Se 67 vi sembrano pochi di AreaDG - Gruppo esecuzione penale areadg.it, 21 dicembre 2023 Le condizioni nelle carceri italiane sono questione di dignità nazionale e non possono essere affrontate solo sull’onda dell’indignazione per l’ennesimo suicidio (il settantasettesimo quest’anno), né risolti con la proposta di trasformare le caserme in nuovi carceri. Neppure servono gli scontri quasi ideologici tra chi sta sempre e solo dalla parte di Caino e chi sta sempre e solo dalla parte di Abele. Riguardano l’intero assetto dell’esecuzione penale, la drammatica mancanza di personale e risorse nei Tribunali di Sorveglianza, nei servizi dell’esecuzione penale, nella polizia penitenziaria. Lo scorso dieci dicembre una persona detenuta nel carcere di Trento si è tolta la vita. Si tratta del sessantasettesimo suicidio dall’inizio dell’anno; dato in calo rispetto all’anno precedente “il peggiore di sempre - ma non per questo meno sconvolgente. La scelta di porre fine alla propria vita da parte di una persona detenuta non può spiegarsi semplicemente come mero esito di dolorosi percorsi personali, ma rappresenta un fallimento per lo Stato e le sue istituzioni, che privando la persona della libertà e assumendo perciò la responsabilità di garantire alla stessa condizioni di vita dignitosa e di salute in costanza di detenzione, non sono state in grado di cogliere la condizione di un disagio tanto profondo o, rilevandola, non hanno saputo offrire il necessario supporto. Un suicidio in carcere non è perciò una vicenda privata o un problema del carcere, ma è un fatto di rilevanza sociale e politica, rispetto al quale la società intera non può chiamarsi fuori e deve interrogarsi, così sulle cause, come sulle possibili misure di contrasto che è doveroso adottare. Non v’è dubbio che tra le prime via sia l’attuale condizione di sovraffollamento carcerario. Le statistiche del Ministero della Giustizia attestano che alla data del 30 novembre scorso le persone detenute presenti nelle carceri italiane erano 60.116, a fronte di una capienza regolamentare di 51.272 posti, con un tasso medio di sovraffollamento carcerario pari al 120% e con punte drammatiche del 160% in alcune realtà come quella della Puglia. Sono dati che suscitano una profonda preoccupazione, anche perché destinati nel futuro a crescere rapidamente, come dimostra il tasso progressivo di occupazione che dal 2020 ad oggi non si è mai fermato e dà anzi segnali di forte accelerazione (2020: 53.364 / 2021: 54134 / 2022: 56196 / dato parziale a novembre 2023: 60.116). Il sovraffollamento carcerario pone a rischio i diritti fondamentali dei detenuti, perché li priva dello spazio minimo vitale, così come determinato dalla consolidata elaborazione della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, li relega ad una maggiore intollerabile promiscuità nell’uso dei servizi e nella fruizione delle risorse, limita e comprime l’accesso al trattamento ed alle opportunità che esso deve offrire, ledendo la dignità della persona e frustrando la finalità rieducativa della pena, aggrava le profonde carenze del sistema sanitario carcerario comprimendo ulteriormente diritto alla salute dei detenuti mettendo a repentaglio la loro incolumità ed il loro benessere psicofisico. Esso espone il personale di Polizia penitenziaria, già gravemente carente per le gravi scoperture di organico, a situazioni di stress e di sovraffaticamento, acuendo la conflittualità all’interno degli istituti penitenziari e con essa la sicurezza di chi nel carcere lavora. Una situazione che, in prospettiva, espone nuovamente il nostro Paese, come già avvenuto in passato, ad una umiliante condanna per violazione dei diritti umani, anche perché destinata ad aggravarsi, nonostante il numero elevato di soggetti che a vario titolo espiano la pena in misura alternativa, pari, secondo le stesse statistiche ministeriali ad oltre il doppio della popolazione detenuta, mentre oltre 90.000 persone, sempre secondo le rilevazioni ufficiali, attendono in sospensione dell’esecuzione della pena, di poterla eseguire. Le cause del sovraffollamento carcerario sono certo molteplici, ma esse sono parte della più generale e profonda crisi che vive l’intero sistema dell’esecuzione penale, ad oggi sul baratro del fallimento. Tutti, i detenuti, gli affidati e i liberi in sospensione, e da quest’anno anche molti di coloro che sono sottoposti alle pene sostitutive introdotte dalla riforma “Cartabia”, sono in carico ad una Magistratura di Sorveglianza ed a Servizi che con organici assolutamente inadeguati e senza risorse (tanto che i Tribunali e Uffici di Sorveglianza sono stati esclusi del tutto dalle risorse previste dal P.N.R.R. per la Giustizia), faticano a dare una risposta tempestiva ed efficace. Analoghe gravi carenze si registrano all’interno del carcere tra il personale penitenziario, gli educatori, i medici e gli psicologi con conseguente impossibilità di impostare percorsi trattamentali realmente individualizzati la cui efficacia presuppone condizioni di detenzioni umane e richiede la presenza di un numero di operatori adeguato a quello dei detenuti. Analogamente gli organi dell’esecuzione penale esterna soffrono di gravissime carenze di mezzi e personale, situazione che impedisce di connotare le misure alternative di effettiva efficacia risocializzante. A fronte di una situazione la cui gravità e drammaticità sono evidenti, le politiche governative continuano a perseguire una linea securitaria e giustizialista, che sta aggravando e non potrà che peggiorare il sovraffollamento carcerario. Con il DDL approvato dal Consiglio dei Ministri il 17 novembre scorso, il Governo ha previsto l’introduzione di “Nuove norme in materia di sicurezza pubblica, tutela delle forze di polizia e delle vittime dell’usura e dei reati di tipo mafioso “, ma che nei fatti si traducono in un complessivo inasprimento del sistema punitivo che favorisce, quando non impone, l’ingresso in carcere. Sono previste, infatti, ben tre nuove ipotesi di reato, tutte con pena superiore ai sei anni e con arresto obbligatorio in flagranza, cinque previsioni di aggravamento delle pene, già pur severe, previste per alcuni reati, si abolisce il rinvio obbligatorio della pena per donne incinta e madri con figli di età inferiore all’anno, si amplia il catalogo dei reati di cui all’art. 4 bis O.P. che regola il sistema della cosiddetta ostatività ai benefici penitenziari. Si disegna un tal modo un complessivo meccanismo di automatismi e di cause ostative ai benefici penitenziari che spingono le persone in esecuzione pena dentro il carcere sulla base di presunzioni legali di pericolosità sociale, non preventivamente verificabili nella loro realtà e concretezza dal magistrato. E ciò anche a costo di sacrificare diritti fondamentali delle persone più vulnerabili come sono i bambini : se il D.D.L. verrà approvato le donne incinta potranno essere costrette a trascorrere la gravidanza in un ambiente niente affatto salubre, come è il carcere, con rischio per la salute del nascituro, mentre anche i bambini di età inferiore ad un anno, saranno costretti a condividere il destino di carcerata della loro madre, proprio in un periodo della vita delicatissimo e in cui l’interazione con la realtà e l’ambiente libero sono fondamentali. Se oggi le madri detenute con i loro bambini, grazie a norme di tutela dell’infanzia, sono 22 e i bambini in carcere sono altrettanti, la metà solo dei quali ospitati presso gli ICAM (Istituti a custodia attenuata), domani anche questi numeri cresceranno e crescerà il numero degli innocenti costretti a vivere anni decisivi per la loro crescita e sviluppo psicofisico nel chiuso di un istituto penitenziario. Per affrontare seriamente la crisi dell’esecuzione penale e con essa quella, intimamente collegata, del sovraffollamento carcerario, e così dare il corretto contenuto a quella “certezza della pena” spesso strumentalmente e impropriamente sbandierata, non occorrono nuove pene e nuovi reati che, al contrario aggravano la crisi in atto senza assicurare alla collettività una reale maggiore sicurezza, ma occorrono interventi strutturali, di innovazione e di organizzazione, che diano all’Italia un moderno sistema di esecuzione penale in attuazione del disegno che in materia di pena è tracciato nella Costituzione. Microcredito e carcere, siglato l’accordo tra Cnel ed Ente nazionale redattoresociale.it, 21 dicembre 2023 Tra i punti più importanti dell’accordo c’è la promozione delle opportunità di sostegno economico e di tutoring a microimprese e professionisti. Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e l’Ente Nazionale per il Microcredito hanno sottoscritto un Protocollo d’Intesa che ha l’obiettivo di promuovere l’educazione finanziaria, la cultura dell’impresa e l’inclusione sociale dei soggetti che stanno scontando la parte finale della pena detentiva all’interno di una struttura carceraria o che stanno scontando pene alternative alla detenzione, nonché degli ex detenuti. Tra i punti più importanti dell’accordo c’è la promozione delle opportunità di sostegno economico e di tutoring a microimprese e professionisti. In quest’ottica, il Cnel si impegna a promuovere le opportunità di finanziamento tramite lo strumento del microcredito a favore di chi sconta la pena in carcere o fuori e degli ex-detenuti. Sempre per queste categorie di beneficiari, il Cnel promuoverà gli interventi del programma Garanzia Giovani “SelfieEmployment”, rivolto a coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro e non sono in grado di offrire garanzie al sistema del credito tradizionale. Queste misure di finanza pubblica prevedono la possibilità di accesso a microcrediti e microprestiti che consistono in un finanziamento agevolato senza interessi. Cnel ed ENM collaboreranno al fine di promuovere specifici programmi di microcredito sociale. Potranno svolgere attività e studi, con l’intento di individuare nuove soluzioni e nuovi prodotti di supporto ai cittadini e alle imprese. Inoltre, realizzeranno attività volte a promuovere l’educazione finanziaria e imprenditoriale all’interno delle carceri: convegni, focus group e seminari; corsi di formazione; corsi di Master o corsi Executive in materia di microfinanza e finanza d’impatto; analisi e ricerche e policy papers. Sarà infine istituita una Commissione paritetica di monitoraggio dell’accordo, che avrà il compito di valutare le iniziative da realizzare e definire le modalità di divulgazione dei risultati. “Il Protocollo siglato “ha affermato il presidente del Cnel, Renato Brunetta - è perfettamente in linea con una delle mission principali dell’XI Consiliatura del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: promuovere l’inclusione sociale ed economica dei detenuti, dando così una opportunità di riscatto a chi ha già scontato la propria pena, a chi sta finendo di scontarla e a tutti coloro che sono sottoposti a misure alternative al carcere. Con l’Ente Nazionale per il Microcredito, infatti, forniremo a queste persone tutti gli strumenti necessari per offrire loro una educazione finanziaria seria, con una attenzione particolare rivolta ai giovani e a tutti coloro che hanno bisogno di rientrare nel mondo del lavoro. Questa intesa dà concretezza e ulteriore forza agli accordi interistituzionali che il Cnel ha sottoscritto nei mesi precedenti: penso all’accordo su lavoro e formazione in carcere sottoscritto con il Ministero della Giustizia e all’intesa raggiunta con Assolavoro sul reinserimento lavorativo dei detenuti”, ha concluso. “Il microcredito e la microfinanza in genere” ha sottolineato il presidente ENM, Mario Baccini “sono strumenti duttili che implementano le ragioni di un’economia sociale e di mercato che rimette al centro del progetto finanziario la persona, con i suoi bisogni e le sue necessità, e l’accompagna dall’idea alla sua realizzazione attraverso un programma di tutoraggio e attività formativa del beneficiario che ne determina il successo. Sono convinto che l’accordo con il Cnel sarà funzionale a promuovere una nuova cultura economica in quelle fasce deboli che vogliono reintegrarsi nel sistema a vantaggio del Paese”. Condizioni degradanti in cella: risarcimento per il ras dei Casalesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2023 Gli sono stati riconosciuti 157 giorni di sconto di pena a causa delle condizioni disumane e degradanti subite in due distinti istituti penitenziari. Il protagonista di questa storia è Alfonso Iacolare, noto come il ras dei Casalesi e cugino acquisito del boss Francesco Schiavone detto “Sandokan”. Questa decisione è stata presa dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di diversi solleciti presentati a partire dal 2017. Dopo un lungo periodo di attesa di cinque anni, l’istanza presentata dall’avvocata Pina Di Credico ha finalmente ottenuto un’accoglienza favorevole. In particolare ha vissuto condizioni disumane e degradanti durante la sua detenzione presso la Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dal 29 novembre 2011 al 3 gennaio 2012, e successivamente presso la Casa circondariale di Ancona, dal 4 gennaio 2012 al 10 giugno 2016. L’Ordinanza rappresenta un passo significativo nel riconoscimento e nella valutazione delle sue condizioni umane e delle circostanze degradanti durante la detenzione. Il magistrato di sorveglianza, basandosi sulle osservazioni dell’avvocata Di Credico, ha esaminato diversi elementi cruciali per valutare la situazione detentiva, non limitandosi alle dimensioni della cella ma considerando anche l’accesso alle attività ricreative, le condizioni igieniche e sanitarie, e la durata complessiva della detenzione. Le condizioni del Reparto Tevere - Focalizziamoci sulla detenzione presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il periodo trascorso, dal 29 novembre 2011 al 3 gennaio 2012, è stato diviso tra il Reparto Danubio e il Reparto Tevere, evidenziando notevoli differenze nelle condizioni di detenzione. Nel Reparto Danubio, il detenuto è stato confinato in una camera di 12,18 mq dal 29 novembre 2011 al 17 dicembre 2011. Durante questo periodo, ha condiviso la camera con un compagno, usufruendo di un bagno separato di 2,96 mq, dotato di lavabo, bidet e water con acqua fredda. Il rapporto indica la possibilità di fruire della doccia calda nei locali comuni a giorni alterni, oltre alla libera disponibilità di acqua corrente calda miscelabile. La camera è stata descritta come dotata di finestra oscurata dalle sbarre, sufficiente luce artificiale e un arredamento fisso composto da due armadietti pensili e due letti singoli. Gli orari di apertura della camera per il passeggio e la socialità erano fissati rispettivamente dalle 9: 00 alle 11: 00, dalle 13: 00 alle 15: 00 e dalle 16: 15 alle 18: 00. Il riscaldamento durante la stagione fredda avveniva con termosifoni accesi per 4 ore al mattino e 4 il pomeriggio. Durante la permanenza del reclamante, sono stati organizzati corsi scolastici, di formazione e laboratori. Nel Reparto Tevere, dal 17 dicembre 2011 al 3 gennaio 2012, la situazione cambia drasticamente. Il detenuto ha condiviso una camera di 25,37 mq con altri sei detenuti. Sottraendo l’ingombro fisso del mobilio, compresi gli armadietti e i letti a castello, la superficie netta fruibile è risultata essere di 17,59 mq, da dividere tra i sette occupanti, corrispondendo a 2,51 mq per ciascuno. Questa condizione ha causato un grave disagio non compensato dai fattori precedentemente menzionati, in particolare dal limitato tempo trascorso fuori dalla camera, inferiore a sei ore. In questo periodo, il reclamante ha vissuto 18 giorni di carcerazione particolarmente gravosa e inumana presso l’Istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Poche ore d’aria ad Ancona - La fase successiva della detenzione di Alfonso Iacolare, dal 4 gennaio 2012 al 10 giugno 2016, presso il carcere di Ancona, rivela ulteriori dettagli sulle condizioni di reclusione del detenuto. La relazione istruttoria fornita dallo stesso penitenziario indica che il detenuto è stato assegnato a varie camere di pernottamento, da solo o con un compagno, tutte caratterizzate da una superficie di 9,36 mq netti. Tuttavia, la detrazione dell’ingombro del letto a castello, dello scrittoio fisso a muro e delle bilancette riduce la superficie netta a 6,80 mq, da suddividere su due occupanti in alcuni periodi, risultando in 3,40 mq per ciascuno. L’Istituto di Ancona ha fornito dettagli sulle strutture presenti, inclusi bagni separati accessibili attraverso una porta, dotati di lavabo e wc, areati e illuminati sia naturalmente che artificialmente. La stanza di pernottamento è anch’essa illuminata sia naturalmente che artificialmente, con riscaldamento fornito da termosifoni posizionati nella stanza e nel bagno. A partire da giugno 2014, è stata consentita la doccia tutti i giorni feriali, regolamentata da un ordine di servizio. Nonostante ciò emergono delle criticità significative nel periodo di detenzione ad Ancona. Durante questo periodo, al detenuto erano concesse solamente 4 ore e mezzo fuori dalla cella, dalle 9: 00 alle 11: 00 e dalle 13: 00 alle 15: 30, limitate ai periodi di passeggi o alla permanenza in una saletta per le attività sociali. Questa restrizione si è protratta per un lungo periodo, senza che l’Istituto abbia fornito indicazioni chiare riguardo a un ampliamento delle attività esterne. Va notato che, nonostante la possibilità di fruire del campo sportivo una volta a settimana, ciò coincideva con una delle fasce orarie menzionate. Il magistrato di sorveglianza ha espresso preoccupazione per l’obbligo imposto al detenuto di trascorrere circa venti ore al giorno in uno spazio poco superiore al limite di 3 mq stabilito dalla normativa convenzionale. Questa situazione, protrattasi per 1558 giorni in cui vi è stata la coabitazione di due detenuti in camera, ha creato condizioni carcerarie particolarmente penose, caratterizzate da aspetti concreti di disumanità. La mancanza di tempi certi - Il caso di Alfonso Iacolare rivela ulteriori sfaccettature complesse nel contesto del sistema carcerario italiano. Le osservazioni dell’avvocata difensore Di Credico evidenziano aspetti cruciali relativi al protrarsi delle istanze legali e alle condizioni detentive del cliente. In primo luogo, l’avvocata sottolinea la lunga attesa del Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia per la decisione su un’ulteriore istanza presentata da Iacolare nel 2019, riguardante il periodo di detenzione presso la Casa Circondariale di Parma, dove è attualmente recluso. Per quanto riguarda il riconoscimento della detenzione disumana subita nelle altre carceri, l’avvocata Di Credico sottolinea a Il Dubbio che questa attesa prolungata, di circa 5 anni dalla presa in carico della “riserva” nel maggio 2017, è considerata dalla difesa come una possibile violazione dell’articolo 5, comma 4 Cedu. Tale articolo sancisce il diritto di chi è privato della libertà di ottenere “al più presto” una decisione giudiziaria sulla legittimità della detenzione. La difesa ha quindi fortemente sottolineato la violazione dell’articolo Cedu, non solo in relazione al tempo trascorso per la decisione ma anche alla luce dei molteplici solleciti presentati nel corso dei cinque anni. L’articolo 5, comma 4 Cedu garantisce il diritto delle persone detenute di ottenere rapidamente una decisione giudiziaria sulla legittimità della loro detenzione. Nel caso di Iacolare, la difesa ha avanzato richieste in base all’art. 35 ter O. P. dell’ordinamento penitenziario, volto a ottenere una riduzione della pena detentiva in caso di illegittimità delle condizioni di detenzione. Tuttavia, emerge un vuoto normativo in quanto la legislazione italiana non fissa “termini” entro cui tali casi debbano essere esaminati e le decisioni devono essere pronunciate. Questa incertezza nella tempistica è evidente nel fatto che la prima istanza presentata nel 2016 è stata trattata solo all’udienza del 31 maggio 2017 ed è stata in riserva di decisione da ben 5 anni, mentre la seconda che riguarda il carcere di Parma, presentata nel 2019, è ancora in fase istruttoria. Natale in carcere: l’ALTrA Cucina aggiunge posti a tavola di Antonella Barone gnewsonline.it, 21 dicembre 2023 “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore”, evento organizzato dall’Associazione Prison Fellowship Italia onlus, in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito Santo, Fondazione Alleanza del RnS e il Ministero della Giustizia, festeggia la sua decima edizione con importanti novità. I pranzi prenatalizi, cucinati da chef stellati e serviti ai detenuti da personaggi noti, diventano anche un’occasione per sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare e sul riuso. Nella casa circondariale di Bologna il “cuoco-oste”, come è solito definirsi Filippo La Mantia, ha inventato un menù realizzato in parte con il cibo recuperato dagli sprechi, grazie alla campagna pubblica di sensibilizzazione “Spreco Zero”, progetto di Last Minute Market Impresa Sociale, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-alimentari Alma Mater Studiorum. Andrea Segrè, ordinario di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Università di Bologna e consulente del sindaco di Bologna per le politiche alimentari, ha servito ai tavoli, insieme a Marco Giallini, Edoardo Bennato e a molti altri volti noti. Al riuso è invece stato dedicato il pranzo che a Torino per la prima volta si è tenuto nella sezione sex offenders, dove si trovano detenuti che hanno commesso crimini a sfondo sessuale. I costumi e le scenografie dello spettacolo tenuto dagli Stardust sono frutto del lavoro di un secondo progetto, il “Laboratorio Riuso dello Scarto” che ha coinvolto altri reclusi. Sono stati 27 gli istituti coinvolti (Aosta, Alessandria, Torino, Milano Opera, Bologna, Castelfranco Emilia, Parma, Pesaro, Massa, Firenze minorile, Cagliari minorile, Lanusei, Roma Rebibbia, Teramo femminile, Aversa, Avellino, Ariano Irpino, Napoli Secondigliano, Napoli Nisida, Salerno, Eboli, Benevento, Paola, Palmi, Castrovillari, Vibo Valentia, Palermo), 4000 circa detenuti e detenute ospiti dell’iniziativa, 1200 volontari, 40 i cuochi e oltre 80 i rappresentanti del mondo dello spettacolo, dello sport, dell’arte e del giornalismo che hanno servito ai tavoli. Tra i tanti sponsor, uno d’eccezione: il liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza, che ha raccolto e devoluto la quota di mille euro per coprire parte delle spese dei Pranzi di Natale nelle carceri della Regione Calabria. Molti i familiari che hanno partecipato ai pranzi. “È curioso vedere come i detenuti trascurino di mangiare perché tengono in braccio i figli e per mano le loro mogli o compagne” ha detto nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’evento tenutasi ieri a Roma la direttrice nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo Marcella Reni che ha anche sottolineato come l’iniziativa serva “a far percepire il carcere come qualcosa che riguarda tutti”. Dieci anni fa il primo istituto a ospitare “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore” fu la casa circondariale di Roma Rebibbia “Germana Stefanini”. Il menù di oggi nel carcere della capitale è stato firmato dallo chef stellato Fulvio Pierangelini mentre a tavola hanno servito, tra gli altri, Nunzia De Girolamo, Rossella Brescia, Raimondo Todaro, Alda D’Eusanio e Stefano Masciarelli. Davvero non si potrà più scrivere nulla sulle ordinanze di custodia cautelare? di Valentina Stella Il Dubbio, 21 dicembre 2023 Sarà vietato pubblicare sui giornali il contenuto letterale e dettagliato degli atti. Non leggeremo più ad esempio riferimenti ad elementi anche irrilevanti per l’accertamento del reato. L’emendamento del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa approvato alla legge di delegazione europea due giorni fa alla Camera, così come riformulato su richiesta del Governo, comporta una modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale (divieto di pubblicazione di atti e di immagini) prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei principi sanciti dagli articoli 24 e 27 della stessa, il “divieto di pubblicazione integrale, o per estratto, del dispositivo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Secondo la Federazione Nazionale Stampa Italiana, che chiede al presidente della Repubblica Sergio Mattarella “di non firmare una legge che potrebbe essere fonte di immani distorsioni dei diritti”, “è pericolosissimo che non si sappia se una persona viene arrestata o meno”. Ma è davvero così? In realtà si potrà scrivere ovviamente che qualcuno è stato sottoposto alle misure cautelari e spiegare i motivi che giustificano le misure restrittive. Ma lo si potrà fare in maniera sintetica. Sarà vietato pubblicare sui giornali il contenuto letterale e dettagliato degli atti. Non leggeremo più ad esempio riferimenti ad elementi anche irrilevanti per l’accertamento del reato, tratti magari dall’informativa dei carabinieri. Ora bisognerà attendere la modifica del codice di rito. Come per la legge di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, nei prossimi mesi si dovrà capire che forma particolare dovrà assumere il sunto dell’ordinanza, cosa accade se il divieto verrà aggirato, se ci saranno sanzioni per i giornalisti che, nel mercato nero della notizia, avranno comunque accesso all’ordinanza di custodia cautelare in mano solo alle parti e la pubblicheranno, se la Procura avrà l’obbligo di indagare sulla fuga del provvedimento. Vietare la pubblicazione delle ordinanze d’arresto è garantismo, non il funerale della libertà di Sergio Soave Il Foglio, 21 dicembre 2023 La norma proposta dal deputato di Azione Enrico Costa e approvata dalla Camera non è un bavaglio: bisogna ricordare che un indagato resta “innocente fino a sentenza definitiva”. Oggi si celebra “il funerale della libertà”: ce lo dice Repubblica che insorge contro la “legge bavaglio”, cioè la norma che vieta la pubblicazione delle ordinanze dell’arresto di un indagato, votata alla Camera da una maggioranza più ampia del solito, visto che era stata proposta da un esponente di Azione e ha ottenuto il voto, oltre che della maggioranza di centrodestra, anche dei due raggruppamenti centristi. Bisognerebbe ricordare che chi perde davvero la libertà è l’indagato sottoposto all’arresto cautelare, un indagato che resta “innocente fino a sentenza definitiva”. Che cosa è scritto in queste ordinanze? Ce lo dice proprio Repubblica: “C’è tutta la storia di arresti, interrogatori, intercettazioni, perquisizioni”, che vengono resi noti prima che la consistenza degli indizi venga vagliata in un processo, in cui c’è solo il punto di vista delle procure. Ora che questi testi non potranno essere pubblicati “le procure diventano mute”. Ma le procure debbono esprimersi nel procedimento, come ha spesso ricordato Sergio Mattarella, anche in discorsi pronunciati come presidente del Consiglio superiore della magistratura. Alla stampa mancheranno elementi di informazione, ma si porrà anche un freno al micidiale meccanismo mediatico-giudiziario che spesso sembra improntato a una logica da “sbatti il mostro in prima pagina”. Ci sono stati tanti, troppi casi, in cui indagati e arrestati sono stati poi assolti completamente in tribunale, ma hanno visto distrutte la loro carriera e la loro vita dalla diffusione delle motivazioni, poi rivelatesi insufficienti, delle accuse. I processi si dovrebbero fare solo in tribunale, non sulla pubblica piazza mediatica. La libertà di informazione va tutelata, e sarebbe interesse dei mezzi di informazione seri tutelarla pure dagli abusi che, anche in buona fede, vengono commessi a danno degli indagati a causa della ricerca del sensazionalismo. Una riflessione seria sui rapporti necessari tra libertà di stampa e diritti e garanzie degli indagati sarebbe il modo più sensato di affrontare la questione, senza bisogno di agitare gli spettri del “funerale della libertà”. Macché “bavaglio”. Ecco cosa c’è davvero nell’emendamento Costa di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 dicembre 2023 La norma voluta dal deputato di Azione mira a limitare lo sputtanamento mediatico delle persone soltanto indagate. I giornalisti potranno continuare a riportare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare. Altro che censura. Martedì sera la Camera ha dato il via libera alla norma proposta dal deputato di Azione Enrico Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, cioè i provvedimenti attraverso i quali i magistrati dispongono l’arresto in carcere, i domiciliari o altre misure di limitazione della libertà degli indagati. La norma, presentata come emendamento al ddl di delegazione europea sul recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, introduce “il divieto di pubblicazione integrale, o per estratto, dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Diversi quotidiani hanno riportato la notizia in modo indignato, parlando di “bavaglio” e addirittura “funerale della libertà”. In realtà, l’emendamento Costa mira a un obiettivo nobile, cioè quello di limitare lo sputtanamento mediatico delle persone soltanto indagate, e non ancora rinviate neanche a giudizio. Le ordinanze di custodia cautelare, infatti, sono diventate nel tempo un contenitore di informative, intercettazioni e altri documenti spesso dal contenuto penalmente irrilevante, ma molto impattante sulla reputazione degli indagati e di terzi. La norma non fa che riportare le lancette dell’orologio a prima dell’approvazione nel 2017 della riforma Orlando, che rese pubblicabili le ordinanze di custodia cautelare. Non risulta che prima del 2017 i giornalisti in Italia avessero il bavaglio, e lo dimostrano le tante storie dei malcapitati passati per il tritacarne mediatico-giudiziario. Con la nuova norma, infatti, semplicemente le ordinanze non potranno essere pubblicate in modo letterale, ma soltanto nel loro contenuto (attraverso una sintesi). Il governo dovrà ora dare attuazione alla delega contenuta nell’emendamento Costa. Se gli effetti della norma restano da verificare, la cosa certa è che non esiste alcun bavaglio contro cui il mondo dell’informazione dovrebbe battagliare. Tutto quello che non saprete più con l’emendamento-bavaglio di Federico Marconi Il Domani, 21 dicembre 2023 Il testo prevede il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Così molti dettagli delle inchieste rimarranno nascosti all’opinione pubblica. Non potremo conoscere motivazioni e circostanze delle accuse, le dinamiche dei fatti, i colloqui che danno sostanza a una accusa. Non potremmo sapere per quale motivo, nel 2014, i magistrati di Roma decisero di chiamare l’inchiesta su Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e sodali, “Mondo di mezzo”. La famosa frase di Carminati su Roma, dove ci sarebbe un “mondo di mezzo” appunto “in cui anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”, era contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato all’arresto del boss e i suoi. Non potremo più conoscere nemmeno le dinamiche di omicidi e femminicidi che scuotono l’opinione pubblica; o gli intrecci tra politici e organizzazioni criminali, che siano oggetto di indagine o meno; oppure gli scambi in cui un procuratore ipotizza la corruzione di un amministratore pubblico o di un politico. Insomma, l’emendamento Costa metterà un bel bavaglio al lavoro dei cronisti che raccontano le attività delle procure e non darà la possibilità ai cittadini di conoscere i motivi di una decisione importante come una misura cautelare, fino all’inizio del processo. Un grave danno al diritto di informare e di essere informati: dare conto di un’indagine e dei motivi che portano un pubblico ministero a chiedere un arresto, e a un giudice ad autorizzarlo, rende possibile approfondire i motivi di un’indagine. E non per condannare anticipatamente un accusato, ma anche per criticare il lavoro di un magistrato se necessario. Bavaglio alla stampa - L’emendamento di Enrico Costa, deputato e vice segretario di Azione, il partito di Carlo Calenda, è passato martedì alla Camera con 160 voti favorevoli e 70 contrari. Un grande successo per una proposta di modifica a una legge di un parlamentare di opposizione, che ha trovato una forte sponda nella maggioranza di governo. Il testo di Costa prevede il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, quell’atto con cui un pm chiede “e un gip convalida “il fermo in carcere o ai domiciliari di un indagato perché si corre il rischio che scappi e si renda latitante, inquini le prove, o reiteri il reato. Nelle ordinanze si possono trovare la storia personale delle persone per cui è disposto l’arresto, stralci di interrogatori o intercettazioni, risultanze delle indagini, delle perquisizioni, e i nomi degli altri indagati che rimangono a piede libero. Adesso, l’articolo 114 del codice di procedura penale vieta la pubblicazione letterale degli atti d’indagine “compresi quelli non più coperti dal segreto “in forma integrale o parziale fino alla conclusione dell’indagine stessa: ovvero fino a quando un giudice dispone l’archiviazione o il rinvio a giudizio degli indagati. Secondo Costa, la pubblicazione di questi atti lede il principio di non colpevolezza dell’indagato. Cosa non sapremo - Sono tante le informazioni che i cronisti non potranno più dare fino alla fine delle indagini. Come per esempio quali siano “i gravi indizi di colpevolezza” che portano un giudice a disporre un arresto. Tra questi c’è la dinamica di un omicidio o di un femminicidio. Come quello della giovane Giulia Cecchettin, che ha sconvolto e mosso le coscienze di tutta Italia: con l’emendamento Costa non si potranno conoscere la brutalità e l’efferatezza del suo femminicida fino all’inizio del processo. Non si potranno conoscere gli affari, i luoghi da cui comanda, le attività su cui decide, chi è indiziato di essere a capo di un’organizzazione criminale o mafiosa. Come nel caso di “Mondo di mezzo”, appunto, o in altri in cui i clan collaborano con politici e colletti bianchi: basti pensare all’inchiesta della Dda di Catanzaro “Rinascita Scott”, che il 19 dicembre 2019 portò all’arresto di 334 persone, svelando gli affari e i legami della famiglia Mancuso di Limbadi, nel vibonese. Tra questi c’erano quelli con Giancarlo Pittelli, accusato (e lo scorso novembre condannato a 11 anni di reclusione, insieme ad altre 206 persone) di concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo la notizia del suo arresto, partendo dagli elementi presenti proprio sull’ordinanza di custodia cautelare, si era aperto un acceso dibattito sulla sua innocenza o presunta colpevolezza: dibattito che ora, con la stretta voluta da Costa e dalla maggioranza, non sarà più possibile. Come non sarà più possibile raccontare le inchieste delle procure sulla corruzione, come nel caso dell’inchiesta sullo stadio della Roma a Tor di Valle, che vide arrestati importanti costruttori come Luca Parnasi, dirigenti di aziende pubbliche come l’avvocato Luca Lanzalone a capo di Acea, e politici tra cui il presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito. Nell’ordinanza poi spuntavano tra gli indagati i nomi i tesorieri di Pd e Lega dell’epoca, Francesco Bonifazi e Luca Centemero. Con il nuovo bavaglio deciso dal parlamento, i motivi delle decisioni dell’accusa non si potranno più conoscere. Il lamento di giornali e pm che rimpiangono già il mercato delle carte di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 21 dicembre 2023 La reazione della stampa dopo l’ok all’emendamento Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze cautelari non stupisce. L’iniziale dissenso di Nordio sì, invece. Quel che stupisce, dopo la votazione della legge che vieta la pubblicazione delle ordinanze di arresto, è l’iniziale dissenso del ministro Nordio. Ben altro comportamento aveva tenuto l’ex guardasigilli Cartabia sul voto che riguardava la presunzione di innocenza. Due mele dello stesso paniere, indispensabili perché l’Italia si adegui finalmente alle normative europee sulle garanzie e i diritti dei cittadini. Cioè alla norma votata nel marzo 2021, su cui la ministra del governo Draghi si era impegnata perché il nostro ordinamento si allineasse, sia pure con ritardo, alla direttiva europea del 2016 che vieta alla magistratura e alla stampa di presentare gli indagati e gli imputati come colpevoli. Basta con le gogne mediatiche e le conferenze-stampa show dei procuratori, aveva sancito quel giorno il Parlamento, anche in quell’occasione, come quella di questi giorni, su sollecitazione di quel diavolaccio del deputato Enrico Costa (in quella circostanza affiancato dal collega di +Europa, Riccardo Magi), di cui ancora non si capisce perché il partito di Berlusconi l’abbia lasciato andare nelle fila di Azione. Dal punto di vista del pallottoliere della politica d’aula, a Montecitorio alla fine è un vantaggio per la maggioranza, dal momento che, aggiungendo anche i voti dei parlamentari di Italia Viva, con il voto di lunedi l’area di governo ha portato a casa 160 voti favorevoli su 70 contrari a una norma di grande civiltà. Quella che vieterà, dopo l’approvazione anche al Senato, la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Cioè di quei documenti che nel corso del tempo (non è sempre stato così) si sono sempre più arricchiti di intercettazioni, spesso non pertinenti, e anche di pettegolezzi e chiacchiericci. Veri pamphlet che spesso parevano cuciti apposta addosso al malcapitato indagato di turno per esporlo alla gogna, più ancora che per costruirgli un’imputazione che reggesse al processo. Poi arrivava, a completare l’opera, la conferenza stampa del procuratore che aveva promosso il blitz, cui nella maggior parte dei casi qualche gip si era adeguato fino a firmare il provvedimento di custodia cautelare spesso in carcere. E l’ordinanza ricopiava in gran parte lunghi passi della richiesta della procura messi tra virgolette. Senza pudore, visto che diverse sentenze della cassazione avallavano l’opera di plagio, anche se in contraddizione con altrettante opinioni avverse di altre sezioni. Ma il paradosso è che tutto ciò, con un ricco florilegio di testimonianze opache e imprecise, con i “sentito dire” uniti ai “mi pare che”, “mi hanno riferito che” veniva travasato direttamente sui giornali, nelle tv e poi sui social. Lo consentivano leggi pure loro ambigue, volute dai ministri Orlando del pd e Bonafede dei cinque stelle. E le truppe dei cronisti fedeli pronte a interpretare la formula “atti depositati a disposizione delle parti”, come atti pubblici. Cioè a disposizione della peggior gogna mediatica. Il tutto nel nome del famoso motto “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. C’è stato, in questi anni, un vero mercato di queste carte, più succulente in quanto consentivano di frugare nella vita di persone la cui reputazione distrutta era tanto più appetitosa quanto più era pubblico il personaggio coinvolto. Non stupisce il fatto che un ex magistrato come Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del Movimento cinque stelle, dia voce a quella che è l’ossessione di certi ambienti, dicendo “perché non si vuole rendere pubblico che esistono persone corrotte e appartenenti alla borghesia mafiosa?”. Povera Costituzione, e povero articolo 27 sulla presunzione di non colpevolezza, se anche chi ha indossato la toga pare dimenticare che stiamo parlando del divieto di rendere pubbliche ordinanze che riguardano indagati. Indagati, non “corrotti e appartenenti alla borghesia mafiosa”! Ma il parlamentare del gruppo grillino della Camera è in buona compagnia, visto che si sta già muovendo a manifestare il sindacato dei giornalisti, la Fnsi, sempre pronta a gridare contro il “bavaglio alla stampa”. E senza pudore sono in prima fila nella protesta proprio quei giornalisti grandi firme i cui maneggi con i magistrati nel traffico di carte coperte da segreto erano usciti allo scoperto ai tempi della vicenda Palamara e delle intercettazioni con il trojan. Un po’ più inspiegabile e contraddittorio appare comunque il comportamento del governo e del ministero di giustizia, a partire dal guardasigilli Carlo Nordio, che era contrario all’emendamento Costa e ha poi dovuto cedere. Possibile che, quando programmava la propria riforma sulle intercettazioni intendesse solo limitarne la divulgazione senza prevedere di metterne in sicurezza il contenitore? E quindi ritenere che la mela marcia stesse in un cestino sano? È singolare il fatto che solo l’insistenza di un singolo deputato di opposizione, che evidentemente aveva la forza di trascinare con sé anche l’intera maggioranza, e il suo “ricatto” sul voto segreto, sia riuscito a muovere la montagna di un governo ritroso. Che evidentemente sulla giustizia è ancora debolissimo. E anzi, finora addirittura contro-riformatore. Chi attacca i magistrati, attacca la Costituzione di Gian Carlo Caselli La Stampa, 21 dicembre 2023 Il Guardasigilli Carlo Nordio, parlando ai magistrati di Area riuniti a Palermo ha fatto il suo mestiere, sintetizzabile nella frase “tutto va ben madama la marchesa”. Peccato che le cose non stiano esattamente così. La riforma costituzionale della separazione delle carriere fra Pm e giudici “checché ne pensi Nordio che la vuole anche se dice di sentirsi “ancora la toga addosso” “avrà inesorabilmente, come risultato, di subordinare il Pm all’esecutivo. Così è ovunque vi sia una qualche declinazione della separazione. La verità è che le (contro) riforme come questa non sono funghi che spuntano per caso. Ricordo una lettera aperta che ebbi occasione di scrivere al premier Berlusconi, che dopo aver duramente attaccato la magistratura in due interviste allo Spectator e alla Voce di Rimini, a fronte delle vigorose reazioni che ne seguirono, diramò un comunicato per affermare che il suo “rispetto per l’impegno della magistratura non poteva essere messo in discussione”, mentre ribadiva la “presenza di incontestabili comportamenti faziosi di singoli procuratori”. Dunque, le contestazioni di B. non avrebbero riguardato l’intero ordine giudiziario, ma soltanto singoli procuratori. Non era così, come dimostrano le vicende del nostro Paese degli ultimi anni. All’inizio, è vero, ad essere oggetto “non di critiche (ovviamente legittime e spesso utili) “ma di attacchi apodittici e indiscriminati sono stati solo alcuni procuratori. Ma poi, man mano che le indagini si concludevano, hanno cominciato ad essere delegittimati e offesi i magistrati giudicanti: tutte le volte in cui sono stati chiamati a occuparsi di processi sgraditi e hanno deciso in maniera contrastante con le aspettative degli interessati. Alla fine, l’attacco “da B. personalmente condotto con un intervento televisivo a reti unificate “si è addirittura rivolto contro le Sezioni unite della Cassazione, massimo organo giudiziario del nostro sistema, “colpevole” di non aver applicato “la legge Cirami” come ci si aspettava. Il problema, allora, non era costituito da singoli procuratori. L’attacco era, per così dire, a geometria variabile, nel senso che poteva subirlo qualunque magistrato “pubblico ministero o giudice, quale che fosse la città o l’ufficio in cui operava “ogni volta che avesse la sfortuna (spiace dirlo: ma è questa la parola giusta) di imbattersi in vicende delicate. Ciò poneva “e pone ancora oggi “una serie di interrogativi ineludibili. È giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato sol perché indaga o eventualmente condanna “per fatti specifici “un personaggio pubblico? E, viceversa, è giusto applaudire, sempre a priori, il magistrato che assolve quell’imputato? Quando si tratta di personaggi di peso (imputati per fatti specifici e non certo per il loro status) giustizia giusta è, per definizione, solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine fra attacco e intimidazione? Ecco: la storia dei rapporti far politica e magistratura in Italia è fatta di questi interrogativi. Nei quali affondano anche le radici della (contro) riforma sulla separazione delle carriere, che proprio per questo preoccupa non poco. Quanto poi all’altro punto trattato da Nordio (l’efficientamento “bella parola ! “dei processi) per il penale non c’è niente di niente in vista. Anzi per certi profili (sembra impossibile, ma Nordio ci sta provando) persino un peggioramento. Penso all’introduzione di nuovi reati pur sapendo che non servono a nulla, se non a fare la faccia feroce per rassicurare la pubblica opinione; penso al ritorno della prescrizione vecchio stile, per cui ciò che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi casi che l’ingranaggio non riesce a concludere, da noi finisce per strutturarsi come fenomeno patologico. Penso infine a una misura destinata a ingolfare una macchina già in panne, come la moltiplicazione dei giudici che dovrebbero decidere la custodia cautelare in carcere. Violenza di genere. “Agire con velocità, ma garanzie ai sospettati” di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 21 dicembre 2023 L’emergenza, le norme e un equilibrio difficile da mantenere Esperti a confronto dal braccialetto elettronico alla formazione. La domanda non è retorica. Se la stanno ponendo tutti il giorno dopo il brutale omicidio di Vanessa Ballan. Poteva essere salvata? Perché il codice rosso non ha funzionato? Perché la denuncia non ha tenuto lontano da lei lo stalker che poi l’ha uccisa? Lo chiede il senatore del Pd Andrea Martella: “È necessario non sottovalutare i segnali di allarme, dare credito alle donne che denunciano e ricorrere meglio alle misure cautelari e al braccialetto elettronico”. “Dobbiamo accertare cosa non ha funzionato nel sistema a tutela delle donne e se, nonostante la denuncia, vi sia stata una pericolosa sottovalutazione” aggiunge la presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio Martina Semenzato, deputata di Coraggio Italia. Piero Fassino, deputato Pd eletto in Veneto: “La giusta esecrazione non è sufficiente. Le autorità giudiziarie e di polizia spieghino perché non sono state assunte le misure di prevenzione e di allontanamento nei confronti di Bujar Fandaj”. La consigliera dem Vanessa Camani coinvolge la Regione: “Il lutto regionale non basta. Serve istituire un osservatorio sulla violenza di genere. Vanno chiarite le competenze, chi deve agire prima e dopo una denuncia, serve elaborare statistiche, analizzare i contesti. Le forze dell’ordine devono avere strumenti per intervenire. Serve un piano di azione su più livelli”. Claudia Longhi, portavoce regionale delle Donne democratiche, è avvocatessa e si occupa di violenza sulle donne: “Continuo a imbattermi in vicende in cui le denunce vengono sottovalutate e questo è il primo, grande problema. Ci siamo trovati anche davanti a un prefetto, a Padova, che nega i femminicidi, dicendo che sono poche decine e non oltre un centinaio. Quindi sì, c’è un problema di sottovalutazione”. Si può fare molto di più per salvare vite: “Il procuratore ha poteri di attività istruttoria, ha a disposizione la polizia per le indagini, può fare intercettazioni. Non possono esserci dubbi, gli strumenti ci sono. Non esiste che non ci siano elementi: vuol dire che non sono stati cercati”. Il consiglio di Longhi alle donne è di presentare denuncia assieme a un avvocato: “Sa presentare un documento più efficace, evidenziando le cose più importanti affinché il magistrato proceda. Certo, serve che la persona che registra la denuncia ne comprenda la rilevanza, e qui subentra il tema della specializzazione. Ma senza una formazione continua, che aiuti ad analizzare il contesto e percepire la realtà, essere specializzati non basta. Conoscere a memoria la legge è un conto, capire la violenza di genere, intercettarla e intervenire è altro”. Mentre per Longhi il braccialetto elettronico è una soluzione importante, “consente di avvisare tempestivamente”, per la presidente del centro anti violenza di Treviso, avvocatessa Stella Di Bartolo “è un’arma spuntata”: “Avvisa se vengono violati i 500 metri di distanza, prima che arrivino le forze dell’ordine può succedere di tutto”. Il codice rosso però funziona, dice, “garantisce rapidità di intervento, è una corsia prioritaria per mettere in sicurezza la donna e i minori”. Del codice rosso ha parlato ieri anche il Gip di Venezia Luca Marini: “La nostra risposta alle richieste della Procura va dal giorno alle 48 ore, ma sulla violenza in ambito domestico e sentimentale non possiamo fare noi prevenzione, riguarda la polizia giudiziaria. È anche vero che molti fatti sono imprevedibili”. E poi c’è il problema dell’organico: “L’ufficio Gip di Venezia ha cinque persone su un organico di 9 rileva Marini - i codici rossi trovano sì risposta ma vanno a intasare il resto del lavoro”. Quindi, il codice viene rispettato, ma manca il personale. Mancano gli strumenti. Lo sa bene Di Bartolo: “Talvolta i tempi di intervento possono non essere compatibili con l’emergenza, come è accaduto nel caso di Giulia Cecchettin, quando i carabinieri erano stati avvertiti ma erano impegnati in altra attività. La tutela più grande per le donne è il carcere della persona violenta, ma non sempre è fattibile, se non vogliamo ragionare solo di pancia”. Per Bujan, invece, non c’era alcuna misura: né il braccialetto, di cui molti oggi chiedono conto, né il carcere. “Ma non c’erano avvisaglie, le minacce sembravano essersi arrestate... ogni storia è diversa, è difficile prevedere cosa succederà” suggerisce l’avvocatessa. Però si possono dare consigli. Di Bartolo, per prima cosa, ritiene sia giusto rivolgersi a un Cav: “Sia che il comportamento maltrattante o persecutore sia evidente, sia che venga percepito, anche come subdolo segnale di controllo. I centri possono dare tutte le informazioni: si parte con un contatto telefonico, si fissa un incontro che diventa immediato se c’è l’urgenza. La donna viene indirizzata alle forze dell’ordine per la querela e il Pm delega le indagini valutando la necessità di misure cautelari”. Ne parla Antonino Cappelleri, già procuratore di Vicenza e Padova: “Non potrà mai esistere un sistema che garantisca totale impermeabilità, da sempre sappiamo che la repressione penale non può dare risultati esatti. E ricordiamo anche che, nel caso di un denunciante malintenzionato, agire con immediati divieti prudenziali nei confronti dell querelato diventa un’arma quantomeno di ricatto. La risposta non può essere solo di polizia: serve una ampia convergenza di tanti fenomeni, innanzitutto educativi e culturali, poi di controllo, vigilanza e repressione. Ma gli uni senza gli altri non sono misure sufficienti. Solo insieme possono ridurre il rischio. Mai eliminarlo”. Violenza di genere. Il “doppio binario” rischia di generare un’ingiustizia doppia di Felice Manti Il Giornale, 21 dicembre 2023 Lo spauracchio dell’ennesimo ingiusto processo fa capolino nella tragica vicenda della povera Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa dal fidanzato Filippo Turetta. Un processo che sembra già scritto, in sfregio ai diritti del ragazzo, tanto che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Venezia ha dovuto dichiarare l’ovvio, in questo orrendo clima perennemente forcaiolo e panpenalista: “Dobbiamo garantire, come prevede il codice di procedura penale, i diritti dell’indagato, la serenità alle parti. L’indagato non si deve sentire condannato, prima che i fatti vengano accertati nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione. È un fatto di civiltà a cui tutti dovremmo riferirci”. Una chiosa su cui si è interrogata la Giunta dell’Unione delle Camere Penali, che ha elaborato un documento scritto assieme all’Osservatorio Doppio binario e giusto processo. Un testo sofferto, che Il Giornale ha avuto modo di leggere. E che interroga tutti quelli che hanno a cuore la giustizia. E che fa riferimento a un’altra vicenda già incardinata in un processo, quello per presunta violenza sessuale a carico di Ciro Grillo in corso al Tribunale di Tempio Pausania. Un procedimento ugualmente mediatico, ragionano gli autori del testo, su cui si sono accesi i riflettori perché tra gli imputati è presente il figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle. Cosa unisce questi due procedimenti? Una presunzione di colpevolezza. Che va anche oltre: “Si insinua nel contesto sociale l’idea che nei processi in cui si tenta di accertare la sussistenza di fatti corrispondenti ad ipotesi di violenza sessuale, sia necessario - al fine di proteggere le vittime dei reati - introdurre regole di svolgimento del giudizio diverse e distoniche da quelle pur previste dal codice di rito e quindi utilizzate in tutti gli altri processi”. Il documento fa riferimento alle polemiche sulle dichiarazioni dei legali di Grillo e degli altri imputati dopo alcune domande “sconvenienti” poste alla ragazza che ha denunciato la violenza. “Ci si propone di superare queste regole - recita la nota della Giunta e dell’Osservatorio - e di limitare il diritto di difesa, introducendo un sistema che in conseguenza del dato di allarme sociale, non si limiti a codificare nuove regole di contrasto al fenomeno, mediante una più penetrante e sollecita attività di polizia, ma abbia una sua corsia autonoma di tipo emergenziale, anche all’interno dell’istruttoria dibattimentale”. Eccolo, il rischio. Un doppio processo, un doppio binario. Entrambi ingiusti, verrebbe da dire. Perché se è lecito stare sempre e comunque con le vittime di reati così odiosi, il ragionamento che emerge è straziante: “Nessun imputato di violenza sessuale, per il solo fatto di essere accusato di quel delitto, può essere considerato colpevole. E, di conseguenza, per quanto impopolare possa apparire tale affermazione, nessuna persona offesa può essere considerata certamente vittima di una violenza sessuale per il solo fatto di avere sporto una querela, per quanto orribile il fatto rappresentato possa risultare”. Eccolo, il cuore del problema. “È proprio la gravità dell’accusa che viene rivolta ad un cittadino che impone, infatti, di assegnargli il diritto di difendersi secondo le regole e i principi del nostro codice”. Un eventuale doppio binario, tenero con le presunte vittime e durissimo con i presunti carnefici, sarebbe una doppia, drammatica ingiustizia. Perché, e la statistica sul dramma della malagiustizia ce lo ricordano sempre, “un infamante ma infondata accusa si trasformerebbe nella tragedia di un innocente ingiustamente condannato”. E ne abbiamo visti fin troppi. L’intelligenza artificiale serve ma non può sostituirsi al giudice di Giovanna De Minico Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2023 Perché una persona ha diritto a essere giudicata da un giudice? Risposta: perché ognuno di noi ha fiducia solo nel suo simile. Così i nobili si sottrassero al giudizio del Re pretendendo con la Magna Charta di essere sottoposti a quello di un loro pari. Vediamo allora cosa può fare l’intelligenza artificiale, una volta entrata in un tribunale: intervenire a fianco del giudice o in sua vece? Anche se la chiamiamo intelligenza, manca proprio di quelle facoltà cognitive e di giudizio che assistono la mente umana. Opera, non secondo valutazioni causali, ma su accostamenti di parole, che statisticamente seguono quelle che le hanno precedute e a loro volta anticipano quelle che verranno. Essa riproduce per l’avvenire quanto è accaduto in passato secondo una ricorsività della storia che la condanna a un irreale immobilismo e impedisce al diritto di seguire il cambiamento della realtà. L’interpretazione evolutiva, quella del giudice che assicura l’aderenza della norma ai fatti, non altera la espressione letterale della norma pur conseguendo l’effetto di assegnarle un significato dinamico. Senza considerare che anche il mito dell’infallibilità dell’I.A. cade a pezzi dinanzi agli algoritmi zeppi di discriminazioni pescate a strascico in rete. È a tutti noto il caso dell’algoritmo Compass, che aveva assegnato a un imputato di colore un punteggio di recidiva solo in base alla propensione criminale della sua gente, rivelatasi poi errata alla luce degli accertamenti dei reati effettivamente commessi dai neri. Quindi, il giudice robot ci assicura che ciò che è stato deciso finora varrà anche in futuro con buona pace per l’evoluzione dell’interpretazione, mortificata a un computo metrico, e ci assicura anche che gli errori del passato si ripeteranno in futuro negando alla persona capacità di redenzione e presunzione di innocenza. Di contro ci offre una prestazione di garanzia: ciascuno di noi sarà trattato nello stesso modo di chi condividerà le nostre medesime condizioni. Domanda: perché temiamo che la discrezionalità del giudizio umano sia cedevole ai favoritismi e incline alle punizioni ingiuste, mentre riponiamo cieca fiducia nell’automatismo della mente meccanica come in un verdetto incontrovertibile? Niente può dimostrare la fondatezza delle seguenti equazioni: giudice=parzialità; I.A. =imparzialità. Anzi la posizione costituzionale di autonomia del giudice rispetto alle parti, ai suoi colleghi e agli altri poteri dello Stato rappresenta la garanzia oggettiva nel processo dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Eppure, nonostante il verdetto di un cervellone meccanico sia oscuro nei ragionamenti, difficilmente replicabile in giudizio e imperscrutabile alla mente umana, ci farebbe fare sonni tranquilli. Ma si è sereni solo se quanto verrà deciso su di noi, è il risultato di un criterio razionale di valutazione dei fatti, capace di tenere conto delle particolarità del caso concreto, ed elastico nel soppesare secondo proporzionalità pro e contro di una decisione al fine di scegliere la misura, tra quelle indicate dalla norma, più aderente ai fatti e più compatibile con la coesistenza di interessi antagonisti. Ebbene, questa opera di confronto e comparazione in vista di un equilibrio minimamente sacrificante e conforme al diritto è l’esito riservato al pensiero umano, non anche all’accadere meccanico secondo un giudizio di probabilità. Allora le porte del processo sono sbarrate all’I.A.? No, ma semichiuse: si aprono solo per accertare i fatti, aiuto questo, da valorizzare ai fini istruttori, su cui il giudice conserva il ruolo di dominus di ultima istanza. Non esistono prove dotate di infallibilità, il che esclude il ricorso a quelle tecniche neuronali - macchina della verità, elettroencefalogramma e simili - che visualizzano all’esterno i nostri movimenti cerebrali. Non solo perché non si può scavare nel foro intimo per cercare ciò che la persona vuole tenere per sé, ma perché davanti al giudice le significazioni precostituite si sbriciolano come un castello costruito sulla riva del mare. Queste porte sono invece chiuse se l’I.A. volesse anche solo sostenere il momento valutativo del giudice, in quanto, entrato mel processo l’albero di Natale con le sue lucine, sarebbe difficile per il giudice resistergli e mantenere il suo giudizio indenne dal suggerimento intelligente, perché brilla come luce vera. Se tracciamo questa corretta linea di confine tra aiuto meccanico e mente umana l’ingresso dell’I.A. nel processo può essere di ausilio al giudice, ma non operare in sua vece. Penso che la persona abbia diritto, non ad appagamenti illusori, automatici e discriminatori, ma a una giustizia ragionevole, evolutiva e secondo diritto. *Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Università Federico II di Napoli Il tribunale di Milano riconosce la Naspi a un ex detenuto di Giorgio Sbordoni collettiva.it, 21 dicembre 2023 La sentenza accoglie il ricorso presentato dall’Inca provinciale per il riconoscimento dell’indennità a un uomo che aveva lavorato durante la detenzione. Il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 4380/2023 pubblicata il 12/12/2023, ha accolto il ricorso giudiziario promosso dal legale Silvia Gariboldi e da Inca Milano per il riconoscimento della NASpI a un ex-detenuto che aveva svolto attività? lavorativa durante il periodo di detenzione. La storia - “L’assistito “racconta un comunicato della Cgil di Milano “e? stato detenuto presso la casa circondariale San Vittore di Milano dal 17 settembre 2020 al 27 settembre 2021, giorno in cui e? stato scarcerato in quanto ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare, e in quel periodo ha prestato attivita? lavorativa per conto del ministero della Giustizia, lavorando tutti i giorni della settimana con un giorno di riposo e per tale attivita? e? stato regolarmente retribuito e assicurato all’Inps, per cui alla data di cessazione del rapporto di lavoro presentava tutti i requisiti per il riconoscimento della NASpI”. “L’Inps ha rigettato sia la domanda sia il conseguente ricorso sostenendo che la detenzione carcere ha caratteristiche particolari in considerazione della sua funzione rieducativa e del reinserimento sociale. Sono previsti infatti la predisposizione di una graduatoria per l’ammissione al lavoro, turni di rotazione e l’avvicendamento tra i detenuti: circostanze che, secondo l’Istituto, non possono essere assimilate al licenziamento, al quale solo e? collegato il diritto all’indennità”. “L’Inps, quindi, non contesta la sussistenza del diritto, ma, invece, il fatto che il lavoro prestato all’interno dell’istituto penitenziario abbia delle caratteristiche affatto diverse ed incompatibili con la ratio che sottende all’istituto della indennità di disoccupazione, effettuando conseguentemente una distinzione tra l’attività lavorativa svolta dai detenuti all’interno dell’Amministrazione penitenziaria e alle dipendenze della stessa e quella svolta alle dipendenze di soggetti diversi (ad es., cooperative) interni o esterni alla struttura”. “Come noto “rileva il sindacato nella nota “tale posizione e? stata assunta dall’Inps solo col messaggio n. 909 del 5 marzo 2019, senza che fosse intervenuto alcun cambiamento nella normativa: da qui la scelta dell’Inca di contrastare tale decisione, che oltre a creare una profonda disparita? di trattamento, nega il riconoscimento della prestazione a soggetti che invece ne avrebbero pieno diritto”. L’importanza della sentenza - “L’importanza della sentenza nella nostra attività di tutela “dichiara il patronato della Cgil “consiste proprio nelle motivazioni con cui viene ribaltata questa posizione dell’Istituto, affermando il seguente interessante principio: ‘(...) qualunque sia la ragione di quella disoccupazione involontaria - quale ad esempio la cessazione dello stato di detenzione del detenuto o invece l’avvicendamento al lavoro previsto da regolamenti penitenziari, al fine di consentire l’accesso l’attività lavorativa da parte di tutti - comunque si realizza quello stato di disoccupazione involontaria che giustifica la concessione della indennità. E ancora: Né esistono specifiche previsioni, da parte della legge istitutiva della Naspi, che escludano il riconoscimento della indennità ai detenuti”. Un importante riconoscimento - “Siamo quindi di fronte a un nuovo, importante riconoscimento, che conferma la giustezza delle nostre considerazioni, ma anche la necessita? di proseguire su questa strada affinché, per il futuro, non si debba passare dalle vertenze giudiziarie per vedere riconosciuto il diritto alla prestazione per questa categoria di utenti”. Il commento - “Non c’è due senza tre: la NASpI, indennità di disoccupazione, spetta anche ai detenuti che hanno prestato attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria”. A scriverlo è la Cgil di Milano in una nota di commento a questa vicenda. “Dopo la sentenza del Tribunale di Milano del novembre 2021 e quella di Busto Arsizio del luglio 2023, a ribadirlo ulteriormente una nuova sentenza del Tribunale di Milano che ha accolto il ricorso di un lavoratore detenuto seguito dalla Cgil Milano”. “La persona, detenuta a San Vittore dal settembre 2020 al settembre 2021, quando è stata ammessa alla misura alternativa della detenzione domiciliare, ha lavorato dapprima come imbianchino e poi come inserviente di cucina. Le parole usate nella sentenza sono ancora una volta molto chiare: qualunque sia la ragione della disoccupazione involontaria, quale ad esempio la cessazione dello stato di detenzione del detenuto o invece l’avvicendamento al lavoro previsti da regolamenti penitenziari, comunque si realizza quello stato di disoccupazione involontaria che giustifica la concessione dell’indennità”. “Non esistono specifiche previsioni, da parte della legge istitutiva della Naspi, che escludano il riconoscimento della indennità ai detenuti “ribadisce con chiarezza la Cgil di Milano “. Nessun fondamento ha quindi la posizione assunta dall’Inps, secondo il quale il lavoro prestato per l’amministrazione penitenziaria ha carattere del tutto peculiare e non può determinare l’accesso all’indennità di disoccupazione”. “Una nuova vittoria per la dignità del lavoro e per la nostra Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione di rieducazione e di reinserimento sociale. Una nuova vittoria contro una discriminazione odiosa alla quale la nostra organizzazione continuerà ad opporsi. Sono oramai tante le vittorie in tribunale su questo versante: alle tre sentenze lombarde se ne sommano altre nel territorio nazionale”. “Chiediamo con forza che Inps torni sui suoi passi e torni a riconoscere, senza la necessità di cause, la NASpI ai detenuti che hanno lavorato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Noi proseguiremo la nostra battaglia, continuando a raccogliere le domande di NASpi tra i detenuti degli istituti penitenziari milanesi e presentando ricorsi di fronte ai continui dinieghi”. Puglia. Accoglienza extra-carceraria per detenuti-genitori con bambini: approvato protocollo d’intesa baritoday.it, 21 dicembre 2023 La Regione impegnerà circa 200 mila euro per sostenere i costi relativi al mantenimento di genitori detenuti con figli al seguito nelle strutture coinvolte dall’accordo. Promuovere in via sperimentale attività volte a favorire l’accoglienza extra-carceraria a favore di genitori detenuti con bambini al seguito. È l’obiettivo del protocollo d’intesa, della durata di un anno, sottoscritto nell’ufficio dell’assessora al Welfare Rosa Barone, tra la Regione Puglia, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, l’Ufficio Interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Puglia e la Basilicata, il Centro per la Giustizia Minorile per la Puglia e la Basilicata e l’Anci Puglia. La Regione Puglia impegnerà circa 200 mila euro per sostenere i costi relativi al mantenimento di genitori detenuti con figli al seguito nelle strutture extra-carcerarie deputate. La Giunta Regionale ha disposto anche di dare corso ad un Avviso Pubblico per l’acquisizione della manifestazione di interesse per la predisposizione di un elenco di strutture valutate idonee per l’accoglienza di nuclei genitore con bambino/i al seguito da mettere a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna e il Centro per la Giustizia Minorile, per la Puglia e la Basilicata, si impegnano a trasmettere l’elenco delle strutture valutate idonee agli Uffici Giudiziari presenti nel territorio regionale, per mettere questi ultimi a conoscenza dell’esistenza di posti disponibili ad accogliere i genitori detenuti con figli al seguito, così da rendere più immediati e fruibili gli accessi ai servizi di accoglienza extra penitenziaria. Anci Puglia si impegna a trasmettere l’elenco delle strutture valutate idonee ai Servizi Sociali di tutti gli Ambiti Territoriali Sociali, nell’ambito del ruolo loro affidato. Sardegna. Salute mentale: non altre Rems ma attuare la riforma Basaglia Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2023 Non sono necessarie altre Rems (Residenze Esecuzione Misure Sicurezza) in Sardegna e neppure altre strutture chiuse. Sono invece indispensabili servizi territoriali di salute mentale efficienti già previsti dalla legge Basaglia. Ma è indispensabile eliminare le pratiche psichiatriche coercitive lesive dei diritti, ancora troppo utilizzate nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Il percorso di emancipazione delle persone con disturbi mentali può e deve avvenire all’interno di luoghi della normalità della vita. Le Rems, una ogni 100mila abitanti, hanno dato risposte a due aspetti importanti: la territorialità e la temporalità degli interventi terapeutici. Sono state alcune delle problematiche emerse nel corso dell’incontro-dibattito “Salute mentale e sicurezza”, svoltosi in città, nell’ambito degli appuntamenti de “Il Martedì di SDR”. Ospiti dell’iniziativa, nella saletta di via Machiavelli 120/A, Gisella Trincas, presidente dell’ASARP (Associazione Sarda per la Riforma Psichiatrica), Riccardo Curreli, psichiatra, Direttore Sanitario REMS di Capoterra, intervenuto a titolo personale, e Rina Salis, psicologa, vice presidente di SDR. A introdurre l’appuntamento, coordinato da Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice di SDR, è stata Rina Salis che ha illustrato il percorso attraverso cui, dagli studi del sociologo Erving Goffman, e dal concetto dell’istituzioni totali, si è pervenuti ai concetti elaborati da Franco Basaglia. “Per far chiudere gli Ospedali Psichiatrici è stato necessario “ha sottolineato Gisella Trincas “l’impegno dei familiari. Davanti a situazioni difficili e gravi che le famiglie dovevano affrontare da sole, non esistendo servizi territoriali, i ricoveri avvenivano negli OP. Negli anni Settanta tuttavia alcuni familiari cominciano a chiedersi come superare i Manicomi e per l’ASARP tutte le Istituzioni totali. La chiusura degli OP però non ha cancellato le pratiche coercitive. Quando è stata approvata la 180 i territori erano poveri di servizi ed esistevano quasi solo gli SPDC. Rimaneva però aperti gli OPG. Nel 2010 con la Commissione d’Inchiesta presieduta da Ignazio Marino i familiari hanno chiesto un’audizione per la salute mentale e finalmente i Senatori con le telecamere sono entrati negli OPG, rivelando la realtà. Da lì è nata l’idea delle REMS, ma la presa in carica rimane “ha concluso “in capo al Dipartimento di Salute Mentale, ma le risorse professionali sono purtroppo insufficienti”. “Non c’è una vera rivoluzione “gentile” “ha affermato Riccardo Curreli “che non abbia contraddizioni. Le REMS sono esclusivamente sanitarie e non c’è presenza di appartenenti alle forze dell’ordine. È evidente che il percorso dei cittadini di avvicinamento ai principi costituzionali è molto lento, ma procede. Nel 2005, attraverso un censimento, si è scoperto che le Regioni inviavano agli OPG 22 persone per milione all’anno. La Sardegna invece ne inviava 44. Quindi c’erano 66 persone sarde rinchiuse negli OPG in qualunque regione. Un primo passo importante è stata l’unificazione dei trasferimenti dei pazienti-detenuti in un solo OPG a Montelupo Fiorentino per cinque regioni: Sardegna, Liguria, Toscana e Umbria. Un ulteriore significativo è stato il passaggio della sanità penitenziaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. La normativa che ha istituito le REMS, non è perfetta ma ha fatto chiarezza su due questioni importanti: la territorialità e il tempo di permanenza. La Rems sarda è in un centro non distante dal capoluogo e dai servizi e non registra liste d’attesa. Tre persone nel 2023, incapaci di intendere e di volere, sono state assorbite. Insomma occorre rivalutare le affermazioni secondo le quali nelle carceri isolane ci sono 700/800 detenuti con malattia mentale per aprire altre Rems”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto 51enne ritrovato impiccato in cella edizionecaserta.net, 21 dicembre 2023 Si allunga l’elenco delle vittime a seguito di gesti estremi perpetrati dietro le sbarre. L’ultima tragedia si è consumata questo pomeriggio nel carcere Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Un detenuto di 51 anni, I.V., è stato trovato privo di vita all’interno della sua cella. A dare l’allarme sono stati reclusi e agenti, ma quando i soccorritori sono giunti sul posto per lui non c’era già più nulla da fare. Secondo quanto emerso dalle prime informazioni l’uomo si sarebbe tolto la vita volontariamente: è stato trovato, infatti, impiccato e ciò lascia pochi dubbi sulla natura del gesto. Al momento non si conoscono le motivazioni e resta stretto riserbo sull’indagine avviata dalla Penitenziaria. Viterbo. Tragedia in carcere: detenuto strangola il compagno di cella di Federico Garau Il Giornale, 21 dicembre 2023 A perdere la vita il 49enne Alessandro Salvaggio, che stava scontando pochi anni nel carcere di Viterbo per evasione. Il suo compagno di cella lo ha strangolato. Choc nel carcere di Viterbo, dove un detenuto è arrivato ad uccidere il compagno di cella durante una furiosa lite. I fatti, secondo quanto riferito sino ad ora, si sono verificati nel corso della serata di ieri, martedì 19 dicembre. Ancora ignote le cause che hanno portato alla terribile violenza, gli inquirenti sono impegnati nelle indagini. La ricostruzione - L’allarme è stato dato intorno alle 22.00 di martedì sera, quando la situazione all’interno di una delle celle del carcere è degenerata. A scontrarsi due detenuti, uno di nazionalità bulgara e un italiano. Entrambi hanno dato origine a una violenta rissa sfociata purtroppo in omicidio. Malgrado la pronta richiesta d’intervento e la corsa delle guardie carcerarie, all’arrivo dei soccorsi era già troppo tardi per l’italiano. L’uomo è morto dopo essere stato strangolato dal compagno bulgaro. Starà ora agli agenti ricostruire le esatte dinamiche della vicenda e comprendere in che modo la situazione sia degenerata a tal punto. Quest’ennesimo dramma avvenuto dietro le sbarre a portato nuovamente l’attenzione sulle condizioni ormai critiche in cui versano le carceri italiane. Da tempo gli uomini della polizia penitenziaria e i sindacati denunciano delle importanti criticità. “Lo gridiamo ai quattro venti da almeno due anni. Il carcere è totalmente fuori controllo”, è quanto dichiarato oggi dalla segreteria provinciale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Non esistono più regole e la Polizia Penitenziaria non ha più nessun tipo di autorità. Delegittimata da tutto e da tutti senza alcun tipo di difesa. Fare ordine in questo contesto è impossibile”. La vittima - Stando a quanto riportato dalle agenzie di stampa, a perdere la vita è stato il 49enne Alessandro Salvaggio, originario di Barrafranca, in provincia di Enna. A ucciderlo è stato il bulgaro 22enne, T.K., che gli avrebbe stretto le mani al collo fino a soffocarlo. A quanto pare Salvaggio era stato condannato per reati connessi allo spaccio di stupefacenti, ma si trovava nel carcere di Viterbo per scontare due anni per evasione. L’uomo aveva moglie e due figli. È previsto per venerdì prossimo l’esame autoptico sul corpo. “Si tratta di una tragedia. L’autore del fatto non ha una valutazione clinica che potesse in qualche modo far presagire quanto accaduto, anzi, aveva un rapporto molto buono con la vittima che invece è un uomo di 49 anni”, ha dichiarato ad Agi Stefano Anastasìa, il garante dei detenuti del Lazio. “In carcere ci sono gravissime condizioni di sofferenza umana, che purtroppo a volte portano anche a fatti terribili come questo. Bisognerebbe capire se e come sia possibile costruire percorsi diversi. Si tratta di una tragedia”. Viterbo. Morte in carcere di Hassan Sharaf, ieri l’arringa della difesa dell’ex direttore di Valeria Terranova Corriere di Viterbo, 21 dicembre 2023 Morte di Hassan Sharaf, ieri davanti al gup Savina Poli l’arringa della difesa dell’ex direttore del carcere di Mammagialla Pierpaolo D’Andria, che deve rispondere di omicidio colposo e di omissione di atti d’ufficio. Solo quest’ultimo reato viene contestato anche a Daniele Bologna e Luca Floris, rispettivamente comandante della polizia penitenziaria e agente capo matricola. Udienza fiume - Per il terzetto di imputati, a giudizio con rito abbreviato, lo scorso 16 novembre il procuratore generale Tonino Di Bona aveva chiesto la condanna a 8 mesi ciascuno per Bologna e Floris e un anno di reclusione per l’allora direttore Pierpaolo d’Andria. Due settimane fa si è tenuta presso l’aula 7 del palazzo di giustizia l’udienza che è stata riservata alle arringhe difensive degli avvocati Giuliano Migliorati e Luca Chiodi, i quali rappresentano Daniele Bologna Luca Floris. Ieri invece è toccato all’avvocato Marco Russo che difende l’ex direttore del carcere di Mammagialla Pierpaolo D’Andria. La seduta fiume dedicata alla discussione del legale di D’Andria è andata avanti da metà mattinata fino al tardo pomeriggio. Tra meno di un mese si procederà invece con il rito ordinario per gli altri tre imputati, che sono Roberto Monarca, responsabile del padiglione di medicina protetta, Elena Niniashvili, medico nello stesso reparto diretto da Monarca, e Massimo Riccio, assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, responsabile del padiglione di isolamento, i quali sono assistiti dagli avvocati Giuliano Migliorati, Fausto Barili e Mario Brizi, che discuteranno l’11 gennaio. Parti civili in entrambi i procedimenti con gli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano, i parenti del detenuto egiziano di 21 anni, deceduto all’ospedale di Belcolle il 30 luglio 2018, una settimana dopo aver tentato il suicidio, mentre era rinchiuso nella cella di isolamento del penitenziario. Modena. Morì durante la rivolta in carcere, la famiglia di Hafedh Chouchane replica al governo ansa.it, 21 dicembre 2023 Il ricorso contro l’archiviazione. Il 18 dicembre i difensori dei familiari di Hafedh Chouchane, tunisino, uno degli otto detenuti morti a marzo 2020, quando scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, hanno depositato alla Corte di Strasburgo la memoria di replica alle osservazioni del governo italiano. La professoressa Barbara Randazzo e l’avvocato Luca Sebastiani, che assistono padre e fratello della vittima, contestano la “sommaria e superficiale ricostruzione dei fatti e l’invocazione del principio giurisprudenziale del cosiddetto rischio eccentrico, che manderebbe esente da responsabilità lo Stato allorché la vittima si sia volontariamente messa in situazione di pericolo”. Alla Corte europea dei diritti dell’uomo era stato presentato il ricorso contro l’archiviazione dell’inchiesta a Modena. Il Governo allora aveva inviato osservazioni, sostenendo che Chouchane è morto perché partecipò alla rivolta, rubò e assunse volontariamente il metadone. Inoltre non sarebbe stato possibile soccorrerlo più tempestivamente proprio a causa dei disordini in corso e non sono state riscontrate negligenze nel modo in cui erano conservate le sostanze (metadone e psicofarmaci). Secondo i difensori dei familiari, “il governo italiano, appiattito sulle risultanze processuali interne, si era infatti limitato a eccepire l’inammissibilità del ricorso per tardività e per mancato previo esaurimento dei rimedi interni, senza rispondere alle domande formulate dalla Corte sul merito delle violazioni lamentate dai ricorrenti e in particolare: dell’articolo 2 Cedu (diritto alla vita), sia sotto il profilo sostanziale che procedurale (inadeguatezza e ineffettività delle indagini svolte), dell’articolo 3, divieto di trattamenti inumani e degradanti, dell’articolo 13 (diritto ad un rimedio interno effettivo). Napoli. Don Palmese: “Emergenza carceri? Tutto l’anno, non solo a Natale e Ferragosto” di Barbara Pia Vadalà metropolisweb.it, 21 dicembre 2023 L’arrivo del Natale è alle porte e non per tutti verrà festeggiato seduti ad un grande tavolo imbandito. Coloro che vivono dietro le sbarre, i detenuti vivono quotidianamente l’emergenza e le difficoltà della vita nelle carceri ma, nei periodi festivi, quali Natale o Capodanno, queste difficoltà vengono percepite maggiormente. Tra i problemi relativi alla vita in cella abbiamo la solitudine, l’incognita del futuro, il timore di non essere accolti dalla società. “Dovremmo fare un ragionamento politico, culturale e sociale sul prima, il durante e il dopo”: spiega Don Tonino Palmese, garante per i diritti dei detenuti del Comune di Napoli e presidente della Fondazione Polis. Palese sottolinea quanto sia importante porre l’attenzione sulla vita prima del carcere, in particolare modo sulla questione minorile, sul “durante, come i detenuti e le detenute vivano la loro condanna ed infine al dopo, alla paura di non essere accettati dalla società. In prossimità delle feste natalizie, e queste, in carcere, portano con sé grande malinconia. Le richieste avanzate da gran parte dei detenuti riguardano la sfera affettiva: la possibilità di vedere la propria famiglia o anche sentire i propri cari attraverso una semplice telefonata. Al problema legato alla comunicazione si accosta quello legato all’incertezza del futuro all’esterno della cella: un detenuto o una detenuta vivono con la costante paura che, una volta scontata la pena, la società non sia pronta ad accettarli nuovamente in essa. La questione lavorativa resta un grande scoglio da affrontare ed abbattere ma, nel carcere di Secondigliano, Napoli, “accede qualcosa di particolare”. Don Tonino Palmese spiega come, nel carcere di Secondigliano, i detenuti si occupino del confezionamento di casuale e sole indossate da sacerdoti e vescovi. Il lavoro, associato allo sport ed alla cultura, sono i tre punti cardine per far si che la vita all’interno del carcere risulti produttiva. “Penso alle diverse migliaia di detenuti analfabeti che non riescono ancora a impugnare la penna o a fissare lo sguardo su un libro. Così come penso alla positività: a Secondigliano c’è il polo universitario e alcuni detenuti stanno conseguendo titoli di studio che permettono loro non solo di immaginare un futuro ma anche un presente molto dignitoso”, conclude Don Tonino Palmese. Roma. Delegazione del Consiglio nazionale forense a Regina Coeli: “Vigiliamo sui diritti” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 dicembre 2023 Il presidente Cnf Greco: “La visita, organizzata con la Fai, dimostra il nostro impegno nel ribadire l’importanza dei percorsi rieducativi”. Una delegazione del Consiglio nazionale forense si è recata ieri nel carcere di Regina Coeli, a Roma. L’obiettivo della visita istituzionale è stato quello di approfondire le condizioni detentive e di instaurare un dialogo costruttivo con le autorità penitenziarie. Con il presidente del Cnf, Francesco Greco, anche il vicepresidente dell’avvocatura istituzionale, Francesco Napoli e i consiglieri nazionali Paola Carello, Biancamaria D’Agostino, Antonino Galletti, Francesco Pizzuto, Lucia Secchi Tarugi, l’avvocato Roberto Giovene di Girasole e una rappresentanza dell’Unione Camere penali italiane, composta dal presidente Francesco Petrelli, dal segretario Rinaldo Romanelli e dalla componente di Giunta Laura Antonelli. Gli avvocati hanno incontrato il direttore del carcere, Claudia Clementi, e il comandante della polizia penitenziaria, Francesco Salemi. Con loro hanno discusso sulle principali questioni che riguardano la casa circondariale capitolina. Grande risalto è stato dato alla funzione rieducativa della pena. Anche per questo motivo sono stati donati, grazie al contributo della Fondazione dell’avvocatura italiana (Fai), dieci computer che verranno messi a disposizione dei detenuti e collocati nella biblioteca di Regina Coeli. “La visita, organizzata con la Fai “dice al Dubbio Francesco Greco - dimostra il nostro impegno nel ribadire l’importanza dei percorsi rieducativi. Il carcere deve essere un luogo di espiazione della pena integrale, secondo la legge e secondo la sentenza, ma deve pure diventare un luogo, lì dove è possibile, di rieducazione. In questa ottica è opportuno non dimenticare coloro che hanno un debito con la società. Per questo abbiamo voluto esprimere la nostra attenzione verso la realtà carceraria e dare il nostro contributo”. Nella visita di ieri, come evidenzia il presidente Greco, sono emersi diversi aspetti: “È stato un incontro utile e toccante. Abbiamo constatato di persona come si vive nelle varie sezioni, siamo entrati in alcune celle, dove c’erano i detenuti, e constatato le condizioni di vita quotidiana. La nostra presenza ha voluto lanciare anche un messaggio: far presente ai detenuti che il mondo, all’esterno del carcere, non si dimentica di loro. È importante che chi è privato della libertà impari un mestiere durante la reclusione, in modo che, dopo aver scontato la pena, potrà essere meno problematico essere riammessi in società”. A Regina Coeli i detenuti stranieri prevalgono. “La direttrice di Regina Coeli “afferma Francesco Greco “ci ha riferito che sono circa il 60% e di giovane età. Un altro elemento di riflessione riguarda la presenza di tanti detenuti in attesa di giudizio, in una condizione di promiscuità con chi è stato condannato. In questo contesto particolare lavorano con grande professionalità gli agenti della polizia penitenziaria. Uniscono alla autorevolezza del ruolo la professionalità e l’umanità. Le persone che sono in carcere, perché hanno violato le leggi della convivenza sociale, devono rispettare invece le regole della convivenza in carcere. L’avvocatura ha voluto manifestare ancora una volta attenzione verso una realtà che non può essere dimenticata. Un Paese civile non può trasformare le carceri in luoghi di mortificazione della dignità umana. Il tema del sovraffollamento, difficilmente risolvibile, se non attraverso la riconsiderazione della fase di esecuzione della pena, va affrontato con pragmatismo. Ogni reato non può essere soltanto prevenuto attraverso la detenzione carceraria. Occorre pensare a forme alternative alla detenzione”. L’avvocato Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali, si sofferma sulle condizioni in cui versa Regina Coeli, specchio del mondo carcerario italiano. “L’impatto con l’ambiente carcerario e l’incontro con l’umanità dei detenuti “commenta il rappresentante dei penalisti - è sempre motivo di riflessione sulla inidoneità del rimedio della carcerazione e su quale enorme quota di sofferenza potrebbe essere evitata attraverso l’adozione di semplici strumenti alternativi. Regina Coeli è un carcere “storico” segnato da gravi carenze strutturali. Vive forti contraddizioni: personale ridotto ma dotato di straordinaria motivazione; poche risorse ma grande professionalità. Endemico il sovraffollamento di detenuti in attesa di giudizio e dei meno numerosi definitivi che mette a dura prova ogni risposta alle esigenze morali, materiali, sanitarie e psichiatriche dei singoli”. Bologna. “Alla Dozza pericolosi disagi che richiedono provvedimenti immediati” lapressa.it, 21 dicembre 2023 Mastacchi (Rete Civica): “Scarso riscaldamento, cronico sovraffollamento e inadeguatezza della struttura”. Con un question time all’Aula il Consigliere Mastacchi, capogruppo di Rete Civica - Progetto Emilia Romagna, interviene presso la presidente dell’Assemblea Legislativa e la Giunta per chiedere interventi urgenti a soluzione dei pesanti disagi che si registrano nel carcere della Dozza a carico dei detenuti e con loro di agenti, medici e infermieri, dovuti allo scarso riscaldamento, al cronico sovraffollamento e alla inadeguatezza della struttura. “È ancora fresco il ricordo dei disordini nelle carceri durante la pandemia da Covid e torna il mai risolto problema del sovraffollamento, in una struttura vecchia e fatiscente come quella della Dozza, dove in una cella singola convivono fino a quattro persone, con tutti i disagi igienici e psicologici del caso, tanto che a luglio è stato sospeso l’ingresso di nuovi carcerati per alcuni giorni. Sezioni ancora chiuse, perché in ristrutturazione, e l’interruzione dei lavori per la realizzazione del nuovo padiglione a causa del fallimento della ditta incaricata, non contribuiscono a migliorare una situazione con numeri già ben oltre la capienza massima della Casa Circondariale: 812 detenuti su una capienza massima di 500. Per contro il personale della penitenziaria diminuisce rapidamente, anche a causa dell’influenza che ha colpito in questo periodo diversi agenti, a seguito delle pessime condizioni interne dovute anche alla ridotta erogazione del riscaldamento” - afferma Mastacchi. “La carenza di organico del personale penitenziario, educativo e medico, rende sempre più complesso contenere le intemperanze dei detenuti più problematici, accentuate dal sovraffollamento della struttura, e la ridotta erogazione del riscaldamento non fa che alimentare ancora di più il malcontento dei detenuti già costretti a condividere spazi angusti. Il Consigliere Mastacchi interroga la Giunta per sapere quali azioni intende attivare per evitare che una situazione già particolarmente complessa non vada a replicare ciò che è successo tre anni fa con il Covid, quando i disordini in cento penitenziari italiani portarono alla morte di 13 detenuti, uno dei quali proprio alla Dozza e se non ritenga opportuno intervenire in merito agli orari di apertura del riscaldamento nella struttura, per ridurre immediatamente i disagi di agenti, medici e infermieri nonché dei detenuti. L’Assessore Taruffi risponde che le competenze sono in capo al Ministero di Giustizia e alle articolazioni delle stesse sul territorio. I diversi uffici regionali hanno già sollecitato gli Enti competenti in merito a queste problematiche e nello specifico a quella del riscaldamento, anche prevedendo lo spostamento dei soggetti ristretti, in spazi e celle più adeguati. L’ultima ispezione è stata effettuata l’11 di novembre e si è riscontrato che viene garantita una temperatura invernale tra i 18 e i 20 gradi. Per l’inadeguatezza del personale di polizia penitenziaria, sono in linea con i restanti istituti del distretto. É evidente che c’è un problema, quello del sovraffollamento e che siano insufficienti i provvedimenti presi dal Ministero. Concorda il Consigliere Mastacchi, che sottolinea che pur essendo il tema di competenza nazionale e non regionale, è importante far sapere che il problema è conosciuto e tenuto sotto osservazione. All’interno di quelle strutture oltre ai detenuti ci sono lavoratori, che vivono condizioni stressanti di lavoro già normalmente e ulteriori disagi non aiutano. Il problema si pone inoltre non solo nel carcere della Dozza ma anche in quello minorile del Pratello dove c’è l’aspetto, anche più delicato, della proiezione dei problemi su persone minori sulle quali l’impatto è maggiore in una prospettiva di recupero futuro. Tutti noi, per quanto possibile dobbiamo tenere i riflettori accesi”. Milano. “Catena in movimento”, il lavoro per dare una svolta allo stato detentivo Famiglia Cristiana, 21 dicembre 2023 L’associazione è nata per iniziativa di un gruppo di detenuti all’interno del carcere di Bollate. Attraverso la realizzazione e la vendita di prodotti artigianali vengono sostenute le attività di fondazioni ed enti che lavorano in favore delle persone disagiate. Nel periodo natalizio, fino al 31 dicembre, i prodotti possono essere acquistati in un temporary store a Milano. L’associazione Catena in Movimento Onlus è nata all’interno del carcere di Bollate (Milano) per promuovere lavori di volontariato a favore dei detenuti e delle persone socialmente più svantaggiate. Si tratta di una piccola realtà territoriale costituita da un gruppo di detenuti, che hanno scelto di dare una svolta allo stato detentivo in cui versano e dare un senso alla pena affinché non sia fine a se stessa, e attori della società civile che hanno deciso di condividere con i detenuti i loro percorsi di vita e di unirsi con loro in forma associativa per lavorare insieme in favore dell’inclusione sociale degli ultimi, di chi vive in condizione di difficoltà e disagio. Nella Onlus, a titolo volontario, vengono incentivate e messe in campo le differenti abilità manuali, conoscenze e capacità di ciascuno per promuovere il lavoro ecosostenibile e creare prodotti artigianali, metterli in vendita e raccogliere fondi da devolvere ad enti sociali, fondazioni, Onlus che si impegnano in favore di detenuti ed ex detenuti, mamme sole in condizione di disagio economico, anziani in difficoltà, migranti. Vengono inoltre promossi programmi e iniziative per incentivare la c.d. “giustizia ripartiva”, dove i detenuti mettono a disposizione le proprie abilità per svolgere azioni concrete a beneficio della collettività e come riscatto per il male commesso. Il lavoro dell’associazione è coordinato dalla dottoressa Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico presso il carcere di Milano Bollate. Catena in movimento ha partecipato a numerose iniziative solidali, tra le quali la campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne nel 2019, con la realizzazione di 1000 shopping bag serigrafate con slogan della campagna, e la produzione di mascherine in stoffa durante la pandemia del Covid nel 2020. Nel periodo natalizio, quest’anno, l’associazione propone i suoi prodotti artigianali in un temporary store a Milano, in via Ascanio Sforza 55 (zona Navigli) aperto tutti i giorni, dalle 10,30 alle 19,30, fino a Natale e poi dal 27 al 31 dicembre. I prodotti al momento si possono anche ordinare sulla pagina Instagram della Onlus: catena_in_movimento. E presto anche attraverso il sito Internet www.catenainmovimento.com che è in fase di costruzione. Saluzzo (Cn). Rientrare nella società con il piede giusto riforma.it, 21 dicembre 2023 Un progetto per i detenuti a fine pena promosso dall’associazione di volontariato “Liberi dentro” e finanziato dall’otto per mille valdese. L’uscita dal carcere è un momento tanto atteso dai detenuti, ma anche delicato. Per affiancarli nel loro percorso di rientro nella società l’associazione di volontari penitenziari “Liberi dentro” di Saluzzo (Cn) ha promosso, con il sostegno dell’Amministrazione penitenziaria e dagli educatori della Casa di reclusione “Morandi”, un progetto innovativo rivolto ai detenuti del carcere saluzzese vicini al fine pena, con meno di due anni da scontare. L’iniziativa è stata finanziata dalla Chiesa valdese con un contributo di 8.000 euro grazie ai fondi raccolti con l’8 per mille. Il progetto “Sostegno dei detenuti a fine pena e contenimento della recidiva” è finalizzato a potenziare l’efficacia rieducativa del sistema penitenziario: “È ampiamente documentato che gli istituti di pena “virtuosi”, che operano nel rispetto della dignità umana, adottano pratiche rieducative efficaci e forniscono ai detenuti strumenti di reinserimento nella società libera, vantano percentuali di recidiva a delinquere molto basse, rispetto alla media nazionale, che non esitiamo a definire “imbarazzante”“ sottolinea Bruna Chiotti, presidente di “Liberi dentro”. Il progetto ha previsto un corso di counseling che si è svolto tra gennaio e ottobre 2023 e ha coinvolto 12 detenuti, di età compresa tra 28 e 80 anni, che stavano scontando gli ultimi mesi di pena nel carcere “Morandi”. Il corso si è svolto per lo più all’interno del carcere, ma c’è stata anche la collaborazione con realtà esterne quali il Centro di Formazione professionale di Savigliano “Casa di Carità”, che ha proposto un corso di formazione sull’orientamento al lavoro. Il corso di counseling è stato tenuto da una professionista, la mantese Simona Maggio, già volontaria in carcere. “Attraverso il counseling i detenuti possono esplorare i loro pensieri, sentimenti e comportamenti passati “spiega Simona Maggio. “I partecipanti vengono incoraggiati a riflettere sulle loro azioni, ad assumersi la responsabilità dei loro errori e ad impegnarsi in un percorso di cambiamento positivo”. Il counseling offre anche un’opportunità preziosa per lo sviluppo di abilità sociali essenziali per il reinserimento nella società. “Durante le sessioni di gruppo, i partecipanti imparano a comunicare in modo efficace, a risolvere i conflitti, a gestire l’ira e a sviluppare empatia e compassione “prosegue Maggio. “Queste abilità sociali sono fondamentali per la costruzione di relazioni sane e significative al di fuori del carcere e per il successo nel processo di reintegrazione”. Il progetto inoltre ha orientato i partecipanti verso gli enti, come il centro per l’impiego e i centri di assistenza fiscale, che possono fornire un indirizzo e un sostegno pratico a chi, dopo anni di isolamento, ha difficoltà a reinserirsi. All’interno del progetto (quindi sempre con il sostegno dell’otto per mille) si è svolto anche, con la collaborazione di un’azienda privata di Piasco, un tirocinio per agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro, che ha coinvolto uno dei detenuti nei mesi di dicembre 2022 - giugno 2023. I volontari dell’associazione, oltre che nello studio e stesura del progetto, sono stati coinvolti nelle sessioni dei corsi di counseling, mettendo la loro professionalità ed esperienza a disposizione per la realizzazione del progetto che rientra tra gli obiettivi dell’associazione stessa. Bergamo. Il meeting di Natale con i dipendenti? L’azienda lo organizza in carcere Corriere della Sera, 21 dicembre 2023 La Magnetti Building di Carvico ha commissionato 190 panettoni e realizzerà una scuola dei mestieri all’interno della casa circondariale. L’ad: “Crediamo che la rieducazione passi attraverso il lavoro”. I panettoni sfornati in via Gleno per tutti i dipendenti, il posto per un detenuto ammesso al lavoro esterno all’interno dell’azienda e il progetto della scuola dei mestieri da realizzare il prossimo anno, con la speranza di coinvolgere sempre più aziende. È l’impegno della Magnetti Building di Carvico per sostenere le attività del carcere Don Fausto Resmini. Per questo Natale l’azienda, specializzata nel settore della prefabbricazione, ha ordinato 190 panettoni preparati dai detenuti nel forno del carcere con le relative confezioni cucite all’interno del laboratorio tessile inaugurato lo scorso aprile sempre in via Gleno. Ogni borsa porta un ricamo speciale con la scritta “Costruire occasioni”, oltre a un’etichetta con la spiegazione del progetto di solidarietà. Un’iniziativa già sperimentata a Pasqua con le colombe e che è stata accompagnata dal meeting aziendale prenatalizio organizzato proprio all’interno del carcere “a sottolineare ancora una volta questo legame che nel tempo diventa sempre più forte e partecipativo”, spiegano dalla sede di Carvico. Inoltre, da ottobre un detenuto ha potuto iniziare il suo percorso lavorativo all’interno dell’azienda, facendo rientro la sera nella casa circondariale. Infine, l’azienda si impegnerà, “una volta acquisite tutte le autorizzazioni dagli uffici competenti, a partire dal prossimo anno in un importante intervento di ristrutturazione di un’area del carcere, con la finalità di realizzare una scuola di mestieri”. panettone “Sosteniamo attivamente il carcere e i detenuti - spiega l’amministratore delegato Benedetta Grigolin - poiché crediamo che la rieducazione attraverso il lavoro costituisca una strategia efficace. Investire nei programmi di formazione professionale e nell’acquisizione di competenze occupazionali all’interno delle strutture carcerarie è fondamentale per il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. La prospettiva di costruire un futuro in cui i detenuti diventino membri attivi e produttivi della società è fondamentale per la nostra visione di giustizia riparativa e siamo orgogliosi di poter sostenere nel nostro piccolo questa strada”. Siena. Contrade, la Città dei Mestieri apre le porte ad un detenuto di Veronica Costa radiosienatv.it, 21 dicembre 2023 Una collaborazione che prevede uno scambio di attività, i contradaioli diventano spettatori degli spettacoli teatrali dei detenuti. Collaborazione tra il mondo delle contrade e la Casa Circondariale di Santo Spirito. Due in particolare le attività organizzate con le commissioni solidarietà delle contrade e la Città dei Mestieri. La prima iniziativa vede la partecipazione di un detenuto, destinatario di una misura che gli permette di svolgere attività all’esterno, ai corsi di arti e mestieri attivi presso i locali del Saltarello. Questo ha già iniziato il percorso da alcune settimane. “Un progetto che vuole arricchire il detenuto che riceve una spinta per riappropriarsi delle sue potenzialità sociali, il carcere che si apre alla città e ne diventa parte attiva e le Contrade che, con il progetto Città dei Mestieri, consolidano la loro vocazione di collaborazione sociale e rete solidaristica” sottolinea a Siena Tv la commissione operativa città dei mestieri. Anche la Casa Circondariale di Santo Spirito vuole però aprirsi alla città con la realizzazione di alcune rappresentazioni teatrali a cui partecipano i detenuti. I contradaioli, proprio grazie a tale collaborazione, hanno la possibilità di accedere alla casa circondariale, su appuntamento, e di assistere come spettatori. Hanno già partecipato due contrade, Nicchio e Bruco. In programma il prossimo 11 gennaio il secondo appuntamento con i contradaioli di Tartuca e Onda. “È una collaborazione che fa parte di un progetto iniziato da tempo che adesso vede la realizzazione di due iniziative, i contradaioli possono vedere gli spettacoli che organizzano i detenuti, mentre questi possono partecipare a corsi di formazione con la città dei mestieri, spiega a Siena Tv il Priore referente delle commissioni solidarietà Benedetta Mocenni. Un percorso che vuole sottolineare gli obiettivi delle commissioni solidarietà collaborando con varie realtà della nostra città. Il Saltarello resta una risorsa importante che vuole aprire le proprie porte per valorizzare i mestieri artigiani che caratterizzano Siena”. Brescia. Doni e biglietti di auguri: 500 pacchi ai detenuti da scuole e associazioni di Federica Pacella Il Giorno, 21 dicembre 2023 500 pacchi di Natale donati ai detenuti delle carceri bresciane, grazie alla sensibilità della Garante dei detenuti e alla rete solidale dei volontari. I pacchi contengono biglietti d’auguri scritti e disegnati dai bambini delle scuole. Doni e, soprattutto, parole che scaldano il cuore e accorciano le distanze tra il mondo fuori e quello dentro il carcere. È stata organizzata anche quest’anno, grazie alla sensibilità della Garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, e alla rete solidale dei volontari penitenziari e non, la raccolta per confezionare 500 pacchi di Natale, destinati alle persone recluse nei due istituti di pena bresciani, Verziano e Nerio Fischione. Il progetto, attivo dal 2017 su iniziativa di Alessandra Spreafico, consigliera Associazione Carcere e Territorio, coinvolge gli alunni della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria. Sono molte le realtà che hanno partecipato alla raccolta permettendo di raggiungere il quantitativo di beni necessari, in meno di un mese. In ciascuno dei 500 pacchi, sono stati inseriti i 500 biglietti d’auguri scritti e disegnati dai bambini e dalle bambine dell’IC Est1 Brescia. Altri biglietti verranno, invece, donati ai detenuti perché li possano inviare alle loro famiglie, disegnati dai bambini delle scuole dell’infanzia e da quelli delle classi prime della primaria. Eccezionalmente, l’IC di Rezzato ha deciso di donare degli addobbi fatti dai bambini, da mettere sull’albero all’interno del carcere. Il 22 ci sarà la consegna. Napoli. A Natale pranzi per i poveri organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio di Francesco Parrella Corriere del Mezzogiorno, 21 dicembre 2023 Si comincia da giovedì 21 dicembre nel carcere di Poggioreale, coinvolti anche altri istituti di pena e numerose chiese. Quest’anno saranno oltre 6mila i poveri coinvolti nei pranzi di Natali organizzati a Napoli dalla Comunità di Sant’Egidio. Ci saranno pranzi nelle carceri, nelle Rsa, nei campi Rom, nei quartieri difficili della città, per anziani soli, senza dimora, migranti, bambini, disabili, famiglie in difficoltà. Per ognuno un posto a tavola e doni natalizi. Previste anche cene itineranti per i quartieri della città per i senza dimora le sere della vigilia di Natale e di Capodanno. Il giorno di Natale nella chiesa di san Pietro martire a largo Bonghi con 200 poveri a tavola siederà anche il cardinale Crescenzio Sepe. Le iniziative da Napoli a Pozzuoli - Le iniziative per le feste natalizie proseguono nel centro storico, nelle chiese dei Ss. Filippo e Giacomo e San Nicola al Nilo, dove sono previsti pranzi per senza dimora e anziani. A San Giovanni a Teduccio nella sede della Comunità verrà organizzata una tavolata per disabili, famiglie povere, rom e stranieri. Nella chiesa S. Maria Succurre Miseris ai Vergini vi parteciperanno anziani soli, senza dimora e famiglie povere. Ad Aversa si riuniranno anziani, migranti, senza dimora e famiglie povere. Mentre a Pozzuoli lo chef Gabriele Palma cucinerà per 40 senza fissa dimora nel centro Caritas san Marco. Il giorno della vigilia di Natale la solidarietà toccherà Scampia con pranzo nella chiesa dei Padri Missionari della Divina Redenzione. Mentre durante le festività sono diverse le iniziative in programma, con pranzi e feste nei campi rom e con i migranti. Il 6 gennaio ci sarà invece presso il dormitorio pubblico di via de Blasiis la distribuzione delle calze. Gli appuntamenti nelle carceri - Anche quest’anno la comunità di Sant’Egidio organizza il tradizionale pranzo di Natale nel penitenziario di Poggioreale. L’evento si terrà giovedì 21 dicembre alle ore 13. Parteciperanno i detenuti più poveri o che non fanno colloqui perché non hanno più legami familiari e molti stranieri. A tavola saranno in 130. Al pranzo tra gli invitati ci saranno il vescovo ausiliare monsignor Gaetano Castello, gli assessori Mario Morcone e Chiara Marciani, il provveditore Lucia Castellano e Monica Sarnelli che si regalerà ai detenuti un momento musicale. Pranzi anche nelle carceri di Secondigliano, Pozzuoli, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Arienzo, Pozzuoli, con oltre 700 detenuti coinvolti nell’iniziativa. Storia della caccia al fantasma anarchico di Frank Cimini L’Unità, 21 dicembre 2023 Nel libro di Mario Di Vito “La pista anarchica, dai pacchi bomba al caso Cospito” (ed. La Terza) il racconto di trent’anni di inchieste. Per merito del lungo sciopero della fame contro il 41 bis di Alfredo Cospito siamo tutti tornati per diversi mesi a parlare di anarchici, come non accadeva dai tempi dell’inchiesta su piazza Fontana. Ne scrive Mario Di Vito in “La pista anarchica, dai pacchi bomba al caso Cospito”, 166 pagine, 18 euro, Edizioni La Terza. Di Vito non è un anarchico anche se racconta di conoscerne molti, fa il giornalista al Manifesto dove si occupa di cronaca e politica giudiziaria, con spirito critico nei confronti della magistratura, a differenza della stragrande maggioranza dei cronisti. Il libro racconta gli anarchici degli ultimi 30 anni a partire dai pacchi bomba del 1990 per poi illustrare la caterva di inchieste che si sono succedute e dove molto spesso l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo non ha trovato riscontri, a volte addirittura cassata in sede di riesame. Di Cospito si parla a lungo spiegando che a differenza, per esempio, di Valpreda il quale affermava la sua innocenza, l’anarchico abruzzese poi trasferitosi in Piemonte rivendica di essere un terrorista. Non è un assassino, aveva ferito il manager Roberto Adinolfi rimediando la condanna a 9 anni e 5 mesi. Poi i pacchi bomba di Fossano che non provocarono morti o feriti ma che sono costati la condanna a 23 anni dopo aver rischiato di prendere l’ergastolo per strage politica un’accusa non contestata neanche ai responsabili delle uccisioni di Falcone e Borsellino. La battaglia contro il 41bis il motto di Cospito “non per me ma per gli altri innanzitutto anziani e malati”. Scrive Di Vito: “Un anarchico insurrezionalista, un bombarolo, uno che di solito si esprime soltanto per minacciare i suoi nemici si sta trasformando in un difensore dell’ordine costituzionale del paese. E per farlo umilia Nordio”. Nordio infatti prima di fare il ministro aveva sostenuto che il 41bis era incivile. Poi arrivato in via Arenula si è ben guardato dal revocare l’articolo del carcere più duro firmato nel maggio del 2022 da Marta Cartabia. Poi fuori a lottare sono rimasti solo gli anarchici. Il caso ha finito di offrire spunti ai giornalisti e con un gioco di parole rispunta solo quando i partiti, tra l’altro tutti favorevoli al 41bis, litigano tra loro, come è successo per il caso del sottosegretario Andrea Delmastro, un politico che al di là delle ipotizzate responsabilità penali è abbonato alle gaffe e agli autogol. Nel 2003 arriva a casa di Romano Prodi allora capo della commissione europea un pacco con dentro una copia del Piacere di Gabriele D’Annunzio, da dove parte una fiammata. Attentato rivendicato dalla Federazione Anarchica Informale. Di Vito racconta che da allora la vicenda impegnerà le procure di mezza Italia per indagare sulla battaglia contro lo Stato e il capitale. A condurla poche decine di persone che nemmeno si conoscono tra loro. “Venti anni di piste e vicoli ciechi alla ricerca di un fantasma, il fantasma dell’anarchia vendicatrice” sintetizza l’autore. Durante le manifestazioni a favore di Cospito decine di anarchici sono stati denunciati per reati di piazza inducendo le destre e i sindacati di polizia a varare, come in realtà tentano di fare da tempo, il reato di terrorismo di piazza. Sono gli stessi refrattari (eufemismo) a dotare i poliziotti di un numero identificativo. Il lavoro di Mario Di Vito è utile, anche a chi non ne condivide contenuti e idee, per capire come funziona la democratura italiana. E serve per continuare a parlare e a denunciare la tortura del 41bis che però non è nato con le stragi mafia. Si tratta infatti semplicemente della continuazione dell’articolo 90 introdotto ai tempi della madre di tutte le emergenze e mai revocato per annientare l’identità dei detenuti politici oltre ad attaccarli fisicamente e psicologicamente. Oggi oltre a Cospito il 41bis viene applicato ad altri tre detenuti politici Marco Mezzasalma, Roberto Morandi e Nadia Lioce. Tutti ex militanti delle Brigate Rosse che non esistono più da oltre 20 anni. Migranti. Centri di detenzione alle frontiere e impronte anche per i bimbi sopra i 6 anni di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 dicembre 2023 Ecco il nuovo Patto europeo asilo e migrazione. È il fallimento dell’idea di un’Europa inclusiva e accogliente, è la prima pietra della fortezza Europa che decide di investire in muri, recinzioni e centri di detenzione a costo di chiudere più di un occhio sul diritto d’asilo e sulla violazione dei diritti umani. Alla fine di lunghi anni di braccio di ferro e melina, i 27 (eccezion fatta per Ungheria e Polonia che si rifiutano di applicarlo) sono riusciti a trovare l’accordo sul Patto asilo e migrazione. Storico certo, come lo definisce Ursula Von der Leyen e molti leader europei: perché è il primo che arriva 33 anni dopo il trattato di Dublino (che non viene affatto superato) ma soprattutto perché segna l’affermazione dell’approccio securitario su quello umanitario. Solidarietà obbligatoria solo in caso di crisi - Il concetto di solidarietà obbligatoria (che siano ricollocamenti o il pagamento di quote da 20.000 euro a migrante) in situazioni di crisi o di guerra ibrida attraverso la strumentalizzazione dei flussi migratori non è certo il cuore del Patto che, quando diventerà operativo, avrà i suoi effetti più visibili nel moltiplicarsi di veri e propri centri di detenzione in tutti i Paesi di primo approdo (a cominciare dall’Italia) che saranno chiamati ad applicare le cosiddette procedure accelerate di frontiera a tutti coloro che arrivano dai cosiddetti Paesi sicuri e, più in generale, da quelli che hanno un tasso basso (sotto il 20 %) di domande d’asilo accolte. Il modello Albania - Dunque, di fatto, la stragrande maggioranza di chi arriva sarà immediatamente detenuto nei luoghi di frontiera nell’attesa che (entro tre mesi) la richiesta di asilo venga esaminata. In caso di diniego dovrà essere rimpatriato. O meglio dovrebbe visto che il Patto non fa i conti con l’assenza di accordi con la più parte dei Paesi d’origine. E quindi, alla fine, gli espulsi che non si riuscirà a rimpatriare finiranno per rimanere da clandestini in Europa, come ha sottolineato ieri la segretaria del Pd Elly Schlein: “C’è una solidarietà obbligatoria ma flessibile. Vuole dire che si potrà scegliere di pagare per non accogliere, in qualche modo dando un prezzo al diritto all’accoglienza. E se qualcuno decide di pagare vuol dire che quei migranti restano in Italia: forse il governo non se ne è accorto”. La soddisfazione dell’Italia - Al governo italiano va benissimo così. “È un grande successo, ora si potrà contare su nuove regole per gestire i flussi migratori e contrastare i trafficanti di esseri umani” “dice il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi”. Ma per l’Italia, l’accordo è molto meno vantaggioso di quello che si vuol far credere. La stretta ai movimenti secondari - Il Patto obbliga infatti i Paesi di primo approdo ad una rigorosissima segnalazione di tutti coloro che entrano, con rilevazioni biometriche ed impronte anche per i bambini dai sei anni in su. Un modo per limitare al massimo i cosiddetti movimenti secondari verso i Paesi del centro e nord Europa che così avranno gioco più facile nel rimandare in Italia i migranti sbarcati che dovessero riuscire a passare la frontiera. In caso di forte pressione migratoria, l’Italia dovrà presentare una richiesta motivata alla Commissione europea che valuterà. Ogni anno verrà istituito un pool di solidarietà, al quale tutti i Paesi dell’Ue dovranno contribuire con i ricollocamenti o in alternativa contributi finanziari, calcolati sulla base della popolazione e del Pil. La denuncia delle Ong: “Attacco al diritto d’asilo” - Un accordo a cui plaudono le Nazioni Unite ma che registra invece la forte critica delle Ong sull’aggressione al diritto d’asilo. Save the children in particolare denuncia le “palesi violazioni dei diritti dei minori”. Migranti. Patto Ue difensivo: passo avanti ma diritti a rischio di Paolo Lambruschi Avvenire, 21 dicembre 2023 Del nuovo patto europeo che riforma i delicati temi di migrazione e asilo si salva il metodo (l’accordo varrà per tutti i 27 Paesi membro) ma sui contenuti buosgnerà vigilare. L’accordo raggiunto in Europa non soddisfa pienamente Qualche passo avanti, ma i toni trionfalistici ascoltati ieri paiono onestamente fuori luogo. Del nuovo Patto europeo che riforma i delicati temi di migrazione e asilo si salva il metodo - come si dice, abbiamo un accordo e varrà per tutti i 27 membri -, ma sui contenuti bisognerà lavorare ancora e vigilare. Sicuramente, si è sbloccata ieri una situazione che ha paralizzato la Ue da anni, ma è altrettanto vero che restano i muri alle frontiere esterne e esternalizzate e sulla questione del rispetto dei diritti umani dei profughi approdati in Europa sono innegabili luci e ombre. E si conferma la preoccupante tendenza all’arretramento nel riconoscimento del diritto di asilo segnalata da diversi giuristi e nell’ultimo rapporto sui rifugiati della Fondazione Migrantes. Cinque i pilastri dell’accordo provvisorio, che dovrà essere adottato dal Parlamento e dal Consiglio prima di diventare legge in primavera e venire recepito dagli Stati. Ma il punto chiave era il superamento del discusso regolamento di Dublino, che impone ai Paesi di primo approdo, quelli mediterranei, di registrare e prendersi cura dei migranti creando così uno sbilanciamento delle domande di asilo e generando flussi di movimenti secondari alle frontiere. La norma non viene abolita, insomma Italia, Grecia e Spagna dovran-no continuare a organizzare la prima accoglienza. Però viene mitigata sulla carta da una normativa che prevede un nuovo meccanismo di “solidarietà” obbligatoria quando la pressione migratoria diventa forte anche per l’azione ostile di Paesi terzi, lasciando ai membri la scelta tra ricollocare i richiedenti asilo nel loro territorio o versare contributi calcolati sulla popolazione e sul Pil. Un piccolo passo avanti non risolutivo, come rileva Caritas Europa, con una critica non ideologica che definisce quella europea solidarietà “a la carte” che non attenuerà la “crescente responsabilità” che ricade sugli Stati europei di confine e trasferisce obblighi a Paesi terzi “esponendo i migranti a violazioni dei diritti umani”. Si rischia insomma “un aumento delle detenzioni e un abbassamento degli standard di accoglienza” che potrebbero penalizzare i più deboli e “la limitazione dell’accesso all’asilo e dei diritti di chi cerca protezione”. Il riferimento è alle nuove norme che prevedono finalmente una procedura comune in tutta la Ue per concedere e revocare la protezione internazionale. Ma a fronte della buona intenzione di velocizzare il tempo di trattamento delle richieste di asilo a sei mesi per una prima decisione, si riduce quello per le richieste manifestamente infondate o inammissibili e alle frontiere. Punto da chiarire perché non si capisce in quali centri verranno ospitati i soggetti deboli e le famiglie e, nonostante le garanzie assicurate, a quali restrizioni saranno sottoposti. Altra obiezione, il diritto internazionale non contempla la figura dei profughi climatici e si rischia che la Ue così sensibile ai temi ambientali finisca con il rimpatriarne ipocritamente le vittime. Né possiamo nascondere le perplessità per le ricadute in Italia della tempistica accelerata, data la cronica mancanza di personale e di fondi. Difficile anche credere che all’improvviso in 12 settimane i diniegati vengano rimpatriati dal Belpaese. Richiederà poi un monitoraggio costante, previsto dal Patto, anche la decisione di sospendere alcune procedure umanitarie e di asilo in momenti di crisi e il ricorso ai Paesi terzi sicuri sul non esaltante modello tunisino. Non è invece da bocciare, visto quanto sta accadendo negli ultimi mesi alle frontiere dove molti minori non vengono riconosciuti come tali, la riforma della banca dati biometrica e l’introduzione di procedure più stringenti per la raccolta di informazioni su nazionalità ed età e anche lo screening facciale dai sei anni in su, che da una parte farà discutere, ma dall’altra può evitare abusi e contribuire a prevenire la sparizione nascosta di migliaia di minori non accompagnati dopo lo sbarco o il passaggio delle frontiere secondarie. La logica che sottende l’accordo è prevalentemente difensiva, davanti a un aumento globale inarrestabile del popolo in mobilità che, però, nella sua maggioranza non ha la Ue come meta. I governi sono soddisfatti, tranne Budapest, ma ha vinto ancora la paura dei migranti almeno finché la dura legge della demografia non ci farà cambiare idea. Migranti. Decreto flussi, solo il 30 per cento dei lavoratori viene regolarizzato di Lidia Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 21 dicembre 2023 Il dossier di “Ero straniero”. Lo studio fa luce sull’inefficacia del decreto flussi dopo il cosiddetto “click day”. “Solo una piccola parte di lavoratori stranieri che entrano in Italia grazie al decreto flussi riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica”. A dirlo è il nuovo dossier “La lotteria dell’ingresso per lavoro in Italia: i veri numeri del decreto flussi” realizzato dalla campagna “Ero straniero” e presentato ieri al Senato. Lo studio, relativo agli anni 2022 e 2023, fa luce sull’inefficacia del decreto nei passaggi successivi al cosiddetto “click day”, il giorno della presentazione delle domande di nulla osta da parte del datore di lavoro o del lavoratore straniero che intende fare ingresso in Italia per lavoro autonomo. I numeri degli ultimi click day di dicembre in cui sono state inoltrate 600.000 domande a fronte di 136.000 quote di ingresso disponibili, confermano ancora una volta l’unica certezza legata al decreto flussi: il numero di quote di ingresso disponibili è nettamente inferiore alle domande di lavoratori e datori. Ma dopo l’ottenimento del nulla osta cosa succede? Il dato più rilevante analizzato nel dossier riguarda il rapporto tra le quote stabilite e i contratti di soggiorno effettivamente sottoscritti, con conseguente rilascio del permesso di soggiorno. Nel 2022 solo il 30% di chi è entrato in Italia con decreto flussi all’interno del canale stagionale (quello più utilizzato dal sistema) ha stabilizzato la propria posizione lavorativa, con 12.708 contratti di soggiorno realmente emanati a fronte di 42.000 ingressi stabiliti dalle quote, e del 26% per i lavoratori non stagionali, con solo 5.243 contratti su 20.000 quote. Ciò vuol dire che solo un terzo di lavoratori che entrano in Italia riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e avere i documenti, mentre la maggior parte, impiegata dalle aziende col solo nulla osta, una volta terminato tale impiego, è destinata ad una condizione di irregolarità e precarietà. Interessante è notare che rispetto alla distribuzione territoriale di quote, nulla osta rilasciati e contratti sottoscritti, emerge una netta differenza da regione a regione con una maggiore efficacia della procedura nelle province del nord. Nel 2022 il tasso di conversione di nulla osta in contratti di soggiorno nelle regioni del nord Italia è, infatti, più del doppio di quello delle regioni del sud. Il che potrebbe essere legato ad un ricorso maggiore, nel mezzogiorno, all’uso strumentale dell’ingresso legale per fini di lavoro nero o di sfruttamento. Ma facciamo un passo indietro. Già nel primo passaggio previsto dal sistema flussi, ovvero nella trasformazione della domanda in nulla osta, l’apparato si inceppa: un numero consistente di domande esaminate non arriva al rilascio del nulla osta. Quelli rilasciati, infatti, sono inferiori ai posti disponibili, il che si traduce in migliaia di posti di lavoro perduti. Tra chi riceve il nulla osta, invece, una parte di lavoratori non fa ingresso in Italia ampliando ancora di più il numero di posti di lavoro e ingressi regolati persi. Grazie al dossier e alla luce degli interventi normativi degli ultimi due anni sulla gestione degli ingressi per lavoro attraverso il decreto flussi, attuati soprattutto per velocizzare l’iter amministrativo, sembrerebbe che l’unico vero risultato ottenuto dal governo sia stato quello di soddisfare la richiesta di manodopera immediata, senza curarsi delle conseguenze di una mancata finalizzazione della procedura. Questo ha aumentato il rischio di precarietà e irregolarità per i lavoratori migranti. Per questo “Ero straniero” ha proposto l’introduzione di percorsi d’ingresso diversificati: l’assunzione diretta da parte del datore di lavoro fuori dalle quote previste dal governo, un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro con la garanzia di uno sponsor e uno attraverso garanzie minime di sostentamento. Ha chiesto, inoltre, l’introduzione di meccanismi di regolarizzazione su base individuale, tramite contratto di lavoro o per radicamento sociale. Migranti. Patto Italia-Albania: spenderemo 25 milioni per un carcere da 20 posti di Carlo Tecce L’Espresso, 21 dicembre 2023 L’accordo tra Giorgia Meloni ed Edi Rama per la gestione dei migranti sul suolo albanese prevede anche la costruzione di un piccolo penitenziario. Che costerà più di un milione a detenuto per cinque anni. Ogni giorno in Italia c’è una notizia sul disumano sovraffollamento nelle carceri. L’ultima proviene da San Vittore: 1.600 detenuti per una capienza di 800. In assoluto le stime variano da 5 a 7 metri quadri a cella bagno compreso. E invece in Albania “e qui il discorso si fa molto patriottico “il governo dei patrioti si è impegnato a costruire una “sezione detentiva” per 20 posti che in 5 anni costa 25 milioni di euro. È un’altra bizzarria, l’ennesima, che deriva dal patto fra la presidente Giorgia Meloni e il collega Edi Rama per delocalizzare in Albania la gestione di una manciata di migranti raccolti in mare: 700 in partenza, 3.000 a regime, no bambini, no donne, no anziani, no fragili. Siccome il protocollo d’intesa firmato dai capi di governo introduce di fatto in Albania regole italiane ed europee, il piccolo penitenziario per i migranti deve rispettare regole italiane ed europee (e pazienza se in patria non sono applicate a dovere). Al ministero del Tesoro hanno calcolato la spesa nei dettagli: “Si considerano tutte le strutture e gli spazi necessari all’insediamento di una struttura penitenziaria capace di ospitare 20 detenuti. Il layout funzionale - si legge nei documenti che l’Espresso ha consultato in anteprima, venerdì in edicola troverete il servizio completo - tiene conto di quanto previsto dal vigente ordinamento penitenziario e dai contributi pervenuti dagli altri uffici del Dipartimento. Secondo tale schema la struttura penitenziaria occupa una superficie complessiva di circa 6.300 mq, di cui mq 2.214 coperta e mq. 4.086 scoperta. La volumetria complessiva è di circa 13.000 mc. Su tali dati è stato effettuato un calcolo della spesa sulla base di costi parametrici desunti da alcuni progetti recenti elaborati nel quadro del Pnc al Pnrr. Tale calcolo porta ad una previsione finanziaria, per il solo importo dei lavori, di circa 8 milioni di euro per l’anno 2024 (conto capitale). L’edificio detentivo, l’edificio destinato a servizi generali e l’edificio destinato a servizi centrali sono costituiti da un unico piano. L’edificio destinato a caserma agenti e l’edificio destinato ad uffici direzionali e alloggi per il personale sono costituiti da 2 piani. L’edificio detentivo è costituito da n. 16 posti ordinari (di cui n. 2 destinati a persone con disabilità) e n. 4 posti detentivi destinati ad un regime di sicurezza. Le strutture saranno realizzate in modo da rispettare le prescrizioni tecniche previste dagli standard nazionali ed internazionali relativi agli istituti di detenzione”. Dunque 8 milioni di euro per allestire il carcere, che poi rimarrà al governo albanese, e ulteriori “3,784 milioni per 5 anni (il primo è un semestre) per il funzionamento” secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria citata nel documento della Ragioneria Generale dello Stato. Il totale fa 25 milioni di euro, 250.000 euro annui a posto. È il governo dei patrioti all’estero. Migranti. Stragi in mare e indifferenza di Paolo Fallai Corriere della Sera, 21 dicembre 2023 Abbiamo imparato a dimenticare: il 3 ottobre 2013 è stata una data sconvolgente, in un naufragio davanti a Lampedusa morirono 368 persone. “Il sospetto è che siano morti a un passo dalla salvezza”. Cominciava proprio con queste parole, sul Corriere, il racconto del nostro Rinaldo Frignani sull’ultimo naufragio nel Mediterraneo: 61 dispersi, molte donne e molti bambini, degli 86 partiti 48 ore prima da Zuara, in Libia. Forse non era lontana l’Ocean Viking di Sos Méditerranée, che ha però dovuto far rotta verso Livorno, in quanto porto sicuro indicato dall’Italia, con altri 26 migranti soccorsi in precedenza. Poche ore sono bastate perché questa notizia sconvolgente scomparisse dall’informazione. Ci siamo abituati a queste stragi: 61 annegati non sono poi tanti di meno rispetto ai 94 cadaveri restituiti dal mare a febbraio sulla spiaggia calabrese di Cutro. Sono 2.250 le persone morte nel Mediterraneo centrale in questo 2023. Oltre il 70 per cento cercava di raggiungere le coste italiane. Abbiamo imparato a non contare le file di bare allineate nelle palestre o dove capita o dove comunque passano un prete, qualche volontario e pochi altri. Abbiamo imparato a dimenticare: il 3 ottobre 2013 è stata una data sconvolgente, in un naufragio davanti a Lampedusa morirono 368 persone. Dal 2016 quel 3 ottobre è diventata la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza per commemorare tutte le vittime dell’immigrazione. Avremmo dovuto farne un momento collettivo di riflessione, ma non ci siamo riusciti. Da quel 2013 nel Mediterraneo sono morte affogate 28.000 persone. Non so se questa cifra continua a farci effetto: sono poco meno degli abitanti di Aosta. Un sistema qualsiasi di soccorso per limitare questa strage non c’è. In compenso immagini ne vediamo sempre meno, testimoni non ci sono. In fondo Alan Kurdi, il bambino curdo morto sulla spiaggia turca di Bodrum e che commosse il mondo, non ci riguarda. Abbiamo imparato l’indifferenza, altrimenti non riusciremmo a dormire. Migrante di 27 anni morto di freddo a Verona, scoppia la polemica di Tiziano Grottolo Corriere della Sera, 21 dicembre 2023 Era stato escluso dall’accoglienza trentina. A Trento manifestazione per la chiusura del dormitorio per migranti e clochard. Il sindaco Ianeselli: “Competenza della Provincia ma con tutte queste persone in strada non si può fare finta di nulla”. Abdeljalil Bendaoud è morto a soli 27 anni all’interno di un vagone abbandonato nella stazione di Verona Porta Nuova. Il corpo senza vita del ragazzo marocchino è stato trovato lo scorso 10 dicembre, con ogni probabilità la morte è sopraggiunta a causa del freddo. Bendaoud era uno dei giovani migranti arrivati in Italia per cercare un futuro migliore, uno dei tanti rimasti esclusi dal sistema di accoglienza. Lo scorso marzo infatti, il 27enne si era presentato in questura a Trento per formalizzare la domanda di protezione internazionale. L’appuntamento era stato fissato per metà maggio ma il ragazzo non disponeva di un domicilio e per questo l’iter si era bloccato. Da quel momento del giovane si erano perse le tracce fino a quando è stato rinvenuto morto a Verona. Da quanto si apprende il suo nome sarebbe persino stato inerito nelle liste d’attesa (lunghissime) per un posto letto in uno dei Centri di accoglienza straordinaria del territorio. La protesta - Secondo l’Assemblea antirazzista sono oltre 400 i richiedenti asilo esclusi dal sistema di accoglienza: “Questa è una vergogna tutta trentina - attaccano gli attivisti - da troppo tempo la Provincia opera nell’illegalità con prassi che sono studiate per escludere le persone”. Anche per questo, ieri, 20 dicembre, gli attivisti hanno protestato davanti al Comune di Trento per chiedere che siano messi a disposizione più posti letto per chi, soprattutto in queste giornate di freddo, è costretto a vivere in strada. Non a caso l’iniziativa è arrivata a pochi giorni dalla chiusura del dormitorio di emergenza nel quartiere della Clarina, dove erano ospitate una ventina di persone. “In alcuni casi servono più di sette mesi affinché un migrante si veda riconoscere il diritto alla protezione internazionale, nonostante la norma preveda un massimo di dieci giorni”. Stando alle stime dell’Assemblea antirazzista ad oggi servirebbero almeno 1.100 posti nel sistema d’accoglienza mentre la Provincia li ha bloccati a 700. Nel frattempo gli attivisti hanno contattato le Circoscrizioni per provare a trovare delle soluzioni alternative, incassando la disponibilità di due sale a Mattarello. Ianeselli: “Non si può far finta di nulla” - Dal canto suo il sindaco Franco Ianeselli ha incontrato i manifestanti che protestavano in via Belenzani. “La competenza - osserva il primo cittadino - sarebbe della Provincia ma con tutte queste persone in strada non si può fare finta di nulla. Abbiamo trovato i soldi e un ente in grado di gestire uno spazio per accogliere i senza dimora ma attualmente manca una struttura adeguata”. L’ipotesi del sindaco è quella di puntare su Astalli e ricavare dei nuovi posti letto nel convento dei frati Cappuccini: “Se ci danno la disponibilità noi siamo pronti a sostenere economicamente il servizio”, conclude Ianeselli. Tuttavia i Cappuccini stanno ancora trattando con la Diocesi di Trento la consegna del convento (chiuso dallo scorso settembre), per questo quella che potrebbe essere una soluzione a portata di mano rimane in sospeso. Medio Oriente. L’Onu vuole inserire il “domicidio” tra i crimini contro l’umanità di Angela Napoletano Avvenire, 21 dicembre 2023 Alle Nazioni Unite cresce il dibattito sulla mancanza di una legislazione internazionale sui danni alle abitazioni provocati deliberatamente nei conflitti. Case sventrate dalle bombe: per gli occhi sono solo macerie, per il cuore di chi le abitava sono la tomba in cui seppellire ricordi, sogni e paure. La vita. È la disperazione raccontata per immagini dai reportage di guerra che continuano ad arrivare da Gaza. Uno spaccato del dolore e della violenza sofferta dalla popolazione civile a cui corrisponde una parola moderna, domicidio, che deriva dal latino “domus”, che significa casa, e “cide”, che significa uccisione deliberata. Alle Nazioni Unite discutono la necessità di classificare il domicidio di massa come un crimine contro l’umanità. Le case non sono semplici immobili. Sono il luogo in cui nasce, cresce e si forma il senso di appartenenza e l’identità delle persone che le abitano. Distruggerle senza pietà equivale a offenderne la dignità. Gli accademici ne discutono dai primi anni 2000 ma è solo negli ultimi tempi che il concetto è entrato a far parte del dibattito pubblico. Facilitato dall’orrore dell’abbattimento indiscriminato di abitazioni visto ad Aleppo durante la guerra civile siriana, dallo spianamento degli insediamenti Rohingya in Myanmar, dalla distruzione di Mariupol in Ucraina. Gli addetti ai lavori sottolineano che c’è un legame diretto tra genocidio e domicidio. Il primo si riferisce all’intenzionale uccisione di massa delle persone, il secondo alla cancellazione, altrettanto deliberata, della loro cultura. È questo il motivo per cui secondo le Nazioni Unite il domicidio dovrebbe essere riconosciuto come un crimine contro l’umanità. Perseguibile ai sensi del diritto internazionale proprio come l’uso sistematico degli stupri e della tortura. Secondo Balakrishnan Rajagopal, relatore speciale dell’Onu per il diritto alla casa, la distruzione premeditata delle abitazioni rappresenta una “lacuna rilevante” che va colmata. La protezione dei civili e delle loro case è infatti coperta dallo statuto di Roma, il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, che definisce i crimini di guerra rilevati nelle ostilità tra Stati. Non è invece contemplata tra i reati universali a cui ci si appella durante crisi non armate o in conflitti che coinvolgono attori non statali. Per Israele, lo ricordiamo, lo Stato di Palestina non esiste. I ricercatori della City University di New York e dell’Oregon State University hanno cercato di quantificare la portata della distruzione causata a Gaza dagli attacchi israeliani utilizzando dati e immagini del satellite Sentinel-1. Secondo le loro rilevazioni la percentuale dei palazzi rasi al suolo o gravemente danneggiati è compresa tra il 47% e il 59%. Per lo Stato ebraico si tratta di un’operazione necessaria a sradicare la rete terroristica di Hamas. Per altri l’obiettivo non dichiarato è rendere i territori inabitabili costringendo allo sfollamento quasi due milioni di persone. Ognuno con il proprio carico di dolore, tristezza e paura. È davvero domicidio? Al Palazzo di Vetro sperano che questo reato possa essere inserito all’interno del nuovo trattato sui crimini contro l’umanità a cui sta lavorando la Sesta Commissione Onu. Potrebbero volerci anni prima che venga approvato. Solo allora la comunità internazionale avrà gli strumenti legali per verificarlo e punirlo. Per il momento resta un termine nuovo a raccontare un orrore antico: la guerra. Iran. Impiccata la sposa-bambina Samira. Era in carcere da 10 anni per avere ucciso il marito di Nadia Ferrigo La Stampa, 21 dicembre 2023 La denuncia di Iran Human Rights: “Vittima di un regime incompetente e corrotto”. È stata impiccata all’alba Samira Sabzian, una sposa bambina che si trovava in carcere in Iran da circa dieci anni ed era stata condannata alla pena capitale per avere ucciso suo marito. Lo denuncia la ong, con sede in Norvegia, Iran Human Rights. “Samira è stata vittima per anni di un’apartheid di genere, matrimonio da bambina e violenza domestica, oggi è vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto” ha scritto su X il direttore dell’ong Mahmood Amiry-Moghaddam. Sabzian si era sposata quando aveva 15 anni e quattro anni dopo, nel 2013, aveva ucciso suo marito. Da allora era in carcere. L’esecuzione della condanna era stata fissata per il 13 dicembre ma è stata poi rimandata: la scorsa settimana, prima dell’esecuzione in programma, Sabzian ha potuto incontrare i suoi due figli per la prima volta da quando è stata incarcerata. Secondo il codice penale della Repubblica islamica chi è accusato di omicidio deve essere condannato a morte: la famiglia della vittima può scegliere se accettare la pena capitale o accontentarsi di un risarcimento. Nel caso di Sabzian, i genitori del marito ucciso hanno chiesto, e purtroppo ottenuto, la pena di morte. La Repubblica Islamica ha il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo. “Ali Khamenei e gli altri leader della Repubblica Islamica devono essere ritenuti responsabili di questo crimine. Come altre vittime della “macchina della morte” del regime, Samira era tra i membri più vulnerabili di una società senza voce. Una campagna di una settimana non è stata sufficiente per salvarla. Dobbiamo lottare ogni giorno per salvare le migliaia di altre persone che rischiano di diventare vittime della macchina omicida per preservare la sopravvivenza del regime” conclude Amiry-Moghaddam. “Samira è stata vittima della pratica dei matrimoni precoci e ho visto quanto ha sofferto in carcere per il fatto che le è stato sempre negato di vedere i suoi figli” ha aggiunto, sempre sul social network, Mozhgan Keshavarz, l’attivista iraniana, che è stata sua compagna di cella e che ha trascorso quasi tre anni nella prigione di Evin, nella provincia di Teheran. Iran. La legge del taglione contro Samira Sabzian, sposa-bambina di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 21 dicembre 2023 L’hanno impiccata all’alba i boia di Teheran. A nulla sono serviti gli appelli internazionali dei gruppi per i diritti umani e i severi moniti delle Nazioni Unite. Dopo una settimana di isolamento e dieci anni trascorsi nel braccio della morte, Samira Sabzian, sposa- bambina condannata per l’uccisione del marito nel 2014, non ha ricevuto alcun “perdono” ed è stata giustiziata nella prigione Ghezel Hesar, alla periferia della capitale. Contro di lei è stata applicata la Qisas, un’interpretazione della legge coranica da parte del clero sciita che si potrebbe tradurre con “restituzione equivalente”, una norma modellata sull’antica antica legge del taglione babilonese. Quando Samira fu data in sposa era il 2009 e lei aveva 15 anni, il marito era un uomo adulto e brutale che ogni giorno le imponeva un calvario di violenze domestiche, maltrattamenti, torture e abusi sessuali. Dopo quattro anni di convivenza nel 2013 Samira uccide il marito. Le autorità la arrestano e, dopo il solito processo- farsa, la condannano a morte per omicidio volontario. La detenzione nel braccio della morte per Samira è stata un vero e proprio supplizio; traumatizzata, ha perso progressivamente l’uso della parola, sprofondando nell’afasia mentre negli ultimi tempi non riusciva neanche a camminare in modo corretto, tanto che è stata portata al patibolo in sedia a rotelle, altro truculento dettaglio sul sadismo giudiziario del regime degli ayatollah. In questi dieci anni di attesa non ha mai potuto incontrare i suoi figli di 11 e 15 anni, che ha visto una sola volta, poche ore prima dell’esecuzione. L’unica speranza di sfuggire al boia era il perdono dei familiari della vittima o dei suoi eredi, un’opzione prevista dal codice penale islamista denominata diya, che significa letteralmente “prezzo di sangue”. In sostanza si tratta di una trattativa economica per giungere a un risarcimento materiale ed è applicato principalmente agli omicidi non volontari. In alcuni casi la diya viene concessa al termine di una penosa e macabra messa in scena dei funzionari di giustizia che simulano l’esecuzione in tutte le sue fasi fino alla messa del cappio al collo per poi interromperla all’ultimo istante con un annuncio del direttore del carcere. Esecuzioni abortite che lasciano ferite profonde nella psiche delle persone condannate. Oltre all’Iran, questo metodo è frequente anche in Pakistan, Arabia saudita e Emirati arabi uniti. Nel caso in cui i familiari non accettano il risarcimento si procede con l’esecuzione alla quale possono partecipare in modo attivo, aiutando il boia. Per esempio scalciando lo sgabello su cui poggiano le gambe della persona giustiziata. “Samira è stata vittima di anni di apartheid di genere, matrimoni precoci e violenza domestica, e oggi è caduta vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto”, ha commentato Mahmood- Amiry Moghaddam, direttore di Iran Human Rights (IHR) una ong per i diritti umani con sede in Norvegia. La tragica storia di Samira Sabzian assomiglia a quella di tante altre donne iraniane costrette a sposarsi giovanissime contro la propria volontà, piombando quasi sempre in un inferno di abusi e violenze, un fenomeno molto diffuso nelle aree rurali del Paese dove il reddito e l’istruzione sono più bassi, ma protetto dal codice civile (articolo 1041). L’età minima legale è infatti di 13 anni per le donne e di 15 per gli uomini previo consenso dei familiari, ma questi limiti sono spesso violati allegramente; stando alle cifre ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica iraniano, nel 2021 quasi 32mila bambine tra i 10 e i 15 anni hanno contratto un matrimonio. Una cifra in costante crescita e in controtendenza rispetto al resto del mondo dove, negli ultimi dieci anni, il numero di spose- bambine è diminuito del 15% (fonti Unicef). Nel 2020 il Parlamento aveva discusso una modifica della legge di protezione dell’infanzia che alzasse i limiti di età, la proposta era stata presentata dai deputati riformisti, ma i conservatori vicini alla guida suprema Alì Khamenei la bocciarono senza appello, spiegando che Maometto (Muhammad) ha sposato la sua terza moglie, Aisha, quando lei aveva appena nove anni (sic). Tra le classi sociali più povere “offrire” la propria figlia in dote a famiglie più agiate è un metodo collaudato per sfuggire all’indigenza, una pratica su cui gli ayatollah chiudono entrambi gli occhi e che costituisce una terribile condanna per migliaia di bambine iraniane Secondo il codice penale iraniano tutti i cittadini condannati per omicidio devono essere giustiziati perché si tratta di un reato che non prevede circostanze attenuanti. Nel 2023, almeno 18 donne sono state giustiziate nella repubblica sciita. Secondo l’ultimo esaustivo rapporto di Iran Human Rights sulle donne e la pena di morte presentato in occasione della Giornata mondiale contro la pena capitale nel 2021, almeno 164 donne sono state giustiziate tra gennaio 2010 e ottobre 2021. Nel 66% dei casi di omicidio noti agli organi di informazione, le donne sono state condannate per aver ucciso i loro mariti o partner in seguito a violenze subite nel corso di diversi anni. Mai che venga riconosciuta la legittima difesa. Ma sono numeri incompleti, considerando tutte le esecuzioni che avvengono in segreto, fuori dai riflettori dei media. All’interno del matrimonio in Iran una donna non ha il diritto al divorzio, anche nei casi più gravi di percosse e di sevizie sessuali.