Mamme e bimbi in carcere, l’appello: “Fermate la nuova norma” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 dicembre 2023 Online la petizione promossa da Devis Dori (Avs) contro il provvedimento che elimina l’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con figli minori di un anno. “Chiediamo al Governo italiano e alla maggioranza parlamentare di non modificare gli articoli 146 e 147 del codice penale, mantenendo obbligatorio il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti della donna incinta o della madre di infante di età inferiore ad un anno”. Questo è l’appello lanciato al Governo e alla maggioranza parlamentare insieme a Debora Serracchiani (Pd), Valentina D’Orso (M5S), Riccardo Magi (Più Europa), Roberto Giachetti (IV), Enrico Costa (Azione), e firmato da personalità del mondo dello spettacolo e della cultura tra cui: Alessio Boni, Claudio Marchisio, Luigi Manconi, Moni Ovadia, Marisa Laurito, Lorenzo Marone, Susanna Marietti, Adolfo Ceretti, Donatella Stasio, Daniele Abbado, Anna Catalano, Mitja Gialuz, Giulia Boccassi, Michele Passione, Lillo di Mauro, Lorenzo Chieffi. Lo ha reso noto il promotore dell’iniziativa Devis Dori, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra nella commissione Giustizia della Camera, durante una conferenza stampa a Montecitorio. La modifica normativa contestata è prevista da una misura contenuta nell’ultimo pacchetto Sicurezza che elimina l’obbligo di differimento dell’esecuzione carceraria per le donne incinte o con figli con meno di un anno d’età. Il testo è stato approvato in Cdm lo scorso 16 novembre ma non è ancora approdato nelle commissioni competenti. Come sottolineato nell’appello “le donne che attualmente, in tutta Italia, risulterebbero coinvolte da questa nuova previsione normativa sarebbero soltanto 20 e ciò dimostra che non vi sia alcuna necessità concreta di sopprimere una norma di civiltà giuridica”. Durante la conferenza è stato trasmesso un video dell’attore Alessio Boni: “sono cresciuto in una famiglia in cui mi hanno tramandato il fatto che i bambini non devono essere toccati. Devono vivere la loro felicità e la loro libertà. Il comma 2 dell’articolo 31 della Costituzione recita: “Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Perché dobbiamo tornare indietro? Andiamo avanti”. Ha concluso Devis Dori: “tutte le opposizioni hanno sottoscritto questo appello; ora ci rivolgiamo a coloro che nella maggioranza si definiscono garantisti”. Diritto alla sessualità per i detenuti, attesa la sentenza della Corte costituzionale di Daniele Flavi frosinonetoday.it, 20 dicembre 2023 Il diritto dei detenuti di intrattenere rapporti sessuali con il proprio partner è divenuto oggetto di discussione giuridica e la Corte Costituzionale è in procinto di emettere una sentenza dopo che, il 5 dicembre scorso, si è discusso nel corso di un’udienza, sulla questione del “diritto all’affettività dei detenuti in carcere”. Un verdetto che potrebbe fare Giurisprudenza e che scaturisce dalla caparbietà di Daniela Palma e Alessio Mazzocchi, una coppia di avvocati di Colleferro. La decisione degli Ermellini, attesa nelle prossime ore, sarebbe una sentenza storica. La Consulta torna ad affrontare il tema, attraverso il giudice relatore Stefano Petitti su impulso del Magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, dopo più di dieci anni dalla sentenza n. 301 del 19 dicembre 2012 nella quale i giudici costituzionali sollecitarono - inascoltati - il legislatore a intervenire sull’ordinamento penitenziario per permettere ai detenuti di relazionarsi con il proprio o la propria partner anche sessualmente. Questione che attiene al diritto del detenuto di non essere sottoposto ad altra pena afflittiva se non quella della privazione della libertà personale, ma anche al processo di reinserimento del condannato. Il tal senso il Magistrato di Sorveglianza Gianfilippi ha richiesto il giudizio di legittimità sull’articolo 18 della legge 354/1975 “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentita, quando non ostino ragioni di sicurezza, svolgere colloqui intimi a tutela dell ‘affettività, senza il controllo a vista del personale di custodia”. L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non garantire momenti di intimità all’interno degli spazi detentivi. Ben 31 dei 47 Stati del Consiglio d’Europa prevedono, in forme diverse e variabili, incontri affettivi nei penitenziari. Sono intervenuti in udienza gli avvocati colleferrini Daniela Palma e Alessio Mazzocchi , del Foro di Velletri, difensori del detenuto interessato dall’ordinanza di rimessione, sostenendo che il diritto all’affettività sia espressione della persona umana e rientri tra i principi di rilievo costituzionale: anche per l’avvocato di Stato Massimo Giannuzzi tali diritti “sono sacrosanti e incontestabili”, malgrado abbia richiesto “l’inammissibilità della questione” per un problema legato alla “ineliminabile sfera della discrezionalità politico legislativa e della insostituibilità dell’intervento del legislatore. Oggettivamente - ha ammesso Giannuzzi - c’è una inerzia. Rispondendo all’interrogazione della Consulta il Ministero ha comunicato che risulta programmata con i fondi del PNRR la realizzazione di 8 padiglioni con capienza ciascuno di 80 posti”, all’interno dei quali “sono previsti numerosi spazi per attività trattamentali per i detenuti”, ma “nessuno spazio destinato allo svolgimento e all’esercizio del diritto all’affettività”. I difensori del detenuto hanno tenuto a tal proposito ricordato anche le varie iniziative culturali tra cui l’importante appello promosso dalla Società della Ragione, dal CRS e dalla Associazione Coscioni: “Il corpo recluso e il diritto all’intimità”, redatto dal prof. Andrea Pugiotto è sottoscritto da più dì duecento tra giuristi, avvocati, esponenti dei movimenti per i diritti. Direttori penitenziari, il Partito Radicale con Sbriglia: serve tutela e più collaborazione con i Garanti Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2023 Il Partito Radicale condivide e sostiene le richieste del nuovo coordinatore della Fsi-Usae Enrico Sbriglia che ha deciso di portare sul tavolo della politica le proibitive condizioni di lavoro nelle quali si ritrova la categoria dei direttori degli istituti penitenziari. “In particolare si apprezza - dichiarano il Segretario Maurizio Turco e la tesoriera del partito Irene Testa - la volontà di creare una rete di migliori relazioni con il mondo del volontariato, con l’avvocatura, con chi si occupa di diritti, come il garante nazionale e i garanti territoriali e regionali che si occupano dei detenuti, al fine di provare a migliorare la vita dei lavoratori e dei carcerati. L’indebolimento della figura dei dirigenti penitenziari costituisce in effetti un indebolimento delle regole di legalità che rende proibitive le condizioni di vita la dignità di chi opera e vive all’interno delle carceri”. Sbriglia chiede inoltre che il nuovo coordinamento ponga l’attenzione sull’eventualità di uno scudo legale a chi dirige gli istituti penitenziari “fuori norma”, non rispettosi dell’Ordinamento Penitenziari. “Ma anche -affermano Turco e Testa - la possibilità per i dirigenti delle strutture territoriali locali di rilasciare, interviste e comunicati stampa senza autorizzazioni del Dap e ministero, questione fondamentale per una necessaria trasparenza che il Partito Radicale richiede costantemente. È evidente a tutti la grave situazione nella quale lavorano i dirigenti penitenziari di diritto pubblico, con un organico spesso inadeguato che ha bisogno di essere invece incrementato e sostenuto per assicurare a tutti una vita dignitosa”. Vietato pubblicare le ordinanze cautelari: vince l’asse Costa-Forza Italia di Errico Novi Il Dubbio, 20 dicembre 2023 Ok di Nordio all’emendamento di Azione, domani il voto a Montecitorio. È la vittoria dei garantisti contro la dittatura della gogna. Chissà se sarà compresa, e se dall’opposizione, 5 Stelle in testa, oggi a Montecitorio parleranno di bavaglio alla stampa, come sempre in questi casi. Di certo c’è che stamattina, nell’aula della Camera, la maggioranza dovrebbe dare via libera all’emendamento Costa sul divieto di pubblicare le ordinanze cautelari. “Un grande passo avanti a tutela della presunzione d’innocenza”, lo definisce il deputato e responsabile Giustizia di Azione. Ed è vero. Perché è dai tempi della riforma Orlando sulle intercettazioni, un decreto legislativo di fine 2017, che è possibile riportare integralmente sui giornali le ordinanze dei gip. Non sarà più così: la modifica sulla quale Azione e il governo ieri hanno raggiunto l’accordo reintroduce il “divieto di pubblicazione integrale, o per estratto, del testo delle ordinanze di misure cautelari”. Inizialmente la formulazione non conteneva la parola “testo”, il che lasciava spazio all’equivoco per cui non si sarebbe potuto più scrivere degli arresti. Con il fitto scambio intercorso fra Costa e via Arenula, la norma è stata precisata in modo da evitare fantasie interpretative: è il contenuto letterale e dettagliato degli atti che non potrà più finire sui giornali, ma continuerà a essere possibile, com’è ovvio, dare notizia delle misure restrittive e dei motivi che le giustificano. È un passaggio chiave, per la politica giudiziaria del governo Meloni. Definisce la rotta del centrodestra in campo penale. Che è la sintesi fra il rigorismo (con frequenti sbandate populiste) di Fratelli d’Italia, il garantismo di FI e una certa ambivalenza delle Lega, a volte schierata per il diritto di difesa ma assai più spesso “conservativa” al pari dei meloniani. Da questo mix viene fuori un’altalena ormai costante fra provvedimenti-spot come i decreti Caivano e Cutro e insperati passi avanti in direzione garantista. Come quello che dovrebbe essere sancito domani dal voto, a scrutinio segreto, sull’emendamento Costa. “Sarebbe davvero una svolta”, spiega il deputato di Azione, “è dai tempi della riforma Orlando”, appunto, “che il regime di pubblicabilità delle ordinanze cautelari aveva di fatto vanificato le norme previste per tutelare la privacy e la difesa degli indagati, quelle ad esempio che imporrebbero al pm di citare solo le intercettazioni rilevanti ai fini di prova e al gip di riferirsi ai soli passaggi essenziali delle conversazioni captate. In realtà, al pm bastava inserire, nella richiesta di misure cautelari, elementi anche irrilevanti per l’accertamento del reato, tratti magari dall’informativa dei carabinieri, per compromettere l’immagine dell’indagato e fare marketing giudiziario. E nel momento in cui il giudice omette, come quasi sempre avviene, di filtrare questa valanga di particolari diffamanti, ecco che il processo mediatico è bello e servito. Mi pare davvero importante sancire invece che gli atti dei gip non possono essere riportati dai giornali in modo testuale: diventa così illegittimo pubblicare i dettagli di un’indagine finché non si chiude la fase preliminare del procedimento”. Ed è un successo politico dei garantisti, oltre che una buona notizia per il diritto di difesa. Il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Tommaso Calderone, aveva avvertito molto chiaramente, nei giorni scorsi, che il suo partito avrebbe votato a occhi chiusi l’emendamento Costa. Il guardasigilli Carlo Nordio aveva invece dato parere negativo sulla modifica. Una contraddizione che, per l’alleanza di governo, rischiava di diventare esplosiva. Finché ieri il guardasigilli e il suo vice Francesco Paolo Sisto, anche lui di Forza Italia, hanno preso di petto la questione - di concerto con Palazzo Chigi, naturalmente - e hanno comunicato a Costa il loro via libera sull’emendamento, che lo stesso parlamentare calendiano aveva sottoposto a via Arenula in versione riformulata. La modifica sarà messa in votazione nell’ambito dell’esame della legge di delegazione europea. Una scelta coerente, considerato che la norma sulle ordinanze cautelari integra la disciplina sulla presunzione d’innocenza, introdotta nel 2021 - sempre su iniziativa di Costa e con la regia di Sisto e Marta Cartabia - in attuazione di una direttiva Ue, la ormai nota 343 del 2016. E il fatto che la svolta garantista arrivi in capo a una giornata come quella di ieri, aperta dall’informativa di Guido Crosetto sulla magistratura, rende tutto ancora più “pesante” per la politica giudiziaria dell’era Meloni. Indagini, notizie con il filtro. Il governo si salva in extremis di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 dicembre 2023 Accordo sull’emendamento dell’azionista Costa. Le opposizioni: “Una legge bavaglio”. L’eroe di giornata, per il governo, è il deputato leghista Stefano Candiani. È stato lui infatti, ieri pomeriggio, a trovare la formula magica che ha convinto Enrico Costa (Azione) a cedere alle modifiche al suo emendamento sulla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. La vicenda ha tolto il sonno alla destra per qualche giorno, e solo in extremis si è evitato l’imbarazzo di una spaccatura sulla giustizia nell’aula della Camera. Inizialmente, infatti, l’emendamento proposto da Costa aveva ricevuto il parere contrario da parte del governo, ma Forza Italia si era espressa a favore e aveva definito la proposta dell’azionista (che in fondo è il recepimento di una norma europea che giaceva in parlamento da due anni) come “una questione di civilità”. Da qui la minaccia di Costa di chiedere lo scrutinio a voto segreto, con la seria prospettiva di mandare sotto il governo sulla giustizia. Per la verità, però, un’ancora di salvezza la destra l’aveva trovata già lunedì sera, quando il M5s si era riunito e aveva deciso di votare no all’emendamento Costa. Certo, poi nel segreto dell’urna non sarebbero state da escludere diserzioni dalle parti di Lega e Fratelli d’Italia, ma di fatto l’assalto era finito su un binario morto, a parte l’eventuale bizzarria della comunione d’intenti tra pentastellati e governo. Così, dopo ore di serrata trattativa, nel tardo pomeriggio di ieri sono arrivati prima l’accordo e poi il voto. Candiani ha proposto di cambiare appena poche parole: dove Costa proponeva “il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare” adesso si parla di “divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare”. Inoltre, agli articoli della Costituzione interessati dall’emendamento di Costa (il 24 e il 27), Candiani ha fatto aggiungere il 21, quello sulla libertà di espressione. Già, perché la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare è un tema che riguarda anche l’informazione, e nello specifico la cronaca giudiziaria, e già si parla di nuova legge bavaglio. Su questo punto ha insistito soprattutto il M5s - “Si affaticano tanto per nascondere i possibili reati dei potenti, perché sono quelli che interessano all’opinione pubblica” -, mentre da parte di Pd e Avs il “no” all’emendamento Costa è stato giustificato con l’evidenza del fatto che si sta dando al governo una delega troppo ampia su una materia estremamente delicata. Ad ogni modo, il voto ha spazzato via ogni perplessità: l’emendamento Costa, modificato da Candiani, con il parere divenuto positivo del governo, è passato con 160 voti favorevoli e 70 contrari. “Un risultato positivo e che ci soddisfa, un buon traguardo per ribadire ancora una volta l’importanza, per Forza Italia e per il governo, del garantismo e della presunzione di innocenza, cardini chiave sui quali si fonda la nostra Costituzione”. Esulta alla fine del match parlamentare la sottosegretaria Matilde Siracusano, che in precedenza aveva dato il parere favorevole a nome del governo. Costa, primo firmatario dell’emendamento, ha commentato il buon esito delle trattative con la destra parlando del merito del provvedimento. “L’obiettivo è di rimuovere una stortura del nostro ordinamento - ha detto ai cronisti -. Sono state limitate le conferenze stampa delle procure, ma poi sono pubblicabili le ordinanze cautelari e così siamo d’accapo. E se l’ordinanza poi viene annullata dal riesame o dalla Cassazione? Intanto si è pubblicato tutto quanto contenuto nell’ordinanza…”. Già nel 2021, l’allora maggioranza che sosteneva Mario Draghi aveva rischiato la sbandata su un emendamento di Costa: in discussione c’era la possibilità da parte di pm e polizia giudiziaria di fare conferenze stampa. Anche in quella circostanza, dopo giorni di febbrili trattative - con il deputato che insieme alla destra teneva in scacco Pd e M5s -, alla fine venne trovato un compromesso: ok alle conferenze stampa ma solo “con atto motivato e per ragioni di interesse pubblico”. Parti invertite, stessi protagonisti, stesso risultato finale. “L’opposizione giudiziaria esiste”. Intervista a Carlo Nordio di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 dicembre 2023 Le riforme “che faremo tutte”, le promesse per il 2024, la separazione delle carriere, la stretta sulle intercettazioni e una certezza: “Quando un pm si espone non è più terzo ed esercita pressioni”. La separazione delle carriere? C’è. Le intercettazioni? Anche. Il riequilibrio tra poteri? Pure. Le pagelle? Eccole. E sul ruolo futuro dei magistrati? Partiamo da qui. Dice Carlo Nordio, ministro della Giustizia, che parlare di opposizione giudiziaria in Italia non è affatto un’eresia ma è un dato di realtà. “È un fatto”, dice il ministro. Carlo Nordio lo dice, conversando con il Foglio, pochi minuti dopo aver scortato, si fa per dire, il suo collega Guido Crosetto alla Camera. Due settimane fa, Crosetto aveva espresso la sua preoccupazione sul tema dell’opposizione giudiziaria. Ieri alla Camera, nel corso di una informativa urgente, il ministro ha spiegato cosa intendeva con quell’affermazione. E mentre Crosetto spiegava, Nordio era lì accanto a lui che annuiva. “Il ministro Crosetto - ci dice Nordio - non ha fatto altro che riassumere, con un’espressione, tutto quello che è successo in Italia negli ultimi anni. Lei mi chiede se esiste o meno un’opposizione giudiziaria nel nostro paese”. Nordio prende fiato, si accende una sigaretta e spiega il suo ragionamento. “La storia recente del nostro paese è piena di casi in cui vi sono magistrati che mostrano la propria volontà di interferire nella produzione legislativa o nella politica. Quando un magistrato in una riunione pubblica esprime il desiderio di opporsi alle iniziative politiche di un governo o del Parlamento, quel magistrato deve sapere che non sta soltanto esprimendo un’opinione. Sta facendo qualcosa di più. Sta facendo un passo per mostrare di non essere imparziale, di non essere terzo. E quando un magistrato va a intaccare la terzietà della sua figura, a pagarne in credibilità non è un singolo magistrato. A pagarne agli occhi dell’opinione pubblica rischia di essere anche la categoria. Le parole sono esse stesse dei fatti. La magistratura ha dimostrato di avere un potere immenso e ogni sua parola deve essere calibrata”. “E ogni espressione di un magistrato - dice Nordio - anche se non è seguita da azioni, ha un potere di impatto e pressione sull’opinione pubblica che è immenso. È una pressione. E in un paese in cui una fase della Repubblica è stata archiviata dai magistrati, pensi a Mani pulite, gli strumenti di pressione non possono essere sottovalutati e non denunciati pubblicamente”. A cosa pensa? “Penso per esempio alla riforma dell’abuso di ufficio. Nel momento in cui una parte della magistratura manifesta una nettissima opposizione, vogliamo ammettere che esprimere una pressione preventiva nei confronti degli amministratori che invece vogliono cambiare questa legge significa intimorirli, condizionarli, mettergli paura?”. Le parole dei magistrati sono esse stesse dei fatti, d’accordo, ma è un fatto che un magistrato che ha un grande potere discrezionale può usare il proprio potere in modo arbitrario. “Su questo non c’è dubbio. E il cocktail, a pensarci, è impressionante. Reati evanescenti, processi che finiscono nel nulla, magistrati che considerano qualsiasi valutazione sul loro operato come lesa maestà. Vi pare possibile vivere in un paese dove la prima cosa che un cliente chiede a un avvocato quando si tratta di reati di Pubblica amministrazione non è cosa ne pensa il giudice ma di che corrente è il giudice che mi giudicherà?”. Ministro, ma al governo ci siete voi: se la magistratura ha troppo potere cosa aspettate a riequilibrare i poteri? E soprattutto, gentile ministro, che fine ha fatto la riforma dell’abuso d’ufficio? Che fine ha fatto la riformulazione del delitto di traffico di influenze illecite? Che fine ha fatto la modifica della disciplina delle intercettazioni? Che fine ha fatto la modifica della disciplina della custodia cautelare in carcere? Che fine ha fatto l’esclusione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento nei procedimenti per reati a citazione diretta? Che fine ha fatto la separazione delle carriere? “Le riforme che lei cita hanno fatto la fine che meritano. Buona parte di queste è stata votata in Consiglio dei ministri, è stata votata in Senato, arriverà alla Camera presto e non faccio fatica a dire che il nostro cronoprogramma non ha subìto rallentamenti. E nel 2024 tutto ciò che lei ha detto verrà approvato in via definitiva”. Ministro, è serio? “Lo sono. In questo momento la precedenza è alla legge di Bilancio. Appena questa verrà approvata, le nostre riforme che non faccio fatica a definire epocali avranno priorità assoluta. E sul pacchetto di riforme approvato a giugno la maggioranza non presenterà emendamenti. Sono ottimista. Molto ottimista”. Andiamo per ordine, ministro. Abuso d’ufficio: abolizione totale o parziale? “Totale”. Dunque i rilievi dell’Unione europea e, a quanto si dice, del Quirinale sono superati? “Diciamo che ci sono state agli inizi delle perplessità sulla compatibilità con la legislazione europea. Abbiamo fatto degli studi e la sostanza è molto semplice: alla Ue più che l’abolizione del reato d’ufficio interessa vedere quale sia la strategia efficace del nostro paese nei confronti della corruzione. E su questo noi abbiamo dimostrato che l’arsenale normativo repressivo e preventivo contro la corruzione in Italia è il più efficace d’Europa. Aggiungo una cosa importantissima di cui nessuno ha parlato: io sono andato ad Atlanta, in Georgia, qualche giorno fa alla conferenza nazionale sulla corruzione e lì abbiamo fatto una proposta accolta da tutti i paesi. Abbiamo posto il problema della cosiddetta corruzione percepita. Abbiamo spiegato, e gli altri interlocutori erano perfettamente d’accordo, che i criteri della corruzione percepita non corrispondono affatto a quelli della corruzione reale. E abbiamo convenuto con i colleghi che i parametri per valutare la corruzione in un paese devono cambiare. Contano non le impressioni, le percezioni, ma i fatti, i risultati dei processi, i caratteri oggettivi. E con i nuovi parametri vedrete che l’Italia non sarà più percepita per quello che non è”. E le intercettazioni, ministro? “Non si riforma una materia così delicata procedendo per strappi. Serve una riforma complessiva, ci stiamo lavorando”. “La segretezza dell’informazione di garanzia resta per noi un punto cruciale. Con la nostra riforma, non sarà più possibile pubblicizzare le notizie di un’indagine fino a che non vi sarà una richiesta di rinvio a giudizio. Ma con il nuovo pacchetto che vareremo nei prossimi mesi faremo qualcosa di più. E interverremo con forza anche per offrire maggiori garanzie per chi dovesse subire il sequestro di quello strumento che tiene in mano: il telefonino”. In che senso? “Oggi, sequestrare il telefonino di una persona significa sequestrare la sua vita e quella degli altri. Con le norme che presenteremo nelle prossime settimane spiegheremo perché il sequestro di un telefonino non dà il diritto di poter entrare nella vita di persone terze estranee alle indagini”. C’entra qualcosa il fatto che qualche mese fa la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione sollevato dal Senato nei confronti della procura di Firenze, nella parte in cui era diretto a contestare la legittimità dell’acquisizione di corrispondenza del senatore Matteo Renzi in violazione dell’articolo 68, terzo comma, della Costituzione? Leggo dalla sentenza: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto (…) a intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. “C’entra naturalmente, ma la Corte costituzionale è intervenuta per tutelare i diritti di un parlamentare. Ora dobbiamo intervenire per tutelare i diritti di tutti i cittadini”. Ministro, lei però sa che ci possono essere le norme migliori del mondo. Ma le norme sulle intercettazioni, sulla segretezza degli atti di indagine, esistono già oggi. Il problema è che essendo puniti con una bazzecola i trasgressori, le leggi semplicemente non si rispettano. “Stiamo studiando un modo per farle rispettare e rendere poco conveniente non rispettarle. Il principio è chiaro e granitico: non si può sputtanare un terzo che non ha nulla a che fare con un’indagine e non si può violare il segreto prima che vi sia una richiesta di rinvio a giudizio”. Le diranno: bavaglio! “Risponderò: stato di diritto”. Dopo le intercettazioni, la riforma sulla custodia cautelare: entro il 2024, conferma, promette, assicura? “Assicuro. Entro il prossimo anno, ogni decisione relativa alla custodia cautelare dovrà essere devoluta a un organo collegiale, con un interrogatorio che verrà fatto prima dell’emissione dell’ordinanza, non dopo. E oltre a questo ovviamente vi sarà una riforma sulla prescrizione. Non era nei nostri piani, per il momento, ma al nostro cronoprogramma si è aggiunta un’iniziativa parlamentare importante, che punta a riportare la prescrizione sotto il profilo sostanziale, con le regole che vi erano prima ancora della riforma Cartabia e della riforma Bonafede”. Che cosa pensa il ministro Nordio quando sente dire da un magistrato: “Io non sono un burocrate”. “Penso che abbia ragione chi dice che un magistrato non è solo un burocrate. Perché ogni magistrato ha un profilo da funzionario statale e per difendere i suoi diritti ha ovviamente come tutti i funzionari anche quello di protestare. Poi però c’è un altro lato del magistrato: il suo profilo giurisdizionale. Quando indossa la toga, il magistrato non rappresenta se stesso, rappresenta lo stato di diritto. E quando riveste quel ruolo un magistrato deve essere libero da ogni pregiudizio, a cominciare dai propri. E questo significa che le sue opinioni politiche non solo le deve lasciare da parte, ma non le deve nemmeno esternare. Perché un magistrato che accetta di dire da che parte sta è un magistrato che accetta di non essere fedele al suo mandato. Al suo essere terzo”. E un magistrato che non accetta di essere valutato, che magistrato è? “Se il suo riferimento è alle famose pagelle, che rivendico e difendo, dico che si tratta di un falso problema. Le pagelle esistono già oggi, i magistrati lo sanno. Solo che oggi le pagelle è come se non ci fossero: il 99,9 per cento dei magistrati viene valutato con i massimi voti. È sufficiente, come stiamo facendo, introdurre parametri oggettivi, chiari, specifici. E vorrei ricordare che il giudizio ai magistrati verrà dato dagli stessi magistrati del Consiglio superiore della magistratura senza nessuna interferenza del potere esecutivo”. A proposito di magistrati e di pulsioni della magistratura: c’è in Italia un problema con l’antimafia delle chiacchiere? “Concordo con quello che ha scritto il Foglio: sono anni che lo stato che lotta contro la mafia continua a rispondere con i fatti a un’antimafia delle chiacchiere, che se avesse dedicato all’attività investigativa contro la mafia la stessa attenzione dedicata alla promozione del complottismo avrebbe certamente aiutato lo stato a ottenere successi ulteriori rispetto a quelli già imponenti realizzati. Ci sono esempi positivi di lotta contro la mafia, penso ai procuratori della Repubblica che l’antimafia la fanno con i fatti e non con le chiacchiere. E ci sono esempi meno positivi di lotta contro la mafia che sono tutti coloro che invece che cercare i fatti cercano di avere un posto in prima fila nei talk. Occupandosi non di legalità ma di visibilità. E nel farlo puntano i bersagli grossi. Per far parlare di sé. Questo è vergognoso. Così come è vergognoso che ci sia in Italia un fronte trasversale che considera come un regalo alle mafie ogni iniziativa della politica. Penso alle infrastrutture, per esempio”. Pensa al Ponte sullo Stretto? “Penso anche a quello. E penso che assecondare un’opinione pubblica che suggerisce di non costruire un ponte per paura di fare un regalo alle mafie significherebbe assecondare lo sfascio di un paese. Significherebbe arrendersi all’immobilismo. All’idea che l’unica forma di legalità consentita in Italia sia il non fare nulla”. Domenica scorsa il presidente del Consiglio ha rivolto, senza citarlo, un attacco allo scrittore Roberto Saviano. Lo ha fatto con queste parole. “Grazie di cuore a uomini e donne delle forze dell’ordine che presidiano territorio per anni abbandonato dallo stato. Sono storie da raccontare, che nessuno scrittore racconta, forse perché i camorristi fanno vendere molto di più, ci si fanno le serie televisive. E magari regalano il pulpito da New York da cui dare lezioni di moralità agli italiani”. Nordio cosa ne pensa? “Il discorso della Meloni l’ho condiviso in pieno. Per me, Saviano che ha fatto la sua fortuna scrivendo degli ottimi libri, più o meno di fantasia e più o meno reali sul fenomeno mafioso, non può continuare a pontificare ogni giorno che questo è un paese di mafiosi e qualsiasi cosa accada e faccia chi lui non ama è un favore alla mafia. Posso usare per l’ennesima volta il detto di Senofane? Se un triangolo potesse pensare, vedrebbe Dio fatto a triangolo. I problemi esistono, naturalmente. E quando si denuncia la criminalità si fa un servizio al paese. Non si può dire la stessa cosa però quando si diffonde anche all’estero l’idea che l’Italia sia dominata dalla corruzione e dalla mafia. Non è vero, è falso, si fa un pessimo servizio al paese. Dunque, denunciare sì, screditare un paese per vendere qualche copia in più, no”. Ministro, lei ha sempre detto che aumentare le pene è un atto illiberale che ogni governo dovrebbe evitare. Possiamo dire che sul fronte dell’aumento delle pene il governo ha già dato e Nordio farà di tutto per evitarlo nel 2024? “Io ho sempre detto e sostengo che l’innalzamento della pene non ha mai costituito un deterrente contro i detenuti perché il delinquente, quello che vuole commettere un reato, non va a consultare il codice per vedere se la pena è aumentata o diminuita, perché pensa di farla franca”. Ministro, le devo ricordare quanti reati il governo ha introdotto e quante pene il suo governo ha innalzato o promesso di innalzare? Rave illegali. Violenza di genere. Violenza contro il personale sanitario. Violenza contro il personale scolastico. Omicidio nautico. Reato universale di gestazione per altri. Occupazione abusiva di immobili. Incendi boschivi. Istigazione alla violenza sui social. Muri imbrattati. Acquisto di merce contraffatta. Truffa ai danni di soggetti minori o anziani. Baby gang. Carne sintetica. “Lo so bene. Ma la politica è l’arte del possibile e ogni ministro deve fare dei compromessi per raggiungere alcuni obiettivi. Mi lasci però dire che pur essendo contrario all’aumento delle pene, a volte capisco che la politica abbia il bisogno di farlo”. È contrario ma approva? “Non approvo ma comprendo”. E cosa? “Comprendo che ci sono dei momenti in cui lo stato deve dimostrare la propria sensibilità fenomeni delittuosi e spesso l’unico modo per farlo è innalzare le pene. Se mi chiede se io mi illuda che innalzando le pene i reati diminuiscono direi no. Ma è anche vero che, come politico che interpreta anche le esigenze dell’opinione pubblica, devo ammettere che nei reati contro la violenza sulle donne c’erano dei vuoti normativi. Aggiungo poi un’altra cosa, sul rave party. Sarà un caso però dopo la promulgazione della legge rave party in Italia i rave party sono praticamente spariti”. Non ci ha detto se la separazione delle carriere diventerà realtà nel 2024. “Glielo dico ora: sì. E le dico anche di più: separazione delle carriere e fine della attuale obbligatorietà dell’azione penale”. E ci dice anche in che modo? “Oggi l’azione penale viene esercitata dal pubblico ministero in modo arbitrario. I magistrati sanno bene che le priorità le decidono loro, in base alle convenienze a volte e in base ai propri interessi altre volte. Non sarà più così. Ci saranno delle regole chiare, delle priorità prestabilite e ci sarà un sistema all’interno del quale non vi sarà più un pm che ha un potere enorme senza avere responsabilità. Sulla separazione delle carriere, parleranno i fatti. Ma quel che mi sento di promettere è che il prossimo anno la norma ci sarà. E sarà una norma semplice. Chi vuole fare il pm, farà solo il pm e verrà giudicato dal suo Consiglio superiore della magistratura. Chi vuole fare il giudice, farà solo il giudice e verrà giudicato dal suo Csm. La giustizia cambierà, caro direttore, è una promessa che sono sicuro riuscirò a mantenere”. Crosetto: “Nessuna paura delle toghe. Solo preoccupato...” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 dicembre 2023 Il ministro va in Aula ed evita lo scontro diretto con la magistratura, ma denuncia alcune “tendenze”. Le opposizioni attaccano, e Stefano Musolino (Md) lo invita a un confronto pubblico. Il Ministro della Difesa Guido Crosetto è tornato in Aula alla Camera per una informativa urgente in merito alle sue dichiarazioni a proposito dell’esistenza di correnti della magistratura che spingerebbero per assumere un ruolo di opposizione giudiziaria al governo e alla maggioranza. “Il mio non è stato un attacco alla magistratura, perché ho profondo rispetto per l’ordine della magistratura”, ha ribadito il responsabile di via XX Settembre: “le mie sono state riflessioni e preoccupazioni riguardo ad alcune tendenze che vedo emergere nelle discussioni dei magistrati, emergere non in modo carbonaro, ma in modo molto evidente. Oggi leggerò frasi, che non sono mie, su cui invito questa Camera a riflettere non oggi, ma nel futuro, perché le ritengo fondamentali per costruire quelle regole e quella cornice democratica che consenta alle libere istituzioni di sopravvivere e di essere credibili”. Il riferimento è ad alcune dichiarazioni pubbliche congressuali di Eugenio Albamonte, ex Segretario di AreaDg, e di Stefano Musolino, Segretario di Magistratura democratica. Insomma nessuna rivelazione choc: semplicemente Crosetto, come già fatto qualche settimana fa rispondendo ad una interpellanza di +Europa, ha risentito Radio Radicale e ha ampliato i suoi appunti. Il Ministro ha voluto poi ribadire quale sia secondo lui il ruolo che deve avere la magistratura, ossia quello di bouche de la loi, come prefigurava Montesquieu: “La volontà popolare risiede qui, la volontà popolare e le Camere fanno le leggi. I cittadini, i Governi, ognuno di noi rispetta le leggi. La magistratura vigila perché le leggi siano rispettate e, quando non vengono rispettate, commina le sanzioni necessarie. Questo è lo schema molto semplice che la nostra Costituzione definisce”. Un riferimento altresì ai giudici che non hanno applicato il decreto Cutro e che ritengono in generale che, come sottolineato anche da Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa, sia loro dovere disapplicare una norma se in contrasto con quelle europee: “Quando la legge diventa un accessorio, perché qualcuno pensa che la giurisdizione possa superarla, mi faccio una domanda, che non mi faccio io, si facevano i latini: quis custodiet custodes? Chi decide, in quel momento, qual è la linea da seguire? Questo Parlamento”. Allo stesso tempo ha voluto far intendere che una maggioranza relativa del Governo non vuole uno scontro con la magistratura: “Sarebbe l’ora di costruire un tavolo di pace nel quale si definiscono le regole per la convivenza nei prossimi anni. Non è possibile che ci sia uno scontro dal ‘94 a oggi senza riportare la discussione e la composizione all’interno di quest’aula, che per la Costituzione è il luogo dove le regole vengono fatte”. La prima a replicare al ministro Crosetto è stata Debora Serracchiani. La responsabile giustizia del Pd ha preso parola in Aula e ha attaccato: “Immaginate rischi per il vostro governo per un’azione della magistratura, probabilmente per coprire i fallimenti emersi clamorosamente con la manovra finanziaria”. Sulla stessa scia Valentina D’Orso del M5S: “Ministro, anche oggi (ieri, ndr) non ha chiarito quali fatti l’hanno spinta a formulare quelle gravi accuse. Perché lei ha accusato una parte della magistratura di intenzioni eversive. Era un’ennesima operazione di distrazione di massa per nascondere i fallimenti del governo? O era un’intimidazione? D’altronde è un’abitudine del governo Meloni aggredire chi si frappone alla sua marcia verso il baratro”. Duro anche Benedetto Della Vedova, +Europa: “Un governo con un magistrato come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e cioè Mantovano, che secondo articoli di stampa mai smentiti avrebbe bloccato la nomina di un giudice di Bologna “reo” di aver archiviato un caso relativo al suicidio assistito. Un governo che, a fronte di 30mila innocenti in carcere, si inventa nuovi reati che aumenteranno gli innocenti in carcere. Dov’è il garantismo del Governo?”. Per Devis Dori (Avs), “Crosetto ha fatto Zelig: prima ha lanciato un allarme all’esterno, poi è venuto qui a fare l’istituzionale. Ha fatto la sua rassegna stampa, peraltro striminzita. Cosa c’è di eversivo in quelle frasi? Inoltre non ha fornito nessun elemento oggettivo per cui la magistratura vorrebbe condizionare le elezioni europee”. La leghista Simonetta Matone ha dichiarato: “Valga per tutti il famoso dialogo tra Palamara e un importante magistrato in cui si commentano le vicende giudiziarie del segretario del partito che mi ha eletto. Cito testualmente: “Non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il Ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga”. Risposta di Palamara: “Salvini ha ragione ma va attaccato” e l’altro magistrato, persona perbene: “Siamo indifendibili, indifendibili”. Per Giorgio Mulé di Forza Italia, il ministro può “dormire sonni tranquilli. La metafora riferita a lei oggi non è casuale. I fantasmi della notte della democrazia vengono agitati e vivono solo negli incubi di chi ha paura di svegliarsi. Signor ministro Nordio, insieme abbiamo pensato e scritto le riforme della giustizia: approviamole, prima che sia troppo tardi”. Roberto Giachetti di Italia Viva invita il ministro a rilanciare le riforme: “Nelle rivelazioni del ministro Crosetto non vedo alcuno scandalo bensì la descrizione di una realtà che va avanti ormai da trent’anni: una parte della magistratura condiziona la vita dei governi e in parte anche della politica”. Infine Enrico Costa (Azione): “mi stupisco che sia stato chiamato oggi (ieri, ndr) il Ministro Crosetto a chiarire il senso delle sue affermazioni. A nostro giudizio, non c’era niente da chiarire perché ha detto delle cose che sono sotto gli occhi di tutti non da ieri ma da anni. La magistratura da anni cerca di condizionare il Parlamento e l’iter delle leggi, con dichiarazioni, proteste, interviste, scioperi. Cosa accadrebbe a parti inverse, se fossero i deputati che, durante le camere di consiglio, cercassero di condizionare i giudici?”. Attenta alle parole di Crosetto anche la magistratura che per voce di Stefano Musolino, Segretario di Magistratura democratica, invita il Ministro ad un incontro pubblico: “Non ci riconosciamo in un confronto tra avversari, ma solo in un dialogo tra esponenti istituzionali, mosso dalla ricerca di soluzioni comuni ai molti problemi che attanagliano la giustizia. A questo scopo, però, è necessario che sia chiaro quale sia il piano di confronto disegnato dalla Costituzione ed il ruolo in questo della magistratura. Per questo sarei onorato di incontrare, anche pubblicamente, il Ministro Crosetto per chiarire questi profili preliminari e da qui avviare una discussione sulle proposte volte a migliorare l’efficienza del servizio giustizia”. Giovanni Zaccaro, Segretario di AreaDg: “Sono contento che il ministro Crosetto abbia ribadito la centralità del Parlamento, in questi giorni in cui si pensa a una riforma che lo mette ai margini”. Telenovela Crosetto, nuovi attacchi alle toghe di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 dicembre 2023 Il ministro della Difesa alla Camera, ancora sulla sua famigerata intervista al Corriere della Sera. Spiegazioni, a modo loro, ma nessuna marcia indietro di Guido Crosetto sulla sua ormai celebre intervista rilasciat al Corriere diverse settimane fa in cui attaccava la magistratura, sostenendo l’esistenza di non meglio precisate congiure ai danni del governo. La telenovela è così proseguita con un’informativa urgente alla Camera del ministro della Difesa, che si è presentato insieme a uno straordinariamente sorridente Carlo Nordio. Presente in forze anche l’opposizione, con Elly Schlein e Giuseppe Conte che questa volta devono aver obbligato i loro deputati a partecipare alla seduta, onde evitare una figuraccia come la volta scorsa, quando Crosetto aveva deciso di presentarsi in aula di venerdì, quando molti parlamentari erano già tornati a casa da Roma. Il Ministro della Difesa ha dunque ribadito che le sue affermazioni sui magistrati non si riferivano a niente di preciso né di segreto, ma sono da intendere come una “preoccupazione istituzionale” e non come un attacco ai magistrati, “verso i quali nutro profondo rispetto”. Anche se, ha ricordato, c’è uno scontro tra politica e giustizia che va avanti almeno dalla discesa in campo di Berlusconi. La preoccupazione deriverebbe da “alcune tendenze che emergono in modo molto evidente, non carbonaro”. Ovvero frasi ascoltate durante “i congressi di alcune correnti” ascoltati “con interesse, ma anche con preoccupazione, perché una parte della magistratura si sente sotto attacco e nessun organo costituzionale si deve sentire sotto attacco”. Il problema per Crosetto è il caro vecchio “quis custodiet custodes?”, chi sorveglierà i sorveglianti? “La magistratura per competenza tecnica punisce i reati nel contraddittorio delle parti, perché questo è il compito che la Costituzione gli attribuisce - sostiene Crosetto nella sua personale interpretazione della separazione dei poteri dello Stato -. La rappresentanza invece appartiene alla politica e non alla magistratura, appartiene a quest’aula e a quella del Senato, e non può essere il presidente di un’associazione di categoria che decide”. Da qui un elenco di problemi noti: gli innocenti arrestati e incarcerati, per esempio. Una dimostrazione di garantismo, forse, o più probabilmente un tentativo di buttare il dibattito alle ortiche, suggerendo cioè ai magistrati di occuparsi dei fatti loro, lasciando perdere la politica.”La volontà popolare risiede qui, qui si fanno le leggi, e la magistratura vigila sul rispetto della legge, questo è lo schema della nostra Costituzione”, ha insistito Crosetto. Critiche sono ovviamente arrivate delle opposizioni, soprattutto da Pd e M5s. “Da mesi in via Arenula si parla di giustizia, ma le scelte si fanno altrove, perché il Guardasigilli non ha sufficiente forza politica per imporsi”, ha detto la dem Debora Serracchiani, attccando Nordio. Enrico Costa di Azione, invece, ha difeso il ministro: “Crosetto ha detto cose che sono sotto gli occhi di tutti da anni. Quello che era emerso sotto Berlusconi lo vediamo ancora adesso, l’abbiamo visto con Prodi, con Mastella, con la sua caduta, c’è un tentativo di condizionamento dell’attività politica che dura da anni, un’interferenza quotidiana”. Da fuori arrivano le reazioni delle correnti della magistratura nel mirino di Crosetto. “Sarei onorato di incontrare, anche pubblicamente, il ministro per chiarire e avviare una discussione sulle proposte volte a migliorare l’efficienza del servizio giustizia - dice il segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino -. Prendo atto delle sue ammissioni di colpa in ordine all’inefficienza nella gestione delle risorse e nella dotazione delle strutture di competenza del ministro della Giustizia. Mi pare che se il dialogo sarà nutrito da lealtà istituzionale, i frutti non potranno che essere positivi”. Gli fa eco Ciccio Zaccaro, leader di Area Democratica per la Giustizia: “I magistrati sono soggetti alla legge dello Stato ma devono anche rispettare i diritti e le libertà fondamentali delle persone, anche se non piacciono alle maggioranze parlamentari”. Piemonte. Le carceri dello scandalo, oltre 100 agenti sotto accusa e viene rimosso l’uomo delle indagini di Elisa Sola La Repubblica, 20 dicembre 2023 Quattro carceri sotto inchiesta con oltre 120 poliziotti indagati. Vertici della polizia penitenziaria coinvolti nelle accuse e mai trasferiti lontano dal Piemonte. Il rischio, avvertito dagli inquirenti, che le indagini, tutt’ora aperte, a carico di 90 agenti in servizio in tre carceri piemontesi (Biella, Ivrea e Cuneo), possano non essere protette dalla più totale riservatezza. Anche a causa di alcuni legami, che resterebbero saldi, tra i vertici degli istituti penitenziari al centro degli accertamenti e i piani alti del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Si percepisce un clima di tensione da qualche tempo tra amministrazione penitenziaria e inquirenti che indagano sulle violenze dietro le sbarre in Piemonte. Dal 2018 gli istituti penitenziari di Torino, Ivrea, Cuneo e Biella sono finiti nel mirino delle procure con l’ingresso sulla scena, in molti casi, di un’accusa quanto mai scomoda: la tortura nei confronti dei detenuti. Agenti denunciati per aver infierito su reclusi spesso fragili e indifesi, dagli stessi detenuti o dai garanti del territorio. Botte, punizioni e mortificazioni sistematiche da parte di gruppi di poliziotti che per anni sarebbero rimasti protetti grazie all’omertà di molti e da un sistema praticamente inaccessibile. Queste ricostruzioni giudiziarie partite dalle procure piemontesi portano in Italia una nuova sensibilità sul tema della dignità dei detenuti raccogliendo le indicazioni europee e testano, in un certo senso, il vaglio dei giudici. A Torino, per esempio, l’inchiesta nata per prima dentro le Vallette è arrivata ora alla fase del dibattimento. Ma il filone dell’abbreviato che era stato scelto dai vertici di carcere e polizia penitenziaria si è già concluso in primo grado, e si è concluso con alcune assoluzioni. Sono ancora aperte invece, e coperte dal segreto istruttorio, le inchieste di Ivrea, Cuneo e Biella. A incrementare ulteriormente la tensione, sarebbe stato poi un fatto recente. Ovvero la “rimozione” improvvisa dal suo ruolo del sostituto commissario che negli ultimi vent’anni aveva guidato l’ufficio investigativo della polizia penitenziaria in Piemonte. Si chiama Roberto Streva e gli mancano quattro mesi per andare in pensione. Fino a pochi giorni fa era il capo del Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria. A lui si sono affidati dal 2017 il pm Francesco Pelosi di Torino e i capi delle procure di Ivrea, Gabriella Viglione, e di Cuneo, Onelio Dodero, per gestire le inchieste su presunte torture, favoreggiamenti, depistaggi, falsi e altri reati che sarebbero stati commessi dentro le mura di questi luoghi inaccessibili a molti, e quindi difficilmente controllabili. Streva, noto per essere investigatore riservatissimo anche con i vertici dell’amministrazione penitenziaria sulle indagini in corso, avrebbe saputo di essere stato rimosso dall’incarico e sostituito, proprio il giorno prima delle perquisizioni a carico dei 28 poliziotti indagati per le presunte torture nel carcere di Cuneo. Perquisizioni che sono scattate lo scorso autunno. Quel giorno Streva aveva chiesto ai suoi superiori la disponibilità immediata di una settantina di agenti per svolgere, nelle ore successive, un’operazione “top secret”, senza specificare altro. La strana circostanza della sua rimozione proprio mentre si organizzava il blitz nel carcere di Cuneo avrebbe però destato qualche sospetto, e spinto gli inquirenti ad agire immediatamente. La sera prima delle perquisizioni, dalla procura di Cuneo, è stato diramato l’ok per revocare l’incarico del blitz alla polizia penitenziaria e assegnarlo ai carabinieri. Non solo. Le perquisizioni sono state anticipate alla notte stessa senza aspettare fino al giorno successivo. Ed evitando il rischio che gli indagati potessero venire a conoscenza dell’imminente operazione. Va precisato che Streva, anche se per vent’anni ha comandato il nucleo investigativo, non aveva i titoli per farlo. La sua qualifica era di un grado inferiore a quella necessaria per quell’incarico ma nessuno, a quanto pare, aveva mai sollevato la questione nell’arco dei vent’anni passati. Non è “dirigente aggiunto” come dovrebbe, e del resto soltanto una persona dell’amministrazione penitenziaria attualmente operativa in Piemonte (ad Alessandria) avrebbe questi titoli. E non è stata questa persona ad essere stata trasferita per sostituire Streva. Il nuovo incaricato è invece Leonardo Colangelo, anche lui senza qualifica di “dirigente aggiunto”, anche se con un grado superiore a Streva, in quanto commissario. Colangelo, che non è mai stato indagato, prima della recente nomina a comandante “pro tempore” del Nucleo investigativo di Torino è stato a capo della polizia penitenziaria del carcere di Ivrea, lo stesso carcere finito al centro di una grossa inchiesta per le presunte violenze sui detenuti con una cinquantina di poliziotti tuttora indagati. Lui è del tutto estraneo all’inchiesta ma nel suo nuovo incarico di capo del Nucleo investigativo regionale della penitenziaria, dovrebbe svolgere indagini e accertamenti disposti dalla procura di Ivrea nei confronti dei suoi ex colleghi. Forse per questo la procura di Ivrea ha stabilito che l’inchiesta sulle presunte torture nell’istituto penitenziario eporediese le continui a svolgere lo stesso Streva, aiutato da tre unità fidate. Come è sempre accaduto. Streva può farlo perché fa ancora parte del nucleo. E la stessa decisione di continuare ad affidare le operazioni a Streva l’avrebbe presa, per l’indagine di Cuneo, il procuratore Dodero, che anche dopo la “rimozione” del sostituto commissario prossimo alla pensione, continua ad affidarsi a lui (con altre due unità) per il proseguimento dell’inchiesta sulle torture. Le recenti prese di posizione da parte di alcuni magistrati però avrebbero preoccupato i vertici nazionali del Dap. Tanto da far volare da Roma al Palagiustizia di Torino il capo nazionale del Dipartimento, Giovanni Russo. Un vertice, riservatissimo, su alcune questioni urgenti si è svolto tre mesi fa, ma in pochi ne erano a conoscenza. La riunione, a cui hanno partecipato i capi delle procure di Ivrea, Cuneo e Biella, si è svolta alla Procura generale di Torino. Russo avrebbe chiesto più fiducia ai magistrati piemontesi. Loro avrebbero risposto rassicurandolo. Ma intanto, le indagini più delicate a carico dei presunti poliziotti violenti, restano in capo all’ex comandante rimosso dallo stesso Dap. E nessuno, per ora, intenderebbe assegnarle ad altri. Viterbo. Detenuto strangolato dal compagno di cella tusciaweb.eu, 20 dicembre 2023 Omicidio a Mammagialla, dove un giovane detenuto è stato strangolato dal compagno di cella. La tragedia si è consumata ieri sera, martedì 19 dicembre, intorno alle 22, e la dinamica è ancora tutta da accertare. Sono in corso le indagini delle forze dell’ordine, con il contributo degli agenti di polizia penitenziaria. Stando a quanto ricostruito, tutto sarebbe nato da una lite sfociata poi in una aggressione. È in questi frangenti che un detenuto di nazionalità straniera si sarebbe avventato contro il compagno di cella italiano stringendogli le mani al collo fino a che non è morto per asfissia. L’immediato intervento del personale di polizia penitenziaria nonché di quello medico nulla ha potuto per salvargli la vita. Le indagini sono in corso. Eseguito anche un sopralluogo e rilievi nella cella dove si è consumata la tragedia. Oristano. Morte di Stefano Dal Corso, la Garante: “Si faccia l’autopsia per fugare ogni dubbio” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 20 dicembre 2023 L’esame sul corpo del quarantaduenne condannato per una vicenda di droga e trovato impiccato in cella, viene sollecitato da più parti e prima di tutti dalla sorella di Dal Corso, Marisa. Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna, si batte per un carcere trasparente e dunque ha nel cuore la vicenda di Stefano Dal Corso, il detenuto romano morto nel carcere di Oristano a ottobre 2022 per un suicidio che, giorno dopo giorno, appare più che sospetto. “Il 20 ottobre scorso, per chiarire ogni dubbio, ho presentato ai magistrati della Procura di Oristano una richiesta di autopsia” fa sapere la garante. L’esame sul corpo del quarantaduenne condannato per una vicenda di droga, viene sollecitato da più parti e prima di tutti dalla sorella di Dal Corso, Marisa. La giovane, intervistata da Repubblica, ha detto: “Ogni volta che rigettano l’autopsia mio fratello viene nuovamente ucciso”. Brevemente la storia di un’inchiesta complicata e lacunosa. Il 12 ottobre 2022 Dal Corso viene trovato morto nella sua cella. L’impiccagione incompatibile coi segni sul corpo - Le autorità sostengono che si sia impiccato ma la sorella sospetta una versione di comodo. Fa vedere le foto a medici esperti. Le rispondono che i segni sul collo sono compatibili con quelli di uno strangolamento. Ma la Procura rifiuta di fare l’autopsia. La svolta avviene nei giorni scorsi ed è una svolta che fa temere un nuovo caso Cucchi. Vale a dire una vicenda in cui la verità stenta ad affiorare e nella quale le autorità sembrano nascondersi dietro un muro di gomma. Nei giorni scorsi si diceva la sorella di Stefano Dal Corso riceve una chiamata nella quale affiora una altra versione. Il quarantaduenne sarebbe morto in seguito a una manganellata assestata dalla polizia penitenziaria. Il testimone: “Picchiato a morte dagli agenti della penitenziaria” - Perché mai? Perché il detenuto avrebbe visto qualcosa che non doveva e in particolare uno scambio sessuale (un rapporto orale) tra due assistenti del penitenziario. Il supertestimone che si è rivolto a Marisa dal Corso ha fornito una serie dettagliata di elementi per sostenere questa tesi. Dunque Marisa Dal Corso, assistita dall’avvocata Armida Decina ha presentato una nuova istanza alla procura di Oristano. Oristano. Caso Dal Corso, intervista alla Garante regionale dei detenuti di Costantino Cossu Il Manifesto, 20 dicembre 2023 Il 20 ottobre Irene Testa ha sollecitato la Procura, “ma dalle autorità giudiziarie non è arrivata alcuna risposta”. Anche l’avvocata della famiglia del detenuto morto a Massama, per otto volte ha richiesto che l’esame venisse eseguito: richiesta negata. Inutilmente Irene Testa, garante in Sardegna delle persone private della libertà personale, chiede che sia effettuata l’autopsia sul cadavere di Stefano Dal Corso, il 42enne trovato morto nella sua cella nel carcere di Massama, a Oristano, il 12 ottobre 2022. Dopo che, la settimana scorsa, la famiglia del detenuto ha rivelato di essere stata contattata da un testimone che avrebbe fornito le prove che Dal Corso non si è suicidato, come sempre è stato detto da polizia e giudici, ma è stato ucciso, Testa si è immediatamente attivata. “Ma sinora - racconta al manifesto - dalle autorità giudiziarie non è arrivata alcuna risposta”. Quando ha presentato domanda di autopsia alla Procura? Risale al 20 ottobre la mia richiesta formale. Ho ritenuto mio dovere sollecitare la Procura della Repubblica di Oristano a disporre con urgenza l’autopsia del corpo di Stefano Dal Corso. La famiglia solleva dubbi pesanti, parla di omicidio… Certo, ci sono i timori della famiglia innanzitutto. Domande alle quali credo sia necessario dare una risposta certa. E c’è un interesse più vasto al pieno accertamento dei fatti. Un interesse che non può essere ignorato, perché è un generale interesse di giustizia. Ma anche al carcere di Massama, alla dirigenza e agli agenti, dovrebbe importare che sulla vicenda sia fatta piena luce e che tutti gli elementi di incertezza e di dubbio a carico del personale di custodia che si sono manifestati in questi giorni siano risolti. L’esame autoptico è l’unico in grado di stabilire come siano andate davvero le cose, l’unico che possa fugare ogni dubbio sulle cause della morte di Dal Corso. Va fatto subito. Qual è la situazione delle carceri sarde? Molto seria. Non c’è solo sovraffollamento. C’è una cronica mancanza di organici tra gli agenti penitenziari e c’è una carenza grave nell’assistenza che dovrebbe essere riservata alle patologie psichiatriche di varia natura e agli stati critici legati alle dipendenze, due condizioni che nelle carceri interessano una percentuale altissima delle persone private della libertà. Sulle patologie psichiatriche, in particolare, ho da poco inoltrato una lettera al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per fare emergere una situazione inaccettabile e per sollecitare soluzioni urgenti, nei penitenziari sardi ma anche in quelli del resto del paese. C’è sempre, in chi gestisce le persone private della libertà personale, la consapevolezza che la pena, a termini di Costituzione, ha un fine di riabilitazione? È un terreno sul quale noi garanti siamo impegnati quotidianamente. C’è ancora molto da fare. Irene Testa non è l’unica ad avere sollecitato inutilmente l’autopsia. L’avvocata della famiglia di Dal Corso, Armida Decina, per otto volte ha richiesto che questo esame venisse eseguito, ma la Procura lo ha sempre negato. La settimana scorsa Decina ha presentato un’altra istanza, questa volta dopo una rivelazione choc da parte di un testimone: un agente penitenziario secondo il quale Dal Corso sarebbe stato picchiato da un gruppo di guardie e poi ucciso con un colpo di spranga all’osso del collo per simulare un suicidio per impiccagione. “Sono stata contatta da un agente penitenziario - ha raccontato nei giorni scorsi ai giornalisti Marisa Dal Corso, la sorella del detenuto morto -. L’ho incontrato, indossava un cappuccio. Non l’ho visto in volto e non so chi sia. Abbiamo registrato un video. Mi ha detto che Stefano è stato picchiato da cinque suoi colleghi e poi ucciso”. “Secondo il suo racconto - ha specificato Marisa Dal Corso - mio fratello, andato in infermeria per ritirare alcune medicine, ha casualmente sorpreso due agenti durante un rapporto sessuale”. Da lì sarebbe cominciato il calvario di Dal Corso. Stando alla testimonianza raccolta dai familiari, l’uomo sarebbe stato portato in cella e poco dopo trasferito in una stanza usata per picchiare i detenuti. Qui lo avrebbero pestato con i manganelli. Infine, con un colpo di spranga, gli avrebbero rotto la colonna cervicale per far credere che si fosse impiccato. La testimonianza registrata dai familiari è stata consegnata alla Procura della Repubblica di Oristano, che ne vaglia i contenuti ma intanto nega l’autopsia. Bergamo. Celle chiuse per evitare di vedere il problema di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 20 dicembre 2023 La lettera di un gruppo di detenuti del carcere di Bergamo per chiedere, almeno nei giorni di festa, la riapertura delle celle nelle sezioni, accende un faro sulla preoccupante situazione di sovraffollamento di via Gleno (al 30 novembre 556 detenuti, 319 la capienza regolamentare) e, più in generale, dell’intero sistema penitenziario italiano. Per capire che cosa stia succedendo occorre fare qualche passo indietro. Dieci anni fa - ministro della Giustizia era Annamaria Cancellieri, già prefetto a Bergamo - la Corte europea dei Diritti dell’uomo condannò l’Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Era la celebre sentenza Torreggiani, che stabilì che i metri quadrati a disposizione per ciascun detenuto erano ben al di sotto della soglia tollerabile. Come porre rimedio? L’effetto dell’indulto del 2006(lo aveva chiesto con forza Papa Wojtyla) era già svanito e nel settembre del 2013 la popolazione carceraria aveva raggiunto il picco di 66mila detenuti. Il programma di costruzione di nuovi padiglioni procedeva a rilento, così il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria promosse la sorveglianza dinamica, che in molte carceri, come quella di Bergamo, era già realtà nel settore femminile e in quello penale: si tratta dell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno otto ore al giorno e fino a un massimo di quattordici, con la conseguente possibilità dei detenuti stessi di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente anche al di fuori di essa. In questo modo lo spazio vitale di ogni detenuto non è più la cella, ma l’intera sezione (o addirittura l’intero istituto), fulcro, nelle intenzioni, delle attività trattamentali. Ma per portare avanti un progetto così ambizioso servivano spazi, risorse umane, fondi. Soprattutto, servivano e servono istituti non sovraffollati. Un miraggio. Anche perché si sta andando esattamente nella direzione opposta. Un anno fa, il 30 novembre del 2022, i detenuti erano 56.524. A giugno di quest’anno erano 57.525. Al 30 novembre hanno superato la soglia dei 60mila (60.117) su 47mila posti disponibili (il sovraffollamento è del 126%). Non capitava da due anni e mezzo. Come ha detto in una recente intervista al Corriere della Sera il garante dei detenuti Carlo Palma, “non è il numero in sé che mi preoccupa, ma il ritmo di crescita. Con queste cifre si raggiungeranno presto livelli di sovraffollamento difficilmente sostenibili”. E che l’affollamento crescente delle celle sia più un frutto di una precisa politica di inasprimento delle pene (basta dare un’occhiata all’ultimo ddl sicurezza per capire che provvedimenti deflattivi della popolazione carceraria non sono all’ordine del giorno di questo governo) e meno la conseguenza naturale di una società soggiogata dal crimine, lo dicono i numeri. Negli ultimi dieci anni in Italia - rileva il Censis - sono diminuiti drasticamente i crimini più efferati: gli omicidi volontari sono calati del 42%, le rapine sono diminuite del 48,2%, i furti nelle abitazioni del 47,5%, i furti di autoveicoli del 43,7%. In compenso, a fine ottobre 1.486 detenuti avevano una condanna inferiore a un anno e 2.926 inferiore a due anni. “Per loro il carcere non può fare niente, perché in un periodo così breve nessun percorso educativo o di socializzazione è possibile. Sono vite a perdere” ha detto ancora De Palma. La revoca della sorveglianza dinamica, decisa perché stava diventando troppo difficile gestire sezioni aperte sempre più affollate con personale sotto organico, segue pericolosamente la logica di chiudere i problemi nel cassetto e buttare via la chiave. Con l’aggravante che i problemi sono esseri umani. Chissà che una sveglia possa arrivare, ancora una volta come dieci anni fa, da Strasburgo. Torino. L’appello dell’arcivescovo Repole: “Diamo futuro ai detenuti” di Marina Lomunno Avvenire, 20 dicembre 2023 Visita alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno: “Mi state a cuore, ho grande fiducia in voi”: l’arcivescovo ha incontrato un gruppo di giovani carcerati. “La maggior parte delle persone credono che la galera sia il baratro della propria vita e che in un modo o nell’altro ci si ritorni ma è realmente così? Perché non vederla da un punto di vista più positivo? Giustamente vi domandate cosa ci sia di positivo nello stare chiusi in tre metri quadri di cella ma io lo so! Sono quasi due anni che mi trovo qui e mi sono reso conto di tre cose fondamentali: la prima è la mia crescita mentale e sui miei principi, la seconda la mia capacità innata di sognare. Sì, sogno, sogno cosa diventerò quando uscirò come quando chiedi ad un bambino cosa vuole fare da grande. E la terza sono i valori che davo per scontati ma che ora conosco in ogni sfaccettatura e importanza. Quindi ecco, mi trovo qui. Per ritrovare me stesso”. Sono parole di O., 19 anni, ristretto presso la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino: a nome di altri “fratelli detenuti” ha scritto una lettera di benvenuto all’arcivescovo Roberto Repole che ieri, dopo la Messa di Natale nella cappella del penitenziario, ha voluto dialogare con un gruppo di giovani reclusi. A novembre Repole aveva scritto una lettera a tutti i giovani della diocesi per invitarli a sei incontri in Cattedrale per “Vedere la Parola”: due catechesi a cui hanno partecipato un migliaio di ragazzi e ragazze si sono già svolte in un clima di “dialogo per riflettere su come il Signore ci vuole bene, su cosa vale la pena vivere”. E poiché i giovani reclusi non possono andare in Cattedrale ma le carceri cittadine - quella degli adulti e l’istituto minorile - “sono considerate come parrocchie dalla comunità diocesana che è presente con i cappellani, la Caritas, i catechisti e molti volontari”, l’arcivescovo ha voluto incontrare i giovani “dentro” come incontra quelli “fuori” per avviare un dialogo, ascoltare le loro difficoltà e solitudini e “dirvi che mi state a cuore e che ho una grande fiducia in voi”. L’incontro, presente anche la garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, si è tenuto nel laboratorio di falegnameria gestito all’interno del carcere dall’Its “Plana” in collaborazione con l’Area Trattamentale e gli insegnanti dell’istituto. Hanno chiesto di partecipare 35 giovani allievi del Plana, la maggior parte stranieri e alcuni che frequentano il Cpia (Centri provinciali istruzione per adulti). Alcuni detenuti hanno spiegato al presule come sia importante frequentare la scuola in carcere per poter sperare in un futuro lavorativo dopo la pena o, come ha evidenziato J., come “dentro” le differenze di provenienza (Marocco, Tunisia, Senegal, America Latina) scompaiono “perché la solidarietà fra detenuti ci fa sentire tutti fratelli al di là delle nostre origini: qui siamo come una grande famiglia, fuori spesso non è così, ci sentiamo emarginati”. Un giovane papà di un bimbo di tre anni ha confidato a Repole come sia straziante “non vedere mio figlio” e che quando un congiunto è in prigione tutta la famiglia è detenuta “e soffre più di noi”. Sconforto, disagi per mancanza di personale, sovraffollamento dell’istituto (1.440 ristretti per una capienza di 800 persone) e una presenza molto alta di giovani in una società che invecchia rendono la quotidianità dietro le sbarre gravosa: elementi che devono far riflettere chi ha responsabilità politiche e gestionali su come mettere in campo azioni educative per dare prospettive di futuro ai detenuti, ha riflettuto l’arcivescovo. Ma riprendendo le parole di speranza della lettera di O. con cui è iniziato l’incontro e richiamando l’omelia pronunciata a Messa, Repole ha esortato i giovani a cogliere, “fra tante cose che qui dentro non vanno i segni di speranza e di gratuità che ci fanno del bene come la solidarietà tra voi compagni, i volontari, gli operatori che ogni giorno cercano di rendere meno gravosa la detenzione, gli insegnanti, gli agenti: anche dal buio può nascere qualcosa di nuovo, non siete soli, ognuno di noi è unico e amato da Dio”. L’arcivescovo congedandosi ha chiesto ai presenti, nonostante i giovani cattolici siano una minoranza, se fa loro piacere la benedizione di Dio. Tutti si sono alzati e l’hanno ricevuta chinando il capo. Ed è scoppiato un applauso: “ti aspettiamo ancora monsignor Roberto”. Catanzaro. L’inclusione sociale arriva anche grazie ai panettoni prodotti dai detenuti catanzaroinforma.it, 20 dicembre 2023 Presentato il progetto messo in campo dalla Camera penale di Catanzaro insieme all’Osservatorio carcere ed esecuzione penale, con il sostegno di alcuni imprenditori locali. Tutta la bontà nel panettone che non sta solo nel gusto di assaporarlo, ma in una dolcezza del tutto speciale e difficile da descrivere che è quella che arriva dalla consapevolezza di “fare del bene”. Una bontà che si “impasta” nel laboratorio di pasticceria in carcere per offrire un’opportunità di lavoro ai detenuti dando il massimo valore alla funzione rieducativa della pena. Il cuore di un progetto che batte nella Casa circondariale di Catanzaro, e arriva fino alla sede del Tribunale, casa di quella Camera penale che - grazie al Consiglio direttivo capitanato dall’avvocato Francesco Iacopino - e punta ad un obiettivo preciso: quello di dare dignità ai detenuti e di trasformare il carcere da luogo di emarginazione a luogo di inclusione. La Camera penale ha deciso, infatti, di sostenere il progetto avviato dalla società cooperativa “Mani in Libertà”, con la partnership della Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro, del locale Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di Promidea e delle associazioni Liberamente ed Amici con il cuore che hanno aderito ad un bando indetto da Fondazione con il Sud, teso alla formazione professionale e all’assunzione dei detenuti. Fondamentale il sostegno di alcuni imprenditori del capoluogo: il frutto di questo progetto è la produzione di panettoni particolarmente gustosi che serviranno a fini sociali e soprattutto testimoniano l’importanza di dare dignità ai detenuti e di trasformare il carcere da luogo di emarginazione a luogo di inclusione. In tale ottica sono state avviate interlocuzioni con l’imprenditoria e le associazioni accreditate sul territorio, non solo per promuovere il progetto ma anche per collocare sul mercato la produzione natalizia rappresentata da ottimi panettoni artigianali il cui prezzo di vendita alimenterà le risorse necessarie alla prosecuzione del progetto ed all’assunzione dei detenuti. “Questo progetto - ha spiegato il presidente della Camera Penale di Catanzaro, l’avvocato Francesco Iacopino - si propone di avviare un percorso lavorativo in carcere e oggi è possibile realizzarlo grazie alla sensibilità dell’imprenditoria catanzarese. Quando abbiamo fatto visita ad agosto nel carcere di Siano, ci siamo resi conto che vi era una straordinaria realtà, un laboratorio di pasticceria che aveva delle potenzialità enormi. Ci siamo subito detti che era importante cercare di avviare anche a Catanzaro, non diversamente da come avviene in altre realtà Penso a Napoli, dove c’è una sartoria in carcere voluta da “Marinella”, che realizza cravatte per la polizia penitenziaria. Penso a Regina Celi, dove c’è un’attività lavorativa che si occupa di torrefazione. Penso a Padova, anche lì un percorso lavorativo, si preparano degli ottimi panettoni. Abbiamo ritenuto che anche Catanzaro dovesse raccogliere questa sfida e offrire delle opportunità di lavoro ai detenuti. La nostra attività è stata un po’ quella di fare da ponte tra l’istituto penitenziario e l’imprenditoria catanzarese. Il progetto prevede l’impiego con regolare assunzione di quattro detenuti ma puntiamo ad aumentare questo numero”. La risposta degli imprenditori catanzaresi è stata positiva, come evidenziato da Iacopino ringraziando Luigi Rotundo e Maurizio Mottola di Amato. “Sapevamo che avrebbero detto sì perché sappiamo che c’è tanta sensibilità nei nostri imprenditori. Abbiamo iniziato un progetto sperimentale. Ringrazio l’avvocato Mottola di Amato e il signor Rotundo perché da subito hanno raccolto questa sfida e ci hanno sostenuto in questo progetto che oggi vede finalmente la luce perché sono stati impegnati quattro lavoratori. Noi - ha sostenuto Iacopino - crediamo in una logica di inclusione perché quando si restituisce dignità anche al detenuto attraverso un percorso lavorativo Noi non soltanto permettiamo alla pena di assolvere pienamente alla sua funzione che è quella del reinserimento, ma restituiamo anche alla collettività maggiore sicurezza perché i tassi di recidiva quando un detenuto lavora ed è inserito attraverso la dignità del lavoro sono sostanzialmente insignificanti. L’unione di tutte le forze oggi ci - ha proseguito il presidente della Camera Penale di Catanzaro - permette di scrivere una bellissima pagina per la nostra realtà territoriale. Il volontariato chiama volontariato perché una parte di questi panettoni che saranno venduti dalla grande distribuzione sarà devoluta dai detenuti a un progetto di volontariato per l’acquisto di tute all’Istituto Penale Minorile. Quindi una solidarietà integrata che ci permette di sorridere rispetto anche a prospettive future. Siamo certi che ci saranno altri imprenditori che aderiranno a questa iniziativa ma anche di avviare un ulteriore progetto perché in carcere c’è anche un laboratorio di ceramica e potremo anche sotto questo aspetto valorizzare un ulteriore percorso lavorativo”. Iacopino ha poi ringraziato per il lavoro organizzativo gli avvocati responsabili dell’Osservatorio carcere, Vincenzo Galeota e Pietro Mancuso, e ha evidenziato anche l’importante collaborazione della Banca di Montepaone. Secondo l’imprenditore Rotundo “si tratta di una iniziativa interessante dal punto di vista del riscatto di queste persone che hanno avuto una vita diversa e più difficile sicuramente della nostra quindi da parte mia ci sarà un impegno per tutte le iniziative che verranno affinché questa gente possa avere ruolo nella società che sicuramente merita”. Di “iniziativa encomiabile sotto tutti i punti di vista” ha parlato anche l’imprenditore Mottola di Amato che ha ricordato anche “la funzione sociale cui devono assolvere le imprese e questa iniziativa lo fa” e si è detto contento che “la mia azienda possa acquistare i panettoni, possa dare una mano a queste persone che nell’ottica del principio rieducativo della pena e del reinserimento sociale devono avere tutto l’appoggio della società dell’imprenditoria. Piccoli ingranaggi di un sistema che deve viaggiare a questa velocità, anzi forse ad una velocità ancora più forte”. L’avvocato Vincenzo Galeota dell’Osservatorio “non è stato necessario impegnarsi molto perché gli imprenditori aderissero. Lo hanno fatto subito. Abbiamo fatto in modo che una idea diventasse progetto e poi prospettiva e programma. Intendiamo creare un mercato stabile e duraturo”. A raccontare la storia e il percorso della cooperativa “Mani in libertà”, appositamente creata dai vari attori coinvolti nel progetto è stata proprio la presidente dell’associazione capofila “Amici con il cuore”, da Antonietta Mannarino che da oltre un decennio insegna “riciclo” alla casa Circondariale. “Attraverso il brand “Mani in libertà”, i detenuti, con tanto di qualifica ottenuta con i corsi di formazione - spiega - hanno dato seguito ai numerosissimi ordini di dolci personalizzati all’interno del carcere, sfogando la propria creatività con semifreddi complicatissimi, millefoglie delicate e torte di ogni forma e gusto per le varie ricorrenze delle famiglie dei detenuti e della popolazione penitenziaria. E siamo arrivati fino ai panettoni. Al tavolo della presidenza anche Maria Letizia Polistena dell’Ufficio di esecuzione penale esterna ha descritto un progetto che coinvolge gli utenti extra murari “formati per intraprendere percorsi nel campo edile, sempre grazie alla sinergia con la Camera penale. Formazione di base che sarà garantita dai fondi messi a disposizione dall’Uepe”. Lo studio in carcere, per imparare a riconoscersi ed essere riconosciuti di Marco Ferrando Avvenire, 20 dicembre 2023 Il libro Beppe Giunti e Marina Lomunno: la scuola e la legalità. Spesso poche parole valgono più di lunghi discorsi. Soprattutto se arrivano da chi ha imparato a sceglierle e misurarle, su di sé e sulla propria vita. Come quelle di chi prima ha sbagliato e poi ha deciso di regalarsi un’altra occasione, al centro di “E-mail a una professoressa: come la scuola può battere le mafie” (Effatà, 80 pagine, 10 euro), libro curato da Beppe Giunti e Marina Lomunno - firma ben nota ai lettori di “Avvenire” - che raccoglie le voci di alcuni pentiti e le loro storie di conversione grazie all’incontro con la scuola e con bravi maestri. Dunque il carcere, la scuola e poi don Milani che riecheggia nel titolo e scandisce l’ambizioso percorso logico dei diversi capitoli. È il perimetro dentro al quale si sviluppa questo libro asciutto e originale, che tocca tutti perché muove corde intime e delicate, a partire dal bisogno di riconoscimento che ognuno di noi porta con sé e che solo una relazione autentica con un insegnante può soddisfare. La scuola non sempre ce la fa, e queste pagine confermano quanto gravi possano essere i danni: “Frate Peppe, io non ho fatto altro perché nessuno me lo ha insegnato”, rivela nelle pagine iniziali l’ospite di un carcere piemontese: “Se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre, perché la camorra ha paura della scuola. La camorra vive nel silenzio, la scuola ti insegna le parole”. Ad arricchire il lavoro di Giunti, frate minore conventuale che da anni accompagna i collaboratori di giustizia nel carcere di Alessandria, e Lomunno, coordinatrice redazionale del settimanale diocesano “La Voce e il Tempo” di Torino, le riflessioni di alcuni addetti ai lavori. Come il giudice Ennio Tomaselli, in magistratura dal 1978 al 2014, che ragiona ad esempio sul rapporto tra cultura/educazione e disagio/devianza: “Il rapporto è strettissimo perché non potrà esservi, rispetto al disagio, un cambiamento davvero rilevante se la cultura viene intesa solo come possesso di conoscenze, pur indispensabili, e l’educazione come una serie di comportamenti e contenuti valoriali semplicemente da contrapporre ad altri, presenti nell’esperienza o nell’immaginario degli adolescenti”. Di qui, ad esempio, il ruolo determinante del fattore umano, di “insegnanti empatici, scuole (specie della fascia dell’obbligo) che non si trincerano dietro l’aritmetica per stabilire se un ragazzo “passerà” o no l’anno”. Un’empatia, quella evocata, di cui ha chiaramente sentito la mancanza Giuseppe: “Io ero proprio scugnizzo di poche parole e di poche doti - racconta -. Ma cara la mia professoressa, a scuola non si deve abbandonare il più debole al suo destino di sospensioni e bocciature”. Per un’istituzione così scassata come la scuola italiana di oggi è chiedere tanto, forse troppo. Ma la partita non può essere considerata persa. E la risposta è nelle parole pesanti e al tempo stesso leggere di chi la scuola l’ha scoperta in età adulta. Parole in cui il desiderio di relazione prevale su tutto, e quindi su quell’equipaggiamento che l’istituzione dovrebbe avere e di cui spesso è privata. “Scuola, cosa mi aspetto da te, con i miei cinquant’anni?”, si chiede Peppino. “Mi aspetto l’insegnamento che tu soltanto mi puoi dare (...). Io ti considero come una mamma che prende per mano il suo bimbo, insegnandogli a camminare, cominciando con i primi passi, con pazienza”. Parole che da sole ricompensano gli sforzi di chi da anni si spende per portare la scuola - se non addirittura l’università - nelle realtà carcerarie, ma che al tempo stesso interpellano nel profondo chiunque insegni o ritenga di aver qualcosa da insegnare. “Ho passato metà della mia vita in carcere. Ma il teatro mi ha ripulito” di Francesca Barra L’Espresso, 20 dicembre 2023 Davide Mesfun è detenuto, ma vicino alla liberazione. In cella si è dedicato alla cucina e al palco. Per rimanere connesso con il mondo esterno e per costruirsi una nuova vita. “Coltivare queste passioni mi ha salvato”. “La mia libertà ha finalmente una data precisa. Per me coinciderà, dopo vent’anni di detenzione, con il riacquisire la normalità e magari formare una famiglia”. A parlare è Davide Mesfun, di origini napoletane. L’ho conosciuto in regime di semilibertà, mentre cucinava per me e per i ragazzi dell’Associazione Kayros di don Claudio Burgio a Milano. È imponente quando si avvicina e in naturale apertura con gli estranei: ha voglia di condividere, ha fame di vita, di cinema, di arte. Fin da quando era minorenne è entrato e uscito dal carcere. In quegli anni non esisteva nemmeno lo smartphone e durante le sue prime dodici ore di permesso ha scoperto un mondo diversissimo, quasi come fosse risucchiato in un film di fantascienza: “Tutti con le teste abbassate verso quella scatolina”. Il mondo si era evoluto, in carcere c’era un altro ritmo. Oggi è uno chef, un attore e un regista teatrale, ma nel passato ha accumulato diversi reati: rapine, spaccio, riciclaggio. “Sono stato salvato dal teatro, perché mi ha ripulito, mi ha permesso di sfogarmi, di prendermi meno sul serio, di recuperare il me ragazzino appassionato, sportivo. Quando dalla strada si vedono le mura di un carcere si pensa che i detenuti abbiano molto spazio a disposizione. Invece viviamo in un corridoio, in cattività, in una cella con altre persone che parlano sempre delle stesse cose: pene, incontri con famigliari, avvocati. Viviamo la condizione del gambero: sembra che vada avanti, ma cammina all’indietro. Incontrare persone che vengono da fuori è salvifico: ti nutri di esperienze che in carcere non farai mai più e quel contatto ti rende migliore, ti fa vedere te stesso in modo diverso”. “Quando passi mezza vita in carcere, sai che nessuno ti riconoscerà quando ti rivedrà. Ecco perché c’è una recidiva così alta: se esci e non sei più nessuno per la società, nessuno ti offre una seconda possibilità, se non chi è uscito già prima di te ed è tornato a delinquere. Un altro aspetto brutale è l’assenza di intimità e sentimenti. Ho sei ore di colloqui al mese: se sommi le ore, sono più o meno due giorni in totale in un anno. Ho lasciato mia sorella quando aveva 17 anni, l’ho ritrovata durante un colloquio in carcere a trentasette. Non ci sono specchi in cella, ho capito quanto mi fossi trasformato anche io solo guardando lei”. “Forse ci sarà qualcuno che mi dirà che non lo merito l’amore per tutto ciò che ho causato, ma sono una persona diversa grazie al modo in cui ho scelto di spendere il mio tempo in carcere. Ho studiato cucina quando ero ragazzo e qui cucinavo anche duemila pasti al giorno. E ho fatto teatro. Ho iniziato a dirigere spettacoli, ad avere una compagnia tutta mia, a scrivere, a esibirmi fuori dal carcere, anche grazie al professore Alberto Giasanti dell’Università degli Studi Milano-Bicocca che ha creduto nel mio lavoro, ad aiutare i ragazzi che somigliano a me da giovane, quando ho scelto la strada sbagliata”. Un giorno Davide è andato a pulire le celle nel carcere minorile “Cesare Beccaria” e si è paralizzato: stava pulendo la sua cella. L’ha capito perché ha riconosciuto il paesaggio che guardava ogni giorno quand’era rinchiuso lì da ragazzino. Oggi che ha finalmente trovato la sua finestra senza sbarre ha deciso di mostrarla a chi pensa di non meritare niente di più e niente di meglio. Scuola e giustizia, la realtà di un paese immobile di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 20 dicembre 2023 I ministri che vengono dalla politica (e intendono restarci, cioè quasi tutti) non amano mostrare le condizioni effettive in cui versa la propria amministrazione: le sue incapacità, i suoi difetti, i limiti della sua azione e del suo personale. Di tutto il settore pubblico italiano e di tutta la nostra organizzazione sociale Istruzione e Giustizia sono per ammissione unanime i due ambiti che versano in una situazione più critica. Quelli i cui risultati in termini di efficienza, di qualità delle prestazioni e di apprezzamento da parte dei cittadini fanno segnare da anni gli indici più bassi, costituendo una pesante ipoteca sull’avvenire dell’intero Paese. Ma se sulle gravissime carenze in questi due settori esiste nell’opinione pubblica un accordo sostanzialmente unanime, se ormai anche esponenti di opposti schieramenti politici sono più o meno unanimi nel medesimo giudizio (perlomeno quando si esprimono in privato), perché allora le cose non cambiano? Perché nessuno dei vari governi succedutisi negli anni ha fatto qualcosa di significativo per migliorarle? La risposta sta in due fatti arcinoti: da un lato nell’opposizione sindacalizzata di coloro che lavorano in questo caso nella scuola e nell’amministrazione della giustizia (così come in ogni altro comparto della pubblica amministrazione), dall’altro nell’esistenza di una formidabile blindatura ideologica costruita tanto nella scuola che nella giustizia a difesa dello status quo. Ma c’è un terzo elemento decisivo: la pavidità della politica incapace di fare il proprio mestiere, cioè di far valere l’interesse generale. Per tutelare davvero un tale interesse i ministri, innanzitutto, dovrebbero avere il coraggio di denunciare ciò che non funziona nel settore che è loro affidato e nell’amministrazione di loro competenza sforzandosi d’indicare per entrambi i possibili rimedi. È proprio questo però che nel nostro Paese è rarissimo che accada. Da noi infatti, in tali circostanze vige perlopiù la regola di un pietoso, omissivo silenzio. Il caso dell’istruzione è esemplare. In Italia - bisogna dirlo alto e forte - l’istruzione in generale fa acqua da tutte le parti. Non è questione, naturalmente, dell’impegno di chi ci lavora, a cominciare dagli insegnanti. È questione di almeno due o tre decenni di pregiudizi politico-pedagogici rivelatisi rovinosi, di leggi sbagliate, di assegnazione di compiti che alla scuola non competono, di un reclutamento fatto perlopiù con l’unico criterio di sistemare i precari, di programmi mal concepiti; a ciò si sono aggiunte infine le direttive europee, sempre ispirate a un nuovismo pretenzioso quanto culturalmente devastante. Il risultato è quello che l’esperienza comune e le valutazioni internazionali testimoniano. In media i giovani italiani mostrano carenze nell’apprendimento tra le più gravi. Nel Mezzogiorno, cioè in un terzo del Paese, l’abbandono, l’impreparazione e insieme le promozioni immeritate sono un fenomeno generale. Ma anche nel resto della Penisola, tranne poche isole felici, si registra una situazione allarmante. Cancellata dai programmi la geografia, quasi nessuno sa più indicare, ad esempio, i confini delle regioni italiane e non parliamo di quelli dei Paesi europei; d’altro canto le date fondamentali della nostra storia e di quella mondiale sono diventate un optional amatoriale; sempre più rara è anche la capacità di capire un testo e di riassumerlo, di concettualizzare verbalmente con un minimo di adeguatezza; infine va perdendosi del tutto pure la capacità di scrivere in corsivo - la scrittura dell’intimità, dell’io che pensa e narra di se stesso - a pro di una sorta di un maiuscoletto cuneiforme d’ispirazione digitale. Ma si è mai sentito un ministro dell’istruzione parlare di qualcuna di queste cose in maniera approfondita, spiegandone le ragioni, andando alla radice dei problemi e proponendo rimedi adeguati alla loro gravità? Non mi pare proprio. Lo stesso vale per la Giustizia, dalle cui aule ogni italiano con la testa sulle spalle cerca di tenersi lontano come dalla peste non nutrendo in essa la minima fiducia. Ebbene, non ricordo neppure uno dei tanti ministri della Giustizia che, pur se magari convintissimo dell’esclusivo interesse della magistratura alla difesa dei propri interessi corporativi, pur se magari convintissimo, ad esempio, del carattere irreale e mistificatorio dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero, pur se magari convintissimo del carattere abusivo della pretesa del Csm d’interloquire alla pari con governo e Parlamento in tema di legiferazione penale, non ricordo neppure uno di questi ministri, dicevo, che sia mai intervenuto per denunciare apertamente lo stato delle cose esistente e cercare di rimetterle a posto. Timidamente, molto timidamente, lo hanno fatto di recente in modi diversi solo Marta Cartabia e Carlo Nordio, non a caso però due ministri non politici. I ministri che invece vengono dalla politica (e intendono restarci, cioè quasi tutti) non amano mostrare le condizioni effettive in cui versa la propria amministrazione: le sue incapacità, i suoi difetti, i limiti della sua azione e del suo personale. Cioè non amano mostrare la realtà vera con la quale ogni giorno hanno a che fare i cittadini. In specie se da decenni l’Italia ufficiale si è abituata a mistificare quella realtà con una costruzione ideologica che la dipinge come il non plus ultra dell’inclusività democratica (vedi la scuola), ovvero come una conquista preziosa della Costituzione “più bella del mondo” (vedi la giustizia). Di fronte alla menzogna del discorso pubblico accreditato sia la sinistra per losca convenienza, sia la destra per insipiente pavidità, si guardano bene dal dire la verità. Se la dicessero quei ministri ne temono le conseguenze. Generalmente poco sicuri di sé per mancanza di una vera forza politica personale (perlopiù sono stati messi lì per graziosa decisione di un capopartito), hanno paura che la verità non solo probabilmente li renderebbe impopolari presso i propri dipendenti ma soprattutto che li obbligherebbe a mettere davvero le mani nell’amministrazione loro affidata e nei suoi fini istituzionali, nella sua effettiva realtà : cioè a fare qualcosa per cui non hanno quasi mai né la competenza né l’autorevolezza necessarie. Accade così che in generale per i ministri italiani governare non sia sinonimo di un agire concreto e in profondità, dell’introduzione di novità incisive, ma voglia dire un’altra cosa: essenzialmente spendere dei soldi e fare delle nomine. Cioè le due sole cose che ai loro occhi portano voti e quindi una maggiore probabilità di essere rieletti e restare in carriera. Per il resto ci si limita a “mettere delle pezze”, come si dice: a prendere provvedimenti di facciata, a immaginare ritocchi destinati di solito all’insignificanza, a ordinare ispezioni, a fare annunci e a dare interviste. Si direbbe il destino della Seconda repubblica: la via italiana all’immobilismo. Giulia e noi: ripartiamo dall’amore di Don Gino Rigoldi Corriere della Sera, 20 dicembre 2023 Ho incontrato molti ragazzi che hanno commesso reati gravi. Bene le proposte che vanno nella direzione della formazione. Meno utili mi sembrano gli appelli per aggravare le pene. Dopo 50 anni di carcere posso dire di aver incontrato molti ragazzi che, come Filippo, hanno commesso reati altrettanto gravi. Non tocca a me giudicare (ci pensano i giudici), a me, a tutti noi, spetta il compito di conoscere la storia che c’è dietro, perché c’è sempre un motivo dietro a un comportamento. Io non ho mai incontrato i così detti “raptus” scollegati dalla storia di una vita. Però ho incontrato molti adulti increduli per un gesto compiuto da un figlio o da una figlia, giudicato improvviso e inspiegabile. Ci si chiede “come è possibile?”, convinti di aver fatto ogni cosa perché tutto andasse sempre per il meglio. Mi sembra che siano già all’opera gli esperti per esaminare questa vicenda: lo sfondo è quello della superiorità maschile, forse anche della paura di perdere una sorta di salvagente per la propria immagine e forse per la propria stessa vita. Si accenna a possibili patologie mentali. Tutte le autorità fanno proposte che vanno nella direzione della formazione dei giovani, in particolare per le caratteristiche dei rapporti di genere. Meno utili mi sembrano gli appelli per aggravare le pene. Dobbiamo ridare dignità a una parola “sacra” ma fraintesa: educazione. Un termine che nella sua essenza quasi si identifica con altri due termini, relazione e amore. “Educazione” non significa buone maniere, “relazione” non significa dare e ricevere favori, “amore” non vuol dire attrazione fatale. La capacità di costruire relazioni sane, positive non è innata, si impara: occorre “andare a scuola di relazione”. La sofferenza che vedo nei giovani mi sembra nascere dall’assenza di un mondo adulto capace di insegnare l’ABC della relazione. In definitiva, nella nostra società circola poco, pochissimo amore. Ripartiamo dunque dall’amore: guardarsi in faccia, riconoscere il valore dell’altro, saper accettare il disaccordo ma cercare sempre una strada da percorrere insieme. Tocca a noi scegliere se l’altro che incontriamo può essere un alleato o un concorrente. La lunga strada dei diritti di Giovanni De Plato Corriere di Bologna, 20 dicembre 2023 Sono passati 75 anni dal dieci dicembre 1948, quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha dichiarato di celebrare in quel giorno e ogni anno la Giornata internazionale dei diritti umani. Sono passati venti anni da quando il diciotto dicembre si celebra la Giornata dei “Diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie”. Gli uni e gli altri diritti sono stati sanciti come inalienabili invitando i governi, sottoscrittori delle Convenzioni internazionali, a garantire e realizzare le prescrizioni approvate. Le finalità dell’ONU sono di promuovere nel mondo la giustizia e di combattere ogni forma di violazione delle libertà personali. In realtà, purtroppo, a distanza di decenni bisogna riconoscere che il tema dei Diritti è una pura dichiarazione formale e che ogni Paese continua a governare come meglio crede. Alcuni esempi. Il primo riguarda la violenza contro le donne. Che continuano a essere discriminate, violentate, stuprate, incarcerate e uccise dai loro partner, compagni, parenti. In Italia siamo arrivati a un femminicidio ogni tre giorni, un’epidemia sociale inarrestabile. Alle donne non è consentita la rivoluzione di genere, domina la cultura maschilista e padronale che non ammette di essere minimamente scalfita. Questo fenomeno del femminicidio ha una complessità, dovuta a un passato di pregiudizi sulle donne e a un presente di potenza mascolina, aspetti così intrecciati e difficili da dipanare che non autorizza a una plausibile spiegazione. Si potrebbe dire che la pandemia da Covid-19 ha accelerato nei maschi un bisogno di potere che, risvegliando i vecchi privilegi del patriarcato porta all’esercizio di una volontà di potenza che salta le buone regole della ragione per dare sfogo al primordiale istinto predatorio. Forse, potrebbe essere che nel XXI secolo gli uomini non sanno rinunciare al potere, o meglio a quello strapotere che porta a sottomettere la donna, in quanto unico oggetto di vicinanza. Il secondo esempio è di violenza contro l’umanità. Nel 2020 i migranti internazionali sono stati oltre 280 milioni mentre quasi 60 milioni sono stati costretti all’esodo da una zona all’altra della loro terra, come sta avvenendo in Ucraina e in Palestina. Sono popolazioni civili vittime di ogni sopruso, violenza, stupro, mutilazione, tortura da parte di militari e terroristi che non perdonano che si manifesti o lotti per il diritto alla libertà, all’uguaglianza. Il fenomeno di negazione del meticciato risponda al sogno di una potenza incontaminata che trova nella guerra e nel terrorismo la sua ragione di potenza geopolitica. La Dichiarazione universale dei diritti ha finora inciso poco. C’è da sperare che la libertà delle persone possa nel prossimo anno fare dei passi in avanti. L’Ue trova un accordo sul nuovo Patto su migrazione e asilo di David Carretta Il Foglio, 20 dicembre 2023 “Assicurerà che ci sia una risposta europea efficace a questa sfida europea”, ha detto Ursula von der Leyen. I cinque regolamenti introducono poca solidarietà e molta responsabilità per i paesi di primo ingresso. Cosa prevede il Patto. La presidenza spagnola del Consiglio dell’Ue e i negoziatori del Parlamento europeo hanno trovato un accordo “storico” sul nuovo Patto su migrazione e asilo, salvando uno dei principali pacchetti legislativi della Commissione di Ursula von der Leyen prima della fine della legislatura. “Questo Patto su migrazione e asilo assicurerà che ci sia una risposta europea efficace a questa sfida europea”, ha detto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen: “Gli europei decideranno chi entra nell’Ue e chi può stare, non i trafficanti”. “Il 20 dicembre entrerà nella storia”, ha assicurato la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola. “L’Ue sta mantenendo la sua promessa di migliorare il sistema di asilo e migrazione. I cittadini di tutta l’Ue vogliono che i loro governi affrontino la sfida della migrazione e oggi è un grande passo in questa direzione. Questa riforma è un pezzo cruciale del puzzle”, ha detto Fernando Grande-Marlaska Gómez, ministro degli Interni della Spagna che ha la presidenza di turno dell’Ue. Ma a che prezzo? In realtà, l’Unione europea fa un altro passo verso l’Europa fortezza, mettendo in piedi un sistema che è lungi dall’essere la panacea dei mali migratori che affliggono i suoi stati membri. Come in Francia, dove Marine Le Pen ha proclamato la sua vittoria ideologica sulla riforma dell’immigrazione promossa dal governo di Emmanuel Macron, anche l’estrema destra europea può rivendicare un successo. Esperti e ong già avvertono che i meccanismi previsti dal nuovo Patto su migrazione e asilo non funzioneranno in caso di afflusso massiccio, al rischio di provocare una pressione insostenibile sui paesi di primo ingresso come l’Italia, che avranno l’obbligo di creare grandi campi di migranti alle loro frontiere. Per contro, “le conquiste della Convenzione di Ginevra sono state gettate sotto a un autobus questa mattina con un pessimo accordo”, ha ammesso l’eurodeputato verde tedesco, Damian Boeselager, relatore ombra su uno dei cinque regolamenti del Patto. Il principale argomento con cui è stato promosso il Patto su migrazione e asilo è la volontà politica di affrontare insieme i flussi migratori irregolari in modo ordinato, responsabile e solidale. “Responsabilità e solidarietà”, è stato uno degli slogan che si sono più sentiti dalla presentazione della proposta da parte della Commissione nell’ottobre 2020. I cinque regolamenti del Patto introducono poca solidarietà e molta responsabilità per i paesi di primo ingresso, ma consentono almeno di dire che il regolamento di Dublino è superato. A ben guardare, non è così. Nei negoziati alcune disposizioni di Dublino sulla responsabilità dei paesi di primo ingresso sono state addirittura rafforzate. La solidarietà sarà obbligatoria, ma non i ricollocamenti di migranti dai paesi di primo ingresso. Il sistema attorno a cui ruota il nuovo Patto su migrazione e asilo è quello introdotto nelle isole della Grecia dopo l’accordo Ue-Turchia del 2016. La principale novità sono le “procedure di frontiera” obbligatorie, che impongono agli stati membri di selezionare i richiedenti asilo, rinchiudere quelli che hanno una nazionalità con basse probabilità di ottenere protezione internazionale in appositi centri, procedere speditamente alla valutazione delle loro domande e mantenerli in detenzione in attesa dell’espulsione. Trasformare le zone frontaliere dell’Ue - dalla Sicilia alle Canarie, passando per le regioni orientali della Polonia - in grandi carceri per migranti non sarà una bella immagine. In teoria, con una pressione migratoria relativamente bassa, il sistema potrebbe anche funzionare. Ma basterebbe un numero di ingressi analogo a quello del 2023 per far saltare le “procedure di frontiera” perfino in un grande paese come l’Italia. Perché uno dei principali problemi contro cui è destinato a scontrarsi il nuovo Patto è la mancanza di accordi di rimpatrio con i paesi di origine dei migranti. L’Ue, per contro, rischia di tradire i suoi valori con il nuovo Patto su migrazione e asilo. Lo hanno scritto nero su bianco cinquanta ong - Amnesty, Oxfam, ActionAid, Save the Children e altre - in una lettera aperta prima dei negoziati finali tra il Consiglio e il Parlamento europeo. “Il patto dell’Ue su migrazione e asilo rispecchierà gli approcci falliti del passato e ne peggiorerà le conseguenze”. Con i testi attuali, c’è il “forte rischio” di “un sistema mal funzionante, costoso e crudele che fallisce durante l’attuazione e lascia le questioni critiche irrisolte”. Le ong denunciano la normalizzazione dell’uso arbitrario della detenzione per i migranti (compresi bambini e famiglie), la profilazione razziale, i respingimenti, i rimpatri in “paesi terzi sicuri” che sicuri non sono. “Siamo profondamente consapevoli che la politica spesso è una questione di compromessi. Ma ci sono delle eccezioni e non si possono fare compromessi sui diritti umani. Quando sono indeboliti, ci sono conseguenze per tutti noi”, hanno avvertito le ong. Quanto all’estrema destra, i risultati delle elezioni mostrano che la strategia “Europa fortezza” portata avanti dall’Ue e dai suoi stati membri non è sufficiente ad arginarla. Al contrario, dai Paesi Bassi alla Francia, passando per l’Italia, l’Europa fortezza finora ha rafforzato l’estrema destra. Medio Oriente. All’Onu ci si pensa su mentre Gaza muore: “È un atto immorale” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 dicembre 2023 Israele/Palestina. Le agenzie delle Nazioni unite “furiose” mentre gli Usa facevano rinviare la risoluzione sulla tregua. “I medici camminano sui corpi”. L’esercito israeliano occupa il campo di Jabaliya. Gallant: “Espanderemo le operazioni di terra”. Nella Striscia ieri non si smetteva di morire, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu continuava a rinviare il voto sulla risoluzione annacquata dalle pressioni Usa: nessun cessate il fuoco, ma “misure urgenti per una sospensione delle ostilità” (e non ancora votate al momento di andare in stampa). Le ultime stragi hanno avuto come teatro i luoghi più martoriati, il campo profughi di Jabaliya e la città più a sud della Striscia, Rafah. Il luogo simbolo della prima Intifada, Jabaliya, è un cumulo di macerie. “I corpi sono ovunque - continuava a dire ieri il giornalista di al Jazeera Anas al-Sharif - Le vittime sono per terra. Ci sono cadaveri in pezzi. Non si può descrivere”. E poi c’è Rafah, dove si sono spostate centinaia di migliaia di persone in fuga prima dal nord e poi da Khan Yunis, oggi principale fronte di guerra dopo l’occupazione del nord da parte dell’esercito israeliano. Pochi giorni fa fa Philippe Lazzarini, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, aveva detto che la città “ha quadruplicato il numero di persone in una notte. Manca tutto, non è un posto dove possono stare un milione di persone”. Anche perché cadono le bombe. “Dormivamo quando abbiamo sentito un’enorme esplosione - dice Jihad Zoorob, sfollato a Rafah da Gaza city, alla Bbc - Siamo sfuggiti alla morte per miracolo, ci hanno tirato fuori dalle macerie”. Miracolo, fortuna: staying alive is only a matter of luck, restare vivi è solo questione di fortuna, era il titolo del comunicato di lunedì di Medici senza Frontiere. Non ce l’hanno avuta i parenti di Jihad: nel raid su Rafah ha perso nove familiari. Solo alcuni dei 19.667 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, dal lancio dell’offensiva israeliana seguita all’attacco di Hamas in Israele (1.200 uccisi). Andrebbero aggiunti migliaia di dispersi ma ormai si è perso il conto. Secondo l’Unicef, oltre 7.700 sono bambini. Il Fondo Onu per l’infanzia è stato tra le agenzie delle Nazioni unite che ieri a Ginevra, a poche ore dal voto al Consiglio di Sicurezza, sono esplose di rabbia impotente. Unicef, Unrwa, Oms si sono dette “furiose”. “Sono furioso che bambini che si stanno riprendendo da amputazioni in ospedale vengano uccisi in quegli ospedali - ha detto James Elder, portavoce Unicef - Furioso che Natale porterà una crescente ferocia mentre il mondo è distratto dall’amore per sé. Furioso con me stesso per non essere in grado di fare di più”. “È da non credere che il mondo permetta che questa situazione vada avanti, è immorale”, ha aggiunto Margaret Harris, Organizzazione mondiale della sanità. La dichiarazione delle agenzie Onu arriva tra le notizie sulle condizioni degli ospedali di Gaza, quelli ancora aperti. “I medici camminano sui morti per curare bambini che moriranno comunque”, la nota terribile di ieri di Medici senza Frontiere che descriveva la situazione al Nasser Hospital di Khan Yunis, colpito due volte in 48 ore. “I pochi fortunati che sopravvivono hanno ferite che cambiano la vita. Ustioni gravi, fratture che se non curate richiederanno l’amputazione”, ha detto Chris Hook, responsabile locale di Msf. Intanto l’Ahli al-Arab - l’ospedale bombardato il 17 ottobre e oggetto di inchieste per scoprire l’origine del raid, jet israeliani o missili del Jihad islami - ha ufficialmente smesso di funzionare dopo arresti di massa di medici e pazienti, come accaduto anche al Kamal Adwan Hospital e ieri, di nuovo, allo Shifa di Gaza city. Cade anche l’Al-Awda: secondo Msf, ieri l’esercito israeliano ne ha assunto il controllo dopo 12 giorni di assedio. Tutti i maschi sopra i 16 anni sono stati presi, spogliati, legati e interrogati. Tra loro anche sei membri di Medici senza Frontiere, poi rimandati dentro. Perché dentro ci sono ancora 240 persone (80 sanitari, 40 pazienti e 120 sfollati), senza acqua. L’Al-Awda è l’ospedale di Jabaliya, il campo che ieri sera l’esercito israeliano ha annunciato di aver del tutto occupato, oltre ad aver “smantellato la brigata nord di Hamas”: “Jabaliya non è più quella di prima”, ha detto il generale Itzik Cohen. In contemporanea arrivavano le parole del ministro della Difesa israeliano Gallant: le operazioni di terra “si espanderanno ad altre aree”, ha detto dal confine con la Striscia, definendo Khan Yunis “nuova capitale del terrore”. Preso il nord, le autorità israeliane si spingono sempre più giù, prima che agli occhi del premier Netanyahu sia troppo tardi, prima cioè che il mondo imponga (a lui e a Washington) di smettere. Iran. Impiccata all’alba Samira, l’ex sposa-bambina Il Dubbio, 20 dicembre 2023 “Vittima per anni dell’apartheid di genere, dei matrimoni precoci e della violenza domestica, Samira oggi è stata vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto” scrive l’Ong Iran Human Rights. Samira Sabzian, l’ex sposa bambina in carcere in Iran da anni e condannata alla pena capitale per avere ucciso suo marito, è stata impiccata questa mattina in Iran. Lo riferisce l’ong Iran Human Rights. “Vittima per anni dell’apartheid di genere, dei matrimoni precoci e della violenza domestica, Samira oggi è stata vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto, un regime che si è sostenuto esclusivamente uccidendo e instillando paura. Ali Khamenei e gli altri leader della Repubblica Islamica devono essere ritenuti responsabili di questo crimine. Come altre vittime della “macchina della morte” del regime, Samira era tra i membri più vulnerabili di una società senza voce. Una campagna di una settimana non è stata sufficiente per salvarla. Dobbiamo lottare ogni giorno per salvare le migliaia di altre persone che rischiano di diventare vittime della macchina omicida per preservare la sopravvivenza del regime”, ha scritto su X il direttore dell’ong, Mahmood Amiry-Moghaddam. “Samira è stata vittima della pratica dei matrimoni precoci e ho visto quanto ha sofferto in carcere per il fatto che le è stato negato l’accesso ai suoi figli”, ha aggiunto, sempre sul social network, Mozhgan Keshavarz, l’attivista iraniana, che è stata sua compagna di cella e che ha trascorso quasi tre anni dietro le sbarre, per lo più nella famigerata prigione di Evin nella provincia di Teheran. La Repubblica Islamica ha il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo. Secondo fonti di Iran Human Rights, Samira è stata giustiziata nel carcere di Qeezel Hesar a Karaj. L’esecuzione di Samira Sabzian era inizialmente prevista per mercoledì 13 dicembre 2013, ma era stata rinviata di una settimana anche sull’onda della reazione da parte della società civile. Samira Sabzian era stata fatta sposare giovanissima, all’età di 15 anni, ed era stata una moglie-bambina. La donna era stata anche vittima di violenza domestica prima di commettere il presunto omicidio. Secondo l’ong, Samira Sabzian aveva due figli; ed è stata in carcere per circa 10 anni, privata per tutto il tempo anche della possibilità di visitare i figli. “Per la prima volta dopo anni, ha incontrato i suoi figli per un’ultima visita prima della pena di morte”, si legge nel sito dell’ong. Finora quest’anno, secondo Iran Human Rights, sono state giustiziate 18 donne in Iran. Egitto. Gli anni difficili di Al Sisi e le responsabilità occidentali di Paolo Lepri Corriere della Sera, 20 dicembre 2023 Gaza può servire al presidente proprio per far dimenticare alla popolazione la catastrofica situazione in cui versa un Paese che gli analisti si sono domandati a lungo se non fosse “troppo grande per fallire” o “troppo difficile da salvare”. Saranno anni difficili quelli che Abdel Fattah al Sisi, eletto per la terza volta presidente dell’Egitto dopo il colpo di stato del 2013, trascorrerà tra i tappeti del Palazzo di Heliopolis sperando di trasferirsi, prima o poi, in quella nuova capitale che ha deciso di fare nascere a cinquanta chilometri dal Cairo. Spendendo 60 miliardi di dollari in un Paese dove il 30 per cento degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà. I risultati ufficiali gli hanno attribuito l’89,6 per cento dei voti. Gli altri tre candidati erano delle comparse tollerate dal regime. L’oppositore Ahmed al-Tantawi è stato ostacolato tanto da venire costretto alla rinuncia. Non è certo un caso che questa roccaforte dell’autocrazia in costruzione nel deserto sia molto più lontana da Piazza Tahrir, il simbolo dell’Egitto inquieto. Qui, dove la gente fece cadere Hosni Mubarak, è successo due mesi fa qualcosa che l’onnipotente apparato di sicurezza (la cui perversità fa pensare in primo luogo alla vita spezzata di Giulio Regeni) non riuscì a impedire. Era il 18 ottobre, undici giorni dopo il massacro di Hamas. I burattinai del potere persero il controllo della manifestazione convocata per protestare contro Israele e far conoscere al mondo il no alle ipotesi di trasferire nel Sinai i palestinesi di Gaza. Come ha scritto Reem Abou-el-Fadl, docente di politica comparata del Medio Oriente alla School of Oriental and African Studies, molti partecipanti a quel raduno “non rispettarono il copione”. Si diressero, appunto, verso Piazza Tahrir. E c’era chi urlava anche lo slogan della rivoluzione del 2011: “Pane, libertà, giustizia sociale”. Gli arresti furono un centinaio. La lezione di quel giorno è che la solidarietà con la causa palestinese, acutizzando il malcontento, può diventare il nocciolo di un’alternativa: un’alternativa laboriosa da costruire tenendo conto che il regime è riuscito con vari mezzi a far crescere la partecipazione al voto presidenziale, passata ora ad un robusto 66,8 per cento dal 41 per cento del 2018. Molti egiziani, però, aggiunge el-Fadl, si sono interrogati nelle settimane scorse, dopo quella manifestazione, sulla loro condizione “come qualcuno che si rialza in piedi dopo un duro colpo”. La pensa in modo simile Hossan el-Hamalawy, giornalista in esilio, secondo cui “il regime tenta di canalizzare la collera, cosciente che se la situazione gli sfuggisse di mano sarebbe costretto ad affrontare un’onda di contestazione ben più difficile da controllare che le altre forme convenzionali di dissidenza”. Non si deve nemmeno escludere, aggiungiamo, che quanto sta accadendo a Gaza possa diventare innescare un’esplosione di radicalismo i cui pericoli sono evidenti. Già adesso le moschee ospitano continue preghiere per le vittime dei bombardamenti dello Stato ebraico. Ma il problema egiziano è talmente complesso che potrebbe essere possibile anche uno scenario differente. La scommessa di al Sisi (un uomo spregiudicato, che impersona, come ha detto lo scrittore Ala al-Aswani, il “volto” di un rigido potere militare) è quella di riuscire a rafforzarsi - dopo anni in cui non si è certamente distinto nella ricerca di soluzioni del conflitto israelo-palestinese - dirigendo il sentimento popolare suscitato dallo scontro Israele-Hamas, atteggiandosi a protettore della popolazione di Gaza (l’Egitto ha assicurato l’80 per cento dell’aiuto umanitario arrivato nella Striscia e ha svolto un ruolo importante nei contatti che hanno portato alla tregua), cercando di apparire come l’uomo che respinge soluzioni “punitive” nell’assetto della regione, dando prova di impegno diplomatico e dinamismo. “Gli elettori - ha detto dopo la proclamazione dei risultati - non hanno solo votato per me ma espresso il loro rifiuto di una guerra disumana”. Al di là dei possibili sbocchi, Gaza può servire al presidente proprio per far dimenticare alla popolazione la catastrofica situazione economica in cui versa l’Egitto e per provare a tirare avanti in un Paese che gli analisti internazionali si sono domandati a lungo se non fosse “troppo grande per fallire” o “troppo difficile da salvare”. A giudizio dell’Istituto per gli studi di politica internazionale “il drammatico contesto della guerra potrebbe rivelarsi, paradossalmente, uno strumento a supporto del regime, dello status quo e quindi ritardare il processo riformatore”. I dati sono allarmanti. Durante l’era al Sisi il debito pubblico ha raggiunto quasi il 90 per cento del Pil e il debito estero è passato dal 17 per cento al 39 per cento di oggi. La moneta egiziana ha perso nell’ultimo anno quasi la metà del suo valore mentre l’inflazione ha toccato a ottobre il 37,1 per cento. Con grande spudoratezza l’ex generale ha avuto il coraggio di dire, a ottobre, una frase che nessuno dimentica: “Se il prezzo del progresso e della prosperità della nazione è la fame, allora mangeremo di meno”. E al Cairo, durante la campagna elettorale, la gente faceva la coda per comprare lo zucchero. In questo contesto i diritti umani assumono sempre più rilievo. Il leader egiziano ha azzerato la società civile, rimosso ogni ostacolo alla conservazione del potere, arrestato oppositori politici, giornalisti o chiunque potesse non essere organico al suo dominio (come insegna la vicenda dello studente dell’Università di Bologna, Patrick Zaki), vietato manifestazioni e assembramenti, dilatato fino all’inverosimile l’apparato di controllo e repressione. La comprensione del ruolo strategico svolto storicamente dal Paese nello scacchiere internazionale, e in particolare nel Mediterraneo, ha portato ad un eccesso di realpolitik che non può durare all’infinito. Nessun interesse può giustificarlo. Anzi, come osserva Timothy Kaldas, vice direttore del Tahrir Institute for the Middle East Policy, “voltare la testa dall’altra parte è sbagliato” anche perché “le violazioni dei diritti umani in realtà stanno contribuendo direttamente all’instabilità economica dell’Egitto”. Il legame risulta evidente. Deve essere questo, dopo la sua scontata incoronazione, il filo conduttore dei rapporti con al Sisi. Joe Biden e Ursula von der Leyen non lo dimentichino. Repubblica Democratica del Congo, nel carcere di Kinshasa in 11 mesi morti 500 detenuti di Valentina Giulia Milani* La Repubblica, 20 dicembre 2023 È l’allarme lanciato dalla Ong Bill Clinton Foundation for Peace, che denuncia le condizioni disumane di detenzione. Dall’inizio di dicembre una quindicina di altri decessi. Più di 500 detenuti del carcere centrale di Makala, il più grande della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), situato nella capitale Kinshasa, sono morti in 11 mesi a causa delle cattive condizioni di detenzione. È l’allarme lanciato dalla Ong Bill Clinton Foundation for Peace, che denuncia il sovraffollamento trascurato dalle autorità. La Fondazione stima in 505 il numero di morti tra gennaio e fine novembre. Dall’inizio di dicembre si sono aggiunti una quindicina di decessi. Morti per soffocamento. Le autorità carcerarie, contattate da Radio France Internationale (Rfi), riconoscono solo circa 300 morti - per soffocamento, malattie croniche e altre cause. Secondo le autorità carcerarie, tra i morti ci sono prigionieri trasferiti da vari servizi di sicurezza, che spesso arrivano in condizioni critiche. “Ci sono altri che sono arrivati qui malati, altri con malattie croniche”, ha detto a Rfi Lydia Masika, direttrice dei servizi penitenziari della Rdc. Ci sono molti detenuti che vengono arrestati in pessime condizioni di salute, e a volte si trovano già nei sotterranei dei servizi di sicurezza. Non sappiamo esattamente come siano finiti in queste condizioni, perché arrivano magri, a volte in uno stato irrecuperabile. Quelli che arrivano nel carcere di Makala e possono essere recuperati, vengono recuperati perché almeno c’è una buona assistenza medica e nutrizionale”. Prigione per 1.500 posti, ma sono 13.300. Ufficialmente, la prigione di Makala è stata costruita per una capacità di 1.500 detenuti. Ma ora ne ospita 13.300, di cui solo circa 2.000 sono stati processati e condannati. Gli altri sono detenuti in custodia cautelare, alcuni hanno trascorso molti anni senza processo. L’accusa della ONG. La Bill Clinton Foundation for Peace accusa il sistema giudiziario di ingiustificata lentezza amministrativa, che spesso porta con sé i semi della corruzione e della detenzione arbitraria. L’Ong teme che il sovraffollamento possa portare a un’evasione di massa, dato che la stessa prigione ospita quasi 2.000 detenuti militari, tra cui almeno cinque con il grado di generale. Le misure per evitare una strage. Per evitare una strage, l’amministrazione penitenziaria ha avviato una delicata operazione: da lunedì 4 dicembre, alcuni detenuti sono stati trasferiti da Makala alla prigione di Luzumu, nel Kongo Central, vicino a Kinshasa. Altri saranno trasferiti nelle province. Il ministero della Giustizia ha già avviato i lavori di ampliamento di alcune carceri e ha annunciato che presto verrà costruito un carcere con una capacità di 5.000 detenuti alle porte della capitale. Questo dovrebbe consentire di decongestionare la prigione di Makala. *Valentina Giulia Milani scrive per “Africa, la rivista del continente nero”