Una spesa folle per imbottire i detenuti di sedativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2023 È privo di forze, ridotto a deambulare in carrozzina e soprattutto lo avrebbero costretto ad assumere ansiolitici. Parliamo di Leonardo Cisaria, fino al 20 novembre recluso presso la casa circondariale di Brindisi. Ora detenuto presso la casa circondariale di Lucera. Sandra Berardi, la presidente dell’Associazione Yairaiha, ha rivolto un accorato appello alle massime istituzioni, tra cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, e la direttrice della Casa circondariale di Lucera Patrizia Andrianello, in seguito alle gravi condizioni di salute denunciate dal detenuto Leonardo Cisaria. L’allarme è stato lanciato dalla moglie del recluso, che ha trasmesso la preoccupante lettera del marito, affetto da patologie alimentari, molteplici intolleranze alimentari ed ha subito un intervento chirurgico per il trattamento dell’obesità in grado di ridurre il volume dello stomaco. La documentazione medica fornita al personale medico dell’istituto sembra essere stata ignorata, suscitando serie preoccupazioni in merito al diritto fondamentale alla salute di ogni individuo, anche per chi è privato della libertà personale. La lettera di Cisaria, dettagliatamente raccontata dalla sua consorte, denuncia un notevole ritardo nel garantire il necessario regime alimentare e l’assurda somministrazione di ansiolitici senza reale necessità. L’Associazione Yairaiha ribadisce l’importanza di rispettare il diritto alla salute di ogni individuo, inclusi coloro che sono detenuti, come sancito dalla nostra Costituzione. Leonardo Cisaria, 35 anni, attualmente recluso per reati commessi nel 2018, evidenzia nei dettagli la sua situazione critica. Già dalla sua prima detenzione nel carcere di Brindisi, Cisaria ha segnalato il suo problema alimentare alle autorità carcerarie, fornendo regolare documentazione medica. Tuttavia, anziché ricevere adeguate cure, è stato relegato in isolamento. Dopo una settimana in regime di isolamento, a seguito del digiuno forzato e dei consigli medici di sforzare lo stomaco, il detenuto ha avuto una grave crisi, perdendo sangue e dichiarato in pericolo di vita imminente. Un uomo che prima della detenzione lavorava vigorosamente per circa 12 ore al giorno si è ritrovato senza forze, costretto a deambulare in carrozzina. Nonostante la visita di un nutrizionista che ha certificato le intolleranze alimentari di Cisaria, a detta del recluso, ancora non riceve un’adeguata alimentazione alle sue necessità. Al contrario, il detenuto viene somministrato contro la sua volontà con ansiolitici, al solo scopo di calmarlo. L’appello di Cisaria, detenuto fino al 20 novembre presso la Casa Circondariale di Brindisi e ora trasferito a Lucera, è un grido d’aiuto affinché la sua situazione giunga all’attenzione delle istituzioni competenti. Chiede che la sua voce e quella di tutti i detenuti raggiungano chi di dovere, affinché venga garantito loro un supporto alimentare adeguato in carcere. L’Associazione Yairaiha chiede un intervento tempestivo da parte delle autorità competenti, sottolineando l’importanza di trattare ogni detenuto con dignità e rispetto per i diritti umani fondamentali. In attesa di un riscontro e di azioni concrete, l’Associazione Yairaiha sottolinea di rimanere vigile, pronta a tutelare il diritto alla salute di chiunque, indipendentemente dal contesto detentivo. I dati nell’inchiesta di “Altreconomia” L’abuso degli psicofarmaci, come il caso denunciato in questa pagina, è oggetto di un’inchiesta da parte di Luca Rondi per conto di “Altreconomia”, presentata il mese scorso alla Camera. L’impiego diffuso di psicofarmaci all’interno delle carceri italiane ha destato preoccupazione tra gli esperti e gli attivisti per i diritti umani. Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio sul carcere di Antigone, riflette sulla crescente somministrazione di farmaci nei penitenziari, sottolineando che le carceri sembrano seguire la linea del “fuori tempo massimo” delle gare ciclistiche per chi è considerato troppo lento. Questa pratica, secondo Miravalle, risponde a un eccesso di umanità rinchiusa e a un diffuso disagio, affrontato con una soluzione farmacologica spesso eccessiva. L ‘ inchiesta di “Altreconomia” ha rivelato dati inediti sulla spesa di due milioni di euro in psicofarmaci nelle carceri nel 2022, il 60% in antipsicotici. L’inchiesta sottolinea che la medicalizzazione eccessiva è evidente nei dati relativi a farmaci come Paliperidone, Apipipraziolo, Trazodone, Olanzapina e Quietapina, somministrati in 15 carceri italiane tra il 2018 e il 2022. Questi farmaci, principalmente antipsicotici, vengono utilizzati per ridurre sintomi come deliri e allucinazioni, ma la spesa elevata solleva dubbi sulla corretta gestione delle problematiche psichiatriche dei detenuti. L’analisi rivela un aumento significativo della spesa per gli antipsicotici, con San Vittore in testa, con un incremento del 180% dal 2018 al 2022. Tale tendenza si riscontra anche in altre strutture, sollevando domande sull’adeguatezza della somministrazione di questi farmaci e con un obiettivo di controllo invece che di cura. Le differenze territoriali nell’utilizzo di psicofarmaci sevidenziano che le case di reclusione sono più inclini a una spesa maggiore rispetto alle carceri ‘ riservate’ ai detenuti con pene definitive. L’inchiesta si estende alle strutture destinate ai detenuti minorenni, rivelando un aumento significativo nella spesa per psicofarmaci, in particolare per gli antipsicotici. Gli esperti intervistati, tra cui Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Modena, evidenziano la necessità di un approccio terapeutico globale. Il confronto tra le spese per antipsicotici nelle carceri e nella popolazione generale rivela una disparità significativa, sollevando dubbi sulla distribuzione delle risorse e sulla consapevolezza delle problematiche legate alla salute mentale nelle carceri. La chiusura degli Opg e la creazione di Rems e Atsm sembra non aver affrontato adeguatamente le esigenze dei detenuti con disturbi psichici. L’inchiesta ha evidenziato la necessità di una riflessione approfondita sulle pratiche di somministrazione di psicofarmaci nelle nostre carceri. L’eccessiva medicalizzazione potrebbe nascondere carenze strutturali e nell’approccio terapeutico al disagio psichico. È urgente adottare politiche che garantiscano un trattamento equo e umano per i detenuti, considerando le implicazioni a lungo termine sulla salute mentale e sulla reintegrazione. A chi fa paura la sessualità nelle carceri di Franco Corleone L’Espresso, 1 dicembre 2023 In Italia molti ostacoli a un diritto che è già realtà in Francia, Germania e molti altri Paesi. La situazione delle carceri rischia di divenire esplosiva: ormai si superano i sessantamila detenuti e il governo senza pudore immagina una norma contro paventate rivolte in carcere con pene spropositate anche verso forme di resistenza passiva. La nonviolenza fa paura a Carlo Nordio, ministro sedicente garantista. Per non dire della persecuzione delle madri detenute che provocherà l’aumento dei bambini in carcere. Gandhi, Capitini e Pannella si rivoltano nella tomba e toccherà ai garantì dei diritti dei detenuti e al volontariato alzare la bandiera della disobbedienza civile. Occorre non arrendersi e aprire nuovi fronti. Il 5 dicembre la Corte costituzionale esaminerà il ricorso del magistrato di Sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, per far dichiarare l’incostituzionalità del divieto di fatto dell’affettività e della sessualità in carcere. È una lunga storia che ho vissuto in prima persona con Sandro Margara, giudice riformatore, quando assieme scrivemmo il Regolamento dell’Ordinamento penitenziario del 2000. Avevamo previsto la possibilità di incontri prolungati senza controllo visivo in apposite strutture, ma il Consiglio di Stato dette un parere contrario e la politica, pavidamente, fece marcia indietro. Sono passati gli anni inutilmente, nell’inerzia del Parlamento: anche dopo l’invito della Corte costituzionale nel 2012 che, pur dichiarando inammissibile il ricorso della presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ammoniva il Parlamento a prevedere che la persona sottoposta a restrizione della libertà personale potesse continuare a mantenere, durante l’esecuzione della pena, rapporti affettivi anche a carattere sessuale. Oltre che essere “esigenza reale e fortemente avvertita”, come scriveva la Corte, i rapporti intimi corrispondono a un vero e proprio diritto soggettivo di ogni detenuto. Per dirla con Margara: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. I Consigli regionali della Toscana e del Lazio, secondo la previsione dell’art. 121 della Costituzione, approvarono nel 2020 due leggi sul tema affidandole a Camera e Senato. Patirono la stessa sorte di quella subita da altre proposte di legge presentate negli anni precedenti. Anche per gli Stati generali dell’Esecuzione penale le relazioni affettive e sessuali sono da considerarsi un “nocciolo duro della dignità” della persona. Peraltro, sono già una realtà in numerosi Paesi (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Norvegia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera). Nel settembre scorso la Società della Ragione con il Crs e l’Associazione Luca Coscioni organizzò un seminario dal titolo “Corpi, Diritti, Soggettività”: da quella riflessione è nato un appello, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto e intitolato “Il corpo recluso e il diritto alla intimità” (in attesa della sentenza della Corte costituzionale). Il testo ha già raccolto più di duecento firme di prestigiosi giuristi, di Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, di esponenti dei movimenti impegnati per i diritti, di associazioni di volontariato in carcere, di avvocati. Il clima è torbido ma una scintilla può incendiare la prateria della libertà. La guerra in Parlamento sulla pelle di Cospito. E tutti esaltano l’infamia del 41bis di Piero Sansonetti L’Unità, 1 dicembre 2023 1) Si è aperta una lotta molto aspra sulle sorti del sottosegretario Delmastro, esponente di Fratelli d’Italia e vice di Nordio al ministero della giustizia. Dopo parecchio tempo l’opposizione sembra decisa stavolta ad andare fino in fondo. E la maggioranza, e il governo, hanno capito che questa è una battaglia seria e complicata. Non è una cosuccia, come qualche decreto per aumentare il carcere ai minorenni, per ingabbiare più profughi possibile, per consentire ai neonati di finire in cella con la mamma rom e roba simile. Quelle sono questioni semplici da risolvere senza grandi ostacoli. Chi vuoi che si opponga davvero a un arresto? Arrestare è bello e porta voti. Stavolta invece si tratta di una grande questione di principio. È in gioco la dignità della repubblica, se ho capito bene. 2) Non tutte le persone sono persone. Alcune sono cose. Non hanno bisogno né di riguardi né tantomeno di essere considerate alla pari degli altri esseri umani. Volete un esempio? Beh, per esempio Alfredo Cospito. State a sentire: è anarchico, non è pentito, continua a scrivere frasi follemente rivoluzionarie, odia il capitalismo, non accetta di essere stato messo del tutto irragionevolmente al carcere duro, saluta alzando il braccio col pugno chiuso come faceva Bakunin, addirittura giunge a contestare la legittimità del carcere duro solo perché il carcere duro viola la Costituzione e tre o quattro trattati internazionali, e per di più ha fatto lo sciopero della fame per 100 giorni rischiando di morire. Voi direte; beh, chissenefrega se uno così rischia di morire. Già, ma non considerate quanto fastidio ha prodotto per il Parlamento, il governo, il ministro, i magistrati e i giornali! Lo sciopero della fame è stato una vera vigliaccata con la scusa melensa della legalità! Bene: una persona come Cospito può tranquillamente essere degradato da persona a cosa. E si sa che sulle cose si litiga senza bisogno di interpellarle o di tenerne conto. Come sui tappeti. 3) Sulla pelle di Cospito si sta svolgendo la nobile battaglia tra governo e opposizione, tra coloro che vogliono e coloro che non vogliono le dimissioni di Delmastro. 4) Il quale Delmastro si è detto orgoglioso di avere difeso il 41 bis. E dietro a lui tutto il centrodestra. Tutto! E Giorgia Meloni si è gloriata più ancora del suo sottosegretario: noi, noi, noi, la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di confermare il 41 bis. E Elly Schlein e Conte non le hanno risposto: “Farabutti, in questo modo siete fuori dalla Costituzione, forcaioli, manettari, reazionari”. O magari anche “fascisti” (che tanto Capezzone non sente). No, le hanno chiesto conto della norma che permette un uso più largo dei contanti. Al solito, si va dritti al bersaglio grosso. 5) Lo abbiamo scritto un paio di giorni fa e oggi lo confermiamo. Esiste in questo paese dopo la morte delle vecchie ideologie, colte e complicate, una sola ideologia che accomuna tutti: il giustizialismo. Scontro di potere sulla pelle di Cospito, di Frank Cimini Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro è stato rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio in relazione a quanto aveva spifferato al collega di partito Giovanni Donzelli sulla detenzione dell’anarchico Alfredo Cospito. Al di là dell’esito processuale che vedrà in aula Delmastro il prossimo 12 marzo va ricordato che questa è una storia di un regolamento di conti all’interno del potere sulla pelle di un anarchico detenuto e torturato con l’applicazione dell’articolo 41 bis. Il discorso riguarda anche le polemiche sul rinvio a giudizio con la discussione sulle eventuali dimissioni di Delmastro. Alfredo Cospito con la sua battaglia contro il 41bis combattuta anche con un lunghissimo sciopero della fame non c’entra assolutamente niente con le beghe di lor signori. La procura di Roma aveva ribadito la richiesta di prosciogliere Delmastro per mancanza dell’evento soggettivo del reato. Il gup ha deciso diversamente sposando in pratica la stessa linea del gip che aveva imposto l’imputazione coatta. Intanto il difensore di Cospito l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha depositato il ricorso per Cassazione contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva confermato il 41 bis. Secondo il legale la sentenza del Tribunale non era motivata soprattutto perché i giudici non si erano confrontati con il parere della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo che aveva chiesto di far uscire Cospito dal 41 bis, disponendo la detenzione in regime di alta sorveglianza, appena un gradino inferiore. Per la Dna la pericolosità di Cospito era regredita e non sussistevano più le ragioni del carcere più duro. Il Tribunale invece decideva diversamente arrivando addirittura ad affermare che con lo sciopero della fame l’anarchico aveva accresciuto il suo carisma diventando ancora più pericoloso. Cospito di fatto è stato danneggiato dall’eventuale reato (eventuale perché le garanzie ovviamente valgono per tutti e perché siamo effettivamente in una situazione sul filo del rasoio) commesso dal sottosegretario che metteva in condizioni il collega di partito e coinquilino Donzelli di disporre di dati e informazioni da usare contro avversari politici. Ma non è un caso che l’anarchico e il suo difensore abbiano scelto di non chiedere di costituirsi nel procedimento come parte danneggiata dal reato. Proprio per restare estranei al contenzioso tutto interno al potere politico, dove, questo è assolutamente certo, dei diritti e della sorte di Alfredo Cospito fregava niente ad alcuno, allora come oggi. Perché evidentemente la pista anarchica è eterna. Perché fra i delitti e le pene non c’è alcun ragionevole rapporto di Adriano Sofri Il Foglio, 1 dicembre 2023 Tra i delitti e le pene non c’è alcun ragionevole rapporto. Sono due ambiti incompatibili: se non due tipi di pena, spesso due tipi di delitto. Siccome niente piace e lusinga più dell’autoinganno, si pretende di adeguare (la bilancia della giustizia) delitti e pene alla stregua di un libro mastro: il debito, il conto saldato con la giustizia, gli sconti... Ora, per la prima volta, leggendo i titoli con le parole attribuite allo scellerato che ha ucciso la giovane Giulia, “Pagherò quello che è dovuto...”, ci ho sentito qualcosa di diverso dal semplice adeguamento al gergo di mercato, una specie di dichiarazione da consumatore. Un ragionamento da catalogo tariffario, un perfezionamento della mercificazione: uccidere una ragazza, tot anni; con l’aggravante della premeditazione e di altre efferatezze, tot anni; con l’attenuante della diminuita capacità di intendere e di volere tot anni. Ha 22 anni, la durata media della vita di un maschio (più breve di quella delle donne, ironia delle cose) è fra gli 80 e gli 81 anni, “ho un bel gruzzolo, posso investirne una quota per comprarmi e pagarmi l’ammazzamento della mia ex, il mio ammazzamento della ex”. A ognuno la sua, a prezzi di saldo. Questo per dire come mi ha fatto schifo quel titolo: “Pagherò quello che è dovuto”. Però c’è anche chi è in credito con la giustizia. Il credito è ancora più impagabile del debito. Anche qui sono appena stato colpito da una curva inaspettata del linguaggio. Riguarda Beniamino Zuncheddu, l’uomo - il “servo pastore”, una specie di apprendista uomo, nonostante Gavino Ledda e Fabrizio De André - che “si è fatto” 32 anni di galera da incolpevole, finché lui stesso, il bravo avvocato Mauro Trogu, delle brave radicali come Irene Testa, dei bravi concittadini di Burcei, lo hanno cortesemente messo fuori come si sfratta un inquilino moroso, prima di certificare definitivamente che aveva occupato abusivamente il suo posto in cella. Fra le autorità che si sono prese la briga di accorgersi della incolpevolezza di Zuncheddu c’è una magistrata, Francesca Nanni, oggi a capo della Procura generale milanese, quattro anni fa, dalla Procura di Cagliari, fautrice della revisione del processo a Zuncheddu. Mattia Feltri ha scritto sulla Stampa come la signora Nanni avesse voluto raccontargli che si era imbattuta nella vicissitudine di Zuncheddu, e “ne sospettava l’innocenza”. Credo che Mattia Feltri abbia gioito della singolarità della frase. La creazione, dalla mela in poi, è dominata dal sospetto (a pensar male...), e “le scuole” del moderno secondo Ricoeur, Marx Nietzsche Freud, e ora figurarsi le macchiette QAnon e Musk e Davigo. Sospettare, nei vocabolari e nell’uso, è un’attività transitiva che non prevede se non un complemento oggetto losco o spregevole. Che una procuratrice, una “magistrata dell’accusa” nel linguaggio corrente, si appassioni gratuitamente al caso di un ergastolano incolpevole perché è arrivata a “sospettarne l’innocenza”, è una innovazione linguistica, dunque morale, e metterei la mano sul fuoco che ecciterebbe l’invidia di Franz Kafka, il quale ci era arrivato vicino: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”. Qualcuna sospettò di innocenza Beniamino Z., sicché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu scarcerato. Il pugno di ferro del Governo: 15 nuovi reati e pene inasprite di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2023 Da quando ha giurato l’Esecutivo Meloni, è stato introdotto in media un delitto al mese. La mappa delle novità dal decreto Rave al disegno di legge Sicurezza, che ne ha aggiunti sei. Quindici nuovi reati o fattispecie in quasi 14 mesi, di cui otto già entrati in vigore. Con il record raggiunto dall’ultimo Ddl sulla sicurezza, che da solo ne aggiunge sei. E con interventi massicci per aumentare le pene di molti delitti già previsti dal Codice. L’era del Governo presieduto da Giorgia Meloni è anche un’epoca di rinnovato dinamismo delle istanze repressive, spesso perseguite ricorrendo alla decretazione d’urgenza. Istanze che non si limitano all’immigrazione, per cui ad aprile è stato dichiarato lo stato d’emergenza nazionale, ma si estendono a molti altri ambiti, rialimentando tra gli studiosi il mai sopito dibattito sul “panpenalismo”. Deriva contro la quale, ironia della sorte, si è sempre battuto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. A scorrere l’elenco dei provvedimenti e delle norme proposte e in gran parte approvate da novembre 2022 a oggi, l’escalation appare notevole. Spesso, va sottolineato, l’iniziativa non arriva dal Guardasigilli, ma da altri ministeri, Viminale in testa, o dalla presidenza del Consiglio. L’esordio è stato indicativo: il decreto legge 162/2022 che, per punire i rave, sull’onda del mega party organizzato a Modena alla fine di ottobre dell’anno scorso, ha introdotto nel Codice penale il reato di “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute o l’incolumità pubblica”. Con il provvedimento approvato a Cutro, ancora dopo un’emergenza tragica - il naufragio costato la vita a 94 persone - è stato aggiunto un nuovo articolo al Testo Unico dell’immigrazione per punire, con il carcere da venti a trent’anni, gli scafisti e i trafficanti che causano la morte di più persone, con la novità della previsione di poter perseguire i responsabili anche nei casi in cui i fatti si verificano fuori dal territorio italiano. Come “reato universale” lo presentò Meloni. Il Dl omnibus 105/2023 è invece intervenuto a trasformare da illecito amministrativo in reato l’abbandono di rifiuti, con la previsione di un’ammenda fino a 10mila euro, raddoppiata in caso di rifiuti pericolosi. Il provvedimento ha inoltre modificato il reato di incendio boschivo aumentando il minimo edittale della pena e ha potenziato le aggravanti del delitto di inquinamento ambientale. Soprattutto, grazie a un emendamento delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera (di nuovo sull’onda della cronaca), è stato introdotto il reato di natura contravvenzionale che punisce chi “abbatte, cattura o detiene orsi bruni marsicani” con l’arresto da 6 mesi a 2 anni e l’ammenda da 4mila a 10mila euro. Subito dopo è approdata in Gazzetta la legge di iniziativa parlamentare (primo firmatario il senatore Fdi Alberto Balboni) che ha modificato il reato di omicidio stradale sostituendo l’articolo 589-bis del Codice penale per affiancarvi l’omicidio nautico, punito con il carcere da 2 a 7 anni, e da 8 a 12 se chi guida è ubriaco o drogato. Il decreto Caivano, convertito in legge a inizio novembre, sempre sulla scia dell’emergenza e della riqualificazione dell’area avviata dal Governo, ha introdotto il reato di “stesa” per punire la “pubblica intimidazione con uso di armi” con la reclusione da 3 a 8 anni. “Finora era una aggravante rispetto ad altri reati, ora immaginiamo di trasformarla in un delitto autonomo”, aveva detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, illustrando l’emendamento poi presentato dal Governo in sede di conversione. È stata inoltre trasformata da sanzione a delitto l’“inosservanza dell’obbligo di istruzione dei minori”, che punisce i genitori che non mandano a scuola i figli con il carcere fino a due anni. Viene anche inserito un articolo aggiuntivo alla legge 110/1975 per punire chi porta fuori casa armi per cui non è ammessa licenza. Con il Dl è poi salita da 4 a 5 anni la pena massima per i reati di “lieve entità” legati alla droga. Ma il carico da novanta di nuovi delitti è arrivato con l’ultimo Ddl sicurezza: dalla detenzione di documenti “con finalità di terrorismo” all’occupazione abusiva di immobili, dalla nuova fattispecie dell’“induzione e costrizione all’accattonaggio” alle lesioni personali a ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, fino alle rivolte nelle carceri e nei centri di accoglienza per i migranti. Ora dovrà passare al vaglio del Parlamento. Dove sta anche, in seconda lettura al Senato, la proposta di legge che punta a perseguire anche all’estero gli italiani in caso di maternità surrogata. Un altro “reato universale” bandiera della maggioranza. Nuovi reati, la sfida tra due idee di giustizia di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 dicembre 2023 Dai rave al blocco stradale, dalla guida con il telefonino alle truffe agli anziani e all’istigazione all’accattonaggio. Questione di panpenalismo o c’è più protezione? Rispondono Debora Serracchiani e il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. In principio era la promessa di semplificazione e depenalizzazione. Un anno dopo è lunga la lista di nuovi reati introdotti dal governo Meloni. E, snocciolandoli, dal rave party al parcheggio nelle aree dei disabili, dall’abbandono di rifiuti al blocco stradale, dalle lesioni nautiche all’imbrattamento di pubblici edifici, dalla guida con telefonino alla mano all’incendio boschivo, dalle truffe agli anziani all’istigazione all’accattonaggio, analisti e parlamentari delle opposizioni formulano l’accusa più bruciante per il ministro della Giustizia garantista Carlo Nordio: quella di essersi lasciato trascinare verso un “panpenalismo emozionale”. Ne è convinta Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: “Sull’onda emotiva di casi di cronaca, il governo considera come unico strumento risolutivo quello di aumentare le pene di reati che già esistono o di inventarne di nuovi, per cavalcare il puro effetto propagandistico”. Certo, ammette Serracchiani, “in alcuni casi i problemi esistono e non è sbagliato affrontarli. Ma il punto è come vengono contrastati”. Secondo la deputata dem “c’è una dicotomia tra le misure varate e l’obiettivo che si vuole raggiungere”. Un esempio? “L’occupazione abusiva di immobili. Va certamente combattuta. Ma se contemporaneamente non si fa una politica sulla casa e non si mette un euro per finanziare il fondo degli inquilini morosi incolpevoli, l’effetto che si provoca è che i poveretti, magari anche con figli a carico, finiscono sulla strada”, fa notare. Il Decreto Caivano - Secondo la deputata, poi, “in alcuni casi il panpenalismo del governo si colora di pennellate ideologiche di destra: c’è un attacco ai giovani, alle donne, ai rom, ai detenuti”. A titolo esplicativo Serracchiani cita il decreto Caivano, varato dopo il caso delle due dodicenni abusate da sei ragazzini. Un pacchetto di misure che introduce dal daspo urbano per minori dai 14 anni in su, al carcere per i genitori che disattendono l’obbligo scolastico dei figli minorenni. E soprattutto, per i minori dai 14 anni, l’abbassamento da 9 a 6 anni della soglia della pena che consente la misura cautelare, rendendo così possibile l’arresto in flagranza di giovanissimi anche per reati come lo spaccio di lieve entità. Una misura presentata dal governo come azione di contrasto alle baby gang e antidoto all’uso sempre più diffuso da parte della criminalità di ragazzini non punibili. La responsabile giustizia della segreteria del partito di Elly Schlein non la vede così: “Si cambia il codice minorile, che tutti ci invidiano, nel quale il carcere era l’ultima ratio, invece di fare prevenzione”. Nel testo del decreto si prevede il rifacimento della palestra e progetti contro la dispersione scolastica. Ma “se non ci metti i soldi per finanziarli, i progetti sociali sono solo “chiacchiere e distintivo”, fa notare Serracchiani. Ma è sulle mamme detenute che sferra l’attacco più duro: “Si va oltre Mussolini: il codice Rocco, scritto durante il fascismo, prevedeva niente carcere per chi ha bimbi piccoli. Ora si cambia direzione. E tutto questo mentre non si fa nulla contro i reati dei colletti bianchi”. “Riparare a vuoti normativi” - “Ma quale panpenalismo emozionale?” reagisce il sottosegretario alla giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro Delle Vedove. “Esistono o no condotte spregevoli o penalmente rilevanti che non avevano copertura penale pur colpendo soggetto deboli, come ad esempio gli anziani che andavano in vacanza e ritrovavano la casa occupata abusivamente?” chiede. “Ora potrà essergli subito restituita”, rivendica. E aggiunge: “Abbiamo inventato noi le rivolte in carcere, come quelle del marzo 2020, nelle quali i detenuti hanno fatto danni per decine di milioni di euro, con azioni che per la sincronia sono apparse eterodirette, secondo alcuni dalla criminalità organizzata?”. Questo, evidenzia Delmastro, “non è panpenalismo ma riparare a vuoti normativi”. Ma allora la semplificazione e la depenalizzazione? “La vogliamo fare per quei reati pulviscolari in gran parte fuori dal codice penale per proteggere, ad esempio, i medici costretti a mettere in campo la medicina difensiva per tutelarsi. O per reati colposi che rendono difficile capire a un imprenditore se ha agito correttamente”. Guanto di velluto con i “colletti bianchi”? Scuote la testa: “No, il nostro arsenale contro la corruzione è uno dei più alti d’Europa. Abbiamo tipizzato l’unica fattispecie troppo elastica che generava paura della firma. Non abbiamo cancellato norme anticorruzione o antimafia: anzi il primo atto del governo è stato evitare che venisse meno l’ergastolo ostativo”. Il sottosegretario meloniano respinge i sospetti che molte siano misure-slogan mirate solo alla propaganda. E il nuovo illecito penale di blocco stradale? “Contrasta una situazione esplosiva. I cittadini che iniziano a volersi fare giustizia da sé. Non possiamo consentire che menino chi li blocca, ma dobbiamo dare risposte a chi deve andare a lavorare o magari in ospedale. Dov’è la propaganda? Nel difendere i cittadini? O nel proteggere gli anziani dai truffatori?”. Bambini in carcere? - Delmastro respinge con forza l’accusa al governo di aver voluto, con il pacchetto sicurezza varato il 16 novembre, portare dietro le sbarre i bambini delle detenute. “È assolutamente falso che vogliamo sbattere in galera le donne con i figli piccoli”, assicura. E precisa: “Intanto non parliamo di carcere ma di istituti di pena attenuata, che spesso offrono contesti migliori di quelli in cui alcuni di questi bambini, purtroppo, sono costretti a vivere. In ogni caso non abbiamo introdotto obblighi. Ne abbiamo tolto uno: il differimento della pena. Consegniamo al giudice la scelta, sulla base del comportamento e della recidiva della detenuta . Io mi chiedo: è possibile chiedere che si mettano al mondo dei figli non per educarli al borseggio e all’accattonaggio?”. Perché, rincara il sottosegretario, “non esiste il diritto al borseggio. E invece esiste quello di una mamma, che prende la metro per portare i figli a scuola e poi di corsa andare a lavorare, a non essere derubata”. Armati anche fuori servizio - Sul giro di vite disposto dal decreto Caivano relativo ai minori che commettono reati il sottosegretario meloniano torna a sottolineare che “il problema di baby gang fuori controllo non se lo è inventato il governo, ma esiste”. La lentezza con la quale si procede ha finora fatto sì che la giustizia arrivi “quando il minore è ormai cresciuto e diventato irrecuperabile. Vogliamo una giustizia rapida e veloce ed efficace”, dice. E sul carcere più facile per gli under 18 chiede: “Da anni si vuole dare il voto ai sedicenni perché più consapevoli di un tempo, però se poi spacciano non possono andare in carcere?”. Insomma della lunga lista di nuove misure Delmastro non ne depennerebbe nessuna. Tanto meno l’autorizzazione agli agenti di pubblica sicurezza fuori servizio a portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza: “Anche quando non indossano la divisa sono pronti a intervenire in difesa dei cittadini. E fuori servizio restano pubblici ufficiali, ma disarmati. Credo che le persone si sentano più tutelate se aumentiamo la loro possibilità di essere difese”, dice. E chiosa: “Il nostro principio è sempre lo stesso: più “Pantere”, meno giungla”. Sospensione condizionale della pena “condizionata” per stalker e violenti di Dario Ferrara Italia Oggi, 1 dicembre 2023 Condizionale condizionata per stalker e uomini violenti verso le donne. Per ottenere la sospensione della pena al condannato non basta frequentare i corsi di recupero con cadenza almeno bisettimanale, ma deve superarli: spetta al giudice valutare sia la partecipazione sia l’esito positivo. E se con la condizionale viene meno la misura cautelare disposta in precedenza possono comunque scattare misure di prevenzione come la sorveglianza speciale o il soggiorno obbligato. Lo prevede la legge n. 168/2023, pubblicata in G.U. n. 275 del 24/11/2023, che entrerà in vigore sabato 9 dicembre. Riabilitazione necessaria. La legge anti-femminicidi modifica le norme introdotte dal codice rosso, la legge n. 69/2019. Solo l’ok sul corso di recupero consente di riconoscere la condizionale a chi ha compiuto o tentato reati di violenza domestica o di genere il tutto con l’aiuto di enti e associazioni specializzate in prevenzione e assistenza psicologica, finanziati dalla legge di bilancio 2022 (la n. 234/2021). Oltre a lesioni personali aggravate, atti persecutori e maltrattamenti in famiglia, l’elenco dei reati per i quali è necessario il percorso di riabilitazione comprende delitti come stupro, sfregio al viso, violenza sessuale (anche di gruppo), corruzione di minorenne e atti sessuali con un minore, tentato omicidio. Rischio revoca. Il provvedimento che fa venire meno le misure cautelari per effetto della condizionale va comunicato all’autorità di pubblica sicurezza affinché valuti se chiedere la sorveglianza speciale o l’obbligo di soggiorno: la sola sospensione della pena non costituisce di per sé motivo per applicare le misure di prevenzione. Sulla richiesta il Tribunale decide in dieci giorni e qualsiasi violazione della misura va comunicata al pm: può scattare la revoca della condizionale. Assenza pesante. Il giudice si avvale degli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) per individuare sia l’ente cui assegnare il condannato sia lo specifico percorso di recupero. E anche una sola assenza ingiustificata, oltre che ogni violazione degli obblighi, pesa sulla revoca del beneficio. Spetta ai centri di riabilitazione comunicare subito qualsiasi problema che emerge nel percorso, mentre compete all’Uepe accertare che il condannato partecipi effettivamente alle attività e comunicarlo al pm presso il giudice che ha emesso la sentenza. Idem vale per gli inadempimenti. Caivano docet. Anche la legge n. 159/2023, che ha convertito il dl Caivano (decreto legge n. 123/2023), subordina la condizionale a obblighi specifici, stavolta per i pusher, intervenendo sul dl sicurezza urbana (decreto legge n. 14/2017): se lo spaccio di droga è avvenuto nei pressi di esercizi pubblici, il beneficio scatta solo col divieto di accedere a locali individuati ad hoc. Dal processo penale alle intercettazioni, le grandi riforme incompiute di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2023 Non si può dire che la politica penale del Governo Meloni si sia scostata dalla, purtroppo tradizionale, abitudine agli interventi decisi sulla spinta emotiva dei più diversi fatti di cronaca (dai femminicidi ai reati commessi da minori, alle declinazioni penali dell’immigrazione clandestina). A mancare, con l’aggravante di contraddire almeno sinora le plurime affermazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, sono invece misure più strutturali da prendere con il filo conduttore del garantismo. Inevitabile forse in un esecutivo che all’anima, semplifichiamo, più giustizialista di Fratelli d’Italia e Lega affianca quella di Forza Italia. Così al proliferare di nuove figure di reato, all’inasprimento delle sanzioni, al moltiplicarsi delle aggravanti, alle traslazioni dal campo amministrativo a quello penale, non si sono accompagnate misure ad almeno parziale bilanciamento. A languire tuttora in Parlamento è, per esempio, il disegno di legge presentato da Nordio a metà giugno con profili di diritto penale sostanziale, la soppressione dell’abuso d’ufficio, e processuali, tra gli altri la necessità di una decisione collegiale sul carcere preventivo. La stessa, più volte annunciata, riforma strutturale del sistema delle intercettazioni è ancora di là da venire. E, anzi, quanto fatto dal Governo è andato semmai in direzione contraria, estendendo l’area applicativa delle intercettazioni decise utilizzando i più flessibili presupposti della normativa antimafia. Le misure più restrittive, sulle intercettazioni a strascico per esempio, sono state piuttosto approvate sulla scia di blitz parlamentari, a parziale bilanciamento delle misure dell’esecutivo. Un paradigma che si è evidenziato anche per quanto riguarda una delle norme più identitarie per i Governi, di qualsiasi segno: la prescrizione. La prossima settimana, verosimilmente la Camera voterà in prima lettura il ritorno alla prescrizione sostanziale, cancellando sia la riforma Bonafede sia quella Cartabia. Un ritorno al passato sul quale però poco ha pesato volontà e tempistica del ministero. Ugualmente assai parziali le misure assunte sul versante del processo penale, dove pochi giorni fa è stato approvato un decreto correttivo che si muove nel contesto della riforma Cartabia, limitandosi a qualcuno dei più urgenti aggiustamenti tecnici. Correzioni diverse, fortemente sollecitate dall’avvocatura penale, come la revisione delle restrizioni al diritto d’impugnazione non è stato possibile assumerle per ragioni di carattere tecnico. E ancora. Nei cassetti del ministero giace, sul fronte assai delicato del diritto penale dell’economia, l’articolato messo a punto dalla commissione Bricchetti sulla riscrittura delle varie fattispecie di bancarotta e di tutto iI settore del penale fallimentare. Un intervento da più parti ritenuto necessario per allineare la disciplina penale a quella civile, da tempo orientata a un cambio di paradigma con priorità data non più ai creditori, ma alla opportunità di salvare, per quanto possibile, gli asset aziendali. Sul piano ordinamentale, tangenziale a quello penale, la madre delle incompiute è certo la separazione delle carriere. I due decreti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri lunedì (su ordinamento giudiziario e fuori ruolo) si muovono ancora sui binari di quanto largamente orientato dalle deleghe della passata legislatura. Nordio ha più volte ribadito che la distinzione dei percorsi di carriera tra giudici e pubblici ministeri dovrà essere fatta senza scorciatoie, attraverso una legge costituzionale, con coerenza giuridica, ma certo allungamento dei tempi. Inoltre l’aria che tira, quanto a provvedimenti di rango costituzionale, con le misure sul premierato in rampa di lancio, non è per un passaggio a breve in consiglio dei ministri. Toghe e governo, il duello dei deboli di Stefano Folli La Repubblica, 1 dicembre 2023 Quanto è forte la magistratura, nelle sue correnti più agguerrite, per reggere una ripresa dello scontro con la politica, o meglio con il destra-centro oggi al governo? E quanto è determinato quest’ultimo, specie nella sua massima espressione, la premier Meloni, per accettare di aprire le ostilità in questo preciso momento? A giudicare dai fatti degli ultimi giorni, anzi delle ultime ore, più che di una guerra si dovrebbe parlare di una guerriglia: la magistratura compie azioni di disturbo e lancia segnali, come il rinvio a giudizio del sottosegretario Delmastro, abbastanza insidiosi ma non tanto da far precipitare la situazione. E il governo, stavolta nella persona del ministro Guardasigilli, Nordio, e non di Crosetto, parla di una Costituzione che non può essere eterna nella sua forma attuale e quindi è emendabile. Lo dice al Consiglio Superiore della magistratura, rivolgendosi direttamente al presidente Mattarella, presente ma silenzioso. Eppure appare chiaro che il ministro si guarda bene dall’affondare i colpi, evita con cura di gettare benzina sul fuoco. La tesi della congiura anti-governo, adombrata giorni fa dal ministro della Difesa, e peraltro da lui stesso già parecchio corretta, non è stata tenuta in alcun conto da Nordio. Se l’avesse in qualche misura raccolta e riproposta nella sede del Csm, non parleremmo più di guerriglia, bensì di guerra aperta. Invece niente di tutto questo. Il richiamo alle riforme costituzionali è generico, il tono è adatto a un convegno di studi sull’attualità della Carta costituzionale più che ad un intervento previsto come molto denso sul piano politico. Tanto più che il presidente della Repubblica in passato aveva usato parole dure, sia verso certe pratiche del Csm, sia verso l’attività di magistrati che agiscono “in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura”. Se ne deduce che introdurre alcune riforme per una giustizia più efficiente non è una bizzarria; e del resto abbiamo avuto, sia pure con grande fatica, la legge Cartabia, considerata da qualcuno un attacco alla magistratura e da altri un rimedio troppo blando. Ora Nordio parla di Costituzione da rinnovare eppure sembra quasi immobile sul punto cruciale della separazione delle carriere dei magistrati. Mesi fa ne parlava come di un’assoluta priorità, poi ha rinviato tutto a dopo la riforma del “premierato”, da ultimo è tornato a proporre l’innovazione, ma in un quadro di “leale collaborazione” con le toghe. E soprattutto “senza rendere il pubblico ministero soggetto al potere politico”: il che sembra impossibile a un certo numero di giuristi di primo piano. Cosa sta succedendo? Si direbbe che la presidente del Consiglio non abbia alcun desiderio di una guerra con i magistrati. La guerriglia le basta e, anzi, se potesse la eviterebbe volentieri. Al suo ministro della Giustizia ha raccomandato prudenza in dosi talmente massicce che il percorso della riforma si è bloccato. Tutto questo dipende dal caso Delmastro? Probabilmente no, o almeno non solo, tuttavia il segnale è arrivato e sembra strano che nessuno l’avesse messo nel conto. Di fatto la politica si dimostra ancora una volta troppo debole per procedere a una riforma di tale portata. Quanto alla magistratura, si chiude a riccio perché teme (a torto, come si è visto) l’offensiva di una destra non più berlusconiana. Il fondatore di Forza Italia rinunciò di fatto a una riforma radicale della giustizia illudendosi di avere in cambio una sorta di salvacondotto per sé e le sue aziende. Ne ricavò invece il cosiddetto assedio giudiziario da parte di una magistratura che si sentiva senza dubbio investita di una missione, e quindi era più forte rispetto a quella di oggi. Governo-toghe, una guerra fredda iniziata in estate di Rocco Vazzana Il Dubbio, 1 dicembre 2023 Dopo le parole di Crosetto, il caso Delmastro. E ora l’opposizione chiede le dimissioni del sottosegretario. Non è dato sapere se il ministro della Difesa Guido Crosetto si riferisse al rinvio a giudizio per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro quando, pochi giorni fa, aveva confessato al Corriere della sera le sue preoccupazioni per un nuovo, si fa per dire, protagonismo politico delle toghe. Di certo, le tempistiche alimentano le chiacchiere e i sospetti. E la guerra latente tra potere esecutivo e giudiziario si fa sempre più calda. Perché se quello di Crosetto voleva essere una sorta di attacco preventivo, cautelativo per certi aspetti, alla magistratura si può dire non abbia sorbito gli effetti sperati, anzi. I giudici vanno dritti per la loro strada, così come la politica: Delmastro dovrà affrontare un processo per rispondere all’accusa di aver spifferato al suo compagno di partito e di appartamento Giovanni Donzelli informazioni riservate, ma non dovrà rinunciare a nessun incarico di governo. I Fratelli d’Italia e la premier Giorgia Meloni fanno infatti quadrato attorno al sottosegretario che resta al suo posto, nonostante le proteste delle opposizioni. Delmastro gode ancora della fiducia e della solidarietà della maggioranza. E perché non dovrebbe, visto che fin dall’inizio di questa storia, nel luglio scorso, ben prima delle dichiarazioni di Crosetto, la linea del governo è sempre stata la stessa? “È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione”, avevano fatto sapere “anonime” fonti di Palazzo Chigi la scorsa estate, quando la gip Emanuela Attura aveva deciso di procedere con l’imputazione coatta nei confronti di Delmastro. E ancora: è lecito domandarsi se una fascia della magistratura “abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”, attaccavano le “anonime fonti”, prima di rivelarsi, qualche giorno dopo, nella persona della presidente del Consiglio. Parole dure, che avevano indotto AreaDg, la corrente progressista delle toghe, a depositare al Csm una richiesta di pratica a tutela della giudice finita nel mirino dell’esecutivo. È quello lo sparo di Sarajevo. È quello l’inizio ufficiale del conflitto tra poteri dello Stato. Un confronto aspro, proseguito tra fasi calde e fasi fredde, con alcuni picchi registrati pochi mesi fa, quando, nel mirino di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni finisce la giudice Iolanda Apostolico, “accusata” di aver smantellato con il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di quattro cittadini tunisini nel cpr di Pozzallo. Se il ministro delle Infrastrutture provvede col suo stile a screditare Apostolico, diffondendo in rete alcuni video (di provenienza mai chiarita) che la ritrarrebbero tra i manifestanti filo migranti al porto di Catania, la premier usa i social network per dirsi “basita” dalla scelta di una giudice di scagliarsi “contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. Altre barricate dell’Anm, altra richiesta di pratica a tutela, altra risposta compatta delle toghe. Provvedimenti analoghi a quelli della giudice Apostolico vengono adottati infatti anche dai tribunali di Bologna e Firenze. A differenza dell’era berlusconiana, protagonisti dello scontro non sono governo e pm ma governo e giudici. Con le dichiarazioni del ministro Crosetto sulla “opposizione giudiziaria”, però, il fronte si allarga. Così tanto da spingere persino la minoranza parlamentare a uscire dal torpore e chiedere le dimissioni di Delmastro dopo il rinvio a giudizio. Ma il diretto interessato, sostenuto dal suo partito, non ha alcuna intenzione di concedere passi indietro. “Intendo continuare ad esercitare il mio ruolo, al meglio, all’interno del ministero della Giustizia. Così come mi è stato chiesto dai tanti che in questo momento mi stanno testimoniando solidarietà per questo inconsueto rinvio a giudizio”, dice il sottosegretario, puntando il dito contro la scelta del tribunale, contraria a quanto richiesto dalla procura: l’archiviazione. “Tradizionalmente la pubblica accusa si oppone alla difesa: in questo caso sosterranno la stessa tesi, cioè che non c’è reato, come ribadito ieri dal pubblico ministero in udienza, ma il Gup com’è nel suo diritto ha deciso in un altro modo”, dice, marcando lo stesso concetto Tommaso Foti, capogruppo FdI alla Camera. “A quanto pare, per la sinistra non vale neanche la sentenza di primo grado vale, ma vale solo la richiesta di rinvio a giudizio”, aggiunge Foti, preso finalmente da un improvviso impeto di garantismo. Ma Riccardo Magi di +Europa ribatte: “Abbiamo chiesto le dimissioni di Delmastro già prima del rinvio a giudizio”, dice l’esponente d’opposizione. Che poi aggiunge: “Meloni smetta di difendere l’indifendibile e Delmastro si dimetta”. La maggioranza ha i numeri per respingere qualsiasi eventuale mozione di sfiducia nei confronti del sottosegretario. Ma per lo scontro con la magistratura i numeri in Parlamento non bastano. Giudici o politici a latere? di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 1 dicembre 2023 La denuncia del ministro Crosetto sulla “opposizione giudiziaria” ha suscitato critiche. Ma nei sistemi democratici la funzione di “contropotere” della magistratura esiste. Come distinguere i ruoli. Le accese polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro Crosetto al Corriere della sera ripropongono l’annosa e controversa questione della politicizzazione della magistratura o, comunque, del ruolo politico da essa svolto all’interno del sistema politico complessivo. Finora non sappiamo - e, forse, non sapremo mai - se, nel denunciare il pericolo di possibili attacchi all’attuale governo da parte di una “opposizione giudiziaria” in funzione antagonista, Crosetto alludesse a rischi concreti derivanti da qualche specifica indagine in corso o enunciasse un timore astratto basato sulla storia politico-giudiziaria degli ultimi decenni. Una storia che, come sappiamo, è tutt’altro che priva di elementi sintomatici a supporto della convinzione, o comunque del fondato sospetto che una parte almeno dei magistrati penali abbia potuto aprire indagini e celebrare processi - al di là del fine istituzionale di perseguire reati - con 1’ aggiuntivo proposito improprio di utilizzare la giustizia penale per scopi politici, vale a dire per porre in crisi governi sgraditi o per promuovere più in generale il rinnovamento dei ceti dirigenti e la moralizzazione collettiva. A volte, andando alla preventiva ricerca - in base al pregiudizio ideologico (tipico in origine della corrente associativa di Md, ma poi estesosi fuori dai suoi confini) che il principale compito della giurisdizione consista nell’esercitare un controllo di legalità sull’esercizio dei pubblici poteri - di reati eventuali o possibili, piuttosto che partendo da concreti indizi di ben profilate ipotesi delittuose - il che può, d’altronde, contribuire a spiegare l’elevato numero di proscioglimenti e assoluzioni di imputati appartenenti al ceto politico o alla variegata categoria dei colletti bianchi. La cronaca abbonda di esempi riportati anche su questo giornale, per cui possiamo astenerci dal farne. Certo, è difficile distinguere, di caso in caso, tra indagini indebite accese per mera imperizia tecnica e indagini motivate invece dal prevalente perseguimento di fini politici. Ma, ove risultasse davvero dimostrabile una finalità politica predominante, varrebbe senz’altro anche per i magistrati d’accusa un principio prospettato, più in generale, dalla Cassazione in materia di abuso funzionale: il principio cioè secondo cui rappresenta una illecita deviazione dai fini istituzionali il perseguimento, nel concreto esercizio di una funzione pubblica (nel nostro caso la funzione giudiziaria), di obiettivi difformi da quelli per i quali il potere d’intervento è stato legalmente attribuito. Insomma, un’indagine aperta per motivi di opposizione politica, ma priva di sufficienti presupposti tecnici, integrerebbe forme di abuso sanzionatile. A questo punto, vi è però da chiedersi se si possa parlare di “opposizione giudiziaria” in una accezione diversa e meno condannabile, ancorché pur sempre non priva di profili problematici. Per quanto paradossale possa a prima vista apparire, la possibilità di attribuirvi un senso differente emerge implicitamente, ad esempio, da una intervista rilasciata a Repubblica (del 28 novembre scorso) proprio da uno dei magistrati che si sono affrettati a contestare la denuncia di Crosetto, cioè Eugenio Albamonte (pm a Roma ed ex segretario di Area). Richiamo in particolare questa sua affermazione: “(...) il governo, investito di un ampio consenso maggioritario, pensa che le toghe debbano obbedire alla sua linea politica e non rispettare la Costituzione e le fonti sovranazionali”. Orbene, affiora da queste parole l’idea (che, beninteso, è diffusa tra i magistrati ben al di là della corrente magistratuale di sinistra di cui Albamonte è stato presidente) che le toghe siano non solo legittimate, ma tenute a contrastare la politica del governo ove ravvisino un contrasto tra quest’ultima e i principi del costituzionalismo nazionale o sovranazionale. Si attribuisce così, dunque, al potere giudiziario una funzione oppositiva, contestatrice o antagonista, che dir si voglia. E la domanda che incombe è questa: si tratta di una “opposizione giudiziaria” in nome della Costituzione esercitabile in termini di stretto diritto, o basata in qualche modo e misura anche su valutazioni di tipo sostanzialmente politico? (Nel porre l’interrogativo, mi riferisco - è forse superfluo precisarlo - a una accezione di “politica” che è diversa da quella usuale della politica partitica che si svolge nell’ambito dei governi e dei parlamenti e che si basa sul consenso e la competizione elettorale: alludo a un concetto più lato di politica quale sfera che riguarda le scelte di valore, gli obiettivi, le preferenze e le deliberazioni su come progettare e attuare modelli di convivenza umana e che, come tale, trascende l’attività dei politici di professione e finisce col coinvolgere gli stessi cittadini comuni). A ben vedere, la risposta è nel senso della seconda alternativa per le ragioni che provo a sintetizzare. Innanzitutto, premetto che la concezione di vecchia ascendenza illuminista - non di rado riecheggiata pure in alcuni interventi su questo giornale - che pretenderebbe di confinare i giudici nel ruolo di “bocca della legge”, cioè di quasi esecutori passivi (se non di servi sciocchi!) della volontà legislativa espressa dai decisori politici di turno, è non solo un retaggio ideologico superato dai tempi; essa non ha mai fatto realisticamente i conti con quello che i magistrati effettivamente fanno nell’interpretare e applicare disposizioni normative: l’interpretazione giudiziale è per sua natura - piaccia o non piaccia - un’attività inevitabilmente caratterizzata da spazi più o meno ampi di discrezionalità e, per di più, non esente da momenti ‘creativi’ (salvo, poi, mettersi d’accordo su significato e limiti di questa creatività giurisprudenziale: questione complessa e controversa che qui non può essere affrontata). Ciò è tanto più vero, quanto più è andata diminuendo negli anni la capacità dei legislatori di definire norme chiare e di contenuto univoco. Ha scritto già più di un ventennio fa ad esempio Gaetano Silvestri, valente costituzionalista tutt’altro che sospettabile di tentazioni eversive del diritto legislativo: “La frammentazione dell’ordinamento positivo, la carenza di scelte chiare del legislatore, la compresenza nella stessa legge di anime contrastanti, mal conciliate dalla confusa, e spesso rozza, sutura dei numerosi emendamenti (...) costringono il giudice a dare alla legge un senso destinato ad urtare una delle sue anime ed i relativi sostenitori. In questa opera di precisazione, il giudice sarà certamente guidato dalle sue opinioni politiche, ideali, sociali”. Orbene: in questo complesso orizzonte di riferimento, è il giudice-interprete che desume dalla legge scritta, sulla base di opzioni politico-valutative anche a carattere soggettivo, la ‘norma’ reale da applicare ai casi oggetto di giudizio. Ma vi è di più. L’apporto conformativo e la dimensione soggettiva dell’interpretazione giudiziale sono destinati a crescere quando sono in gioco le disposizioni della Costituzione, e in particolare quelle che richiamano principi o valori generalissimi e di contenuto indeterminato o vago (come ad esempio libertà, uguaglianza, dignità umana e simili), la cui concretizzazione interpretativa difficilmente può essere posta del tutto a riparo da pre-comprensioni e opzioni valoriali a loro volta condizionate dal previo orientamento politico- ideologico e dalla sensibilità personale dei vari interpreti; e questo condizionamento soggettivo è inevitabile - non ultimo - al momento di effettuare le operazioni di cosiddetto bilanciamento, tipiche della giurisprudenza costituzionale, tra principi o valori confliggenti. Non vorrei fare troppo il professore, ma sono in buona compagnia nel rilevare che è stato proprio il passaggio dal vecchio Stato legislativo ottocentesco alla democrazia costituzionale contemporanea ad avere sia potenziato il ruolo e il peso del potere giudiziario, sia fatto emergere un tendenziale suo maggiore antagonismo verso il potere politico ufficiale: in chiave cioè di `contropotere’ nei confronti di Parlamento e governo, tutte le volte in cui le decisioni politiche adottate con logica maggioritaria si pongano in contrasto con regole, principi o valori costituzionali; un ruolo, non a caso, etichettato in sede dottrinale come anti-maggioritario o contro-maggioritario. Corrispondentemente, si è assistito ormai da non pochi anni, nei paesi a democrazia costituzionale, a una diffusa tendenza della giurisdizione a fungere da principale istanza tutrice di diritti o promotrice di nuovi diritti, atteggiandosi essa così a canale alternativo e supplementare rispetto ai circuiti politico-partitici, divenuti sempre meno capaci di soddisfare le aspettative di tutela e di giustizia dei cittadini, e specie di quelli appartenenti ai ceri sociali più svantaggiati. Da qui l’assunzione da parte dei giudici di una funzione - appunto - latamente politica, volta a correggere o integrare gli esiti di decisioni politico- legislative confinate in chiuse logiche maggioritarie (un siffatto ruolo politico, beninteso, riguarda in primo luogo la giurisdizione costituzionale e civile, e non può essere automaticamente esteso alla giustizia penale, soggetta - ameno in teoria - a maggiori vincoli in chiave di riserva di legge parlamentare). Ora, se inteso nel suddetto quadro di riferimento, escluderei che il concetto di “opposizione giudiziaria” sia inaccettabile perché - come ha obiettato il presidente dell’Anm Santalucia - equivarrebbe a una aberrazione eversiva o a un fenomeno inquietante sul piano costituzionale: opposizione giudiziaria può divenire invece un concetto legittimo se lo si usa come equivalente della funzione di contropotere (nel senso di cui sopra) che il potere giudiziario assolve nell’ambito delle democrazie costituzionali odierne. Tutto normale e pacifico, dunque? Fino a un cero punto. In verità, non sempre risulta agevole distinguere l’interpretazione correttiva o integratrice secondo Costituzione dalla tentazione di un interventismo e di una supplenza politica che pretendano pregiudizialmente di contrapporre autonome politiche giudiziarie del diritto alle politiche del diritto decise in sede parlamentare e/o governativa, avversate da giudici contestatori perché ritenute timide, insufficienti, troppo compromissorie o comunque poco condivisibili nei contenuti (se una tale tentazione - come può pure accadere - prendesse a volte il sopravvento, ci troveremmo di fronte ad una opposizione politica per via giudiziaria decisamente illegittima perché contrastante con i fini della giurisdizione e contraria al principio della divisione dei poteri. E questa oggettiva difficoltà di distinzione mai potrebbe indurre ad avallare il libertinaggio ermeneutico, ancorché sorretto da buone intenzioni. Si avverte piuttosto come ineludibile una esigenza di misura, di self restraint per non cancellare quelle pur sottili linee di confine tra politica e diritto, il cui mantenimento rientra tra i presupposti essenziali di uno Stato di diritto degno di questo nome. Una esigenza di contenimento che difficilmente, peraltro, può essere imposta alla magistratura dall’esterno o per comando autoritativo. Come non mi stanco di ribadire (cfr. il mio precedente intervento sul Foglio del 9 maggio scorso), è soprattutto una questione di cultura del diritto e della giurisdizione, sulla quale incidono una pluralità di fattori a carattere sistemico, a cominciare invero dalla qualità della cultura e dell’agire delle forze politiche di governo. Da questo punto di vista, una buona politica contribuisce senz’altro a una buona giurisdizione (sembra più difficile, invece, che possa accadere il contrario). “Mai un pm si troverà assoggettato al governo, neanche con le riforme”. Parola di Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 1 dicembre 2023 Il ministro al Csm tesse la pace. Ma AreaDg rilancia la polemica. “Tutti sanno che a questo mondo non vi è nulla di eterno tranne le parole del Signore, il resto è mutevole, anche la Costituzione. Ma posso assicurare che se un domani dovesse essere cambiata la Costituzione mai ci sarebbe una soggezione del pm al poter esecutivo”. Così il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella sua prima visita al Consiglio superiore della magistratura, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella che ha presieduto il plenum straordinario. Il guardasigilli sembra essere andato in pace a Palazzo dei Marescialli dopo le feroci polemiche di questi ultimi giorni, dalle dichiarazioni del ministro Crosetto fino al rinvio a giudizio del sottosegretario Delmastro. “Troppo importante per chi vi parla - ha detto il guardasigilli - è contribuire a rinsaldare il rapporto di fiducia della collettività nei confronti della magistratura, uno dei pilastri dello Stato di diritto”, passando per una ““imparzialità spassionata e distaccata” con cui il giudice, secondo Piero Calamandrei, deve presentarsi all’opinione pubblica”. E qui probabilmente il riferimento è alla Apostolico. Poi un augurio ai Consiglieri: “Uno dei principi costituzionali che auspico possa connotare ogni segmento del mio servizio: la leale collaborazione”. Parole rasserenanti che si rintracciano anche nel passaggio successivo: “La collaborazione tra Csm e ministro è la chiave per restituire al Paese una giustizia sempre più vicina ai bisogni della collettività”. Il ministro è poi passato a illustrare i due decreti attuativi della riforma Cartabia: quello sui fuori-ruolo e quello sull’ordinamento giudiziario. Rispetto al primo ha detto: “Si arriva a una proposta, a mio parere equilibrata”, quando invece dall’avvocatura, in primis dal Cnf, non sono mancate critiche per la diminuzione risibile dei fuori-ruolo da 200 ad appena 180. Riguardo al secondo pacchetto, Nordio si è soffermato sulla questione delle pagelle del magistrato, altamente stigmatizzato dalle toghe: “Sul piano della professionalità si è valorizzata prioritariamente la qualità della produzione giudiziaria del magistrato, con una attenzione specifica alla trasparenza e alla tempestività delle procedure”. Intanto, il coordinamento nazionale di AreaDg esce con una nota polemica: “Sono giorni che esponenti della attuale maggioranza parlamentare insinuano di trame politiche e riunioni clandestine organizzate da non meglio precisate parti della magistratura”. Eppure “c’è stata una riunione, pochi anni fa, fra politici e magistrati, di tarda sera, in un hotel dal nome effervescente”. Allo Champagne “si discuteva di nomine in importanti uffici giudiziari, protagonisti di inchieste giudiziarie con indagati eccellenti. La notizia della riunione ha per mesi scandalizzato l’opinione pubblica italiana”. Ma “il protagonista di quella vicenda (Luca Palamara, ndr), radiato dalla magistratura, è diventato il fustigatore della magistratura italiana in trasmissioni televisive e giornali, editi da ambienti vicini all’attuale maggioranza parlamentare. Un altro dei protagonisti (Cosimo Ferri, ndr), da sempre a metà del guado fra magistratura e politica, è stato chiamato fuori ruolo dal ministro della giustizia espressione dell’attuale maggioranza parlamentare”. “Un altro (Angelantonio Racanelli, ndr) che era informato ed interessato agli sviluppi della vicenda è stato proposto per un ufficio direttivo con il voto dei componenti laici eletti in quota all’attuale maggioranza parlamentare”. Conclude la nota: “È tempo di pagella per i magistrati. Ci faccia capire la politica! Sono da bocciare i magistrati che in riunioni pubbliche discutono di diritti e garanzie, mentre si devono promuovere solo quelli che, in luoghi riservati, si riuniscono per pilotare le nomine dei dirigenti dei più importanti uffici giudiziari?”. Il clima è sempre più sereno. Contrordine di Meloni, davanti al Csm Nordio cancella il complotto di Giulia Merlo Il Domani, 1 dicembre 2023 Sotto gli occhi di Mattarella il ministro ha usato toni pacati e concilianti. Ha parlato di “leale collaborazione” e ha evitato i temi più divisivi. Dopo giorni di burrasca, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è adoperato per cercare di far tornare il sereno con la magistratura. La decisione ha avuto una regia di palazzo Chigi: la premier Giorgia Meloni, preoccupata per l’escalation degli ultimi giorni, avrebbe concertato con il suo guardasigilli una strategia per chiudere lo scontro. Così, davanti al plenum straordinario del Csm, presieduto per l’occasione dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Nordio ha scelto toni estremamente pacati e parole concilianti, per un intervento di quindici minuti da cui sono stati chirurgicamente espunti gli argomenti più divisivi: dalla separazione delle carriere al sorteggio per l’elezione del Csm fino alle intercettazioni. Anzi, ha insistito sulla necessità di “leale collaborazione” e addirittura è stata avanzata la proposta di chiedere al Consiglio pareri aggiuntivi “sugli schemi di decreti legislativi e decreti ministeriali”, visto che oggi l’attività legislativa ordinaria del parlamento è passata quasi in secondo piano rispetto all’iniziativa dell’esecutivo. Alla fine del suo intervento, quello che ha parlato a palazzo dei Marescialli non sembra nemmeno lo stesso Nordio che, solo il giorno prima, dava ragione al collega Guido Crosetto sui rischi dell’”opposizione giudiziaria” e tuonava contro “gli atteggiamenti di alcuni magistrati”, sostenendo che le “ferite aperte dallo scandalo Palamara non si sono mai rimarginate” e che “i sospetti sono rimasti”. Il dietrofront più significativo ha riguardato la riforma della separazione delle carriere, che il governo ha rimandato a dopo l’approvazione del premierato (dunque di almeno due anni) ma che in seguito alla polemica accesa da Crosetto è stata richiamata a gran voce soprattutto da Forza Italia. Nordio - che da editorialista ha sempre sostenuto la necessità della separazione ma che da ministro l’ha subordinata agli obiettivi più impellenti del governo - ha scelto di non citarla nella sua relazione, limitandosi ad approfondire i provvedimenti più recenti appena approvati. Poi, solo nella replica, ha detto che “se domani cambierà la Costituzione nella parte che riguarda la magistratura, mai e poi mai il pm sarà sottoposto all’esecutivo”. Un “se” che è risuonato forte e chiaro nell’aula. Anche se, ha aggiunto, “in Francia, dove i pm dipendono dall’esecutivo, uno di loro ha chiesto il processo per il ministro della Giustizia. A dimostrazione che l’autonomia è una grande conquista istituzionale ma, prima di tutto, a guidare il magistrato è la sua legge morale”. Il Quirinale - La seduta, di un’ora precisa, si è svolta sotto l’occhio attento di Mattarella, il quale l’ha presieduta senza però intervenire nemmeno in apertura con qualche breve considerazione. Un silenzio, quello del Colle, che però è suonato tanto più eloquente davanti ai toni pacati utilizzati da Nordio. Come sempre con le questioni che riguardano la giustizia - di cui il capo dello stato è terminale proprio in quanto presidente dell’organo di governo autonomo delle toghe - Mattarella ha seguito attentamente il dibattito e anche lo scontro tra Crosetto e l’Anm. Adombrare congiure antidemocratiche da parte delle toghe (oggi il ministro della Difesa riferirà in aula alla Camera rispondendo a una interpellanza urgente) non poteva passare inosservato al Quirinale, come anche l’intervento a sostegno del collega fatto dal ministro della Giustizia. Del resto, il caso Palamara richiamato da Nordio ha investito violentemente il precedente Csm, e Mattarella è stato protagonista nel gestire la situazione. All’indomani dello scandalo il presidente era intervenuto per riparare l’organo dalla tempesta che gli si era abbattuta contro, e in tutti i suoi interventi successivi davanti alle toghe non ha mai mancato di richiamarle ai loro doveri costituzionali e deontologici dopo la crisi di fiducia provocata dal caso. Fonti del Quirinale escludono che il Colle abbia esercitato una moral suasion nei confronti del ministro della Giustizia per ispirare un abbassamento dei toni, tuttavia la nuova posizione dialogante del ministro non può che essere accolta in modo positivo. Il dibattito - Durante il plenum, gli interventi dei consiglieri hanno però evidenziato quali e quante siano le frizioni tra giustizia e politica: in particolare, la volontà dell’esecutivo di imporre alla magistratura un’interpretazione quanto più letterale possibile della legge, all’indomani del caso Apostolico. La togata di Magistratura democratica Domenica Miele ha sottolineato come “il principio di soggezione solo alla legge impone di adottare provvedimenti senza cedere a interessi o a opinioni dominanti. La tutela delle persone, infatti, vale anche nei confronti dei poteri pubblici, anche quando sostenuti dalla forza del consenso”, e Tullio Morello di Area ha aggiunto che “stanno arrivando moniti costanti perché l’interpretazione della legge sia letterale, ma non possiamo dimenticare come a quel canone si aggiungono l’interpretazione sistematica e teleologica, nella complicatezza di un ordinamento multilivello”. Plauso al ministro invece è arrivato da Paola D’Ovidio, dei conservatori di Magistratura indipendente, che ha sostenuto che “per aumentare l’efficienza bisogna investire sulla specializzazione dei magistrati”. A riprova di come il Csm veda una presenza attiva molto forte da parte dei laici di centrodestra, da loro sono arrivati i due interventi più politici. Enrico Aimi di FI ha detto che “il magistrato non può stravolgere le leggi o creare nuovi diritti, indossando i panni di avanguardia militante dei propri ideali”, e ha chiesto al ministro di “non procrastinare più la separazione delle carriere”. Felice Giuffrè, di FdI, ha sottolineato che “la magistratura deve essere ossequiosa della separazione dei poteri e dei confini, anche nelle tecniche di interpretazione degli atti normativi approvati dal parlamento”. La seduta si è conclusa con l’intervento del vicepresidente, il laico di centrodestra Fabio Pinelli, che ha ricordato i meriti del Csm nel ridurre l’arretrato e i tempi di vacanza degli incarichi direttivi, ma si è anche incaricato di chiedere a Nordio di “ricordare alla politica che dobbiamo confrontarci con reciproco rispetto”. Al plenum del Csm Nordio fa il buono davanti a Mattarella di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 dicembre 2023 Il ministro prova a schivare le polemiche, ma la sinistra lo punge. Intanto il caso Delmastro continua ad agitare la maggioranza. La strada che prima o poi porterà alla riforma della giustizia è lastricata di buone intenzioni e di cattivi pensieri. Le prime sono quelle di Nordio, che ieri al plenum straordinario del Csm ha tentato la distensione con la giurisdizione sotto gli occhi di Sergio Mattarella. I secondi sono di una parte molto consistente della maggioranza, convinta che l’offensiva giudiziaria si manifesterà implacabile alla vigilia delle europee e già furiosa per il rinvio a giudizio del sottosegretario Andrea Delmastro, difeso a spada tratta come un eroe del libero pensiero (e della libera circolazione di documenti riservati). Nordio si è presentato davanti ai togati e ai laici del Csm rassicurandoli sia sul piano delle spese (saranno rinnovati i contratti ai precari dell’ufficio del processo) sia sul piano dell’azione politica: “A questo mondo non vi è nulla di eterno tranne le parole del Signore. Il resto è mutevole. E cosi è la Costituzione. Ma posso assicurare che se un domani dovesse essere cambiata per quanto riguarda l’assetto della magistratura, mai e poi mai vi sarebbe una soggezione anche minima del pm al potere esecutivo”. Non una parola sulla separazione delle carriere, anche se tutti sanno che presto o tardi è lì che andrà a parare il governo. Mattarella, che ha presieduto la seduta del plenum, non si è espresso. Non che qualcuno se lo aspettasse, ma la sua irritazione per le ultime polemiche innescate dall’intervista rilasciata da Guido Crosetto domenica scorsa al Corriere è materia di discussione tra le toghe. Lo sgarbo istituzionale, infatti, è evidente: il Capo dello Stato è anche il presidente del Csm e la delegittimazione a mezzo stampa della giurisdizione lo tira in ballo direttamente. Nordio tutte queste cose le sa e infatti ha detto meno della metà delle cose che pensa davvero, nel tentativo di separare il dibattito dalle polemiche. La togata di Magistratura Democratica Domenica Miele, però, ha rimesso al centro la questione di cui la sinistra giudiziaria discute da mesi, e cioè il ruolo della giurisdizione in un momento in cui la tendenza alla deriva plebiscitaria è dichiarata: “La tutela delle persone vale anche nei confronti dei poteri pubblici, anche quando sostenuti dalla forza del consenso”. Tullio Morello, di Area, ha fatto presente che la spinta all’interpretazione letterale delle leggi non basta in un ordinamento a più livelli come quello dell’Italia, che nonostante tutto continua ad essere un paese europeo. Da Magistratura Indipendente, la destra del Csm, è sì arrivata una sponda al governo, ma senza dire granché sulla riforma. Per la consigliera Paola D’Ovidio, infatti, le priorità sono due: la specializzazione dei magistrati e una revisione della geografia giudiziaria “per risolvere il problema dei tribunali troppo piccoli”. Come sempre, i toni più alti li hanno usati i laici. Enrico Aimi (Forza Italia): “Il magistrato non può stravolgere le leggi o creare nuovi diritti, indossando i panni di avanguardia militante dei propri ideali”. Felice Giuffrè (Fratelli d’Italia): “La magistratura deve essere ossequiosa della separazione dei poteri e dei confini, anche nelle tecniche di interpretazione degli atti normativi approvati dal parlamento”. Un riferimento esplicito al caso della giudice Apostolico e alla sua disapplicazione del decreto Cutro, questione peraltro ancora aperta. A chiudere la girandola di interventi, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, laico di centrodestra. Dopo il solito elenco di mancanze e di richieste, un invito a Nordio: “Ricordi alla politica che dobbiamo confrontarci con reciproco rispetto, perché in democrazia convivono il soggetto che fa le regole e l’altro che ne controlla il rispetto”. Qui l’allusione è a Crosetto, che stamattina sarà alla Camera per rispondere a un’interrogazione di + Europa sui complotti giudiziari che evocati sul Corriere. Pace fatta? Non proprio, il processo a Delmastro continua ad agitare le acque della maggioranza: nessuno aveva dubbi sul fatto che sarebbe arrivato un rinvio a giudizio e la difesa del sottosegretario è di quelle deboli: “La procura voleva proscioglierlo, il gup ha deciso diversamente. È un fatto strano”, dicono in molti, fingendo di non conoscere la procedura penale. Altri si rifugiano sotto l’ombrello del garantismo, perché un processo non è una condanna e dunque le dimissioni che chiedono Pd, M5s e Avs sono irricevibili. Delmastro, in tutto questo, ostenta tranquillità. Dimissioni? “Assolutamente no. Io sono uno dei pochi imputati che andrà a processo giocando nella stessa squadra del pm che ha chiesto l’archiviazione una volta e il proscioglimento due volte”. Riccardo Magi (+Europa), dopo aver ricordato con Angelo Bonelli dei Verdi che i famosi verbali diffusi dal sottosegretario erano segreti perché a loro - che pure sarebbero deputati - non sono stati forniti, chiarisce infine che la vicenda è politica: “Il rinvio a giudizio non è una condanna ma Delmastro è inadeguato a ricoprire un ruolo così delicato”. Per questo farebbe meglio ad andare via. È tardi per due carriere, pm e giudici condividono da anni la stessa lingua di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 1 dicembre 2023 In una città del Sud, del profondo Sud. Una di quelle città assetate d’estate sol perché durante l’inverno è piovuto poco e perché le falle negli acquedotti non sono mai riparate per bene in modo da mantenere in piedi il mercato dei lavori di somma urgenza da assegnare alle ditte amiche. In una piazza agitata da un popolo esasperato, il prefetto mandato a svernare da Roma per il solito tribolato triennio nel meridione aveva convocato i responsabili dell’acquedotto comunale per chiedere loro di scavare ancora, di raggiungere nuove falde per immettere altra acqua nei pozzi. I malcapitati, dalla coda di paglia, risposero che a farlo avrebbero raggiunto il livello del mare e l’acqua salata avrebbe contaminato per sempre le sorgenti sotterranee provenienti dalla montagna. La risposta fu secca: “Perforate” e l’acqua resta salata da decenni in quella città. La contaminazione. La politica nazionale, al pari di quel prefetto insipiente, ha delegato per decenni alla magistratura, a tutta la magistratura penale del paese, il compito di fronteggiare ogni emergenza criminale: dal terrorismo all’eversione, dalle mafie alla corruzione, dalla salubrità del territorio alla decozione delle imprese. Una missione, a volte disperata, imposta dalle periodiche crisi di credibilità delle classi dirigenti e dalla percezione dell’insicurezza collettiva. Un esempio per tutti: l’omicidio del generale Dalla Chiesa portò quattro giorni dopo all’approvazione del reato di associazione mafiosa e alla confisca di prevenzione. Un caso tra cento. Lo si è detto mille volte, ma in poche occasioni si è prestata attenzione a ciò che questa delega intermittente, ma persistente, ha provocato nel sedime più profondo della giurisdizione, nell’autorappresentazione che migliaia e migliaia di magistrati hanno costruito del proprio ruolo e della propria funzione istituzionale e sociale. Un potere dello Stato - staccato per forza di cose dalla legittimazione politica e popolare - ha colto, nell’annodarsi improvviso e costituzionalmente imprevisto di queste relazioni con la committenza politica allo sbando e con l’opinione pubblica impaurita, la giustificazione per approntare una modifica genetica del proprio statuto. Tutto si tiene in questi giorni di polemiche. Un filo sottile, che a coloro che stanno accampati fuori della cittadella giudiziaria spesso sfugge, tiene insieme la destinazione fuori ruolo dei magistrati presso ministeri ed enti vari, le valutazioni di professionalità, l’unicità delle carriere, il controllo di legalità mai come oggi prepotentemente riaffermato quale missione indefettibile della corporazione. Ciascuno di questi profili, uno per uno, incide sull’autorappresentazione che la magistratura tutta - giudicante e inquirente - ha costruito della propria mission istituzionale per come impostasi nella Costituzione materiale del paese e questo, si badi bene, non in forza di complotti o golpe, ma grazie a una mera cessione di sovranità da parte della politica e, spesso, in forza del compiacente vassallaggio di una stampa che, da ostile cane da guardia di ogni potere, si è curata di accucciarsi ai piedi di troppe toghe. La battaglia per la separazione delle carriere è, probabilmente, una lotta di retroguardia, stantia, inutile come, in fondo, finisce per riconoscere lo stesso ministro Nordio quando afferma che la separazione delle carriere sarebbe stata consustanziale al Codice Vassalli del 1988, imposta dal rito accusatorio. Quarant’anni di ritardo sono un gap incolmabile, un distacco irrecuperabile come proporsi di dissalare le falde di quella sfortunata città del Sud. Ha ragione qualche prestigioso pubblico ministero quando pretende di sottrarsi alla valutazione circa l’esito dei propri processi affermando che si è limitato a formulare richieste di cattura o di condanna e che sono stati i giudici a procedere, ad ammanettare, a condannare. È un gesto, sia consentito dirlo, di una qualche onestà intellettuale che, tuttavia, evidenzia quando convergenti siano ormai la cultura inquirente e quella giudicante, quanto profonda la contaminazione che si è realizzata in questi decenni nell’approccio al processo e alle sue finalità. E questo non è il frutto della sbandierata volontà egemonica di cui si accusa una parte della magistratura o di mere suggestioni mediatiche (al limite, spesso, dell’adorante propaganda) in favore di certi uffici o di singole toghe. L’emergenza, le emergenze hanno inevitabilmente chiamato tutti alle armi, pubblici ministeri e giudici, rendendo lasco, flou, il controllo giurisdizionale e, si ripete, non per connivenza o soggezione, ma per il peggiore dei pasticci: per una condivisione intima nella lettura storica, sociale, politica e criminale della società italiana resa capillare dall’attività indispensabile delle correnti e dalla stessa formazione curata dalla magistratura nelle sue articolazioni centrali e periferiche. La giurisdizione è un cuore pulsante, un apparato vitale in continua evoluzione, un centro spesso raffinato di elaborazioni anche complesse cui la governance politica del paese ha assegnato una centralità che, ora (e non solo ora), spaventa, mette in fibrillazione, inquieta i reggitori politici dello Stato. Insomma la magistratura ha un’ideologia nel senso più alto e nobile del termine che, poi, è anche la fonte delle degenerazioni autarchiche che si sono scoperte dopo decenni di tolleranza con l’accettazione di selezioni e cooptazioni opache. L’omologazione dei criteri di interpretazione delle prove, l’affermazione di protocolli sanzionatori a maglie larghe come le misure di prevenzione, la tendenziale annessione di porzioni autorevoli e apicali della magistratura inquirente nelle strutture di sicurezza governativa, il successo dei modelli culturali e mediatici di interpretazione delle mafie, della corruzione costituiscono un plesso difficile da espugnare o anche solo riorientare. La separazione per Costituzione delle carriere che - come ricorda l’Anm - si è di fatto realizzata con il diradarsi negli anni delle trasmigrazioni dal ruolo giudicante a quello inquirente, non è solo opinabile, ma a questo punto in larga misura anche inutile. Potrà soddisfare le istanze egalitarie dell’avvocatura penale, mitigare qualche contiguità di troppo, recare benefici tra un paio di decenni, ma non è in grado di alterare l’osmosi culturale e ideologica della corporazione. L’unica soluzione praticabile potrebbe essere quella di imporre percorsi formativi ravvicinati, se non in buona parte congiunti, tra le professioni giudiziarie in modo tale che una nuova, profonda contaminazione si possa realizzare tra tutti i protagonisti del processo penale. L’acqua resterà salata per un pezzo, ma qualche potabilizzatore si potrà pur piazzarlo. La convinzione sbagliata e pericolosa di far rispettare la legge, anziché di limitarsi ad applicarla di Iuri Maria Prado Il Foglio, 1 dicembre 2023 Il magistrato non è né un carabiniere, né un vigile urbano. Spetta a loro, non al potere giudiziario, assicurare il rispetto delle leggi. Non sarà, forse, “il” problema dell’amministrazione della giustizia, visto che questo comparto della cosa pubblica ne ha tanti e tutti molto gravi: ma certamente è una questione molto rilevante, che in modo inavvertito ha contaminato in profondità il senso comune della giustizia e il rapporto tra la giurisdizione e la società, tra la magistratura e i cittadini. Si tratta dell’idea, energicamente propugnata dai ranghi più bassi a quelli più alti del potere giudiziario militante, secondo cui il magistrato avrebbe il compito di “far rispettare la legge”. L’idea, cioè, che il magistrato sia il guardiano esecutivo della legalità, preposto dunque a tenere in ordine il consorzio sociale e a controllare che non sgarri. Spesso questa convinzione sbagliatissima e pericolosa è coltivata in buona fede. Tanti, tra quelli che la fanno propria e la propugnano, e che vi si ispirano nel proprio lavoro, credono sul serio che il compito della magistratura sia quello: tenere in ordine la società, appunto, “facendo rispettare la legge”. Ma non è quello il compito della magistratura, la quale deve applicare la legge, non farla rispettare (che è cosa diversissima). A far rispettare la legge è deputato il carabiniere, il vigile urbano, non il magistrato. Quel pregiudizio culturale, quella malintesa funzione dell’azione giudiziaria fruttificano in storture non soltanto nell’inesausta attività di interferenza cui si abbandona la magistratura corporata, intralciando in modo violento e sistematico l’azione del potere legislativo e di governo: ancora, e forse più gravemente, quel vizio di origine, quel concetto pervertito della funzione giudiziaria si sviluppa nella maestosità delle indagini e dei processi moralizzanti e “rivoluzionari”, per intendersi quelli che sulla scorta del rastrellamento di trecentocinquanta persone conducono a una raffica di assoluzioni. Il fisiologico “prezzo”, secondo l’inquirente rivoluzionario, che occorre pagare se davvero si vuole rimuovere la montagna di merda che seppellisce la società malformata e la politica corrotta. Non basta. In omaggio al presunto dovere giudiziario di “far rispettare la legge”, infatti, ci si abbandona molto spesso al costume di contravvenirvi, persino rivendicando il fine salutare di quell’insubordinazione. Vedi il capannello togato che trent’anni fa, davanti a una foresta di microfoni e telecamere, denunciava i provvedimenti del governo salva-ladri mentre la folla si adunava sotto ai balconi del Palazzo di Giustizia chiedendo a quei magistrati di far sognare il popolo onesto. Vedi, trent’anni dopo, i verbali di indagine finiti nel giro di veline tra il retro di una procura della Repubblica e la tromba delle scale del Consiglio superiore della magistratura. Tutto, ovviamente, in attuazione del progetto finalistico di riordino sociale che fa da panca alle ambizioni del magistrato integerrimo, quando non eroe, insomma il funzionario magari un po’ disinibito ma dopotutto encomiabile visto che fa tutto ciò a fin di bene. Viene da quell’idea perversa l’impazzimento ormai pluridecennale che ha fatto dello Stato di diritto di questo paese una specie di desolante simulacro. Dall’idea che la magistratura non debba più maneggiare e applicare la legge, che è un “fatto” uguale per tutti e che ha valore perché obbliga tutti, e debba semmai dispensare giustizia, che invece è un “valore” mutevole secondo il criterio di ciascuno. Dispensare giustizia “facendo rispettare la legge”, e cioè trasformandosi in poliziotto, in secondino: in governo. Santalucia: “Errato parlare di scontri. Giustizia a orologeria? È una lettura malevola” di Raffaele Marmo Il Giorno, 1 dicembre 2023 Il presidente dell’Associazione dei magistrati: “Nessuna opposizione giudiziaria. Tra le istituzioni può esserci franca dialettica, nel pieno rispetto dei ruoli”. Presidente Santalucia, il ministro Nordio e il vicepresidente del Csm, Pinelli, alla presenza del Capo dello Stato, hanno siglato una nuova tregua politica-magistratura? “Il richiamo a parole come “tregua” - esordisce Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia - all’interno di una rappresentazione, molto diffusa nei media, di uno scontro politica-magistratura non aiuta a comprendere quel che accade”. E come raccontare quel che accade tra politica e giustizia, per comprenderlo meglio? “Quanti lavorano all’interno delle Istituzioni non possono inscenare scontri, contrapposizioni più o meno radicali, con i rappresentanti del mondo politico. Possono - ed io credo anche debbano - esprimere, nell’ambito dei campi che sono di loro competenza, il proprio punto di vista, informato e argomentato, sulle questioni, grandi o meno che siano, che attengono alla vita dell’Istituzione in cui operano, specie in vista di riforme destinate ad incidere sulle attività a loro demandate. Quindi, nessuna tregua perché non c’è mai stata battaglia: si tratta di una normale dialettica che vivifica la vita istituzionale”. Anche con il ministro Crosetto si sono si sono ricomposte le incomprensioni? “Con il ministro Crosetto abbiamo avuto un breve contatto e confidiamo che possa trovare quanto prima il modo di spiegare meglio, non tanto a noi che sappiamo bene che non c’è alcuna ragione per temere fantomatiche opposizioni giudiziarie, quanto alla pubblica opinione, le ragioni della sua preoccupazione. Siamo certi che quando lo farà, ogni ombra sulla Magistratura o suoi gruppi sarà fugata. Non c’è da avere alcuna preoccupazione a causa dei magistrati, perché i magistrati agiscono nel pieno rispetto dei doveri del loro ufficio, onorando il giuramento sulla Costituzione”. È fisiologico, come si sostiene, che periodicamente si manifestino scontri e polemiche tra politica e magistratura? “Qualcuno tempo fa disse che un certo grado di tensione tra i poteri dello Stato, in specie tra l’Esecutivo che cura la cosa pubblica e il Giudiziario che controlla la legalità dell’azione anche dei pubblici poteri, è in qualche modo fisiologico. Io mi limito a dire che una leale e franca dialettica non può che essere un bene, perché è dal confronto, nel reciproco rispetto delle attribuzioni, che possono venir fuori le migliori soluzioni ai tanti problemi che abbiamo di fronte”. Nel merito dei provvedimenti e della riforma, perché non vi convincono gli ultimi decreti sulle cosiddette pagelle? “La contrarietà alla riforma, per questa parte, era stata dall’Anm già illustrata qualche anno al ministro della Giustizia del tempo, la professoressa Cartabia, e alle Commissioni parlamentari, quando era in elaborazione alla legge delega a cui ora si sta dando attuazione. Sia chiaro una volta per tutte: siamo favorevoli al sistema delle valutazioni periodiche di professionalità, che esiste da tempo. Avremmo voluto che fosse migliorato e reso più efficace. Il sistema dei giudizi graduati secondo appunto un modello di pagella, quando non sono in gioco valutazioni comparative ma solo verifiche di permanenza delle condizioni di adeguatezza alle funzioni, sono un elemento di inquinamento. Non miglioreranno certo il sistema e in particolare la qualità della risposta di giustizia”. Quali altri interventi in arrivo suscitano la vostra contrarietà e perché? “La domanda è troppo ampia per una risposta puntuale. Posso qui richiamare alcune proposte a titolo esemplificativo. Il disegno di legge di abrogazione del reato di abuso di ufficio è stato da noi criticato con validi e robusti argomenti. Così come altri aspetti di quel disegno di legge come l’attribuzione a un collegio di giudici della decisione sulle richieste di misura cautelare carceraria e l’interrogatorio preventivo rispetto all’adozione del provvedimento cautelare. Quel che però va messo in evidenza è che veniamo da una stagione di tante riforme: mi riferisco alle riforme varate durante la presenza del Governo Draghi”. Vuol dire che c’è innanzitutto un problema di attuazione di quelle varate? “Certo. Oggi sarebbe necessario che il ministero si concentrasse sul predisporre le risorse per attuare quelle riforme. Purtroppo, su questo versante registriamo rallentamenti e lacune. In particolare, su tutto il programma di digitalizzazione dei processi i ritardi della macchina ministeriale sono rilevanti. I magistrati stanno facendo ogni sforzo per migliorare tempi della giustizia e per erodere l’arretrato. Ma anche il ministero deve fare la sua parte”. Si sono manifestate critiche e riserve anche sul cosiddetto premierato. Perché? “Sul premierato l’Anm non ha assunto una posizione e non so dire se lo farà. Qualche rilievo è stato fatto a titolo personale. Quel che ora posso dire è che ogni progetto di riforma che si ponga l’obiettivo di rafforzare l’Esecutivo non può non porsi il problema di rafforzare gli organi di garanzia, all’interno di un quadro che mantenga un equilibrio tra Poteri e funzioni”. Spesso si è parlato di giustizia a orologeria. A tratti si ha almeno l’impressione che vi siano coincidenze, come, da ultimo, per il caso Delmastro... “Le coincidenze sono frutto di letture malevole, che manipolano in racconti preordinati i dati di realtà”. La nostalgia del pm Spataro per gli anni di piombo di Francesco Petrelli L’Unità, 1 dicembre 2023 L’epoca buia del terrorismo segnò l’avvento dello strapotere della magistratura, che dagli anni 70 entrò sempre più a gamba tesa (vedi Mani Pulite) sugli equilibri della nostra democrazia. Ha ricordato con nostalgia, il dott. Spataro, i tempi del terrorismo allorquando magistratura e politica, assieme, scrivevano le leggi. Si trattava allora di una terribile emergenza, di una pagina buia della nostra democrazia che secondo molti commentatori ed analisti, lasciò una traccia indelebile negli equilibri politici ed istituzionali del Paese, alterati proprio nel fondamentale rapporto fra quei due diversi poteri. Il sentir evocare quella drammatica stagione solo come un momento favorevole per la storia dei rapporti fra politica e magistratura lascia per questo piuttosto perplessi. Sono molti, infatti, a rammentare come fu, proprio in quei terribili anni, che al di là degli esiti di quei rapporti di cui il dott. Spataro ha ricordato le virtù, ebbe a consumarsi quel sovvertimento negli equilibri fra i poteri che avrebbe segnato il definitivo debordare del potere giudiziario e - complici anche la lotta alla mafia e Mani pulite - l’inizio di quella che è stata non a caso definita, la Repubblica giudiziaria. Una democrazia condizionata da una presenza costante della magistratura associata e delle Procure nelle politiche giudiziarie del Paese, resa succube da un potere di interdizione sulle riforme in materia e caratterizzata da un debordante assetto del Consiglio Superiore della Magistratura, autoassegnatosi competenze e virtù neppure immaginate nel disegno del costituente. Ma se questo squilibrio è purtroppo serio, grave e reale, non è affatto serio il confronto che ne segue. Sono infatti oramai più di trenta anni che si assiste a una deriva insopportabile nella quale le parti in causa, politica e magistratura, vanno sviluppando in un tragico siparietto, a scapito del Paese, il loro irrisolto dialogo conflittuale privo di alcuna concreta prospettiva. Un conflitto solo apparente che in realtà giova a entrambi i contendenti interessati solo a mantenere le loro posizioni e a conservare intatto il loro status quo. E appare ancor più triste, per questa ragione, assistere a queste improvvide grida di “al lupo al lupo” da parte di una politica che non è stata mai capace di colmare quel vuoto di competenza, di prestigio e di quel minimo di autostima necessari al riequilibrio delle forze. Inutile denunciare complotti se non si ha neppure il coraggio di portare a termine una riforma semplice e coerente con la costituzione come la separazione delle carriere. Se non si ha neppure la forza di operare quella seria e minima riforma ordinamentale che metta fine al presidio dei magistrati all’interno del Ministero della Giustizia, dove si scrivono quelle stesse leggi che i giudici e i pubblici ministeri dovrebbero invece soltanto applicare. Salvo che questo compito non venga assegnato a Commissioni ministeriali nelle quali la presenza dei magistrati è sempre quella di tre parti ad una. Perché è lì in questi gangli di potere che si annida il vero problema. Si tratta di quella stessa politica che rimanda da trent’anni quelle piccole ma radicali riforme della giustizia e dell’ordinamento giurisdizionale che sole avrebbero potuto restituire un assetto maturo a questa nostra democrazia, in perpetuo altalenante fra l’attacco ai soli tutori della legalità e le rampanti prodezze del partito dei giudici, e restituire soprattutto ai cittadini un processo equo e giusto ed una giustizia degna di questo nome. I pm perquisiscono i servizi segreti per l’agenda rossa di Borsellino. Trent’anni dopo di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 dicembre 2023 I magistrati di Caltanissetta si sono recati all’Aisi per perquisire l’ufficio dove lavora una delle figlie dell’ex capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002 e sospettato di aver acquisito illecitamente l’agenda del magistrato. La procura bussa a casa dei servizi segreti. Nei giorni scorsi alcuni quotidiani hanno riportato le ultime novità sull’eterna ricerca dell’agenda rossa di Paolo Borsellino: la procura di Caltanissetta lo scorso settembre ha fatto perquisire le case dei famigliari di Arnaldo La Barbera, l’ex capo della squadra mobile di Palermo morto nel 2002. La moglie e una delle figlie dell’ex questore palermitano sono indagate con l’accusa di ricettazione aggravata dal favoreggiamento alla mafia: i pm nisseni sospettano infatti che abbiano avuto per anni la disponibilità dell’agenda ipoteticamente acquisita illecitamente da La Barbera. Ciò che non è stato riportato, e che il Foglio è in grado di rivelare, è che nell’ambito di queste perquisizioni i magistrati di Caltanissetta si sono spinti persino a entrare nella sede dell’Aisi, cioè i servizi segreti interni. È lì, infatti, che lavora la figlia indagata di La Barbera. Una forzatura non da poco sul piano istituzionale. Ad ogni modo, come riferiscono fonti qualificate dell’Aisi, la perquisizione da parte della polizia giudiziaria, alla presenza dei pm di Caltanissetta, si sarebbe svolta “in un clima di collaborazione e serenità”. La vicenda, tuttavia, è emblematica della tendenza della magistratura a utilizzare tutti i poteri a disposizione pur di trovare prove a conferma dei propri teoremi, senza tanto badare a questioni di opportunità istituzionale. L’idea che, a distanza di oltre trent’anni dall’uccisione di Borsellino, i famigliari di colui che inizialmente coordinò l’indagine sulla strage di Via D’Amelio, possano conservare nelle proprie case - se non addirittura nel proprio ufficio presso la sede dei servizi segreti - documenti scottanti sulla sorte dell’agenda rossa del magistrato, è a dir poco singolare. Così come in fondo è singolare la convinzione che l’agenda rossa sia stata necessariamente fatta scomparire, quando nulla esclude che essa sia andata distrutta proprio nell’attentato del 19 luglio 1992. A quanto risulta, a far scattare le perquisizioni nei confronti dei famigliari di La Barbera sarebbero state le rivelazioni di un misterioso “testimone”. In sostanza, una persona avrebbe riferito ai pm che un terzo soggetto nel 2018 gli avrebbe raccontato che la famiglia La Barbera voleva collocare altrove l’agenda rossa, di cui si ipotizza ancora l’esistenza. Insomma, un groviglio di voci di terza mano e teoremi, che però hanno portato alle perquisizioni di due mesi fa, durante le quali - sorpresa - l’agenda rossa non è stata trovata. Del resto, Arnaldo La Barbera rappresenta ormai la miglior figura attorno alla quale costruire un’indagine senza un briciolo di prova. Tre poliziotti che facevano parte del suo gruppo a Palermo sono stati processati (ma assolti) per quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia d’Italia: quello sulle indagini sulla strage di Via D’Amelio, in cui morirono Borsellino e cinque agenti della sua scorta. I tre poliziotti erano accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra e, in particolare, di aver contribuito - su spinta di La Barbera - a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni portarono alla condanna all’ergastolo (poi annullata) di sette persone innocenti, che non avevano avuto alcun ruolo nella strage. Secondo il tribunale di Caltanissetta, La Barbera non agì per favorire la mafia, ma più che altro per “finalità di carriera”. Di fronte all’assoluzione dei tre poliziotti, i pm nisseni hanno deciso di concentrare di nuovo l’attenzione proprio su La Barbera, avviando altri filoni di indagine, dedicati anche alla sorte dell’agenda rossa. L’ostinazione della procura di Caltanissetta riporta alla mente le iniziative della procura di Firenze, che ha aperto un’indagine a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, accusandoli di essere i mandanti esterni delle stragi di Cosa nostra nel biennio 1993-94. Anche in questo caso, sulla base di dichiarazioni di dubbia attendibilità su un presunto investimento compiuto negli anni Settanta dal nonno di Giuseppe Graviano nell’attività di Berlusconi, i pm hanno deciso di far perquisire le abitazioni di alcuni famigliari di Graviano, alla ricerca - dopo quarant’anni - di una “carta privata” che proverebbe l’investimento a favore di Berlusconi. Una giustizia a rilento, in balìa di misteri e teoremi che è arrivata fino alle stanze dei nostri servizi segreti. Emilia Romagna. Il Garante: “Carceri, progetti lavorativi inesistenti per donne e disabili” Il Resto del Carlino, 1 dicembre 2023 “Su 3.500 detenuti nelle carceri dell’Emilia Romagna (di cui 2.600 con condanne definitive), circa 900 vengono occupati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria nei cosiddetti lavori domestici: aiuto cuoco, pulizie, manutenzioni, gestione della spesa. Decisamente minoritaria invece, circa centocinquanta persone, la quota di chi opera all’interno della struttura ma alle dipendenze di aziende esterne in mansioni quali falegnameria, lavanderia, produzione di pasta fresca, sartoria, coltivazioni agricole, etc. Un ulteriore centinaio, infine, ha la possibilità di accedere al lavoro esterno”. Questa la fotografia della situazione lavoratori dei detenuti nelle carceri della regione tracciata da Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti. Di questo si parla oggi - dalle 9.30 alle 18 - ai chiostri di san Pietro in via Emilia San Pietro in un convegno che intende approfondire la dimensione del lavoro penitenziario nei dieci istituti dell’Emilia-Romagna, con un focus sul ruolo delle istituzioni del territorio e del mondo delle imprese. “Per quanto riguarda le donne - ha sottolineato Cavalieri - i progetti lavorativi sono praticamente inesistenti, così come i percorsi di inserimento lavorativo per le persone disabili. Questi dati sono preoccupanti e chiamano a intervenire tutti i soggetti preposti, dato che rappresentano una palese disapplicazione delle norme vigenti secondo le quali tutti i detenuti dovrebbero lavorare”. Numerosi i relatori presenti all’evento: dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri (che introduce e modera gli interventi della mattinata), al presidente della Cassa delle ammende, Gherardo Colombo, all’assessore comunale al Welfare di Reggio, Daniele Marchi, a Federico Alessandro Amico, presidente della commissione Parità della Regione, fino a Federico Bertani, dell’ordine degli avvocati di Reggio. Interverranno, fra gli altri, la consigliera per la parità e contro le discriminazioni di genere, Roberta Mori, la presidente del tribunale sorveglianza di Bologna, Maria Letizia Venturini, la provveditrice dell’amministrazione penitenziaria per l’Emilia-Romagna e le Marche, Gloria Manzelli, la rappresentante del ministero della Giustizia Felice Di Girolamo, il vicepresidente di Confindustria Emilia-Romagna Gianluca Rusconi, e Marco Bonfiglioli dell’amministrazione penitenziaria regionale. Presenti poi i vertici di diversi istituti penitenziari della regione, così come molti rappresentanti di aziende che operano in carcere. Il dibattito del pomeriggio è invece condotto da Stella Bonfrisco, giornalista del Resto del Carlino. Sanremo (Im). La madre di Alberto Scagni: “Ora è un cadavere attaccato a delle macchine” di Biagio Chiariello fanpage.it, 1 dicembre 2023 “Mio figlio è una vittima dello Stato”. È lo sfogo di Antonella Zarri, madre di Alberto Scagni, massacrato di botte in carcere a Sanremo e da una settimana in coma farmacologico. Il killer della sorella Alice, condannato a 24 anni e 6 mesi, è stato picchiato talmente forte, a mani nude, con uno sgabello e con una sedia, da spezzargli le ossa del viso. È stato salvato dagli agenti di Polizia penitenziaria. “Mi sto precipitando verso Sanremo, perché nella tarda serata di ieri - per non dire notte - mi è stata notificata l’esecuzione di accertamenti irripetibili nella cella in cui è stato aggredito”, ha spiegato la donna nella puntata di giovedì 30 novembre di ‘Mattino Cinque News’, sottolineando di avere il “forte sospetto” che non si volesse avere la parte difensiva presente. I legali dell’assassino dell’uomo Mirko Bettoli e Alberto Caselli Lapeschi, hanno presentato un esposto alla Procura di Imperia, in cui scrivono che il loro assistito, dichiarato in sentenza semi-infermo di mente, “non avrebbe dovuto stare in una cella con altre due persone”. “Alberto era nelle mani dello stato e non gli è stata garantita la sua incolumità fisica”, continua la Zarri. “Ora è un cadavere attaccato a delle macchine. Se gliele staccano, muore”. Scagni è stato picchiato da due detenuti di nazionalità marocchina che, dopo l’udienza di convalida dell’arresto, sono stati trasferiti in altri istituti penitenziari. Stavano scontando pene per violenza sessuale. Ora sono accusati di tentato omicidio, sequestro di persona, devastazione, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. C’è da dire che non è la prima volta che Scagni viene picchiato in cella. Era già capitato a Marassi, dove si trovava subito dopo la condanna. A seguito di quell’episodio si era deciso di trasferirlo prima in una cella singola poi di trasferirlo a Sanremo, nella sezione dedicata ai detenuti che, per la qualità dei reati compiuti, non debbono rimanere a contatto con altri. Massa Carrara. Consiglio comunale con i detenuti: “La rieducazione è possibile” La Nazione, 1 dicembre 2023 Denso di significato il consiglio comunale straordinario che si è tenuto al carcere di via Pellegrini ieri mattina, in occasione della Festa della Toscana. Ai saluti di apertura del presidente del consiglio comunale di Massa, Agostino Incoronato, sono seguiti gli interventi del sindaco Francesco Persiani, il vescovo della diocesi di Massa Carrara Pontremoli, Mario Vaccari e Maria Cristina Bigi, già direttrice del carcere. Il consiglio ha avuto l’accompagnamento musicale degli studenti del liceo musicale cittadino del ‘Palma’ che hanno tenuto un concerto per l’occasione. “Siamo contenti - ha detto il primo cittadino - di aver continuato la tradizione di celebrare la festa della Toscana dentro la casa di reclusione di Massa. La nuova direttrice ci ha permesso di andare avanti in questo percorso. Una cerimonia molto partecipata dalle istituzioni, sia civili che militari e religiose. Il vescovo Vaccari ha parlato della figura di don Milani, così come sono stati molti interessanti gli interventi dei consiglieri di maggioranza e minoranza. Molti detenuti sono intervenuti con loro riflessioni sulla genitorialità, il rispetto delle regole, i femminicidi: alla fine è stato un momento di condivisione anche per far sentire la vicinanza della cittadinanza, per far comprendere ai detenuti che quello non è un luogo confinato, ma un quartiere della città. La speranza - prosegue il sindaco - è che qualcuno li attenda fuori, la giustizia ha imposto loro di pagare i loro sbagli, ma la speranza è quella di tornare a vivere pienamente. C’è chi potrà farlo, perché il fine della detenzione è la possibilità che tutti possano essere rieducati”. Il presidente del consiglio ha continuato l’intervento del primo cittadino con la volontà di essere vicini ai detenuti. Non è mancato il contributo musicale degli allievi del Palma, “Sono tutte sinergie del territorio che si mettono insieme - ha concluso Persiani - per dare la giusta rilevanza alla festa che crediamo dal grande valore simbolico”. Ivrea (To). I detenuti vanno in scena e il pubblico si commuove di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 1 dicembre 2023 Tutto è cominciato con un laboratorio di lettura su “Fine pena ora”. “Della mia anima ne farò un’isola”. È il titolo di un progetto teatrale che nasce per caso, quasi d’incanto, da un laboratorio di lettura del libro Fine pena ora, di Elvio Fassone, edizione Sellerio. Il laboratorio, tenuto da Simonetta Valenti, con cadenza settimanale dallo scorso luglio, presso la sezione in cui sono detenuti i collaboratori di giustizia del carcere di Ivrea, che vivono in isolamento, si proponeva di avvicinarli alla lettura consapevole di un testo ed alla riflessione sui temi che via via emergevano. Un testo scelto anche per l’affinità della storia narrata con l’esperienza di chi vive in carcere. Ed è proprio da questa affinità che nasce l’idea di trasformare l’esperienza del laboratorio nella lettura scenica di alcuni capitoli del testo, integrandola con le riflessioni dei detenuti, in veste di attori/autori. “Un libro molto bello, ma anche molto particolare se lo pensi letto da loro - commenta Valenti - molti sono ergastolani ma soprattutto mafiosi, legati a problemi di mafia… Il libro è, infatti, la storia narrata in prima persona da Fassone, il magistrato che nell’85 presiede in Corte d’Assise d’appello a Torino un maxi processo contro la mafia catanese. Il processo dura quasi due anni. Seguono una raffica di ergastoli. Tra i condannati anche Salvatore, un giovane ragazzo. Capita che per una serie di coincidenze si parlano. Il ragazzo è molto arrogante e un po’ smargiasso. Ad un certo punto gli dice “Presidente ma lei ce lo ha un figlio? Sì ne ho tre di figli? Perché? E perché io le dico questo: se suo figlio fosse nato dove sono nato io, probabilmente sarebbe in quella gabbia e io sarei un valido avvocato…”. Questa frase sconvolge profondamente il giudice che in un impeto di istinto, il giorno dopo la sentenza in cui condanna all’ergastolo il ragazzo, gli spedisce un libro, chiedendosi se mai nella sua vita ne avessi letto uno. E gli spedisce niente meno che Siddharta di Herman Hesse. Al fondo del libro c’è una frase: “Nessuno è mai interamente santo o interamente peccatore…”. Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Da qui nasce una corrispondenza che durerà 26 anni. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare - caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è diventato senatore, è andato in pensione, ma non ha mai cessato di interrogarsi sul problema del carcere e della pena. Anche Salvatore è diventato un’altra persona, da una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa disperazione fino a un tentativo di suicidio. Nemmeno tra due amanti, ammetterà l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. “Quando siamo arrivati più o meno a metà di questo libro che ha coinvolto molti ragazzi e abbiamo anche visto il film I Cento Passi su Peppino Impastato - continua Valenti - il gruppo ha espresso il desiderio di fare qualcosa e allora stante anche le loro potenzialità abbiamo scelto di lavorare ad lettura scenica di alcuni dei capitoli a cui poi ho aggiunto una sceneggiatura”. E non era ancora finita qui. Valenti ha infatti proposto loro di scrivere e raccontare un pezzo della propria vita. “Non avevo grandi aspettative - ci spiega - Stiamo parlando di vite molto complicate e di tematiche pesanti complesse e dolorose. E invece?”. Lo hanno fatto tutti. Al termine di ogni scena, un racconto in più… davanti al leggio sfondando la quarta parete. Un lavoro pazzesco di coraggio e di generosità. In collaborazione con la Casa Circondariale di Ivrea, l’Associazione Assistenti Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” e i detenuti della Casa Circondariale di Ivrea, lo spettacolo “Della mia anima ne farò un’isola” a cura della compagnia “Liberi” di recitare, regia di Simonetta Valenti e musiche a cura di Nicola Giglio, andrà in scena sabato 2 dicembre alle 10 presso la sala Polivalente della Casa Circondariale. Alla “Prima” di giovedì 30 novembre in tanti si sono commossi. Il velo e i bip del metal detector: una vita da sminatrice in Kurdistan di Futura d’Aprile Il Domani, 1 dicembre 2023 Nel nord dell’Iraq sono ancora presenti milioni di ordigni esplosivi, eredità delle guerre e dei conflitti interni degli ultimi decenni. Bonificare i terreni è pericoloso, ma necessario per permettere alla popolazione locale di tornare a vivere nelle proprie case e per evitare nuovi morti e mutilati. Per arrivare al campo di Mlay Golle, pochi chilometri a nord-est di Sulaymaniyah, bisogna percorrere una strada per buona parte sconnessa che si arrampica sulle colline intorno alla seconda città più grande del Kurdistan iracheno. Una volta lasciata la via principale non si incontrano che poche, sporadiche abitazioni, mentre in lontananza si scorge qualche piccolo villaggio o un branco di pecore intento a brucare l’erba verde-giallastra. La meta del viaggio stride con l’atmosfera quasi bucolica del paesaggio e costringe a guardare quelle colline e quei campi con occhi ben diversi. La macchina si ferma all’entrata del campo allestito da MAG, la Ong che si occupa di bonificare i terreni del Kurdistan iracheno infestati da mine e altri ordigni inesplosi. Qui gli sminatori e le sminatrici dell’organizzazione si preparano per iniziare il lavoro e sempre qui tornano a mangiare e a riprendere fiato, bevendo un tè caldo o fumando una sigaretta all’ombra di un albero. Il tempo per riposare però è poco. L’Iraq è uno dei paesi più minati al mondo e la maggiore concentrazione di mine e altri ordigni come mortai, bombe a grappolo, granate ed esplosivi improvvisati tanto cari all’Isis si trova proprio nella regione curda. Le mine italiane - I conflitti succedutisi negli ultimi sessant’anni hanno lasciato segni evidenti nel territorio e nella vita della popolazione, costretta a fare i conti con un passato eternamente presente e che ne mette a rischio anche il futuro. La data di scadenza per la bonifica totale dell’Iraq era stata fissata per il 2028, ma allo stato attuale è molto difficile prevedere quando si raggiungerà davvero questo obiettivo. Intanto gli ordigni ancora attivi nel paese continuano a reclamare la loro quota di vittime e intere aree sono tuttora inabitabili, con 665mila persone costrette a vivere da anni nei campi per gli sfollati interni. Gli ordigni che infestano il territorio del Kurdistan iracheno hanno diverse origini, ma una delle minacce maggiormente note alla popolazione locale è quella delle mine italiane. Negli anni Ottanta, durante la guerra tra Iran e Iraq, Saddam Hussein ha acquistato dall’Italia milioni di mine da piazzare lungo il confine con la Repubblica islamica per fermare l’avanza dell’esercito nemico. Tra queste, le più letali sono quelle realizzate dall’azienda Valsella, in particolare le Valmara o V69. Queste mine sono famose per la loro doppia carica: la prima fa saltare il dispositivo all’altezza dell’addome, mentre la seconda causa l’esplosione che uccide chi è stato così sfortunato da calpestarla. Sopravvivere all’esplosione di una Valmara è alle volte possibile, ma ad un prezzo altissimo: chi non muore sul colpo o per le ferite riportate resta senza arti e spesso anche senza la vista a causa delle schegge. Una condanna a morte eseguita solo a metà in grado di distruggere la vita di interi nuclei familiari. Vita da sminatore - Per chi è nato e cresciuto nel Kurdistan iracheno questo tipo di minacce sono la normalità, ma non tutti sono disposti ad accettarlo. Salaam Muhammed, responsabile tecnico del campo di addestramento di Chamchamal è uno di questi. “Io vengo da Penjwin, un’area di confine con l’Iran altamente contaminata”, spiega Salaam, mentre con il dito indica un punto a nord-est sulla grande cartina appesa alla parete del suo ufficio. “Nel 1991, quando sono scoppiate le rivolte curde contro il regime di Saddam, in tantissimi sono scappati verso il confine per cercare rifugio e sono finite nei campi minati. Tante persone innocenti sono esplose davanti ai miei occhi ogni giorno”. L’orrore del conflitto tra i curdi e il regime consumatori negli anni Novanta ha spinto Salam a dedicare la vita alla bonifica del suo paese e dopo quasi trent’anni è ancora convinto della scelta fatta. Soprattutto quando vede i frutti del suo lavoro. “Ogni volta che torno nei villaggi in cui ho lavorato mi trattano come un membro della loro famiglia”, racconta con orgoglio Salaam, le labbra sormontate da baffi scuri increspate in un leggero sorriso. Molto resta ancora da fare, ricorda il direttore, ma è importante non perdere la speranza. “Dobbiamo credere che il futuro sarà migliore, altrimenti non ha senso fare un lavoro così pericoloso. Molte persone hanno rinunciato e sono andate via, ma cosa dovrei fare? Andare in Europa e diventare un rifugiato? Per me non ha senso. La mia battaglia è qui”. Le sminatrici - Il pensiero di un Kurdistan iracheno finalmente bonificato è ciò che guida anche gli sminatori e le sminatrici del campo di Mlay Golle mentre con i metal detector setacciano l’area che è stata loro assegnata. Prima di mettersi a lavoro, devono indossare i guanti, un pesante giubbotto protettivo che copre in parte anche le gambe e un casco dotato di una lunga visiera che arriva fin sotto al mento. Lavorare con queste protezioni non è semplice, ancor meno durante la stagione estiva, quando le temperature superano i quaranta gradi. Le operazioni da svolgere, poi, sono di una precisione quasi snervante, ma è fondamentale rispettare ogni singola procedura e restare sempre concentrati. Gli scambi di battute tra gli operatori, infatti, sono molto rari. L’unico suono che rompe ogni tanto il silenzio quasi religioso del campo è il bip acuto del metal detector, seguito dalla voce dello sminatore o della sminatrice che ha trovato un nuovo ordigno. “Sapevo che questo lavoro sarebbe stato diverso dagli altri, ma volevo farlo perché in questo modo posso aiutare la mia comunità e il mio paese”, spiega Sanariya Kareem, una delle componenti del team femminile di MAG. Mentre parla si aggiusta un lembo del velo colorato che le copre i capelli e che le ricade dolcemente sulle spalle. “Quando ho iniziato, in molti mi hanno criticata, dicendo che non era un lavoro per donne. Io però sto dimostrando che non è così e sono orgogliosa del mio ruolo qui. Sono certa che tutto questo passerà alla storia come qualcosa che le donne hanno realizzato, che io ho contribuito a realizzare”. Anche per Hawraz Muhammed è stato difficile spiegare ai suoi cari il perché di una scelta lavorativa così insolita. “Ero certa che si sarebbero opposti, ma adesso hanno capito che con il mio lavoro aiuto la nostra comunità, che sto salvando delle vite”, racconta la donna con emozione. Hawraz non ha sempre fatto la sminatrice. Fino a due anni prima lavorava come insegnante. “Certo, sono qui perché così posso guadagnare, ma nessuno farebbe un lavoro tanto pericoloso senza essere veramente motivato e poi anche così continuo a essere un’insegnante”, spiega Hawraz. “Con il mio esempio insegno ai miei due figli che la vita ci presenta sempre molte difficoltà, ma che è anche possibile fare qualcosa di utile per gli altri con il proprio lavoro”. Ogni mina scoperta, per queste donne, equivale a una vita salvata. La Valsella - Nemmeno l’embargo a cui la stessa Italia ha aderito nel 1984 ha fermato le vendite della Valsella. L’azienda bresciana, passata in quegli anni sotto il controllo di Fiat, ha continuato a vendere le mine all’Iraq - e per un certo periodo di tempo anche all’Iran - attraverso la filiale di Singapore, dove arrivavano i pezzi da assemblare e spedire ai compratori. Il giro di affari milionario si è interrotto solo nel 1987 dopo un’inchiesta del settimanale francese L’Événement du jeudi, che ha dato anche forza alla battaglia portata avanti dalle lavoratrici della Valsella capeggiate da Franca Faita, un’operaia che dieci anni dopo ha vinto il Nobel per la pace come membro della Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo. In Italia però questa storia è quasi sconosciuta, con grande rammarico di chi ogni giorno mette a rischio la propria vita per evitare nuove morti e mutilazioni. “Com’è possibile che nessuno paghi per quello che succede qui?”, chiede Salam incredulo. “Chi ha continuato ad esportare le mine dovrebbe essere condannato e risarcirci. Invece non è stato fatto nulla”.