Dunja Mijatovic, la Commissaria per i Diritti Umani. Asilo e migrazione - L’Italia si trova in prima linea nei movimenti migratori nel Mediterraneo centrale. La Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa riconosce le notevoli sfide di questa situazione e ha elogiato ripetutamente gli sforzi significativi compiuti dalle autorità italiane per salvare vite in mare. Sottolineando che porre fine alla tragedia umana in corso nel Mediterraneo è una responsabilità europea comune, la Commissaria denuncia che l’assenza di un’operazione europea di ricerca e soccorso non solleva l’Italia dai suoi obblighi secondo il diritto internazionale e marittimo. La Commissaria esorta le autorità italiane a garantire una capacità di ricerca e soccorso sufficiente ed adeguata per fornire assistenza tempestiva ed efficace alle persone in pericolo in mare, compresi rifugiati, richiedenti asilo e migranti in generale. Inoltre, invita le autorità a fare il massimo per stabilire percorsi sicuri e legali. La Commissaria richiama le autorità italiane a revocare politiche e pratiche che ostacolano le operazioni di ricerca e soccorso delle organizzazioni non governative (Ong) in mare. La criminalizzazione delle loro attività contrasta con gli obblighi dell’Italia secondo il diritto internazionale. In particolare, l’attuazione del Decreto- Legge n. 1/ 2023, insieme alla pratica di assegnare luoghi sicuri lontani, ostacola la fornitura di assistenza vitale da parte delle Ong nel Mediterraneo centrale. La cooperazione con altri paesi è legittima dal punto di vista delle politiche migratorie degli stati membri, ma alcune attività di cooperazione dell’Italia destano preoccupazione dal punto di vista dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda la cooperazione con la Libia e la Tunisia. Nonostante il numero elevato di arrivi via mare sia parte di un modello strutturale, la politica migratoria dell’Italia continua a concentrarsi su soluzioni basate sull’emergenza. La Commissaria raccomanda alle autorità di orientare gli sforzi verso il supporto del sistema di asilo e accoglienza, migliorare la preparazione e la pianificazione contingente anziché derogare, de jure e de facto, dagli standard. Diritti delle donne e uguaglianza di genere - Sebbene l’Italia abbia sviluppato notevolmente la sua legislazione nazionale e le politiche per la promozione dell’uguaglianza di genere e la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne, persiste una marcata discrepanza tra le garanzie che sono sulla carta e la situazione reale riguardo alle disuguaglianze e alla violenza di genere subite dalle donne e dalle ragazze. La Commissaria raccomanda alle autorità di affrontare prioritariamente le carenze sistemiche attraverso misure per ridurre le disparità tra le Regioni in termini di risultati di uguaglianza, eliminare gli ostacoli all’accesso all’aborto, combattere il sessismo e gli stereotipi discriminatori di genere a livello sociale e istituzionale, incluso tra le forze dell’ordine e il potere giudiziario, e affrontare la distribuzione geografica e la qualità disomogenea dei servizi di supporto alle donne vittime di violenza di genere, insieme alle carenze esistenti nei loro finanziamenti. La Commissaria raccomanda alle autorità di adottare misure per rafforzare l’attuazione della legislazione antidiscriminatoria, garantendo che le forme di discriminazione intersecanti siano affrontate adeguatamente nel sistema giuridico, e assicurare finanziamenti adeguati e stabili e un miglior coordinamento interistituzionale per l’attuazione delle strategie nazionali e dei piani d’azione per l’uguaglianza di genere e la lotta contro la violenza sulle donne. Sono necessari ulteriori sforzi per migliorare la situazione socioeconomica delle donne, con particolare attenzione alla rimozione degli ostacoli all’accesso al mercato del lavoro e per invertire il crescente divario salariale di genere. Il governo è inoltre sollecitato a garantire che l’accesso all’aborto e alla contraccezione non sia compromesso dal rifiuto dei medici nel fornire determinate forme di assistenza sanitaria per motivi di coscienza o dalle differenze nelle politiche regionali in questo settore. Ulteriori sforzi sono necessari per garantire il pieno rispetto dei diritti, della dignità e dell’autonomia delle donne nelle cure sanitarie materne, comprese quelle durante il parto. In generale, dovrebbe essere allocato un finanziamento pubblico sufficiente al sistema sanitario per garantire la disponibilità e l’accessibilità all’aborto o alla contraccezione per tutte le donne in tutta Italia. Le autorità dovrebbero migliorare anche la raccolta e l’analisi dei dati in questo settore e garantire la fornitura di un’educazione sessuale completa e obbligatoria. La Commissaria incoraggia le autorità a modificare la legislazione penale, inclusa l’adozione della nozione di consenso liberamente dato come base per i reati di violenza sessuale, compreso lo stupro. Invita le autorità a potenziare la formazione e la capacità tra il potere giudiziario e le forze dell’ordine al fine di migliorare il trattamento delle donne vittime di violenza di genere ed evitare la loro vittimizzazione secondaria. Infine, sottolinea l’importanza di rafforzare la cooperazione istituzionale con le Ong dei diritti delle donne e di riconoscere il loro ruolo cruciale a tutti i livelli di governance. Manca un’istituzione nazionale dei diritti umani - La Commissaria è allarmata dall’alto numero di attacchi e intimidazioni dirette contro giornalisti e operatori dei media in Italia. A tal proposito, esorta il governo e il Parlamento a intraprendere una riforma completa del quadro legale pertinente per decriminalizzare completamente la diffamazione e garantire che le cause legali non siano utilizzate come azioni intimidatorie. In relazione al quadro nazionale dei diritti umani, la Commissaria raccomanda alle autorità italiane di stabilire urgentemente un’istituzione nazionale per i diritti umani con un ampio mandato in linea con la Raccomandazione CM/ Rec(2021) del Comitato dei Ministri sulla sviluppo e il rafforzamento di istituzioni nazionali pluraliste e indipendenti per i diritti umani. Inoltre, esorta le autorità a allineare ulteriormente il quadro legislativo italiano agli standard del Consiglio d’Europa sulla lotta all’intolleranza e alla discriminazione contro le persone Lgbti, includendo l’orientamento sessuale, l’identità e l’espressione di genere e le caratteristiche sessuali nelle leggi esistenti contro la discriminazione, il discorso dell’odio e i crimini d’odio. Infine, prendendo nota degli sviluppi recenti che influenzano la registrazione dei certificati di nascita dei bambini nati attraverso la surrogata o seguendo tecnologie di riproduzione assistita all’estero, la Commissaria ricorda che in tutte le misure concernenti i bambini il miglior interesse del minore deve essere una considerazione primaria. Il sistema è impazzito. La crisi della psichiatria italiana di Andrea Casadio Il Domani, 22 dicembre 2023 Negli ospedali pubblici mancano psichiatri, psicologi e infermieri, e i pochi che ci sono sono sottopagati. I pazienti sono soprattutto giovani. Chi se lo può permettere ricovera i figli in una clinica privata convenzionata. La sanità italiana è in crisi, ma certi settori lo sono più di altri: quello messo peggio probabilmente è la psichiatria. Eppure una volta il sistema di cura psichiatrica italiano - universalistico e pubblico - veniva preso a modello da molti paesi del mondo. Avevamo approvato una legge - la 180 del 1978, chiamata legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia che l’aveva ispirata - che prima al mondo considerava il paziente psichiatrico non un pazzo ma una persona bisognosa di cure, con diritti e doveri uguali a quelli di ogni cittadino. La legge Basaglia ha fatto chiudere i manicomi, e i pazienti sono stati affidati alle cure della sanità pubblica. Chi soffriva di un disagio psichico poteva rivolgersi al centro di salute mentale del suo territorio, dove trovava psicologi, psichiatri, infermieri ed educatori che gli offrivano l’assistenza primaria e lo indirizzavano verso i servizi a lui più adeguati: le strutture semiresidenziali o le residenze terapeutiche e socio-riabilitative, oppure i day hospital e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, cioè i reparti di psichiatria degli ospedali. Il fine era nobile: il paziente psichiatrico deve restare in ospedale il minor tempo possibile perché non deve diventare un malato cronico, bisogna somministrargli la minor quantità di psicofarmaci possibile e favorire le terapie psico-sociali per permettere il suo progressivo reinserimento nella società. La psichiatria pubblica italiana ha raggiunto il suo apice nei primi anni 90, con capillari servizi sul territorio che hanno portato alla riduzione dei ricoveri ospedalieri. Poi, da quando nel 1992 sono state create le Asl - cioè le aziende sanitarie locali, che agivano da aziende e stavano attente alle spese - ed è stato introdotto il sistema delle cliniche private accreditate, equiparate a quelle pubbliche, è iniziato il suo lento declino. Negli ultimi quindici anni, poi, i governi che si sono succeduti hanno operato una serie di tagli impietosi che hanno sottratto al Ssn oltre 37 miliardi di euro, e le cose sono peggiorate a precipizio. Basta guardare i numeri: secondo il Dpr 1° novembre 1999, che approvava il progetto obiettivo “Tutela salute mentale 1998-2000”, per fare funzionare correttamente i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) italiani servirebbe un operatore ogni 1.500 abitanti, cioè 67 ogni 100.000. Invece, gli ultimi dati del ministero della Salute ci dicono che ora sono in servizio 28.807 operatori (57,4 per 100.000), di cui 25.754 dipendenti a tempo pieno, 1.789 part-time e 1.264 nel privato convenzionato. Rispetto allo standard fissato, ne mancano almeno 4.600. “Ma per funzionare bene, avremmo necessità di oltre il 40 per cento in più di forza lavoro”, afferma Fabrizio Starace, psichiatra, direttore del Dsm dell’Ausl di Modena. Poi, alla salute mentale spetterebbe il 5 per cento del fondo del Ssn, ma ne viene destinato solo il 2,9 per cento. Risultato: i Dsm, i day hospital e i reparti di psichiatria degli ospedali pubblici funzionano male perché mancano psichiatri, psicologi e infermieri, e quei pochi devono lavorare troppo e sono sottopagati. Ne risente ovviamente la qualità delle cure. Sempre più spesso le famiglie con un malato psichiatrico si lamentano che il peso dell’assistenza ricade quasi tutto sulle loro spalle, con conseguenze negative economiche e sociali. Secondo il Rapporto sulla sanità di Cittadinanzattiva, un paziente psichiatrico su 4 denuncia di aver avuto difficoltà di accesso alle cure pubbliche, quasi un cittadino su 4 lamenta la scarsa qualità dell’assistenza fornita nei dipartimenti e centri di salute mentale, per ridotte ore di assistenza, per numero e frequenza di incontri, per una cura quasi sempre affidata esclusivamente alla terapia farmacologica. “Il paziente psichiatrico è irrequieto, si lamenta, cerca di scappare. Nelle corsie degli ospedali ricoveriamo i pazienti in acuzie, cioè che stanno avendo una crisi, che potrebbero far male a sé e agli altri. Spesso ricoveriamo persone - perlopiù giovani - che hanno appena tentato il suicidio, e ci vorrebbe qualcuno che li sorvegli tutti 24 ore su 24”, mi racconta un primario psichiatra di un ospedale del centro Italia che vuole restare anonimo. “Servirebbe quasi un infermiere per paziente, invece a causa dei tagli abbiamo pochi psichiatri e pochi infermieri, sfiniti dal lavoro, che non ce la fanno a badare tutti, così spesso non ti resta che fare una cosa: somministri ai tuoi pazienti più psicofarmaci per tenerli buoni”. Disagio giovanile - La psichiatria non può agire secondo la logica del profitto: i pazienti psichiatrici richiedono cure lunghe e costose che durano talvolta anni. In Italia gli individui affetti da un disturbo psichico sono almeno 17 milioni. Quello più comune è la depressione, che colpisce 3 milioni di persone, e milioni di individui soffrono di disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze da alcol, droghe o farmaci, disturbo bipolare, eccetera. Il 75 per cento dei casi si manifesta entro i primi 25 anni di vita: quindi, il disagio mentale è tipico dell’età giovanile. Le malattie psichiche rappresentano la terza principale causa di mortalità prematura - dopo le malattie cardiovascolari e il cancro - a causa all’alto tasso di suicidi, overdose, e scompensi vari a essi associati. Con la pandemia di Covid-19, poi, l’incidenza dei disturbi psichici è esplosa: il numero degli individui affetti da sintomi depressivi o da ansia è quintuplicato, quello degli individui affetti da disturbi del comportamento alimentare è aumentato del 30 per cento. Eppure, si calcola che solo nel primo anno di pandemia 100mila italiani hanno rinunciato alle cure psichiatriche e si sono registrate 2,5 milioni di prestazioni in meno. Un punto è cruciale. Un giovane che soffre di un disturbo psichiatrico viene ricoverato nel reparto di psichiatria di un ospedale pubblico quando è acuto - un adolescente depresso viene ricoverato subito dopo che ha tentato il suicidio, o una ragazza che soffre di anoressia quando ha perso così tanto peso da rischiare un arresto cardiaco - qui viene stabilizzato, e dopo poco dimesso. E dopo le dimissioni molti di questi giovani dovrebbero essere ricoverati in una comunità psichiatrica per cure che possono durare anche anni. Ma le comunità psichiatriche pubbliche sono pochissime, e tra quelle private alcune sono lodevoli ma molte ragionano troppo secondo la logica del profitto - minima spesa, massima resa. Nel passaggio dalla neuropsichiatria infantile alla psichiatria per adulti, le famiglie precipitano nel vuoto, e comincia il calvario. Comunità psichiatriche - “Mia figlia soffriva da anni di anoressia e di autolesionismo, sì tagliava in continuazione”, mi racconta Simona, mamma di Agnese. “L’anno scorso è peggiorata e l’abbiamo dovuta ricoverare in psichiatria, dov’è rimasta un mese poi l’hanno dimessa. Ci hanno detto: “Bisogna ricoverarla in una comunità”. Solo che la comunità aveva una lista di attesa di nove mesi. Tornata a casa, Agnese è peggiorata, e dopo quattro mesi non ce l’ha più fatta: ha ingerito tantissime medicine, è entrata in coma, in terapia intensiva mi avevano detto che sarebbe morta. Invece per miracolo si è salvata, e ora, dopo un anno, è entrata in comunità”. Lo stesso miracolo non è accaduto a Katia, mamma di Chiara. “Mia figlia soffriva di un’anoressia gravissima, era in lista d’attesa da diciotto mesi. Finalmente una mattina la comunità privata mi chiama, mi dicono: “C’è posto per sua figlia”. Mia figlia si prepara felice, ma poi il pomeriggio ci chiamano, e ci dicono: “Ci siamo sbagliati, il posto non c’è più”. Una dirigente di quella comunità, che per questo si è dimessa, mi ha confessato che non avevano accettato mia figlia perché aveva un codice di bassa gravità. Cioè, se sei più grave lo stato paga alla comunità sui 250 euro al giorno, se sei meno grave solo 180 circa. Hanno rifiutato mia figlia per una questione di soldi. Mia figlia si è sentita rifiutata, dopo un mese ha ingoiato 150 pasticche di antidepressivi e si è tolta la vita”. Chi se lo può permettere, ricovera suo figlio in una bella clinica privata convenzionata. Chi non se lo può permettere, aspetta, e spera. Migranti. Patto Ue? In Italia c’è la Costituzione e il diritto d’asilo resta garantito di Daniela Fassini Avvenire, 22 dicembre 2023 L’Associazione italiana per gli studi giuridici sull’immigrazione punta il dito contro l’accordo a Bruxelles: “I parlamentari europei possono (e dovrebbero) bloccare questa deriva”. “Per fortuna l’articolo 10 della Costituzione italiana ci garantisce la possibilità di continuare a sostenere il diritto di asilo delle persone”. Non ha dubbi Anna Brambilla, legale dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, impegnata a difendere i diritti di chi attraversa il Mediterraneo e approda sulle nostre spiagge, il Patto europeo su asilo e migrazione rappresenta “una deriva” delle politiche migratorie. Sull’accordo tra il Parlamento europeo e il Consiglio Ue volto, secondo i promotori, a facilitare l’accoglienza dei richiedenti asilo e a favorire il rimpatrio di coloro che non hanno il diritto di restare in Europa, in realtà, sono in molti a puntare il dito. Soprattutto Ong e associazioni che si occupano di migrazioni e diritto. Due i punti particolarmente critici: il primo riguarda sicuramente “l’introduzione della finzione di non ingresso - spiega la giurista Brambilla - come se ci fosse una dissociazione tra il territorio di uno Stato e l’ordinamento giuridico di quello Stato”. “Il migrante cioè entra a Lampedusa ma si finge che non sia mai entrato” spiega. In secondo luogo “non si fa altro che amplificare quello che già accade in Italia con le procedure che avvengono in luoghi chiusi alla frontiera, in regime di detenzione”. “Non vedremo tante cose molte diverse - conclude Brambilla - sarà tutto molto più legittimato con procedure di asilo sempre più difficili. Tutto cambia perché niente cambi”. Il Parlamento europeo deve, tuttavia, ancora votare i testi definitivi. Asgi “esorta con forza tutti i parlamentari europei, individualmente e a prescindere dal loro schieramento politico, ad opporsi a questa pericolosa controriforma che nega il diritto di asilo e il diritto al non-refoulement (di non respingimento, ndr)”. “Se confermate nel testo finale, molte di queste norme sono innegabilmente incompatibili con la nostra Costituzione - prosegue l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione - che prevale su qualsiasi altra normativa, quella comunitaria inclusa, nel definire come inviolabili e fondamentali il diritto alla libertà personale, il diritto d’asilo costituzionale, il diritto di difesa e il principio di uguaglianza”. Ma non c’è solo Asgi a schierarsi contro la nuova riforma. Ad alzare la voce sul compromesso raggiunto in sede euopea c’è anche una rete di associazioni di cui fanno parte Save the Children, Jesuit Refugee Service Europe, EuroMed Rights e Rete europea contro il razzismo. Secondo la rete umanitaria, “il Patto europeo su Asilo e migrazioni infligge un colpo devastante al diritto umano di chiedere asilo”. In una nota le associazioni sostengono che, per andare incontro alle richieste degli Stati membri, il Parlamento europeo avrebbe fatto concessioni su tutti i punti chiave della prima versione del testo. “Il risultato attuale è la proposta della Commissione per il 2020 peggiorata dagli emendamenti del Consiglio”. “Il Patto mantiene il pericoloso concetto di “Paesi terzi sicuri” per consentire agli Stati membri di rimpatriare i richiedenti asilo nonostante il rischio di violazioni dei diritti umani. Ciò significa che i richiedenti asilo potrebbero essere trasferiti in Paesi come la Tunisia, anche nel caso in cui il governo di quel paese appoggiasse le espulsioni violente e collettive dei migranti dell’Africa sub-sahariana verso Libia e Algeria” sottolinea Sara Prestianni, responsabile di EuroMed Rights. Secondo Prestianni, “il Patto integra inoltre il sostegno al bilancio nella dimensione esterna e nella gestione delle frontiere esterne come forma di “solidarietà”. Tuttavia, l’Ue non dovrebbe essere il facilitatore di tali violazioni dei diritti umani. Il Patto europeo deve proteggere i richiedenti asilo dalla violenza e aprire percorsi legali, invece di incoraggiare sempre più detenzioni e respingimenti”. In particolare, per Save the Children, l’accordo raggiunto tra il Parlamento europeo e i governi nazionali in Europa, “porterà a palesi violazioni dei diritti dei minori, mettendoli in pericolo, e porterà a ulteriori separazioni delle famiglie”. Il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo porterà anche a “sistematizzare la detenzione di minori di tutte le età ai confini dell’Ue e minerà il loro equo accesso all’asilo in tutto il continente”. “In effetti, l’accordo raggiunto è storicamente negativo - dice Willy Bergogné, direttore di Save the Children Europe -. È evidente che per la maggior parte dei legislatori la priorità era chiudere le frontiere e non proteggere le persone, comprese le famiglie e i bambini che fuggono dalla violenza, dai conflitti, dalla fame e dalla morte mentre cercano protezione in Europa”. Quella “vittoria” italiana sui migranti che rischia di rimanere lettera morta di Rocco Vazzana Il Dubbio, 22 dicembre 2023 Il nuovo Patto europeo sull’immigrazione introduce regole più severe ma di difficile attuazione. Il governo esulta: il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo è un “grande successo”. E a fermarsi ai titoli dei temi concordati con Bruxelles, la destra italiana avrebbe tutte le sue ragioni storiche per accogliere con entusiasmo il nuovo Patto figlio dell’intesa raggiunta tra Consiglio, Commissione e Parlamento Ue: più controlli, ripartizione tra Paesi, procedure d’espulsione accelerate. Una sorta di decreto Cutro europeo. Ma a guardare nel dettaglio dei provvedimenti proposti sembra che le cose non stiano esattamente così e che Giorgia Meloni abbia ben poco da esultare, se non per un oggettivo spostamento ideale a destra dell’Europa. Andiamo con ordine. Al momento il Patto è di natura squisitamente politica, non è ancora operativo. Per renderlo tale, andranno modificate entro la fine di questa legislatura a Bruxelles una serie di direttive e regolamenti (tra cui Dublino) che richiederanno comunque del tempo. In ogni caso, le nuove regole prevedono: controlli più severi sui migranti che arrivano nell’Unione europea, centri vicino alle frontiere per rimandare indietro più rapidamente chi non ha diritto all’asilo e un meccanismo di solidarietà obbligatorio tra i Paesi Ue per aiutare quelli sottoposti a una maggiore pressione migratoria. E già qui arrivano, potenzialmente, i primi problemi per l’Italia. Perché i profughi arrivati sulle nostre coste dovranno essere identificati entro sette giorni in appositi centri, dove, dall’età di sei anni in su, verranno sottoposti anche a controlli di salute e di sicurezza. I dati biometrici (a partire dai volti e dalle impronte digitali) verranno raccolti nella banca dati Ue Eurodac. Tradotto: se un migrante, divenuto nel frattempo clandestino, dovesse varcare i confini italiani sarebbe ancora più semplice, per le autorità di altri Paesi, rispedirlo nel Paese di primo approdo certificato sulla banca dati. Perché il nuovo Patto, al momento, non incide minimamente sui principi stabiliti da Dublino secondo cui è il Paese di primo ingresso ad avere a competenza esclusiva per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Un paradosso per la retorica sovranista. Viene introdotto anche un principio di “solidarietà obbligatoria”, con una quota standard di 30mila ricollocamenti l’anno. Ma gli Stati membri non saranno davvero obbligati ad accogliere, potranno contribuire con misure finanziare (20 mila euro a migrante) o altre misure alla gestione dei flussi. Sempre che questi Paesi non siano Ungheria e Polonia, intenzionate a non contribuire in alcun modo alla gestione dei flussi. Il contributo economico può comunque anche essere destinato a finanziare misure relative alla gestione dei flussi migratori nei Paesi extra- europei. Il Patto stabilisce anche nuove regole per effettuare le domande di asilo nell’Ue. Alcune persone saranno sottoposte alla procedura tradizionale, altre a una procedura “accelerata” di frontiera detta border procedure. Per questi ultimi la valutazione della richiesta durerà al massimo tre mesi durante i quali il richiedente non sarà considerato giuridicamente all’interno dei confini nazionali. Questo tipo di procedura “semplificata” sarà riservata a chi mente alle autorità, a chi è ritenuto pericoloso e a tutti coloro che provengono da Paesi ai cui cittadini non viene di solito concesso l’asilo, cioè con un tasso di riconoscimento inferiore al 20 per cento. Come se la richiesta d’asilo non fosse un atto individuale ma “collettivo”, concedibile su base “etnica”. E in ogni caso, senza accordi bilaterali certi con i Paesi di provenienza per eventuali rimpatri, ogni ragionamento sulle espulsioni rischia di rimanere lettera morta, anche se utile per la propaganda. “Qualunque persona dovrebbe avere la possibilità, anche attraverso canali regolari, di raggiungere la frontiera, di non essere criminalizzata per aver utilizzato canali irregolari e di presentare domanda di asilo”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista esperto di diritti umani e diritto di asilo. “La Convenzione di Ginevra, inoltre, non conosce la categoria dei Paesi terzi sicuri”, previsti per i rimpatri dal nuovo Patto. Le nuove procedure di identificazione “possono ridurre al minimo le garanzie e impedire quindi che la manifestazione di volontà verso la richiesta di protezione poi si concretizzi con un procedimento equo e imparziale di attribuzione dello status di rifugiato”, argomenta Vassallo Paleologo. Non solo, la prospettiva di esternalizzare in parte le procedure d’asilo, così come le pratiche di detenzione amministrativa - come vorrebbe fare l’Italia con l’Albania - sono destinate “a fallire”, sostiene il giurista, così come si può già considerare fallito l’accordo già stipulato con la Tunisia. “Nessun Paese terzo - aggiunge - sembra disponibile a riprendersi i migranti, soprattutto se sono cittadini di altri Stati”. Perché tra le novità c’è che anche a livello europeo vengono individuati i “Paesi terzi sicuri” verso cui potrebbero essere rimpatriati i migranti. “È un concetto molto pericoloso”, dice ancora Vassallo Paleologo, “e tra l’altro su questo punto c’è anche uno scontro con la magistratura che in numerose occasioni, in particolare il Tribunale di Firenze, ha riconosciuto ad alcuni cittadini il diritto a non essere ricondotte in Tunisia in quanto richiedenti asilo”. Insomma, la vittoria italiana, per ora, è solo teorica. Ma è già buona per la campagna elettorale. Migranti. “Illegalità in atto”, commissariato il Cpr di via Corelli di Roberto Maggioni Il Manifesto, 22 dicembre 2023 Il gip ha disposto anche il divieto per la Martinina, la società che gestiva la struttura, di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno. Ora è ufficiale: arriverà un commissario, il commercialista Giovanni Falconieri, a gestire temporaneamente il Cpr di via Corelli a Milano. Il giudice per le indagini preliminari Livio Cristofano ha accolto la richiesta dei pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri che indagano sulla gestione della struttura da parte della società Martinina srl. L’inchiesta della Procura per frode e turbativa ha mostrato a tutti le condizioni di detenzione disumane dei migranti. Il gip ha disposto anche il divieto per la Martinina di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno perché, dopo l’ispezione del primo dicembre, i magistrati avevano scoperto che la Prefettura di Milano, il 13 novembre scorso, le aveva rinnovato il contratto per la gestione del Cpr per un altro anno: fino al 31 dicembre 2024. Da qui la necessità di bloccare “la situazione di illegalità in atto” che “ha pesanti conseguenze” sui migranti, scrive il gip. L’inchiesta ha mostrato come la società non utilizzava la diaria quotidiana prevista per il mantenimento dei migranti ai quali non veniva offerto alcun servizio di quelli elencati dalla Martinina nel contratto con la Prefettura. Nell’accogliere la richiesta di commissariamento il gip parla di attività “fraudolenta e truffaldina” ai danni di “persone vulnerabili, con profitti illeciti di una certa consistenza”. Una “gestione praticamente inesistente e lasciata allo sbando, probabilmente assegnata” dalla Prefettura di Milano “grazie alla presentazione di una sequela di protocolli e di convenzioni connotati da una falsità di sorprendente e non comune disinvoltura, mai verificati e controllati”. Nel provvedimento del gip sono riportate tutte le testimonianze raccolte dai pm e vengono citate le immagini e i video raccolti dagli attivisti del Naga, della rete Mai più Lager-No ai Cpr e dall’ex senatore Gregorio De Falco; quella terribile sequenza di pavimenti insanguinati, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, foto di cibo con i vermi, materassi buttati a terra, bagni intasati. Non offrendo i servizi indicati nel bando, la Martinina avrebbe “tratto un illecito vantaggio economico d’importo considerevole” scrive il gip Cristofano. L’associazione Naga, che da anni denuncia le condizioni di detenzioni nel Cpr di via Corelli, si costituirà parte civile. “Il commissariamento è una buona notizia perché significa che qualcosa si è mosso e che ci possono essere dei cambiamenti, ma non è la soluzione” dice il presidente del Naga Riccardo Tromba. “I Cpr rappresentano un istituto illegittimo, discriminatorio, violento: sono la rappresentazione plastica del razzismo istituzionale, prevedono infatti la detenzione amministrativa soltanto per le cittadine e i cittadini stranieri. Per questo in primis, ma anche per le condizioni terrificanti con le quali vengono gestiti e che tante volte abbiamo denunciato, i Cpr devono essere chiusi”. Tutti. Per i partiti del centrosinistra, volendo, c’è materiale in abbondanza per farne una campagna nazionale. Minori stranieri, Italia condannata per trattamenti inumani e degradanti a un 15enne di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2023 Asgi: “Ma in quel centro ce ne sono decine”. “La legge internazionale prevede che il minore debba avere un trattamento differenziato. È un principio giusto e sano, ma l’escalation di arrivi e l’assenza di strutture dedicate portano, a volte, all’impossibilità di rispettare questi paletti”, ha detto alcune settimane fa in un’intervista il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. A ribadire come stanno le cose è arrivata l’ennesima condanna dalla Corte Europea per i Diritti Umani e le Libertà Fondamentali, che il 19 dicembre ha emesso una sentenza cautelare contro l’Italia. Altro che paletti: il giudice di Strasburgo ordina al nostro governo l’immediato trasferimento di un minore di 15 anni, trattenuto da inizio ottobre nel centro di accoglienza di Restinco, (Brindisi), in un centro adeguato per minori stranieri non accompagnati. Il nuovo centro dovrà assicurare al minore i diritti finora negati, inclusi l’assistenza necessaria, il rilascio di documenti d’identità validi, condizioni compatibili con l’articolo 3 della Convenzione europea sui Diritti Umani, l’accesso a procedure legali e amministrative, e la nomina di un tutore, ad oggi mai assegnato. Violazioni per cui l’Italia è già stata condannata, tanto da aver collezionato ben 5 sentenze della stessa Cedu in appena un mese. Fatti analoghi sono accaduti in passato nel centro di Crotone, in quello di Contrada Cifali a Ragusa, a Taranto. Ma come la nuova sentenza dimostra e i Garanti regionali delle persone private della libertà personale denunciano, sono ancora molti i minori non accompagnati rinchiusi in centri per adulti e privati dei diritti previsti. Nello stesso centro di Restinico, “decine di altri minori sono attualmente trattenuti in condizioni inumane simili, alcuni da agosto 2023”, denunciano gli avvocati dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), che aveva richiesto l’accesso al centro lo scorso 4 dicembre 2023, senza ricevere risposta. Due socie, Marina Angiuli e Erminia Rizzi, insieme all’avvocato Dario Belluccio, hanno poi visitato il centro con il deputato Nicola Fratoianni (Sinistra italiana), denunciando “l’inaccessibilità dei centri e l’insostenibilità del sistema di accoglienza per i minori stranieri soli in Italia”. Già lo scorso 6 novembre l’Asgi ha inviato una comunicazione al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, “dettagliando le violazioni sistemiche e l’illecito trattenimento dei minori stranieri non accompagnati in Italia”. “È urgente - scrive l’Asgi - che le istituzioni di garanzia, incluse le Procure della Repubblica e i Tribunali per i Minorenni, intervengano per fare chiarezza su quello che appare come un sistema di detenzione illegale e sottratto al controllo giudiziario, in violazione dell’art. 13 della Costituzione Italiana. Che rischia di peggiorare con l’entrata in vigore delle misure contenute nel decreto immigrazione e sicurezza 133/2023, convertito poi nella legge 173/2023. Migranti. Ddl Albania, dalla Camera ok alla procedura d’urgenza di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 dicembre 2023 La maggioranza avrebbe voluto eliminare anche le audizioni nelle commissioni competenti. Oggi Tajani vola in Albania per incontrare Rama e visitare il porto di Shengjin. Con 161 voti favorevoli e 110 contrari la Camera dei deputati ha approvato ieri la dichiarazione d’urgenza presentata dal governo per l’esame del disegno di legge necessario a ratificare il protocollo Roma-Tirana. L’accordo prevede la realizzazione di tre centri di trattenimento dei migranti al di là dell’Adriatico. Incassato il parere positivo, che dimezza a un mese il tempo a disposizione delle commissioni, la maggioranza ha tentato un’ulteriore forzatura per accelerare ancora con un calendario senza audizioni. Nelle commissioni Affari costituzionali ed Esteri, riunite congiuntamente, ha però trovato il rifiuto netto delle opposizioni. Alla fine le audizioni si terranno tra l’8 e l’11 gennaio prossimi, di conseguenza il termine per la presentazione degli emendamenti, inizialmente previsto per il 9 del mese, è stato rimandato di 48 ore. Le votazioni degli emendamenti dovrebbero svolgersi tra il 16 e il 17 gennaio. L’obiettivo è conferire il mandato per l’aula ai relatori già il giorno seguente per votare entro un mese a partire da oggi. “Il ddl di ratifica è la surrettizia integrazione della legge Bossi-Fini con l’esternalizzazione del servizio dell’esame delle richieste di asilo. Un’operazione folle che costerà milioni e milioni dei contribuenti italiani solo per foraggiare le manie propagandistiche del Governo”, dichiara il deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi. L’aspetto paradossale è che mentre l’esecutivo Meloni corre limitando la discussione parlamentare, dall’altro lato del mare è tutto in stand by perché la Corte costituzionale ha ammesso il ricorso delle opposizioni. L’udienza pubblica è prevista il 18 gennaio prossimo, la decisione dovrà arrivare entro il 6 marzo. “La destra vuole ratificare il protocollo in tutta fretta perché spera che prima delle elezioni europee una nave militare italiana sbarchi in Albania qualche migrante. È una gigantesca sceneggiata. Siamo di fronte all’ennesima truffa”, afferma Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra italiana. La procedura d’urgenza, soprattutto in queste condizioni, rappresenta l’ennesimo capitolo dello svuotamento delle funzioni parlamentari da parte di questo governo, che nonostante possa contare su un’ampia maggioranza in entrambe le camere continua a legiferare a colpi di fiducia e decreti. Il leader 5S Giuseppe Conte parla di “protocollo ridicolo” che “non verrà realizzato perché costerà 650 milioni in 5 anni. Meloni non lo farà per non correre il rischio di procurare un grave danno erariale”. Intanto oggi il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani è atteso in Albania. Visiterà il nucleo di frontiera marittima della guardia di finanza (Nufrom), che ha una base a Durazzo e opera nel paese delle aquile da 26 anni. All’inizio per fermare le migrazioni irregolari, poi per contrastare i traffici illeciti. Tajani, soprattutto, incontrerà il primo ministro albanese Edi Rama e il titolare degli Esteri Igli Hasani. Sul tavolo, ovviamente, avrà priorità il dossier relativo al protocollo. “Il rapporto con Tirana è d’importanza strategica per l’Italia e intendiamo rendere la nostra cooperazione in materia migratoria un modello di riferimento”, ha detto il vicepremier italiano, che però nei giorni scorsi aveva smentito di essere al lavoro per replicare nell’immediato il progetto albanese in altri lidi. Tajani si recherà anche nel porto di Shengjin, dove dovrebbe sorgere l’hotspot per la prima identificazione dei migranti. La prima tappa verso i centri di trattenimento previsti nell’entroterra, nella ex base militare di Gjader. Medio Oriente. “Tel Aviv mente sulle immagini di uomini nudi e bendati in arresto” di Stefano Mauro Il Manifesto, 22 dicembre 2023 La denuncia. Il Guardian e le Ong: è trasferimento forzato di civili. Le immagini di palestinesi seminudi che circolano da diversi giorni hanno sollevato preoccupazioni sulle procedure di arresto israeliane a Gaza e sulle violazioni dei diritti umani, oltre all’accusa di “trasferimento forzato di civili”. Come riporta il quotidiano The Guardian le immagini non rappresentano “la resa di alcuni guerriglieri di Hamas a seguito di uno scontro”, ma il risultato “dei rastrellamenti condotti casa per casa dai militari di Tel Aviv nel nord della Striscia di Gaza, a Beit Lahia”. Non vengono dunque dall’area meridionale di Khan Younis dove Tel Aviv sostiene si trovi una roccaforte della leadership di Hamas. Quegli arresti sarebbero il tentativo degli israeliani di “obbligare i civili con la forza ad abbandonare le proprie abitazioni”. Lo scorso giovedì l’Associated Press ha pubblicato un rapporto sugli arresti dell’esercito di Tel Aviv che indica come centinaia di uomini palestinesi siano stati denudati, scalzi o inginocchiati. Mentre altre immagini mostrano gruppi che marciano verso i campi di detenzione militari, dove molti civili hanno trascorso alcuni giorni, seminudi ed esposti alla fame e al freddo. Per numerose Ong gli “arresti e le uccisioni sommarie” sono l’ennesimo gesto che rende evidente la “crudeltà di Tel Aviv contro civili inermi”. Si legano all’accusa di crimini contro l’umanità presentata da Human Rights Watch e la richiesta di “un’indagine imparziale per indagare tortura e omicidio di civili a Gaza”. Tra gli arrestati ci sono decine di ragazzi di età compresa tra 10 e 13 anni, con testimonianze di torture anche nei confronti di anziani e di donne. Rami Abdo, direttore dell’Ong Euro-Med Human Rights Monitor, ha indicato che “le forze israeliane stanno attuando uno sfollamento forzato contro i civili, commettendo orribili massacri, esecuzioni sul campo e arresti arbitrari che hanno coinvolto finora 1.200 civili”. Secondo le centinaia di testimonianze raccolte dall’Ong “numerosi civili sono stati utilizzati dall’esercito israeliano come scudi umani per assaltare case e tunnel sotterranei”. L’Ong ha osservato che, sebbene la comunità internazionale “denunci pubblicamente la politica di sfollamento forzato di Israele contro i civili nella Striscia di Gaza, Israele continua ad attuarla sul campo, il che equivale a un crimine di guerra”, condannando fermamente le orribili violazioni avvenute durante gli arresti, inclusi pestaggi, arresti arbitrari e minacce di stupro di donne di fronte alle loro stesse famiglie. Le testimonianze raccolte da Euro-Med Monitor confermano i rapporti pubblicati dal quotidiano israeliano Haaretz sulle “esecuzioni sul campo israeliane di detenuti di Gaza, con altri prigionieri morti dopo essere stati sottoposti a torture e maltrattamenti nel campo militare israeliano “Sde Teman”, situato tra Beersheba e Gaza, trasformato in una nuova prigione simile a Guantanamo”, dove i detenuti sono rinchiusi in condizioni disumane. Sempre riguardo alla violazione dei diritti umani nei confronti dei prigionieri palestinesi nelle carceri, la polizia israeliana afferma che 19 guardie carcerarie della prigione di Ketziot sono indagate per l’uccisione di un detenuto morto lo scorso 18 novembre a causa di “violenze subite in cella”. Una “prima ammissione di colpa” da parte di Tel Aviv riguardo ai sei prigionieri morti in carcere dal 7 ottobre a causa di “torture fisiche, psicologiche o privazione di cure e medicinali”, secondo quanto denunciato dalla Società dei prigionieri palestinesi. Addameer - un’organizzazione palestinese che monitora le condizioni di detenzione - indica “un aumento esponenziale delle violenze nelle carceri, con sistematiche incursioni notturne da parte dei reparti antisommossa”. Attualmente sono quasi “8mila i prigionieri nelle carceri israeliane”, con oltre 2mila persone in detenzione amministrativa - senza un’accusa specifica - e alcune centinaia deportate illegalmente dalla Striscia di Gaza.