Nordio ostaggio del suo governo dimentica l’inferno nelle carceri di Nello Trocchia Il Domani, 19 dicembre 2023 Al ministero della Giustizia il ministro è vittima di sottosegretari e dirigenti, che hanno più poteri. Intanto nelle celle la situazione è drammatica. Carceri sovraffollate, suicidi, atti di autolesionismo, agenti allo stremo e un ministero attraversato da correnti e blocchi di potere. Le politiche messe in campo sugli istituti di pena raccontano il fallimento del governo Meloni. Gli intenti e i propositi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, hanno lasciato il posto allo scontro di potere all’interno del dicastero con l’ex magistrato messo in ombra da Forza Italia che schiera il sottosegretario Francesco Paolo Sisto e Giusi Bartolozzi, potente vice capo di gabinetto, Fratelli d’Italia che, invece, punta sul pretoriano Andrea Delmastro Delle Vedove, azzoppato dal processo a suo carico per il pasticcio sul caso dell’anarchico, Alfredo Cospito. L’altro blocco è quello leghista che esprime l’altro sottosegretario, Andrea Ostellari. Correnti che si scontrano con la figura di Bartolozzi che rappresenta quella più divisiva e che più di ogni altra continua a mantenere le chiavi del comando. Mentre a palazzo si consumano i dissidi, nelle carceri italiane la situazione è sempre più al limite. I dati e le storie lo dimostrano. L’anno orribile - “Il mese di dicembre si è aperto con due notizie. La prima è che il numero delle persone detenute ha superato nuovamente la soglia dei 60mila. Era da prima della pandemia di Covid-19 che ciò non accadeva. Il tasso di affollamento è di oltre il 125 per cento, i posti disponibili sono 48mila”, racconta l’ultimo report di Antigone. “La seconda notizia è quella dei suicidi, due, entrambi avvenuti l’8 dicembre. Il totale del 2023 è di 66 persone che si sono tolte la vita in carcere, il terzo dato più alto mai registrato da quando Ristretti Orizzonti tiene questa statistica (dal 1992)”, continua l’associazione. Se si entra in un carcere si scopre il disastro. “Se è vero che le condizioni delle carceri rispecchiano quelle della nostra democrazia, l’istituto penitenziario di Ancona racconta di una crisi che sembra senza via di uscita. Le celle sono sovraffollate: dovrebbero contenere in totale 250 persone, ma sono più di 300 quelle rinchiuse”, dice la senatrice Ilaria Cucchi dopo aver visitato quell’istituto di pena. Lì è recluso un detenuto, la cui sorella aveva scritto a Domani. “Ho mio fratello in carcere, si chiama Seifeddine Ben Ahmed. Sono andata a trovarlo e l’ho visto in una condizione psicofisica disastrosa (difficoltà nel parlare, tremolio e saliva che gli scendeva della bocca). È entrato che pesava 96 chili e adesso dopo quattro mesi ne pesa circa 50”. Aouatef Ben Ahmed ha inviato una comunicazione anche al garante dei detenuti, territoriale e nazionale, nella quale ha lamentato condizioni insostenibili di detenzione, la presenza di lividi sul corpo e l’abuso di psicofarmaci. Ben Ahmed è in carcere perché è stato condannato per rapina a quattro anni e quattro mesi. Il detenuto, neanche trentenne, ha più volte praticato atti di autolesionismo e, a metà dicembre, è stato trasferito nuovamente all’ospedale dopo aver ingerito alcune pile, come era già accaduto in passato. “Aveva iniziato, dopo l’arresto, un percorso terapeutico con il serd mentre era agli arresti domiciliari, che durava da più di un anno e mezzo e che stava dando i suoi frutti; poi è divenuta definitiva la sentenza e, trattandosi di reato ostativo, nonostante questo percorso positivo e regolare, è dovuto rientrare in carcere e questo lo ha destabilizzato tanto da arrivare alla drammatica situazione odierna”, dice Luca Sebastiani, avvocato del detenuto. Il recluso da settembre ha avuto 8 accessi al pronto soccorso, ha ingerito pile, cuffie e un accendino. Ha raccontato che vuole essere trasferito in Sicilia e ha negato di aver subìto violenze, ma è sottoposto a un uso massiccio di psicofarmaci. “Sono usati in una quantità disarmante, per il medico della struttura non c’è alternativa e li assumono quasi tutti i detenuti. A colpire, più dei numeri, è la gravità degli episodi che si sono succeduti in neanche un’ora. Ho visto un detenuto ingerire un accendino a pochi metri da me, per essere trasferito. A un vetro di distanza, quello che separa i due corridoi del piano che ho ispezionato, ne ho visto un altro urlare in preda alla rabbia, continuando a sbattere con forza i cestini della spazzatura contro le pareti che lo circondavano. Il gesto della corda al collo che mi ha rivolto un detenuto parla, grida per tutti, per un posto che ha perso ogni possibilità di proiettarsi oltre le sbarre che lo delimitano”, conclude Cucchi. Le aggressioni - In carcere ci sono i detenuti, ma anche gli agenti che ormai sono allo stremo, gli organici continuano a essere insufficienti, mancano 18 mila poliziotti penitenziari. “Abbiamo noi stessi chiesto diverse delle misure annunciate nel pacchetto sicurezza del governo, ma riteniamo che esse debbano essere accompagnate da ben altri provvedimenti che passano per il varo di un “decreto carceri” che, prendendo atto della strisciante emergenza, preveda anche l’integrazione degli organici della Polizia penitenziaria e cospicue assunzioni straordinarie con procedure accelerate, senza peraltro rinunciare a riforme strutturali e complessive da realizzare attraverso una legge delega”, dice Gennarino De Fazio, segretario della Uil Pa. Il sindacato, che condivide le posizioni del sottosegretario Delmastro, fa notare che alle parole, però, non seguano mai fatti. “L’esecutivo a guida Meloni continua a intervenire con piccoli provvedimenti, in maniera parcellizzata, cercando di mettere qualche toppa alle molte falle, ma finendo per aprirne molte altre”, dice De Fazio ricordano anche la gravissima escalation delle aggressioni dei detenuti nei confronti degli operatori, ormai alla media di oltre 4 al giorno. Proprio sul tema il sottosegretario Ostellari ha parlato di un calo delle aggressioni del 30 per cento. “Quelle del sottosegretario sono percentuali autoprodotte (e che non si sa cosa significhino: calate del 30 per cento rispetto a cosa e a quando?), ma i numeri reali continuano a essere secretati. Noi come sindacato abbiamo fatto una nuova richiesta di accesso civico lunedì scorso e siamo in attesa di una risposta. La nostra percezione è opposta”, conclude De Fazio. Quei suicidi in carcere ignorati di Luca Ricolfi La Ragione, 19 dicembre 2023 Il numero annuale di suicidi in carcere negli ultimi anni è andato crescendo in modo molto significativo. Le scelte politiche di fondo di un governo non dipendono dai media, ma dai programmi generali di chi vince le elezioni. Di norma, nessuna campagna di stampa può determinare se un governo aumenta le tasse o le riduce, se investe o disinveste sulla sanità, se concede o nega aumenti salariali ai dipendenti pubblici. Quando le cifre che ballano sono grandi (dell’ordine di miliardi), l’opinione pubblica e i media pesano poco (anche se spesso si comportano come se contassero molto). Ci sono tuttavia ambiti in cui l’umore dell’opinione pubblica e le pressioni dei grandi media possono spostare qualcosa. Sono gli ambiti in cui scelte significative possono essere compiute a costo zero (è il caso dell’introduzione o della soppressione di un reato) o comunque a costi modesti (dell’ordine di decine o centinaia di milioni). Ecco perché può essere interessante osservare quali siano le questioni su cui i media sentono il dovere di scendere in campo e quali le questioni su cui preferiscono tacere o battere in ritirata. Fra le prime, la più eclatante è certamente quella della violenza sulle donne e dei femminicidi. Credo che, negli ultimi decenni, nessun tema abbia attirato un’attenzione paragonabile a quella suscitata dall’uccisione di Giulia Cecchettin. La lotta contro i femminicidi è percepita, giustamente, non solo come una priorità ma come una grande questione di civiltà. E questo nonostante i numeri coinvolti siano fra i più bassi del mondo: fra le società avanzate soltanto Singapore, Giappone e Grecia hanno tassi inferiori a quelli dell’Italia, mentre Paesi come Stati Uniti, Canada, Germania, Francia hanno tassi molto più alti. Ma c’è un’altra questione che, diversamente da quella dei femminicidi, non sembra scaldare i cuori: il suicidio in carcere. Il numero annuale di detenuti suicidi è analogo al numero di donne vittime di femminicidio (fra 40 e 90 l’anno) ma, a differenza del secondo, negli ultimi anni è andato crescendo in modo molto significativo. Nel triennio 2017-2019, prima del Covid, la media era di 50 casi l’anno. Nei primi due anni dell’epidemia (2020-21) è salito a 60. Ma nel 2022 ha avuto un ulteriore balzo in avanti, raggiungendo le 84 unità, il massimo storico. Quanto al 2023, siamo già a quota 67 ed è verosimile che alla fine dell’anno si torni in prossimità del dato record dell’anno scorso. Se consideriamo che la popolazione carceraria è meno di 1 millesimo di quella generale, si tratta di un tasso di suicidio 20-25 volte quello del resto della popolazione. Si potrebbero fare tante cose. Le associazioni che si occupano dei detenuti e delle loro condizioni di vita le hanno indicate innumerevoli volte: ampliare gli spazi, rafforzare l’assistenza medica e psicologica, dare la possibilità di studiare e lavorare, soltanto per citare alcune priorità. Sono importanti, quale che sia il governo in carica, perché le condizioni delle carceri e dei loro ospiti sono un indicatore fondamentale del grado di civiltà di un Paese. Ma sono particolarmente importanti per un governo di destra che si appresta a invertire il segno della politica carceraria, abbandonando la strada seguita fin qui fatta di amnistie, indulti, misure alternative, depenalizzazioni. Proprio perché si accinge a valorizzare lo strumento del carcere come misura di “incapacitazione” (mettere qualcuno in condizione di non nuocere), l’esecutivo dovrebbe sentire il dovere etico di rendere le carceri un luogo civile o meno incivile di com’è sempre stato e di com’è tuttora. Si può ritenere necessario inasprire le pene (e soprattutto la probabilità che vengano effettivamente scontate), ma non si può fare questo peggiorando ulteriormente le condizioni delle carceri, come inevitabilmente accadrebbe con maggiori ingressi (già ora i detenuti sono di più dei posti disponibili). È triste constatare come l’opinione pubblica e i media, sensibilissimi al tema della violenza sulle donne, non concedano uno spicchio della loro attenzione al più prosaico tema della vita nelle carceri. L’inferno dietro le sbarre di Paolo Pandolfini Il Riformista, 19 dicembre 2023 Il 2023, purtroppo non è una novità, è destinato a chiudersi in maniera drammatica per chi è sottoposto al regime carcerario. Oltre al numero, anche quest’anno terribilmente elevato, di coloro che hanno deciso di togliersi la vita, sono tante le storie di violenza e degrado dietro sbarre che evidenziano ancora una volta l’assoluta disumanità con cui viene espiata la pena. Fra le tante storie, due meritano però di essere raccontate. La prima arriva dal carcere di Oristano dove, ad ottobre dello scorso anno, è deceduto il 44enne romano Stefano Dal Corso. Inizialmente si pensò ad un suicidio, ma, secondo un super testimone che il mese scorso ha fatto riaprire il caso, si sarebbe trattato invece di un assassinio. Dal Corso sarebbe morto infatti dopo la rottura dell’osso del collo con una spranga e due colpi di manganello, come riportato da Repubblica a cui questo testimone avrebbe inviato una mail scrivendo di avere le prove. All’ipotesi del suicidio, comunque, non avevano mai creduto la sorella Marisa Dal Corso e l’avvocata Armida Decina. Dal Corso, secondo gli atti, si sarebbe impiccato usando come cappio un lenzuolo tagliato con un taglierino di cui però non era mai stata trovata traccia nella cella. Le grate della finestra a cui era appeso il lenzuolo, inoltre, sarebbero state troppo basse per essere utilizzate per un’impiccagione. La cella, infine, era stata trovata in perfetto ordine, con il letto rifatto. E poche settimane prima di uscire dal carcere Dal Corso aveva detto alla figlia e alla compagna di voler ricominciare con loro una nuova vita. L’uomo si trovava nel carcere sardo per assistere a un processo che lo riguardava. La Procura all’epoca non aveva ritenuto necessario disporre l’autopsia, né aveva voluto ascoltare gli altri detenuti. Il testimone sembra abbia anche parlato con la sorella della vittima sostenendo di essere in possesso di un video che immortalerebbe l’aggressione e dei vestiti che Dal Corso indossava quel giorno. “Hanno modificato le relazioni, hanno cambiato medico legale, hanno vestito tuo fratello con indumenti messi a disposizione della Caritas e hanno fatto sparire quelli sporchi di sangue con le prove e le impronte”, avrebbe detto. Quel giorno Dal Corso aveva “aperto la porta dell’infermeria e assistito a un rapporto sessuale tra due operatori del carcere. È stato cacciato via e ha fatto ritorno nella sua cella”. Poi “schiaffi, calci, pugni”, scrive La Repubblica citando questo supertestimone il quale “prosegue la narrazione che termina con la morte di Stefano e con il tentativo di coprire l’omicidio”. L’altra storia arriva dall’Ungheria e ha come protagonista Ilaria Salis, 39 anni, maestra elementare, rinchiusa da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza a Budapest perché accusata di aver aggredito due neonazisti. In questi giorni si sta mobilitando la famiglia che ha cercato, fino a questo momento, senza successo di farsi aiutare dalle istituzioni per sbloccare la situazione. Il padre della docente ha scritto alla premier Giorgia Meloni, al Guardasigilli Carlo Nordio, al ministro degli Esteri Antonio Tajani, ai presidenti di Senato e Camera, Ignazio La Russa e Roberto Fontana, per un intervento diplomatico a tutela dei diritti della figlia, ma finora nulla è cambiato. “Quando la trasferiscono per le udienze viene trattata come un cane. Tenuta al guinzaglio da un poliziotto, mani e piedi legati con una catena. Ridotta così deve fare quattro rampe di scale. Per più di un mese, dopo l’arresto, ha dovuto indossare gli stessi vestiti e la stessa biancheria. Non le hanno nemmeno dato i farmaci per l’allergia scatenata dalle cimici nel letto”, ha detto il padre. La donna rischia 16 anni di carcere per tentato omicidio ed è accusa di aver fatto parte del gruppo che ha provocato a due uomini lesioni guarite in 5 e 8 giorni. I fatti risalgono alla vigilia del “Giorno dell’onore”, in tedesco: Tag der Ehre. Ogni 11 febbraio neonazisti provenienti da tutta Europa lo celebrano proprio a Budapest per ricordare il battaglione della Wehrmacht che tentò di rompere l’assedio della città ma fu annientato dall’Armata Rossa. “Non è anarchica e non fa parte di Hammerbande, il gruppo tedesco che promuove assalti contro i neonazisti. Ho letto le 800 pagine dell’inchiesta di Lipsia su Hammerbande e il nome di Ilaria non esce mai. È un’insegnante di scuola elementare e un’antifascista vera, militante. E io di questo sono orgoglioso. Passo il tempo a tradurre dall’ungherese gli atti d’indagine, perché non ce li hanno dati in italiano”, ha aggiunto il padre. Il prossimo 29 gennaio è in programma la prima udienza del processo. Si spera celebrato nel rispetto del diritto di difesa. Figli di madri detenute, non si parla più di potenziare strutture alternative di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2023 La frase “mai più bambini in carcere” rischia di rimanere uno slogan politico. Oggi non c’è in calendario nessun provvedimento che miri a potenziare strutture alternative al carcere per le detenute madri con figli piccoli. E le presenze di bambini nei penitenziari femminili, in calo dal 2018, stanno tornando a salire se si considera che, secondo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, al 30 novembre 2023 erano 8 su 22 i bambini ristretti in un istituto ordinario. L’unica misura recente intervenuta sul tema è stata inserita lo scorso novembre nel cosiddetto pacchetto sicurezza e inasprisce l’ordinamento contro detenute incinte o con figli minori di un anno. Se approvata, renderebbe facoltativo per loro il differimento della pena, oggi obbligatorio ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale. Martedì 19 dicembre, le opposizioni presenteranno un appello congiunto per chiedere di non modificare quei due articoli. L’iniziativa, proposta dal deputato Devis Dori (Europa verde), è sostenuta da personaggi del mondo dello spettacolo e dei diritti, come Alessio Boni, Claudio Marchisio, Marisa Laurito, Luigi Manconi, Moni Ovadia, Lorenzo Marone e Susanna Marietti di Antigone. La richiesta è di espungere quelle modifiche dal pacchetto sicurezza in nome di due principi: “l’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità; l’articolo 31 della Costituzione stabilisce che la Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù”. Case protette, Icam e carcere, come funziona adesso - Secondo la legge in vigore (62/2011), le madri detenute con figli da zero a sei anni (prorogabili a dieci) dovrebbero essere assegnate di preferenza a una casa famiglia protetta, in alternativa a un Istituto a custodia attenuata per madri (Icam) e, solo per reati di “eccezionale rilevanza”, al carcere, dove i bambini possono rimanere solo fino ai tre anni. Ciascuna delle tre strutture ha un impatto diverso sulla vita del minore. Le case protette sono spazi esterni al circuito penitenziario. Accolgono detenute con una pena stabilita o prevista inferiore ai 4 anni e non prevedono oneri per lo Stato. Ne esistono due in Italia, a Milano e Roma, e ognuna può ospitare sei adulti e otto bambini. La logica è quella degli arresti domiciliari: non esiste videosorveglianza né sbarre né agenti di guardia. Il controllo avviene tramite visite delle forze dell’ordine e monitoraggio degli operatori. Ogni volta che intende uscire, una detenuta deve avvisare il commissariato di riferimento e può farlo soltanto se il suo status penale lo consente. Il bimbo è libero. Può uscire e rientrare senza orari e invitare altri coetanei nella struttura. Gli spazi sono monolocali o bilocali in cui vive da solo con la madre o con un altro nucleo mamma-bambino. Oggi il numero maggiore di figli al seguito di madri detenute si trova negli Icam. Regolamentati dal 2011, questi istituti dovrebbero essere distaccati dai penitenziari, ma spesso si trovano al loro interno o nelle vicinanze. Hanno 60 posti in totale e rientrano a tutti gli effetti nel circuito penitenziario. In Italia ce ne sono cinque: a Cagliari, Lauro (provincia di Avellino), Milano, Torino e Venezia. Si distinguono dalle carceri tradizionali perché tentano di essere a misura di bambino: il personale non è in divisa, c’è massima mobilità all’interno e, con l’aiuto dei volontari, i bambini svolgono molte attività fuori. Ma gli Icam mantengono le caratteristiche di un carcere. Anche se alcuni sono organizzati in monolocali o bilocali autonomi, le stanze hanno le sbarre alle finestre, le porte si chiudono a una certa ora, non sono ammessi ospiti se non per i colloqui e si fa largo uso di videosorveglianza. Se il giudice propende per il carcere, i bambini finiscono con le madri nelle sezioni nido dei reparti femminili. Qui le regole sono quelle dei penitenziari ordinari con qualche variazione. Spesso, ad esempio, il nido si trova in un’ala separata e c’è maggiore tolleranza sull’apertura delle celle nell’arco della giornata. La proposta di modifica ritirata dal Pd - Presentata per la prima volta l’11 dicembre 2019 dall’ex deputato dem Paolo Siani, la proposta di modifica della legge 62/2011 introduceva fondi pubblici per le case famiglia protette e creava le condizioni per rendere il carcere una destinazione quasi impossibile per i bambini. Arenata per anni, nel maggio 2022 era stata approvata alla Camera con soli sette voti contrari, tutti di Fratelli d’Italia. In attesa di conferma al Senato, è decaduta con la fine del governo Draghi. A inizio legislatura, la parlamentare Pd Debora Serracchiani ha presentato lo stesso testo con procedura d’urgenza alla Camera, ottenendo che fosse votato nei primi sei mesi del governo Meloni. Sebbene la stessa Lega avesse confermato quel provvedimento l’anno prima, nel marzo 2023 lo ha stravolto con emendamenti talmente restrittivi da prevedere la revoca della potestà genitoriale in caso di recidiva. Un principio opposto a quello su cui si basava il testo che si stava discutendo. Il Pd ha allora ritirato la proposta, mentre la Lega ha promesso che lo avrebbe ripresentato, salvo poi intervenire solo inasprendo il differimento pena. L’interesse del minore - Contro le misure del pacchetto sicurezza si schierano anche i tecnici. Per Alida Montaldi, ex presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, oggi in pensione, “con quelle norme si sposta la bilancia dalla tutela dell’interesse del bambino, che deve sempre prevalere, alla sicurezza sociale”, dice la giudice minorile a ilfattoquotidiano.it. Sottintesa nelle proposte della Lega, come negli emendamenti che hanno affossato la proposta Siani, c’è l’idea che i figli di autori di reato crescano meglio con altri genitori. Eppure, come spiega Montaldi “non ci sono equazioni né automatismi tra reato e capacità genitoriale. E non c’è né nel nostro ordinamento né nell’esperienza professionale né negli studi scientifici, psicologici e pedagogici una base su cui radicare una convinzione del genere”. A influire sono altri fattori. “Non si considera il reato in sé ostativo all’esercizio della funzione genitoriale ma si valuta, in concreto, se il comportamento di rilevanza penale sia stato dannoso per il figlio o significativo di inadeguatezza genitoriale”. Le modifiche proposte dal governo sono contrarie agli stessi principi sanciti dall’Unione europea oltre che dal diritto internazionale, che aspira a tutelare sempre e il più possibile fuori dal carcere il legame con il genitore detenuto. “Corte costituzionale, Corte di cassazione e Cedu - dice Montaldi - hanno rimarcato più volte con sentenze recenti la necessità di tutelare al massimo la genitorialità biologica per valorizzare il legame di sangue, perché è più che dimostrato che la separazione dalla famiglia biologica è un trauma per un minore. Chi va contro questo principio pretende di scrivere nelle leggi in quali casi una famiglia è indegna di tenere con sé il proprio figlio”. Dori (Avs): “Bambini in cella, il governo accolga il nostro appello” (Il Dubbio) “Chiediamo al governo e alla maggioranza parlamentare di non modificare gli articoli 146 e 147 del Codice penale, mantenendo obbligatorio il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti della donna incinta o della madre di infante di età inferiore ad un anno”. È l’appello che Devis Dori, capogruppo Avs in commissione Giustizia alla Camera, lancia con Debora Serracchiani (Pd), Valentina D’Orso (M5S), Riccardo Magi (+ Europa), Roberto Giachetti (Iv), Enrico Costa (Azione), firmato anche da personalità del mondo dello spettacolo e della cultura come Alessio Boni, Claudio Marchisio, Luigi Manconi, Moni Ovadia, Marisa Laurito, Lorenzo Marone, Susanna Marietti, Adolfo Ceretti, Donatella Stasio, Daniele Abbado, Anna Catalano, Mitja Gialuz, Giulia Boccassi, Michele Passione, Lillo di Mauro, Lorenzo Chieffi. L’appello sarà presentato domani alle ore 16 presso la sala stampa della Camera. Nell’ultimo pacchetto sicurezza, “il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti delle donne incinte o con figli di meno di un anno passa da obbligatorio a facoltativo. È una riforma ideologica. Bisogna fare pressione affinché quella norma venga tolta, anche con un appello che chiedo venga firmato da chiunque pensi si tratti di una misura contro la Costituzione”, aveva detto Dori a fine novembre alla conferenza stampa “Donne oltre le sbarre”, da lui convocata insieme alla “Rivista Avvocati”. “Nessuno tocchi Caino” confermati Bernardini, D’Elia e Zamparutti Il Dubbio, 19 dicembre 2023 Il X Congresso di Nessuno tocchi Caino, riunito nel Teatro “Marco Pannella” della Casa di Reclusione di Opera nei giorni 14, 15 e 16 dicembre 2023 ha concluso i suoi lavori con l’elezione degli organi dirigenti, confermando Rita Bernardini come Presidente, Sergio d’Elia come Segretario ed Elisabetta Zamparutti come Tesoriere. La Presidenza d’Onore è composta dai professori Tullio Padovani, Vincenzo Maiello, Andrea Saccucci, Santi Consolo e Giuseppe di Federico. Nel comunicato conclusivo del congresso si legge che la mozione approvata ha espresso, “nel trentennale della sua fondazione, gratitudine nei confronti di tutti coloro che in vario modo hanno contribuito alla vita, alle lotte e ai successi dell’Associazione che i suoi costituenti, a partire da Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia, hanno concepito come mezzo e fine di disarmo del potere e della giustizia con la forza gentile dell’amore e della nonviolenza. Invita dirigenti, militanti e simpatizzanti di Nessuno tocchi Caino, oltre che rappresentanti di istituzioni accademiche, culturali, politiche, a promuovere nel corso del 2024, a settant’anni dalla sua nascita e a trenta da quando è venuta a mancare, iniziative per ricordare il pensiero e l’opera di Mariateresa Di Lascia”. Il Congresso, nel prendere atto con soddisfazione che con le risoluzioni Onu sulla moratoria delle esecuzioni capitali e con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale italiana contro l’ergastolo ostativo, molti bracci della morte siano stati chiusi e condannati a vita siano stati liberati, ha impegnato gli organi dirigenti e iscritti a fare iniziative volte a “ridurre fino a superare il danno proprio del carcere, un istituto inutile, patogeno e criminogeno”. Il Congresso ha espresso soddisfazione per il fatto che, nel Trentennale di vita associativa, per la prima volta, Nessuno tocchi Caino abbia superato i 3.000 iscritti, che sono affluiti grazie anche - è scritto nella mozione - “al metodo radicale e a una concezione - che è della vita, degli organismi viventi come dell’organizzazione politica - radicalmente nonviolenta, inclusiva, ecologica”. Tornano i “pranzi d’amore” di Natale con chef e artisti in 29 carceri italiane di Alessandro Di Bussolo aticannews.va, 19 dicembre 2023 La decima edizione dell’iniziativa di Prison Fellowship Italia, con Rinnovamento nello Spirito Santo e Ministero della Giustizia, donerà il 20 dicembre ore di gioia a 4 mila detenuti e detenute. Cuochi affermati ai fornelli con i reclusi, personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport come camerieri e intrattenitori e altri 1200 volontari. La testimonianza dello chef Filippo La Mantia, in carcere da giovane per un errore giudiziario e ispiratore nel 2014 dell’evento. Per festeggiare i dieci anni dell’iniziativa “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore”, l’associazione Prison Fellowship Italia onlus, in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito Santo e il Ministero della Giustizia hanno ampliato il numero di istituti penitenziari italiani, ben 29, nelle quali mercoledì 20 dicembre entreranno con altrettanti chef stellati e le loro brigate, spesso integrate dai detenuti stessi. Con loro moltissimi volti noti del mondo dello spettacolo, dello sport, dell’arte e del giornalismo, che serviranno un pranzo di Natale davvero speciale per chi è costretto a passarlo in carcere. Le carceri coinvolte, con più di 4 mila reclusi - Regaleranno così alcune ore di gioia a più di 4mila detenuti e detenute e, dove è possibile, alle loro famiglie. Per questa decima edizione dell’evento, hanno confermato la loro adesione le carceri di Roma Rebibbia (sez. femminile), Milano Opera, Torino, Alessandria, Aosta, Napoli Secondigliano, Nisida minorile (NA), Salerno (sez. femminile), Eboli (SA), Aversa (CE), Avellino sez. (maschile e femminile), Ariano Irpino (AV), Bologna (sez. maschile e femminile), Castelfranco Emilia (MO), Parma, Firenze minorile, Massa, Teramo (sez. femminile), Pesaro, Castrovillari (CS), Palmi (RC), Paola (CS), Vibo Valentia, Cagliari minorile, Lanusei (NU), Palermo, Benevento minorile. La presentazione del 19 dicembre - Oltre 40 gli chef stellati, maestri di cucina, osti o cuochi dell’alta cucina italiana che hanno accettato di mettere a disposizione la loro arte culinaria e le loro competenze. Alla conferenza stampa di presentazione, questa mattina alle 11.45 nella Sala Pia dell’Università Lumsa a Roma, saranno rappresentati da Carlo Catani, cuoco e presidente dell’associazione Tempi di Recupero. Con lui, a parlare dell’iniziativa, il sottosegretario del Ministero della Giustizia Andrea Ostellari, che parteciperà anche al pranzo di Rebibbia, Marcella Clara Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, Giuseppe Contaldo, presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, don Raffaele Grimaldi, Ispettore Generale dei cappellani delle carceri italiane e Salvatore Martinez, già rappresentante speciale Osce per i diritti umani e presidente di Rns. Con le musiche del duo dei Jalisse, vincitori del Festival di Sanremo 1997, che il 20 dicembre saranno nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. A servire a tavola i pranzi stellati e ad animare gli incontri, insieme a loro, accanto a 1200 volontari, decine e decine di artisti e personaggi del mondo dello sport e del giornalismo, tra i quali Giovanni Caccamo, Paolo Mengoli, Antonio Mezzancella, Marco Giallini, Edoardo Bennato, Gian Luigi Nuzzi,Sabrina Scampini, Nunzia De Girolamo, Raimondo Todaro, Marco Capretti, Little Tony Family, Alda D’Eusanio e Rossella Brescia. “L’errore è errore, il reato commesso rimane reato ma la dignità dell’uomo rimane inviolabile - ricorda, la presidente di Prison Fellowship Italia Marcella Reni - con questi pranzi, dove i “primi” servono gli ultimi, noi vogliamo sottolineare questa grande dignità che nessuno può togliere. Questa vicinanza, queste dieci edizioni di ‘alta cucina’, che è anche ‘altra cucina’ per l’obiettivo d’amore che persegue, serve anche a noi. Serve a tutti noi per ritrovare quello spirito di bene che deve caratterizzare il nostro Natale”. Tra le novità di questa edizione dei Pranzi di Natale, il contributo economico di un istituto scolastico, il Liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza, che ha raccolto e devoluto la quota di mille euro per coprire parte delle spese dei Pranzi nella Regione Calabria. Inoltre, per la prima volta, il Pranzo di Natale sarà servito, nel carcere di Torino, alla sezione dei “sex offender”, di detenuti, cioè, che hanno commesso crimini a sfondo sessuale, solitamente reclusi in aree isolate e protette. Sempre a Torino, oltre ai comici, si esibiranno per la prima volta gli Stardust, un gruppo musicale nato dal progetto “La Musica che gira dentro”, sviluppato con alcuni detenuti dell’Istituto. I costumi e le scenografie sono frutto del lavoro di un secondo progetto, il “Laboratorio Riuso dello Scarto” che ha coinvolto altri reclusi. Nella sezione femminile della Casa circondariale di Teramo, la giornalista Lisa Di Giovanni, in collaborazione con Fabio Gimignani, della Jolly Roger Editore, omaggerà le detenute con libri di saggistica, romanzi, thriller. Un dono, dunque, che diventa anche strumento di formazione e crescita personale. Inoltre, come direttore de “La Finestra sul Gran Sasso”, Lisa Di Giovanni regalerà alle donne dell’istituto delle copie del semestrale. Infine a Bologna, nel carcere della Dozza, con l’intervento di Andrea Segrè, ordinario di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Università di Bologna, i Pranzi di Natale diventano anche un’occasione per sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare. Le portate infatti, verranno realizzate dallo chef Filippo La Mantia in parte con il cibo recuperato dagli sprechi, grazie alla campagna pubblica di sensibilizzazione “Spreco Zero”, un progetto di Last Minute Market-Impresa Sociale, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-alimentari (Distal) dell’Università di Bologna. Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al menu del pranzo stellato che ha pensato per i detenuti del carcere bolognese, Filippo La Mantia, apprezzato chef palermitano titolare del ristorante milanese che porta il suo nome, classe 1960, racconta a Vatican News come da giovane fotografo di cronaca nera, negli anni più bui delle stragi di mafia, è diventato cuoco. E primo ispiratore, nel 2014, dell’iniziativa “L’ALTrA cucina, per un pranzo d’amore”. Nella Palermo insanguinata dalla guerra della mafia allo Stato, uscirono dalla sua reflex di 21 enne di belle speranze, molti degli scatti di via Carini, dove furono trucidati il generale Dalla Chiesa e sua moglie. Ma coltivava anche, fin da adolescente, la passione per i fornelli. Quattro anni dopo l’agguato a Dalla Chiesa, nel 1986, la mafia uccise anche il vicequestore aggiunto Ninni Cassarà e La Mantia viene coinvolto nell’indagine. Gli investigatori scoprirono che i colpi che avevano freddato Cassarà erano partiti da un appartamento di cui lui risultava essere l’ultimo affittuario registrato. Solo che il fotoreporter aveva lasciato quella casa 8 mesi prima. Ma nella Palermo sotto assedio, questo fu appurato solo dopo sei mesi, che il 26enne Filippo trascorse nel carcere dell’Ucciardone. Racconterà poi di essersi fatto forza “grazie al sogno degli odori e sapori familiari”, con i pacchi di cibo che gli arrivavano dai suoi genitori, e cucinando per sé e gli altri 11 compagni di cella. Fino all’arrivo, alla vigilia di Natale, dell’ordine di scarcerazione firmato da Giovanni Falcone, del quale Cassarà era stretto collaboratore nel pool antimafia. Da lì parte la nuova vita dello chef La Mantia: il primo ristorante tutto suo nel 2002, “Zagara” a Roma, poi un resort in Indonesia, il ritorno nella capitale con “La Trattoria”, una tappa a Porto Cervo. Di nuovo a Roma cucina per capi di Stato e rock star, ma nel 2015 si sposta a Milano dove apre il “Ristorante La Mantia”. Tra i suoi successi la cena di gala del 7 dicembre 2017 per la “prima” del Teatro alla Scala. Ecco la sua testimonianza a Vatican News. È molto bello che la scintilla per tutto questo, l’iniziativa “Un pranzo d’amore” per i detenuti, sia venuta da una sua brutta esperienza, che però lei ha saputo valorizzare… Sì, era sempre un mio sogno, un desiderio, dato appunto che sono stato, per sbaglio, un detenuto, quindi ho potuto vedere quello che succede dentro. Il cibo è fondamentale per i carcerati, perché ti riporta a casa, ti riporta a momenti di felicità, soprattutto perché le festività sono caratterizzate, nel Sud Italia soprattutto, ma in tutta la penisola, dalla tavola imbandita, con i parenti, i figli. Quindi bisogna assolutamente far sì che persone come me, come noi chef, partecipino in maniera totale a un’attività di questo tipo. Cioè bisogna venire nelle carceri, incontrare le persone, cucinare per loro e io da cuoco ormai lo faccio da tantissimi anni. Il 24 dicembre 1986 per lei è stato un bel giorno, grazie anche al giudice Falcone… Si, non me l’aspettavo! Mi ricordo quella mattina come se fosse stamattina. Mi vennero a chiamare e mi dissero: “Guardi che lei sta per uscire”. Era il 24 dicembre, Falcone aveva firmato appunto la mia scarcerazione, ed è stato molto emozionante. Anche se, l’ho sempre detto, se potevo uscire il 25 lo avrei fatto, perché il 24 a pranzo avevamo organizzato appunto il pranzo di Natale, dove io ero anche protagonista, e quindi questa cosa un pò mi è mancata. Erano i pacchi che le arrivavano dalla sua famiglia, con gli odori delle pietanze che contenevano, a stimolarla poi a cucinare all’interno della cella per altre 13 persone. Era così? Diciamo che facevamo tutto insieme. Io ho imparato tanto da alcuni colleghi di cella, ovviamente molto più anziani di me, perché avevo 26 anni, c’era gente che veniva anche dai paesi, dalle borgate che aveva con cibo un bellissimo rapporto. Io guardando loro mi sono veramente appassionato alla cucina. E dopo ho voluto donare quello che aveva imparato a chi era ancora in una cella. Ha iniziato già dal Natale successivo a ritornare in carcere a cucinare? Subito no, perché non ero ancora nessuno e “mischiato con niente”. Perché purtroppo solo quando uno raggiunge una notorietà poi la gente ti cerca. Invece in quel primo periodo, nel silenzio più totale, pensavo anche alle famiglie dei carcerati. Quindi andavo durante le festività fuori dal carcere e davo loro delle cose da portare dentro, oppure mi occupavo della comunità di fratel Biagio Conte. Da lì ho iniziato veramente tantissimi anni fa: andavo a fare la spesa a Natale e nutrivo tutti gli ultimi che lui raccoglieva nella sua comunità. Ma è stato facile coinvolgere i colleghi chef in questa esperienza, in questa avventura del Pranzo d’Amore, dal 2014? Non ho mai avuto il problema di insistere, perché loro hanno capito il piacere di adoperarsi per questa tipologia di attività. Comunque noi cuochi già facciamo tante attività di questo tipo, anche per le associazioni che si occupano di bambini malati, per quelle che si occupano di malattie. Il cibo serve a questo: serve a creare benessere, sia a livello emotivo che a livello, in quel caso di raccolta fondi per acquistare attrezzatura per gli ospedali. Ed è una cosa che facciamo da sempre in tantissimi. Quale dei piatti che ha cucinato potremmo replicare nelle nostre famiglie nei giorni di festa? Tutti, io faccio solamente cibo che si può replicare a casa. Non ho una cucina da scienziato, nel senso che io compro cose e le trasformo, quindi couscous, verdure, pasta con condimenti a crudo. L’importante è avere della materia prima buona, tutto qua. Quindi questa esperienza nel carcere che cosa le ha lasciato, a parte la passione per la cucina? Quando lei torna in un carcere ricorda l’ingiustizia che ha subito? Era un periodo storico di Palermo dove io sono caduto in quel calderone: io non la vedo come un’ingiustizia. L’ingiustizia è quando qualcosa è voluto: perché ti devo fregare a prescindere da tutto. Lì è successo tutt’altro, e io l’ho preso come un viaggio, come un’esperienza. Non ho colpevolizzato mai nessuno, assolutamente. È successo a me come poteva succedere ad altre 100 mila persone nel mondo, come è successo a tanta altra gente, per carità, quindi mai lamentarsi. Mi è successo, ne ho fatto tesoro, ho incamerato tante nozioni, sono cresciuto mentalmente. Mi è servito, insomma, perché da ogni brutta esperienza può nascere una bellissima esperienza, che poi è stato il mio percorso con la cucina. E anche nella sensibilità di percepire i bisogni degli altri. E questa esperienza le ha dato anche la forza di resistere nelle difficoltà recenti? Il suo ristorante ha dovuto chiudere durante la pandemia… È ovvio che tutti noi abbiamo avuto tantissimi problemi, però per carità, c’è gente che non c’è più, quindi l’importante è che io sono qui a parlarne, godo di ottima salute sino a questo momento. Il lavoro in quel periodo è andato giustamente a rotoli, perché ovviamente il mondo dello spettacolo, della ristorazione, tantissime attività hanno avuto problemi. Abbiamo chiuso, abbiamo riaperto, ci siamo ristretti. È cambiato tutto, è cambiata anche la mentalità di chi fa questo lavoro e dei lavoratori. Non si vogliono più sacrificare e forse hanno ragione. Noi della mia generazione, invece, siamo ancora quelli che battiamo chiodo. Forse i tre o quattro che vorrebbe coinvolgere nel suo ristorante dal carcere di Opera, quelli avranno voglia di lavorare. Ci racconti dell’esperienza che vuole fargli fare… È ovvio che chi purtroppo è ergastolano ha un’energia dentro che sta per esplodere, per mettersi in discussione, per mettersi nuovamente nel giro del lavoro. Non si possono fare dei paragoni tra la gente che vive in maniera normale la vita, e gente che da 30, 35 anni vive recluso. Quindi vediamo quello che succede. Per il mio ristorante saranno i primi, ma vedremo. Ancora devo finire di preparare il progetto, parlare con loro, incontrarmi con gli assistenti sociali. Ma io ci sono, se ci sono le opportunità lo faccio con super piacere, assolutamente. Tensioni in vista sulla giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 dicembre 2023 Dall’informativa urgente di Crosetto al voto segreto sulla proposta di Costa per limitare la pubblicazione delle ordinanze cautelari: si prospettano 48 ore di fuoco sul fronte dei rapporti tra politica e magistratura. Si prospettano 48 ore di fuoco sul fronte dei rapporti tra politica e magistratura. Quattro gli appuntamenti che rischiano di far riesplodere le tensioni sul tema giustizia. Il primo si terrà questa mattina, quando il ministro della Difesa, Guido Crosetto, terrà un’informativa urgente alla Camera in merito alle dichiarazioni rilasciate alla stampa relative alla magistratura. Secondo quanto appreso dal Foglio, sarà presente anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio. In un’intervista al Corriere della Sera, Crosetto aveva fatto allusioni a un complotto togato contro il governo (“Mi raccontano di riunioni di una corrente su come fermare Meloni”). Il ministro della Difesa aveva poi fatto un passo indietro, specificando di non voler attaccare la magistratura e non di essersi mai riferito a “incontri segreti”. Insomma, Crosetto si riferiva a dichiarazioni pubbliche, rilasciate da magistrati in alcuni recenti congressi delle correnti di sinistra (cosa ben diversa da “riunioni” in cui si discuterebbe di “come fermare Meloni”). Il secondo appuntamento si terrà oggi pomeriggio, sempre alla Camera: la votazione dell’autorizzazione o meno all’utilizzo delle intercettazioni nei confronti dell’ex deputato (e all’epoca magistrato in aspettativa) Cosimo Ferri, sotto procedimento disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta delle intercettazioni captate tramite il trojan inoculato nel cellulare di Palamara la sera dell’ormai celebre incontro all’Hotel Champagne di Roma, il 9 maggio 2019. L’allora deputato Pd si incontrò con Palamara, Luca Lotti e cinque consiglieri togati del Csm per discutere delle nomine di vertice di alcuni uffici giudiziari, a partire dalla procura di Roma. La riunione venne intercettata nonostante nei giorni precedenti Ferri - parlamentare protetto da immunità - fosse stato intercettato decine di volte con il suo amico Palamara e nonostante alcune di queste conversazioni avessero riguardato proprio la programmazione della riunione. Quando per queste ragioni la Camera ha negato l’uso delle captazioni contro Ferri, il Csm si è rivolto con un conflitto di attribuzioni alla Corte costituzionale, che, abbastanza incredibilmente, ha dato ragione al Csm (per il solo fatto che Ferri non fosse formalmente indagato), chiedendo una nuova valutazione al Parlamento. La maggioranza di centrodestra ha tutta l’intenzione di confermare il suo “no” all’uso delle intercettazioni contro Ferri, decisione che potrebbe portare a un nuovo contrasto con il Csm. Gli altri due appuntamenti importanti in tema di giustizia avverranno domani. In mattinata Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio, sarà ascoltato in procura a Milano, nell’inchiesta che lo vede indagato per violenza sessuale ai danni di un’ex compagna di liceo. Il giovane comparirà per la prima volta davanti ai magistrati. Lo scorso luglio, quando emerse l’indagine, Ignazio La Russa si lasciò andare a dichiarazioni molto criticate, che sembravano colpevolizzare la ragazza (“Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio”). Il quarto appuntamento, forse il più importante, andrà in scena sempre domani, quando la Camera sarà chiamata a votare, a scrutinio segreto, l’emendamento presentato dal deputato di Azione Enrico Costa alla legge di delegazione europea. Per evitare che prosegua lo sputtanamento delle persone durante la fase delle indagini, Costa ha proposto di impedire la pubblicazione letterale (è esclusa la sintesi) delle ordinanze di custodia cautelare, solitamente piene di intercettazioni e atti di indagine. Dopo aver sottolineato per tanto tempo l’importanza di evitare la pubblicazione arbitraria di contenuti non rilevanti, il ministro Nordio ha dato parere negativo all’emendamento, che invece sarà sostenuto da Forza Italia e da una parte della Lega. Per correre ai ripari, il governo, tramite la mediazione del sottosegretario Delmastro, sta facendo campagna per ottenere il “no” del Movimento 5 stelle. Insomma, la maggioranza sta chiedendo aiuto all’apposizione. Anche questo può succedere quando si parla di giustizia. Costa “spacca” il governo. Che ora conta sui 5 Stelle di Simona Musco Il Dubbio, 19 dicembre 2023 Atti non pubblicabili, il sì deciso di Forza Italia all’emendamento del deputato di Azione. L’esecutivo corre ai ripari contro il voto al buio. Il governo prova a mettere i bastoni tra le ruote ad Enrico Costa. Il cui emendamento pro-presunzione di innocenza, pure in linea con il programma di maggioranza, rischia di smascherare i malumori interni all’Esecutivo, grazie al voto segreto che mercoledì consentirà ai “dissidenti” di esprimere tutto il proprio malcontento cliccando un solo pulsante. E per evitare di ritrovarsi in minoranza, esponenti di primo piano del governo starebbero facendo scouting addirittura tra le file del M5S, sicuramente contrario all’emendamento Costa, ma allettato dall’idea di mandare in crisi Giorgia Meloni. Tutto ruota intorno ad una proposta di modifica presentata dal deputato di Azione - e cofirmata dal collega di Italia Viva Davide Faraone - all’articolo 3 della legge di delegazione europea, in base alla quale “al fine di garantire l’integrale e compiuto adeguamento” alla direttiva sulla presunzione di innocenza “il governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge” per “modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei princìpi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (Ue) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016”. Insomma, niente atti sui giornali fino a quando non ci sarà un processo e, dunque, un effettivo contraddittorio, in modo da realizzare una piena attuazione di quella direttiva. “Il pm può mantenere la sua comunicazione nei confini di un comunicato stampa - aveva spiegato al Dubbio Costa -, perché se si buttano chili di intercettazioni nelle ordinanze cautelari e il gip fa copia e incolla, con intercettazioni che magari riguardano terze persone, selezionate dal pm, quello è un pugno in faccia alla persona indagata, che poi magari verrà assolta, ma che sarà per sempre perseguitata da quegli atti”. Il governo, come spiegato dal Dubbio la scorsa settimana, ha dato parere negativo. Ciò nonostante le parole pronunciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio al Senato solo a gennaio scorso - quando aveva denunciato la pubblicazione arbitraria di atti di indagine anche dopo la legge Orlando - e nonostante la sedicente anima garantista dell’esecutivo. E ad impensierire Palazzo Chigi ci ha pensato Forza Italia, che dopo aver covato per mesi il proprio malumore per l’estremo giustizialismo dei compagni di viaggio ha annunciato il proprio sostegno a Costa. Trattandosi di voto segreto, a Meloni potrebbero sfuggire però altri pezzi di maggioranza: sono in tanti, infatti, coloro che voteranno sì tra i deputati della Lega, ma anche Fratelli d’Italia potrà perdere qualche pezzo con il favore delle tenebre. Da qui il pressing su coloro che, ontologicamente, non potrebbero mai aderire all’emendamento Costa, ma che sono tentati di mettere in difficoltà la maggioranza. Che, comunque, si ritrova nella paradossale situazione di rigettare - ancora una volta - un principio sbandierato in lungo e in largo nel corso della campagna elettorale. Soprattutto da Nordio, che pur dicendosi d’accordo con Costa si ritrova ora imbrigliato tra i “no” dell’ufficio legislativo - pieno di magistrati -, ufficio che avrebbe evidenziato ipotetici problemi non meglio specificati. “Sembra che il governo sia consapevole che in maggioranza ci sono dei malumori - spiega Costa al Dubbio - e che potrebbero emergere tutti col voto. Quindi stanno provando a convincere il M5S a non fare scherzi. Il che è paradossale: un emendamento garantista, che è in linea con le cose che ha detto il ministro, viene non solo respinto dal governo, ma finisce per creare una liaison con i 5 Stelle. Hanno una paura tremenda del segreto dell’urna”. Il deputato di Azione non si illude: che l’emendamento passi è quasi certamente da escludere. Ma a “tormentarlo” è l’idea che il governo, anziché promuovere i propri stessi principi, boicotti il proprio programma elettorale per paura della reazione della magistratura, già sul chi va là per la riforma della prescrizione, tuttora in ballo. “Mi era stata annunciata una riformulazione - spiega ancora Costa -, ma a me non è arrivato nulla. È probabile che venga proposta una formulazione affievolita o che mi chiedano di ritirare l’emendamento, cosa che per quanto mi riguarda è impossibile. O magari mi verrà promesso l’inserimento di questa proposta in qualche altro provvedimento: le tecniche le conosco, sono stato anch’io al governo. Ma visto che fanno un decreto a settimana, se ci credono, cosa ha impedito loro di farne uno apposito finora?”. Di certo, avverte Costa, essendo stato ritenuto ammissibile il governo non potrà giocarsi la scusa della sua incoerenza con la materia in esame. Inoltre, il governo non ha esercitato la delega per i decreti sulla direttiva sulla presunzione d’innocenza, scaduta pochi giorni fa, proprio nel giorno in cui alla Camera è stato reso noto l’emendamento di Costa. “Il problema - conclude il deputato - è che a mancare è la volontà politica”. Un altro colpo alla libertà d’informazione: tenere segreti gli ordini di arresto è un pericolo di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2023 L’emendamento presentato da Enrico Costa e verosimilmente affidato alla coscienza dei parlamentari che potrebbero votarlo a scrutinio segreto domani, rappresenta un pericolo per la democrazia, ma anche per gli amici del presentatore. L’emendamento alla Legge di delegazione europea se approvato vieterà la pubblicazione delle Ordinanze di Custodia Cautelare emesse da un gip su richiesta di una Procura. Questo divieto si iscriverebbe nel solco di quanto fin qui fatto per sostanziare il principio costituzionale della presunzione di innocenza, combattendo la “gogna mediatica”, l’anticipazione per via giornalistica del giudizio penale, che tante vite innocenti ha travolto in Italia. L’argomento è purtroppo fondato perché spesso il “grilletto” è stato tirato in maniera irresponsabile, spietata e strumentale, adoperando in maniera impropria documenti delicati, che andrebbero sempre maneggiati con rigore e prudenza. La fondatezza di questo argomento è però utilizzata da anni per perseguire un fine pericolosamente esondante e cioè quello di contenere in tutti i modi la possibilità di conoscere quel che fa chi ha potere, la possibilità di poterne dare pubblica notizia, la possibilità di poterlo pubblicamente criticare. La strategia di aggressione è simile a quella messa in campo contro le misure di prevenzione patrimoniali: buttare via il bambino con l’acqua sporca (a proposito: se qualche paziente lettore di questo blog fosse in possesso della memoria inviata dal governo italiano alla Cedu nell’ambito del procedimento 29614/16 “Cavallotti VS Italia” e volesse condividerla, mi farebbe un gran servizio!). L’armamentario per restringere progressivamente il diritto/dovere di informare e di essere informati si arricchisce di giorno in giorno, fino al recente tentativo di inserire nel regolamento europeo sulla libertà di informazione, la possibilità di intercettare i giornalisti per scoprirne le fonti, in nome della sicurezza nazionale (non che non si faccia già, intendiamoci, ma poterlo fare legalmente manderebbe un segnale intimidatorio tale da far impallidire la più temeraria delle querele “bavaglio”!). Cosa si dovrebbe opporre a questo argomento? Che una democrazia liberale e costituzionale come la nostra deve tutelare contemporaneamente beni giuridici diversi, anche quando siano parzialmente in conflitto tra loro. Nella questione che ci riguarda i beni giuridicamente meritevoli che entrano in conflitto sono proprio la presunzione di innocenza sul piano penale e la tutela della riservatezza della vita privata da un lato con il diritto/dovere di informare e la pubblicità del procedimento penale dall’altro (delle dittature non rimpiangiamo proprio niente). Come bilanciare la tutela di questi beni? Come trovare cioè il punto di mediazione? Gettando sul piatto il bene primario della sovranità popolare, fondamento della nostra Repubblica, che presuppone un costante impegno finalizzato alla redistribuzione del potere (sennò tanto valeva tenersi re, regine, principi e baroni). Questo impegno impone a sua volta che la stampa sia libera di informare sulle condotte che riguardino soprattutto i potenti, che in quanto tali sono naturalmente tentati dalla possibilità di adoperare il potere acquisito per impedire che glielo si tolga, anche manipolando la realtà a proprio uso e consumo. Che la stampa sia libera di adoperare informazioni pubbliche, perché relative (in questo caso) ad un procedimento giudiziario in itinere, per raccontare fatti e circostanze e magari porre qualche domanda, è un fattore essenziale per evitare che la democrazia diventi un ring per pochi “cittadini-trust” e tantissimi “cittadini-popcorn”! Ha insomma a che fare con quel “ascensore sociale” tante volte invocato e che in Italia ha ormai il dinamismo di un bradipo (stanco). Ma tutte queste cose Enrico Costa, di solida formazione liberale, le sa anche meglio di me. Ecco perché sospetto che in realtà si lavori a buttare via il bambino con l’acqua sporca, un po’ come quando tredici anni fa, sempre Costa si dava un gran da fare per il “legittimo impedimento” e c’era da chiedersi se l’intento fosse quello di preservare gli organi costituzionali o più banalmente Berlusconi dai processi. Quella battaglia Enrico Costa la portò avanti con un altro protagonista del “garantismo” italiano: Michele Vietti, oggi presidente di Finpiemonte. Ecco, proprio Vietti dovrebbe accendere un cero in Chiesa, benedicendo la pubblicità delle Ordinanze di Custodia Cautelare, che l’amico Enrico vorrebbe segretare. Infatti proprio grazie all’ultima OCC contro la ‘ndrangheta a Torino, quella dell’inchiesta “Timone”, Vietti avrà potuto prendere urgenti ed adeguate contromisure, avendo letto di come un tale, fortemente indiziato di appartenere alla ‘ndrangheta, si vanti al telefono con un tizio, fortemente indiziato di essere a disposizione della ‘ndrangheta medesima, niente meno di aver quasi finito di costruire una RSA su mandato del “capo” di quest’ultimo, cioè appunto Vietti. Robe dell’altro mondo! Millanterie di “muratori” dai quali stare alla larga. *Attivista antimafia ed ex deputato del Partito Democratico Il j’accuse di Crosetto. “Le regole le decide il Parlamento, non la magistratura” di Arturo Celletti Avvenire, 19 dicembre 2023 Informativa del ministro della Difesa con Nordio al suo fianco: preoccupato per alcune tendenze delle toghe. E insiste: ogni giorno 4 innocenti in carcere. “Ora però un tavolo di pace”. Guido Crosetto non indietreggia. Anzi, in una Camera poco affollata, torna a mettere in fila tutte le sue preoccupazioni. “Mi era stato riferito che in varie riunioni ufficiali della magistratura venivano dette delle cose che dovevano sollevare preoccupazioni istituzionali, un dibattito. Il mio non è stato un attacco alla magistratura, le mie sono state riflessioni e preoccupazioni riguardo ad alcune tendenze che vedo emergere non in modo carbonaro, ma in modo molto evidente”. Siamo al capitolo due. Siamo all’informativa urgente dopo l’intervista rilasciata al Corriere della sera il 26 novembre. Insomma per capire bisogna tornare indietro di un mese. “A me raccontano di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni. Siccome ne abbiamo viste fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle Europee...”. Parole nette e la polemica è inevitabile. Crosetto prova a spiegare. Il 6 dicembre viene anche ascoltato in Procura a Roma, come persona informata sui fatti, in merito ai suoi timori. Poi, venerdì scorso incontra al ministero il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia. E nell’incontro definito cordiale ci sarebbe stato un chiarimento sulla questione. Ora in un’Aula della Camera poco affollata va in scena l’atto secondo: l’informativa urgente. “Nessun potere o organo dello Stato deve sentirsi sotto attacco, potendo operare in libertà”, dice Crosetto. “Alcune cose lette - spiega tornando a riferirsi a conversazioni interne alla magistratura - sono qualcosa su cui la Camera dovrebbe riflettere”. Al suo fianco c’è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Come se l’intenzione del governo e di Giorgia Meloni fosse mostrare che le parole del ministro della Difesa sono le parole di tutto l’esecutivo. Crosetto insiste: “Posso chiedermi che senso ha pensare in una democrazia che si riferisce all’avanguardia avere tre, quattro persone al giorno che finiscono ingiustamente nelle carceri italiane? Non parlo dei potenti. I potenti raramente finiscono in carcere. Parlo di migliaia di persone, sconosciute, che finiscono ingiustamente ogni giorno in carcere senza alcuna motivazione”. Sono parole ancora una volta dure. Sono parole dietro le quali prende forma la volontà di cambiare passo. “Penso sia importante - se noi vogliamo uscire dallo stallo in cui la politica italiana è da quasi 30 anni - uscire da questo scontro pregiudiziale tra politica e magistratura, definendo le regole entro le quali si muovono il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. La volontà popolare risiede qui. La rappresentanza appartiene alla politica. La rappresentanza non appartiene alla magistratura e neppure all’Esecutivo: appartiene per la Costituzione a quest’Aula e a quella del Senato, appartiene al Parlamento”. Ora però c’è la volontà di liberare il campo dai sospetti. Di riavvicinare politica e magistratura. Crosetto alla fine tende la mano. “Sarebbe l’ora di costruire un tavolo di pace nel quale si definiscono le regole per la convivenza nei prossimi anni”. Crosetto in Aula: “Sono preoccupato per la tendenza che emerge dalla magistratura” di Giulia Merlo Il Domani, 19 dicembre 2023 Il ministro della Difesa è intervenuto per spiegare la sua dichiarazione sulla “opposizione giudiziaria” e ha letto le parole pronunciate da alcuni magistrati nel corso del congresso di Area. Alla Camera ha letto alcune dichiarazioni prese dal congresso del gruppo associativo di Area, tra cui: “C’è una evidente insofferenza nei confronti della magistratura, nella sua funzione fisiologica antimaggioritaria” e “nella mediocrità di una politica impegnata ad assecondare gli istinti della folla, prigioniera delle sue pulsioni da social, dobbiamo assumerci la responsabilità” e “la magistratura deve essere consapevole della posta in gioco”. Per questo, Crosetto ha spiegato che le sue sono state “riflessioni e preoccupazioni riguardo alcune tendenze che vedo emergere nelle discussioni dei magistrati”. Il ministro ha detto che “la rappresentanza appartiene al parlamento, non alla magistratura e nemmeno al governo”. Secondo Crosetto, “La magistratura è un gruppo di alti funzionari selezionati per la loro competenza tecnica, dotati di specifiche garanzie in funzione della funzione che svolgono” e ha spiegato che “la magistratura accerta i diritti previsti dalla legge e sancisce i reati previsti dalla legge e riconosciuti in contraddittorio tra le parti. Questo la costituzione affida alla magistratura”. Infine, ha concluso dicendo che “Sarebbe l’ora di costruire un tavolo di pace nel quale si definiscono le regole per la convivenza nei prossimi anni. Non è possibile che ci sia uno scontro dal ‘94 a oggi senza riportare la discussione e la composizione all’interno di quest’aula”. La funzione antimaggioritaria - Il ministro ha sottolineato la formula di “funzione antimaggioritaria” usata nel congresso di Area, intendendola nel senso che i magistrati della corrente progressista si sentirebbero politicamente opposti alla maggioranza di governo. In realtà, la formula “funzione antimaggioritaria” è spesso utilizzata nella dottrina giuridica, intendendola come la funzione di tutti gli organi di rilevanza costituzionale, primo tra tutti la Corte costituzionale, di compensare e verificare le scelte delle maggioranze politiche che si susseguonoo. La Consulta, che non ha la legittimazione elettorale ma è organo di garanzia imparziale, ha appunto il compito di valutare le leggi approvate dalla maggioranza nella loro conformità costituzionale e in funzione antimaggioritaria. Gli attacchi - Se Fratelli d’Italia ha puntato la sua replica rivendicando il diritto di parola e di espressione del pensiero del ministro, ad affondare il colpo contro i magistrati delle correnti progressiste sono stati Lega e Forza Italia, di fatto riaprendo un conflitto che Crosetto sembrava voler chiudere. Simonette Matone, ex magistrato e oggi deputata della Lega, ha attaccato citando in particolare il congresso di Magistratura democratica. Giorgio Mulè ha parlato di “manipolo di magistrati che si sentono superiori alla legge”. Il processo “7 aprile” ha fatto da apripista: dal caso Tortora fino alla “trattativa Stato-mafia” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 19 dicembre 2023 Su Toni Negri, deceduto novantenne nei giorni scorsi a Parigi, girava una storiella che sempre suscitava ilarità, negli ambienti di Potere Operaio degli anni settanta. Pare che un giorno il professore padovano già allora considerato un gigante per i suoi studi filosofici e la sua brillante e precoce carriera accademica, fosse particolarmente infuriato. E alla fine fosse sbottato, con queste parole: perché compagni, o noi ci decidiamo a fare un salto di qualità nella lotta politica di fabbrica, oppure finisce in un solo modo, che spariamo. Dopo un attimo di sconcerto, i compagni erano scoppiati in una grande risata. Solo lui, il Toni, pareva disorientato, prima di rendersi conto dell’equivoco su quella prima persona plurale del verbo sparire che coincideva con quella del verbo sparare. Sarebbe forse bastato, ai magistrati che lo hanno tenuto a lungo in carcere da innocente, conoscere quell’episodio, e soprattutto il benevolo scherno con cui coloro che lo conoscevano bene non avevano neanche per un attimo accolto l’ipotesi che Toni Negri avesse in mente il passaggio alla lotta armata, per cambiare il corso della storia. È pur vero che tutto poteva accadere, in quei tragici anni settanta. Ma Toni Negri fu sicuramente, oltre che un grande filosofo e un leader politico non da salotto, un teorico della sovversione sociale, a partire dalle fabbriche. In contrasto con le Brigate Rosse e la loro pratica della clandestinità. Era il mondo dell’estremismo di sinistra di quegli anni, che forse non era facile da capire e da interpretare per la maggior parte delle persone e anche dei magistrati, ma non per la sinistra e il suo principale partito, il Pci. Pure fu proprio il mondo dei comunisti ortodossi, con le sue propaggini giornalistiche, e anche qualche collateralismo di ambito giudiziario, a costruire la prima grande bufala politico- giudiziaria della storia italiana. Che venne prima del caso Tortora, di tangentopoli e di tutto quello che ne è seguito negli ultimi trent’anni. Prima di parlare di giustizialismo e di circo mediatico- giudiziario bisognerebbe studiare la storia del processo “7 aprile” del 1979. Che si intrecciò anche, proprio nella figura di Toni Negri, con il più significativo atto terroristico della storia italiana, il rapimento e l’omicidio del Presidente della Dc Aldo Moro. Quel 7 aprile del 1979 una retata promossa da un pm padovano di nome Pietro Calogero rase al suolo l’intera dirigenza di Autonomia Operaia, un movimento che predicava la sovversione sociale, fortemente caratterizzato dall’operaismo teorizzato da riviste come “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri e Mario Tronti, ma che sicuramente non era terroristico. Pure, Toni Negri con il collega Luciano Ferrari Bravo e altri docenti della facoltà di Scienze politiche di Padova, e poi Oreste Scalzone e tanti altri, una sessantina, furono arrestati e portati nelle carceri speciali. Dove non c’era ancora l’articolo 41- bis dell’ordinamento penitenziario, ma c’era l’articolo 90, che forse era anche peggio. La gran parte di loro resterà in galera cinque anni. Erano accusati di essere i vertici di tutti i movimenti violenti o terroristici di quegli anni e di aver costituito una “O”, cioè organizzazione, che aveva rapinato, sparato e ucciso. Le imputazioni andavano dalla costituzione di banda armata fino all’insurrezione contro i poteri dello Stato. Dieci anni di storia della sinistra estremistica, dal 1969 al 1979, erano letti in quella chiave e attribuiti a loro. Il professor Toni Negri, il capo, era inoltre accusato di essere il mandante e l’esecutore del delitto Moro. Sarebbe stato da ridere, quasi come nell’episodio dello “spariamo”, ma ormai non si rideva più. Era iniziata la stagione delle leggi speciali, dell’uso dei primi “pentiti”, dell’abuso dei reati associativi. I quotidiani della sinistra ogni giorno inzuppavano il pane, La Repubblica si spinse fino al titolone che indicava Toni Negri come capo delle Brigate Rosse. L’Espresso a un certo punto toccò il fondo. Inserì nella rivista un dischetto con la registrazione della voce di un telefonista delle Br che parlava con la moglie di Moro minacciandone l’esecuzione. È la voce di Toni Negri? chiedeva L’Espresso ai suoi lettori. Una parlata di cadenza esplicitamente centro- italica (si saprà in seguito appartenere a Valerio Morucci) veniva volutamente confusa con un accento marcatamente veneto come quello del professore padovano. Nella confusione costruita e orchestrata da un mondo di sinistra impazzito, anche chi scrive divenne vittima e subì due giorni di carcere per falsa testimonianza per aver partecipato, un anno prima, a una cena a casa di un magistrato in compagnia del pm Emilio Alessandrini e proprio di Toni Negri. Perché nel frattempo Alessandrini era stato ucciso da Prima Linea e la moglie ritenne di aver riconosciuto la voce di Toni Negri, proprio perché l’aveva sentita nella famosa cena, in quella del dischetto dell’Espresso. Ma, a parte l’increscioso fatto personale (bisogna imparare che i giornalisti non dovrebbero andare a cena con i magistrati), la storia del processo “7 aprile” finirà in una grossa bolla di sapone, nel 1987, al processo d’appello. Ovviamente Toni Negri non era il capo delle Br né aveva rapito Moro. Potere Operaio e Autonomia non erano bande armate, nessuno aveva tentato l’insurrezione, il professore era solo condannato come “sovversivo”, la gran parte dei suoi coimputati era assolta. Avevano scontato anni e anni di carcere speciale per un “teorema”. Che era stato l’apripista di quel che verrà, da Enzo Tortora fino a Mario Mori e la bufala del processo- trattativa. Borsellino, la sua morte trasformata in una giostra giudiziaria di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 19 dicembre 2023 Un girotondo impazzito al quale hanno preso parte giudici, investigatori, pentiti, giornalisti e molti cavalieri della fuffa. Dodici dibattimenti, dodici sentenze, nessuna certezza. Ci sono saliti in tanti e molti altri lo faranno. Chissà chi ha avviato l’ingranaggio. Non c’è tempo di porsi domande. La grande giostra gira veloce. E la velocità confonde, risucchia la netta differenza fra i figli del dolore, che ne avrebbero volentieri fatto a meno, e chi sgomita per trovare posto e ingrassare l’amor proprio. Fra chi si impegna perché ci crede davvero e chi cerca solo uno strapuntino di notorietà. Fra magistrati e investigatori animati da spirito di servizio e carrieristi. Il risultato è che 31 anni dopo la strage di via D’Amelio si sono smarrite troppe cose. La verità, innanzitutto. A volte anche il decoro e il senso della misura, sentimenti che il rispetto per i defunti avrebbe dovuto suscitare. Si fa fatica a stare dietro al turbine degli accadimenti. Spunta ogni giorno un nuovo super testimone, un nuovo verbale, un nuovo decreto di perquisizione. In Procura, a Caltanissetta, competente per le indagini sulle stragi di mafia, prima o poi finirà lo spazio fisico dove archiviare tonnellate di carte. La giostra è stata soprattutto giudiziaria. Il resto è venuto da sé. Unica eccezione la fermata, seppure tardiva, per far scendere i saltimbanchi della giustizia spacciati per collaboratori. Il prezzo pagato è stato altissimo in termini di credibilità. Si è scoperto che erano stati condannati degli innocenti rimasti a lungo in carcere. È potuto accadere perché non uno ma un centinaio di magistrati, fra giudici (compresi quelli popolari) e pubblici ministeri, hanno preso per buone, senza mai dubitarne, le dichiarazioni dei falsi pentiti. Molti di loro oggi si indignano parlando di depistaggio, continuano a imbastire processi (e quando li perdono ripiegano su quelli mediatici che funzionano sempre laddove le chiacchiere valgono più delle prove), danno la caccia ai fantasmi pur di non ammettere di avere preso un clamoroso abbaglio collettivo. Tra il 1996 e il 2021 sono stati celebrati cinque processi (Borsellino, Borsellino bis, Borsellino Ter, Borsellino quater e quello di revisione a Catania). Tra primo grado, appello e Cassazione significa dodici dibattimenti che si sono spesso sovrapposti non solo per il tema trattato, ma anche temporalmente. Solo negli anni più recenti i magistrati hanno aperto gli occhi dopo che per una lunghissima stagione la loro posizione si è appiattita sui racconti dei pentiti. Avrebbero potuto smascherare e zittire sul nascere Vincenzo Scarantino e soci. È andata diversamente. Le sentenze sono state un inno alla loro attendibilità. I giudici del primo processo, celebrato davanti alla Corte di assise presieduta da Renato Di Natale, ritennero provato che un balordo di borgata come Scarantino fosse in realtà un killer di mafia. Per accreditarsi, infatti, non raccontò solo della strage, ma disse di avere commesso una sfilza di omicidi. Poteva, d’altra parte, un malacarne stare al fianco di Totò Riina in uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia e di Cosa nostra? Per rendere credibile se stesso, ancora prima del suo racconto, Scarantino, sconosciuto ai mafiosi e all’intelligence (?) antimafiosa, si inventò di avere ammazzato una decina di persone. Alzò la manina e si autoaccusò. Anni dopo avrebbe detto di averlo fatto sotto tortura del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, il super poliziotto che guidava il gruppo investigativo sulle stragi e che dopo la morte è diventato l’uomo dei misteri. Da solo, o con complici rimasti nell’ombra, così dicono le più recenti ricostruzioni, La Barbera avrebbe ideato il depistaggio obbligando a suon di botte e soprusi i collaboratori di giustizia affinché recitassero un copione. La verità è che per un paio di decenni gli unici a mettere in guardia dalle bugie di Scarantino sono stati gli avvocati degli imputati. Si poteva mai dare ascolto a chi difendeva i carnefici? La Corte di assise del primo processo spiegò che Scarantino non si era pentito per “sottrarsi alla severa condanna per i fatti commessi, ma piuttosto nella volontà di garantirsi un bene ben più prezioso della libertà personale, la propria vita”. L’assunto era che i boss, quelli veri, lo avrebbero eliminato: “Egli non teme la condanna degli organi dello stato, ma sa sa bene che dovrà pagare a Cosa nostra l’imprudenza commessa, affidandosi a Candura per il reperimento dell’autovettura che doveva essere utilizzata per la strage”. Quel Salvatore Candura a cui la stessa Corte assegnò “il crisma dell’attendibilità” (frase usata nella motivazione della sentenza). La sua collaborazione “appare il frutto di una precisa scelta, certamente sofferta e tormentata, cui il medesimo si è comunque determinato in maniera del tutto autonoma e spontanea, senza aver ricevuto all’uopo pressioni o sollecitazioni da alcuno”. E invece ha mentito. Un paio di mesi dopo la strage, i primi giorni di ottobre 1992, raccontò di avere rubato la Fiat 126 poi imbottita di esplosivo e parcheggiata sotto casa della mamma di Borsellino, in via D’Amelio. Nel 1994 credette che patteggiare una pena per il furto gli avrebbe garantito un futuro tranquillo. Pochi mesi fa la Cassazione ha definitivamente respinto la sua tragicomica richiesta di essere risarcito dallo stato per l’errore giudiziario di cui si riteneva vittima, ma che egli stesso ha contribuito a creare. A meno che Candura non si riferisse al fatto che la colpa non è di chi si è inventato delle panzane e ha traccheggiato con il dolore altrui, ma di coloro che gli hanno dato credito. Di “puntigliosa ricostruzione con dovizia di particolari” parlavano i giudici nel caso di un terzo pataccaro, Francesco Andriotta, l’ergastolano che giurò nel 1993 di avere raccolto - in cella - le confidenze di Scarantino sulla strage, puntellando l’impalcatura delle menzogne. I racconti dei collaboratori di giustizia passarono al vaglio della Corte di appello presieduta da Giovanni Marletta. La fede in Scarantino non traballò neppure di fronte alla sua ritrattazione. A un certo punto, infatti, in un rigurgito di dignità il falso pentito spiegò di avere mentito per sfuggire alle torture subite su ordine di La Barbera nel carcere di Pianosa. “Controdichiarazioni inserite in un contesto simulatorio”, scrissero i giudici. Perché avrebbe dovuto simulare? Scarantino era stato nel frattempo “demolito”. Era il 1995, mica ieri, quando si trovò faccia a faccia con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti, questi sì, attendibili. Se Scarantino “fa parte di Cosa nostra” allora “sono cambiate le regole”, diceva La Barbera. Di Matteo tagliò corto: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi era stato il più tranciante: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”. Eppure i giudici dissero che era solo una questione semantica, “di terminologia mafiosa”, dovuta al fatto che Scarantino “non apparteneva all’aristocrazia di Cosa nostra, non era stato presentato anche per questo fuori dal mandamento”, era un semplice killer e guardaspalle e forse non era neppure “un uomo d’onore in senso formale”. Il paradosso si raggiunse quando si resero conto che, al di là di ogni ragionevole dubbio, Scarantino una bugia gliela aveva certamente rifilata. Riferì che i tre collaboratori presero parte alla riunione in cui furono deliberate le stragi. La Corte, però, diede la colpa all’intervento di “soggetti esterni”, “suggeritori ed esponenti di Cosa nostra” per inquinare le indagini. La ritrattazione finì per essere la conferma che Scarantino avesse detto la verità. Anche al Borsellino bis piovvero gli ergastoli che in primo grado, nel 1999, il collegio presieduto da Pietro Falcone inflisse a una sfilza di capi mafia sanguinari. Tre anni dopo in appello, il presidente era Francesco Caruso, la condanna fu estesa ad altri imputati tra cui coloro che anni dopo sarebbero stati assolti e scarcerati nel processo di revisione avviato a Catania. Era intervenuto Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, a picconare il racconto di Scarantino. Fece emergere quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Un depistaggio finora senza colpevoli. Sempre a Caltanissetta nei mesi scorsi sono state dichiarate prescritte le accuse nei confronti dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei. Il terzo agente imputato, Michele Ribaudo, è stato assolto nel merito. È da poco iniziato il processo di secondo grado. Gli imputati assieme a La Barbera avrebbero infiocchettato Scarantino per rifilare il pacco ai magistrati. Avrebbero fatto tutto da soli. Così si deduce dall’esito di inchieste e processi. Nel 2021, infatti, a Messina è stata archiviata, su richiesta della stessa Procura, l’indagine nei confronti dei pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma. Due magistrati che hanno fatto carriera (procuratore di Ragusa e aggiunto a Catania il primo, avvocato generale della Corte di appello di Palermo la seconda), ma che nel 1992 erano sostituti alla Procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra. Furono loro a interfacciarsi nella fase iniziale con Scarantino. Il giudice di Messina chiuse il caso perché non ravvisò condotte penalmente rilevanti. Sottolineò, però, che “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore”. Basterebbe citare il mancato deposito dei verbali di confronto tra Scarantino, Cancemi, Di Matteo e La Barbera del gennaio 1995. Oltre a Petralia e Palma a maneggiare le dichiarazioni di Scarantino era stata pure Ilda Boccassini che prima di tornare a Milano e legare il suo nome alle inchieste su Silvio Berlusconi, dopo due anni in Sicilia, consegnò una relazione a Tinebra. È vero che invitava i colleghi a prendere con le pinze l’attendibilità di Scarantino. Altrettanto vero è che negli anni successivi non si ricordano altri interventi di Boccassini per segnalare che il treno su cui stavano ostinatamente seduti i colleghi stava deragliando. Anche Antonino Di Matteo, il pm del processo sulla “trattativa stato-mafia” oggi alla Procura nazionale antimafia, ritenne attendibili le rivelazioni di Scarantino. Neppure dubitò dopo la sua ritrattazione che, disse, “ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”. “Nei primi interrogatori abbiamo ritenuto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate”, spiegò Di Matteo citato come testimone al Borsellino quater. Eppure un campanello d’allarme era già suonato per via di quelle sovrapposizioni temporali fra i processi. La Corte d’assise del Borsellino ter, presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore generale di Catania, parlò di “parto della fantasia” riferendosi al racconto di Scarantino. Un giudizio che non scalfì le convinzioni dei pubblici ministeri che proposero appello e fecero condannare gli innocenti scagionati dopo anni di carcere. Il ruolo in generale della magistratura, quanto meno collettivamente distratta, e la posizione di Di Matteo in particolare hanno provocato una profonda spaccatura tra i familiari di Paolo Borsellino. Sono saliti, loro malgrado, sulla giostra ma con prospettive diverse. Di dura critica i figli Fiammetta, Lucia e Manfredi. Di difesa accorata il fratello del magistrato, Salvatore. Fiammetta sul caso Scarantino disse: “Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…”. Tutti componenti di “quell’efficientissimo team di magistrati”. Parole di certo non pronunciate con tono lusinghiero. L’attacco al dogma dell’infallibilità della magistratura segnò uno spartiacque. Le parole non potevano essere tenute nascoste. Rimbalzarono sui media, anche quelli abituati a non solleticare le procure. I Borsellino hanno cambiato l’inerzia della giostra. Non si sono mossi in maniera compatta, però. Dolore comune, reazione diversa. I figli, disertando le passerelle delle commemorazioni, hanno obbligato la magistratura ad assumersi le proprie responsabilità, a guardarsi dentro piuttosto che cercare sempre e solo nemici all’esterno. Posizione non gradita allo zio Salvatore che ha fatto della militanza un tratto distintivo. Sempre al fianco dei magistrati con il movimento delle Agende rosse, anche quando quando i pubblici ministeri si lasciavano condurre per mano nei sentieri della vivida immaginazione di Massimo Ciancimino. Storico è rimasto l’abbraccio fra Salvatore Borsellino e Ciancimino jr in via D’Amelio. L’ultima spaccatura, la più evidente, si è consumata al processo di Caltanissetta sul depistaggio quando l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia e costituito parte civile per i familiari, ha elencato nella sua arringa i nomi di Palma, Petralia, Di Matteo e anche di Roberto Scarpinato. Credettero alle menzogne dei collaboratori di giustizia e non svilupparono l’indagine “mafia e appalti” al quale stava lavorando Borsellino e dietro cui potrebbe nascondersi il vero movente della strage. Salvatore Borsellino e il suo legale, Fabio Repici, hanno preso le distanze. Trizzino anche di recente ha rilanciato il suo pensiero. Non c’è una verità trentuno anni dopo anche perché la magistratura l’ha cercata nel posto sbagliato, imbastendo ad esempio il processo sulla Trattativa. Si è spinta a sostenere, senza averne le prove, che l’eccidio di via D’Amelio subì un’accelerazione perché Borsellino aveva smascherato la Trattativa portata avanti dagli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno. Gli stessi che sono stati processati e assolti e con i quali, ed è una prova della fiducia che su di loro riponeva, Borsellino si incontrò prima di morire. In ballo c’era l’indagine su mafia e appalti, in gran parte archiviata e certamente trascurata. Un gruppo di potere composto da imprenditori, politici e mafiosi decidevano gli appalti e si spartivano i soldi. Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi, ma la Trattativa è stato l’unico faro investigativo. Accecante fino al punto da oscurare ogni ipotesi alternativa. Si sa, la fuffa è più affascinante della sostanza. Riempire di suggestioni le aule è la strada verso l’olimpo della magistratura. Non serve “vincere” i processi, le carriere si costruiscono e si puntellano inseguendo i massimi sistemi. Si è preferito insistere sugli errori del passato. Sulla giostra sono stati accolti a braccia aperte e coccolati nuovi collaboratori di giustizia strampalati dai ricordi confusi e tardivi. Come il catanese Maurizio Avola, killer di 80 omicidi, l’ultimo a iscriversi nella lunga lista degli attori di una sceneggiatura infinita. Avola ha raccontato di avere piazzato con le sue mani il tritolo nella Fiat 126 parcheggiata e fatta esplodere sotto l’abitazione del magistrato. Una descrizione dettagliata, la sua: i candelotti erano una dozzina, del peso di circa un chilo ciascuno, la miccia fu messa in un modo e il detonatore attivato in un altro. La Procura di Caltanissetta si sentì obbligata a diramare una nota per spiegare che Avola si era inventato tutto. Come il messinese Carmelo D’Amico che ha raccontato di avere saputo che “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ‘92, di Capaci e di via D’Amelio”. Glielo aveva riferito in carcere il potente capomafia palermitano Nino Rotolo. Ne raccolse le confidenze tra il 2012 e il 2014. D’Amico aveva tagliato fuori l’argomento dai suoi verbali per paura di essere ammazzato in carcere dai servizi segreti. Come il calabrese Nino Lo Giudice che ci ha messo anni prima di rivelare che a fare saltare in aria il giudice Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, soprannominato “faccia da mostro” per via di una ferita al volto, misterioso fra i misteriosi servitori infedeli dello stato e ormai deceduto. Ricostruzioni che sovvertono le certezze giudiziarie finora raggiunte. Voci smentite e altre impossibili da verificare che hanno contribuito ad affollare la giostra, che è anche mediatica, con le figure degli scrittori e dei mattatori dei talk-show. Le dichiarazioni di Avola sono finite nel libro “Nient’altro che la verità” che segnò il ritorno sulla scena di Michele Santoro. Se non si fa un giro sulla giostra si resta ai margini. Chiunque vuole dire la sua. Prendete un vecchio pentito come Gaspare Mutolo, che dal salotto di Massimo Giletti teorizzava, lui che è fuori dalla mafia da decenni, che c’è “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”. E tornò a parlare dell’incontro che ebbe nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lo stesso Mancino tirato con forza dalla Procura di Palermo dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito. I pm chiesero la sua condanna a sei anni, salvo poi non appellare l’assoluzione decisa dai giudici di primo grado che scagionarono Mancino. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Per calmarsi dovette “fumarsi due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte: “Mi disse di avere incontrato, fuori dalla stanza del ministro, Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde) e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Gli disse: ‘So che è con Mutolo, me lo saluti’”. Nei corsi e ricorsi storici l’abbraccio con Salvatore Borsellino ha accreditato Mutolo facendo breccia su una parte dell’opinione pubblica. Un film già visto con Massimo Ciancimino. Ci ha provato ad accreditarsi con i passaggi in tv anche Salvatore Baiardo, un tempo favoreggiatore dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. “Report”, “Non è l’Arena” e “Atlantide” hanno dato risalto alle sue rivelazioni. Uno dei momenti più alti si è registrato quando si è spinto a sostenere che in circolazione ci siano più copie dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Borsellino il giorno dell’attentato. L’agenda dei misteri è tornata a riempire le cronache attuali affollando la presenza sulla giostra degli uomini in divisa. Sono spuntati cinque poliziotti a riferire - dopo tre decenni - che l’agenda è finita nella stanza di La Barbera alla squadra mobile di Palermo. Per anni il dito è stato puntato sul carabiniere Giovanni Arcangioli. La foto che lo ritraeva con la borsa in via D’Amelio è stata a lungo la prova della sua colpevolezza nonostante l’inchiesta a suo carico fosse stata archiviata. C’è un dettaglio: il carabiniere aveva rinunciato alla prescrizione. Il nuovo giro di interrogatori, avvenuto lo scorso novembre, ha impresso uno scossone alla giostra. Il poliziotto Armando Infantino ha raccontato che tenne in mano la borsa di Borsellino. Arrivò in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. Caos, fumo, corpi a brandelli. L’unico superstite, Antonino Vullo, “aveva ancora la pistola in mano, era in stato confusionale: diceva che i suoi colleghi erano entrati nella portineria. Ma in realtà erano tutti morti”. Infantino ricorda il punto esatto. Non lo ha dimenticato perché “la consegna della borsa del magistrato da parte del militare è avvenuta poco più avanti della vettura sotto la quale è stato rinvenuto il corpo della collega Emanuela Loi”. Arcangioli passò la borsa al collega Giuseppe Lo Presti, il quale ha aggiunto che la borsa era “vicino al corpo di Borsellino. Dissi a Infantino di custodirla”. Il poliziotto Nicolò Manzella ha confermato. La borsa fu sistemata nella macchina di Francesco Maggi che la portò nella stanza di La Barbera. Per decenni è stato considerato un super poliziotto, osannato e incensato. Di lui si era fidato anche Giovanni Falcone, affidandogli le indagini sul fallito attentato all’Addaura. Da qualche tempo La Barbera, ormai deceduto, è considerato il depistatore. Un depistaggio frutto della necessità di trovare in fretta un colpevole per le stragi o c’è del marcio sotto? Gli investigatori sono andati a cercare l’agenda rossa a casa della moglie e della figlia. Nessuna traccia, nonostante il racconto di un nuovo e recente testimone. Ha saputo da sua figlia, amica della figlia di La Barbera, che l’agenda rossa è ben custodita. Sono andati a cercarla persino nella sede dei servizi segreti dove La Barbera avrebbe piazzato a lavorare la figlia usando l’agenda rossa come arma di ricatto. Una spy story, insomma. All’orizzonte c’è un nuovo processo. Sulla giostra bisogna fare posto a nuovi poliziotti che presto si troveranno nella scomoda posizione di imputati. Le deposizioni di quattro agenti - Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco - del gruppo Falcone e Borsellino non hanno convinto. Troppi non ricordo che, secondo l’accusa, non sono giustificabili con il trascorrere del tempo ma coprirebbero le malefatte di La Barbera. Sempre che le cose siano andate veramente come si ipotizza. Ci sono ricordi che propongono un’altra ipotesi. Il magistrato Salvatore Pilato, pm di turno il giorno dell’attentato, ha rivelato a Vincenzo Ceruso nel libro “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via d’Amelio” che “la mattina del 20 luglio, quando arrivai in procura, mi dissero che l’agenda rossa era nella stanza del collega assassinato, a cui erano stati apposti i sigilli dai magistrati di Caltanissetta”. Sull’agenda rossa ha detto la sua anche Luigi Patronaggio, pm con Falcone e Borsellino e oggi procuratore generale a Cagliari: “Su che fine abbia fatto con tutta onestà non lo so. Confermo invece che l’ufficio di Borsellino fu sigillato nella immediatezza della strage e che i colleghi di Caltanissetta procedettero ad un inventario. Se fra quelle carte vi fosse proprio l’agenda rossa tuttavia lo ignoro”. Parole pronunciate davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il più attivo dei tribunali paralleli. Se la gioca con gli show televisivi. Le relazioni consegnate al Parlamento finiscono per sovrapporsi al lavoro delle procure. Prima sotto le presidenze di Rosy Bindi e Nicola Morra e ora di Chiara Colosimo le audizioni si susseguono, accompagnate da un fenomeno: la desecratazione delle audizioni del passato. In concomitanza con l’anniversario delle stragi i commissari annunciano urbi et orbi la pubblicazione di verbali e audio che hanno un esclusivo, anche se autorevole, valore storiografico. Se l’ascolto fosse utile anche dal punto di vista investigativo non si comprenderebbe perché mai siano rimasti sepolti per anni sotto la polvere. Basta una frase, però, un dettaglio delle lontane audizioni per lanciarsi in nuove congetture. Benzina che alimenta per chissà quanto tempo ancora la giostra. Più si avanti e più la memoria si offusca e si fanno avanti gli avventurieri. Alcuni davvero improbabili. C’è una storia surreale che fotografa lo stato dell’arte. Una donna, a Siracusa, si è finta cugina di Paolo Borsellino. Attorno alla signora Giuseppa è iniziato il circo della legalità. Inviti e riconoscimenti. C’è persino chi l’ha voluta accanto a sé in campagna elettorale per le elezioni locali e chi relatrice ai convegni assieme ai più alti rappresentanti delle forze dell’ordine. Accolta tra gli applausi scroscianti e invitata alle manifestazioni al pari di Salvatore Borsellino. Era un’impostura. Almeno nel suo caso il giro sulla giostra è durato poco. Oristano. Caso Stefano Dal Corso: tutto ciò che non torna sulla morte del detenuto di Andrea Aversa L’Unità, 19 dicembre 2023 Aveva 43 anni, un’ex compagna e una figlia. Ha perso la vita il 12 ottobre del 2022. Il caso è stato chiuso: per gli inquirenti è stato un suicidio. Ma un audio giunto alla sorella Marisa e al suo avvocato Armida Decina, segnerebbe una svolta per le indagini, intanto riaperte: la vittima potrebbe essere stata uccisa. L’autopsia chiarirebbe tutto ma l’autorità giudiziaria continua a negarla. Un decesso in carcere. Uno dei tanti che ogni anno avvengono dietro le sbarre. Caso chiuso. Per l’autorità giudiziaria Stefano Dal Corso, 43 anni, si è suicidato. Per questo sulla salma è stata negata l’autopsia. Ma la parente di un altro detenuto ha rivelato che il 43enne potrebbe essere stato ucciso. L’avvocato Armida Decima che assiste la sorella della vittima Marisa, ha chiesto che le indagini venissero riaperte. La sua istanza è stata accettata ma l’inchiesta è da allora praticamente in stallo. Lo scorso ottobre il parlamentare Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Quest’ultimo ha risposto a tutto tranne alla cosa più importante: quali sono i casi di morte accaduti nei penitenziari italiani, per i quali l’autorità giudiziaria non ha predisposto l’esame autoptico, facendo un distinguo tra omicidio e suicidio. Infine, l’ultimo capitolo di questa tragica storia. La telefonata di una fonte ‘misteriosa’ che ha detto a Marisa Dal Corso che il fratello è stato massacrato di botte e il suo suicidio una messa in scena. Sono queste, sinteticamente, le fasi che hanno caratterizzato la vicenda. L’unica certezza è rappresentata dall’insieme di dubbi e punti oscuri che hanno caratterizzato la scomparsa di Stefano Dal Corso. Quest’ultimo era nato a Roma, aveva una compagna con la quale ha avuto una figlia di sette anni. Problemi di tossicodipendenza, il 43enne è entrato in carcere, a Rebibbia, nell’agosto del 2022 a causa di una condanna per estorsione. Il 4 ottobre successivo, Dal Corso è stato trasferito nel penitenziario di Oristano. Due giorni dopo ha presenziato a un’udienza che lo vedeva coinvolto in un altro processo. Il 12 ottobre, un giorno prima del rientro a Roma, il 43enne è stato trovato senza vita nella cella dell’infermeria. Ufficialmente si è suicidato, impiccandosi. A dimostrare questa ipotesi, è stato un taglierino artigianale che la vittima avrebbe usato per tagliare la stoffa necessaria per ottenere un cappio. Il lenzuolo, infatti, è stato trovato mancante di una sua parte. Ma il messaggio ricevuto dalla sorella Marisa ha cambiato le carte in tavola: Stefano sarebbe stato pestato, calci, schiaffi e pugni. Una punizione esemplare per il 43enne colpevole di aver visto due agenti o operatori, protagonisti di un rapporto sessuale. Ma la cosa è sfuggita di mano e la violenza si è trasformata in furia omicida. Resosi conto del misfatto, gli aguzzini avrebbero spaccato l’osso del collo di Stefano con una manganellata e simulato il suicidio. La fonte misteriosa ha persino detto di essere in possesso degli abiti sporchi di sangue della vittima. Vestiti, secondo quanto rivelato, sostituiti con capi puliti, poi messi dagli assassini sulla salma del 43enne. Un insieme di elementi che dovrebbero portare l’autorità giudiziaria a disporre l’autopsia sul cadavere della vittima. Solo l’esito dell’esame autoptico può chiarire la causa del decesso di Dal Corso. Una decisione che fino ad ora la procura non ha preso. E qui veniamo ai punti ‘oscuri’ del caso. Quelli che la giustizia dovrebbe chiarire: Perché Stefano Dal Corso avrebbe deciso di togliersi la vita? La psicologa del carcere nei suoi rapporti ha parlato di un uomo pronto a ricominciare. Pronto a smettere con la droga e di volersi riprendere la propria vita. Pronto a tornare da sua figlia; In Italia l’autopsia sulle salme di detenuti deceduti, anche per suicidio, è sempre stata eseguita? Se sì, perché l’autorità giudiziaria si ostina a non disporla per Stefano Dal Corso? Perché, in merito, il ministro Nordio non ha fornito una risposta precisa all’interrogazione parlamentare fatta dall’onorevole Giachetti lo scorso 16 ottobre? Perché il ministro Nordio non ha chiarito quest’ultimo aspetto nonostante abbia ammesso l’esistenza delle tante ‘zone d’ombra’ che hanno caratterizzato il caso? Perché le indagini, riaperte lo scorso 4 ottobre (dopo un’istanza presentata a luglio) in base ad alcune rivelazioni, sono rimaste in una sorta di ‘stallo’? Perché il foglio delle presenze e degli orari di entrata e uscita, delle persone che hanno lavorato nel reparto di infermeria il 12 ottobre, è stato compilato a penna risultando illeggibile per avvocato Decina? (la stampante che ha regolarmente funzionato il giorno prima, l’11, sarebbe stata guasta. Il legale è ancora in attesa del foglio del 13 ottobre). L’avvocato Decina ha chiesto i video delle telecamere di sorveglianza, registrati nelle 24 ore in cui è avvenuto il decesso di Stefano. È una coincidenza che proprio in quei momenti non sarebbero state funzionanti? Invece, il ministro Nordio ha spiegato che il legale difensore dei Dal Corso non ha mai presentato alcuna richiesta ufficiale per l’acquisizione dei video, se non lo scorso 7 aprile. Richiesta respinta dal gip che ha poi archiviato l’inchiesta. L’autorità giudiziaria non dovrebbe dimostrare chi, su questo punto importante, ha ragione e chi torto? Perché l’autorità giudiziaria non effettua dei rapidi accertamenti sulle persone che hanno contattato l’avvocato Decina e Marisa Dal Corso? Se dovesse trattarsi di omicidio, perché Dal Corso sarebbe stato ucciso? A l’Unità, l’avvocato Decina ha spiegato: “La fonte dell’ultimo audio è credibile perché è a conoscenza di meccanismi strettamente legati alla vita in carcere, compresi diversi aspetti e dinamiche amministrative, oltre che operative. Ma non credo ciecamente a tutto ciò che è stato detto. È necessario che l’autorità giudiziaria faccia al più presto degli accertamenti sulla persona che si è messa in contatto prima con me via mail e dopo, in forma anonima, telefonicamente con la sorella di Stefano. Quello che ci ha raccontato coincide in parte con ciò che ciò che già ci aveva detto la parente di un altro detenuto. Le dinamiche sono simili, cambiano gli orari nei quali sarebbero avvenuti i fatti. Non capisco come sia possibile che alla luce di tutti questi elementi dubbi, l’autorità giudiziaria non decida di disporre l’autopsia. Sarebbe l’unico modo per comprendere come Stefano è morto”. Stefano Dal Corso: Rita Bernardini e Nessuno Tocchi Caino - Anche Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino si è espressa sulla vicenda e ha dichiarato a l’Unità: “È inqualificabile l’ostinazione con cui l’Autorità Giudiziaria continua a respingere la richiesta di autopsia sul corpo del povero Stefano Dal Corso, deceduto più di un anno fa nel carcere di Oristano. Al Congresso di Nessuno tocchi Caino, conclusosi ieri nel carcere di Opera, il dott. Vincent Delbos ex magistrato e ora membro del CPT per conto della Francia, è rimasto sbalordito del caso Dal Corso sottolineando come nel suo Paese l’autopsia sia disposta sistematicamente in caso di morte in carcere. Nessuno Tocchi Caino sostiene in pieno e condurrà ogni iniziativa possibile per la verità sulla vicenda affiancando la sorella di Stefano, Marisa, e l’avvocato Armida Decina che difende la famiglia”. Oristano. Caso dal Corso, l’ultimo mistero: i nomi degli agenti presenti in carcere scritti a penna di Luigi Mastrodonato Il Domani, 19 dicembre 2023 Il testimone. L’autopsia negata. E ora anche l’anomalia sui nomi degli agenti presenti in carcere il giorno della morte. “Stampante rotta”, la versione data ai familiari. Così come le telecamere. Ci sono sempre più ombre attorno alla morte nel carcere di Oristano di Stefano dal Corso, il detenuto romano trovato privo di vita in cella il 12 ottobre 2022. La storia da subito era stata derubricata a suicidio, poi lo scorso ottobre la Procura locale ha riaperto le indagini. Nuovi elementi emersi in queste settimane alludono a una morte violenta e parlano anche di un altro, misterioso, decesso. Un supertestimone che si è identificato come agente ha raccontano alla famiglia che Dal Corso è stato ucciso a manganellate e che il suicidio sia stato solo una messinscena, rinforzando alcune testimonianze simili già emerse nei mesi scorsi. Oltre a questo, dalle parole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, risulta che nelle stesse ore in cui è morto Dal Corso, sempre a Oristano ci sia stato un secondo decesso. Una morte fantasma, di cui finora non risultava nulla in alcun documento ufficiale. Una situazione nebulosa nel complesso, su cui però resta un punto fermo: il rifiuto da parte della Procura di disporre l’autopsia sul corpo di Dal Corso. Nei giorni scorsi è stata rigettata per la settima volta una richiesta in questo senso. “Abbiamo già mandato l’ottava, non ci fermiamo finché non avremo la verità”, chiosa Marisa Dal Corso, sorella di Stefano. Mancate autopsie - Il 12 ottobre 2022 Stefano Dal Corso è stato trovato privo di vita nel carcere di Oristano. Era arrivato da Rebibbia al carcere sardo da pochi giorni, doveva partecipare a un’udienza che lo riguardava e inoltre aveva chiesto il trasferimento per poter stare vicino alla figlia, che vive in Sardegna con la madre. Dal Corso si sarebbe impiccato in cella con un pezzo di lenzuolo strappato con un taglierino e attaccato alle grate della finestra. Nel luglio scorso le indagini sono state archiviate, ma a ottobre è stata aperta una nuova inchiesta. Troppi i nuovi elementi da prendere in considerazione, troppe le ombre mai chiarite su quel decesso e su quanto successo in quelle ore nel carcere di Oristano. La finestra situata troppo in basso per un impiccagione, il letto rifatto senza strappi nelle lenzuola e situato proprio sotto la finestra a rendere ancora più inverosimile l’atto, la mancanza di immagini del corpo sospeso ma solo sdraiato e ben rivestito con indumenti che la famiglia non ha mai riconosciuto, le telecamere di videosorveglianza che in quel momento non funzionavano, le testimonianze di due detenuti su un presunto pestaggio subito da Dal Corso, con urla che riecheggiavano per tutto il reparto. E poi i segni al collo che secondo alcune perizie non sarebbero compatibili con l’impiccagione. “La sommarietà del sopralluogo, l’approssimazione dell’esame esterno, la grave assenza di autopsia e di conseguenti indagini anatomo-patologiche, la mancanza di esami tossicologici e genetici e la carenza di utili dati ricostruttivi delle immagini del cadavere mantengono irrisolte le incertezze circa la natura asfittica della morte”, scrivono il medico legale Claudio Buccelli e l’anatomopatologa Gelsomina Mansueto nella loro perizia indipendente. Anche un’altra perizia firmata dall’anatomopatologa di fama internazionale Cristina Cattaneo sottolinea la necessità di un’autopsia sul corpo di Dal Corso. Che finora è sempre stata negata. L’ultima volta - la settima - proprio nei giorni scorsi e nonostante la riapertura delle indagini. Questo, mentre al lungo elenco di stranezze si sono aggiunti nuovi elementi. Il super-testimone - Una persona che si definisce un ufficiale esterno di polizia, presente nel carcere di Oristano il giorno della morte di Dal Corso, nelle scorse settimane ha contattato Marisa Dal Corso. E ha parlato di una morte violenta del fratello. Nel tempo la famiglia Dal Corso ha ricevuto tante segnalazioni da parte di mitomani, ma in questo caso ci sono elementi credibili, cose che poteva sapere solo qualcuno interno a quel carcere. “Ci ha detto che la cosa è sfuggita di mano, erano in cinque a pestare mio fratello con i manganelli”, spiega Marisa. Secondo il testimone, Dal Corso era sporco del sangue uscito dalle orecchie per le manganellate e per questo lo avrebbero cambiato prima delle foto, comprese le sue Adidas bianche. L’impiccagione sarebbe stata creata ad arte per nascondere la reale causa di morte. La fonte dice che lui e altri agenti sono stati allontanati dal carcere dopo la morte del detenuto romano perché c’era il timore che potessero parlare. “Mi ha detto che i soprusi andavano avanti da tempo, che Stefano non è stato il primo a subirli”, rivela Marisa. Un altro decesso - A proposito di presunti altri soprusi, c’è altro. Nella risposta a un’interrogazione parlamentare sul decesso di Dal Corso presentata dal parlamentare di Italia Viva, Roberto Giachetti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, scrive che “considerando le peculiari modalità e condizioni di tempo e luogo in cui avvenuti i decessi dei due detenuti, nessun elemento abbia consentito anche di ipotizzare un fatto di omicidio, anziché un evento suicidario”. Si parla cioè della morte di due detenuti nel carcere di Oristano in circostanze temporali e spaziali simili. Eppure del secondo decesso, che si somma a quello di Dal Corso, nessuno aveva mai parlato, tanto che anche nei dati ufficiali sulle morti e i suicidi del 2022 l’unico che risulta a Oristano in quel periodo è proprio il suo. “Se avessi saputo di quest’altra morte avrei cercato di contattare la famiglia, o penso sarei stata contattata per fare fronte comune. Invece non ne sapevo nulla”, chiosa Marisa. Che si sofferma su un altro particolare, confermato dalla sua legale. A settembre hanno fatto richiesta al carcere di Oristano della lista di agenti presenti nel reparto di Dal Corso il 12 ottobre 2022 e il giorno precedente. Per quest’ultimo hanno ricevuto la normale griglia stampata, mentre per il 12 i nomi degli agenti sono scritti a penna. La stampante aveva smesso di funzionare, hanno detto, proprio come le telecamere. Una versione che non convince la famiglia Dal Corso, che teme possano essere atti di depistaggio. Oristano. “Mio fratello ucciso in carcere e non vogliono fare neanche l’autopsia” di Andrea Ossino La Repubblica, 19 dicembre 2023 Per Marisa Dal Corso ogni richiesta di esaminare il corpo che viene respinta “è una conferma che qualcosa non torna”. “Lo hanno seppellito con le scarpe di qualcun altro. Dove sono finite le sue?”. “Stefano è stato ammazzato sette volte. Ogni volta che rigettano la richiesta di autopsia mio fratello viene ucciso”. Marisa Dal Corso è una donna forte. Ma un nodo in gola le blocca le parole quando ripercorre la storia del fratello Stefano, il detenuto romano trovato morto nel carcere di Oristano il 12 ottobre del 2022. “Tutto fermo a quel giorno e non se ne esce fuori - dice la donna. Sette richieste di autopsia respinte parlano da sole. È una conferma che qualcosa non torna”. Allora andiamo subito al dunque: cosa non torna? “Ci sono detenuti che hanno parlato, un libro che ci è arrivato a casa con due parole cerchiate “la morte” e “la confessione”. Adesso anche una persona che dice di essere un agente esterno della polizia penitenziaria e mi racconta di essere stato allontanato con altre 4 persone dal carcere, che sono la parte buona delle guardie, che mio fratello è stato ucciso e che loro hanno assistito ai pestaggi quotidiani della “squadretta punitiva”. “Squadretta punitiva?”... “Esatto, la definisce così. Come facevano altre persone in altre testimonianze: un gruppo di agenti che pesta i detenuti”. Potrebbe essere un mitomane… “Conosce delle cose che solo una persona interna al carcere può sapere. Sapeva l’intimo che indossava mio fratello, la marca e il modello, gli slip Dolce e Gabbana con la righetta dorata, roba che il carcere non mi ha ridato. Anche il tipo di maglietta intima, particolari che conosco solo io”. Facciamo un passo indietro. Chi era Stefano Dal Corso? “Un ragazzotto semplice, con tanta voglia di vivere anche nel suo mondo sbagliato. Tutti dicono “non era un amico, era un fratello”. Per me invece non era un fratello, era un figlio. Siamo 10 fratelli e io non sono andata a scuola per accudire il più piccolo. Gli davo il biberon, lo cambiavo, lo lavavo. È un pezzo di me. Siamo cresciuti a Roma, Prima Porta, Labaro. Poi ha preso la sua strada, è stato a Bologna, Oristano. Veniva da me con la figlia e la compagna a Natale. Poi è tornato a vivere con me quando doveva scontare i domiciliari”. Non era un santo... “Era una persona che sbagliava, che faceva male a se stesso e pagava per i suoi errori. Sempre con dignità. Nessuno aveva il diritto di togliergli la vita e nessuno adesso ha il diritto di togliergli la dignità. Lui non si è suicidato. Aveva una figlia. Diceva che era “l’unica cosa bella che mi è capitata nella mia vita merdosa”. Non l’avrebbe mai lasciata da sola, non è un vigliacco”. I primi sospetti? “Subito. Il 12 ottobre, alle 14,30, mi chiamano dal carcere di Oristano e mi passano il parroco: “Signora suo fratello non c’è più”. Ero basita: “Dove è andato?”. E il parroco: “Si è impiccato, è morto. Mi dispiace, non ha sofferto, si è rotto l’osso del collo”. È stato il momento più brutto di tutta la mia vita. Quel maledetto 12 ottobre lo rivivo ogni giorno. Inizialmente non capivo nulla. Poi quando con il mio avvocato, Armida Decina, abbiamo chiesto la documentazione ci siamo accorte che il fascicolo era ridicolo: le foto di mio fratello, da morto, fatte con una fotocopiatrice e in bianco e nero. Poi ho visto le scarpe”. Le scarpe? “Lui non allacciava mai le scarpe, infilava i lacci ai lati delle scarpe e indossava solo le Adidas. Quelle che aveva ai piedi invece erano di un’altra marca, a lui non piacevano affatto. E poi erano di un numero più grande e con i lacci lunghi. Perché gli sono state messe subito dopo la morte? E adesso dove sono?”. Adesso cosa chiede? “C’è una persona che dice di avere le scarpe di mio fratello, se mi mandasse una foto di quelle scarpe cambierebbe tutto. E poi alla procura: basterebbe un’autopsia per mettere a tacere tutto e per restituire dignità a mio fratello e tutelare gli stessi agenti della penitenziaria. Ma non viene fatta. Come non viene fatta una querela. Io sto accusando tutti e nessuno querela. Posso farle una domanda?”. Prego... “Dopo tutti i dubbi che avete sollevato qualcuno vi ha querelato?”. No... “Qualcuno vi ha contattato per contraddirmi?”. No... “Appunto”. Ivrea. Dentro il carcere il più bel Consiglio comunale di Massimiliano De Stefano giornalelavoce.it, 19 dicembre 2023 Mi auguro replicabile almeno una volta l’anno. Tutti insieme appassionatamente, tutti da una parte della sala, a dimostrare che l’obbiettivo è comune, non ci sono sfumature su alcuni temi, non ci si può dividere tra minoranza e maggioranza. Parliamo del carcere di Ivrea, la prima volta che feci visita, fu in occasione del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dove incontrammo alcuni detenuti i quali realizzarono la panchina rossa. La seconda volta invitato sempre dall’assessora in occasione della “prima teatrale”, trasformata da una lettura, da una storia narrata di un libro, ad una grande performance teatrale, interpretata dai collaboratori di giustizia. In scena interpretavano un magistrato, il dott. Fassone e Salvatore, un giovane ragazzo ergastolano. Fra una pausa e l’altra, ci sono stati diversi interventi di detenuti, con le loro storie e la loro voglia di riscattarsi, anche tramite la socialità, fatta di pezzi di mondo esterno, di iniziative gestite dal volontariato penitenziario. A tal proposito, mi complimento anche con Simonetta Valenti, autrice insieme ai protagonisti di quel grande ed emozionante spettacolo. Lo scorso giovedì sera invece, un consiglio comunale inedito, unico, e mi auguro replicabile almeno una volta l’anno, sotto le feste natalizie non sarebbe male. Il più bel Consiglio comunale che abbia mai immaginato di vivere, perché fatto di grandi gesti. Grazie alla sensibilità di tantissime persone, ritengo che questo istituto di pena possa diventare una struttura modello per il nostro Paese, tipo quello di Bollate per intenderci. Un modello di carcere inclusivo. Lo possiamo avere anche a Ivrea, la scorsa sera lo abbiamo dimostrato. Più di noi, lo dimostrano ogni giorno tutti i volontari che costruiscono un po’ di speranza e visione. La recidiva si abbatte se tutti noi regaliamo un pezzo del nostro tempo per aiutare chi ha sbagliato. Personalmente ringrazio tutti coloro che si sono spesi e prodigati affinché si potesse realizzare. E chi non ha partecipato, in polemica con la scelta dell’amministrazione, ha perso una occasione allontanandosi ancora di più dai cittadini di Ivrea, sensibili da sempre a tutte le tematiche sociali e sostenitori da sempre dei diritti civili. Lo Stato di diritto è un insieme di principi inviolabili ed è per questo che le carceri italiane devono assumere sempre più, la necessaria funzione rieducativa, favorendo un processo di integrazione sociale, solo così possiamo abbattere la recidiva in Italia. Modena. Natale in carcere, Castellucci: il lavoro è il miglior regalo per i detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 19 dicembre 2023 L’arcivescovo di Modena poco prima delle Feste ha visitato i reclusi della casa circondariale di Sant’Anna che partecipano al progetto di lavoro come contoterzisti gestito da Coopattiva e finanziato in parte dalla diocesi di Modena-Nonantola. “Buongiorno eccellenza, sono Mario, ho 57 anni, vengo da Napoli e tra un anno e mezzo esco”. Così si sono presentati i detenuti della casa circondariale di Sant’Anna, a Modena, che qualche giorno fa hanno ricevuto la visita del loro arcivescovo, monsignor Erio Castellucci. Naturalmente sono nomi e città di fantasia, ma a colpire il presule è stato proprio questo presentarsi specificando il tempo che manca al loro fine pena, soprattutto in un periodo come l’Avvento che prepara al Natale. “Ci sono le piccole attese quotidiane e le grandi attese dei passaggi della vita - racconta l’arcivescovo a Vatican News - ma entrambe queste attese sono scritte nel cuore dell’uomo”. I detenuti sono probabilmente i campioni del mondo dell’attesa. In carcere si attende tutto: i colloqui, le udienze, fino al giorno del fine pena. “L’importante è che queste attese vengano sempre riempite di significato - continua il presule - come noi cristiani riempiamo le attese del Natale e della Pasqua con il tempo dell’Avvento e quello della Quaresima, con la preghiera e la riflessione”. I momenti delle Feste, infatti, con la lontananza dai propri cari mentre fuori tutti si ritrovano e festeggiano, sono per chi è dentro quelli più difficili da affrontare. Il lavoro, ad esempio, è un ottimo modo per riempire questi tempi di attesa: grazie al progetto coordinato da Coopattiva, dallo scorso settembre otto detenuti lavorano nell’assemblaggio di parti per macchine agricole e si spera di arrivare tra febbraio e marzo alle prime assunzioni stabili: “Per adesso sono solo tre ore al giorno di lavoro, ma molti ristretti mi hanno detto che sono le tre ore che danno senso alla giornata - è la testimonianza di monsignor Castellucci - spesso il carcere è ancora diseducativo nonostante gli sforzi di chi ci lavora, e il lavoro manuale, con un compenso anche piccolo, è l’unico dono che possa restituire dignità e speranza a queste persone”. Nel corso della visita, l’arcivescovo di Modena ha parlato con sette detenuti, alcuni dei quali appartengono ad altre fedi, ma questo non ha impedito di pregare tutti insieme: “In carcere ci sono cristiani di altre confessioni, musulmani, anche non credenti, ma tutti, quando l’ho chiesto, si sono raccolti in silenzio perché lì dentro sanno che siamo ‘tutti sulla stessa barca’, come dice Papa Francesco - ha affermato ancora il presule - c’era un clima di grande comunicazione umana, molti mi hanno poi parlato delle proprie situazioni personali all’interno dell’istituto, ma anche con le loro famiglie”. Un clima anche di gratitudine, ha precisato monsignor Castellucci, per il lavoro donato, “questa possibilità umanizzante che fa loro molto bene e che dà speranza. Una nuova speranza che arriverà presto anche da un’altra attività che aprirà dentro: un laboratorio alimentare che sarà gestito da una cooperativa di Carpi”. L’appuntamento ora è per la mattina di Natale, con la Santa Messa che alle ore 9 verrà celebrata all’interno della casa circondariale, ancora una volta tutti insieme. Siena. “Se volete punire un detenuto, fatelo studiare” canale3.tv, 19 dicembre 2023 Inaugurato l’anno accademico del Polo Universitario Penitenziario dell’Università e dell’Università per Stranieri di Siena. “La mia notte, come quella di Ovidio. E la mia rinascita tra Iliade e Odissea negli anni dell’isolamento diurno, mentre a migliaia di chilometri di distanza mia moglie vive e ha vissuto sempre lontana ma sempre vicina a me, come “La ragazza di Bube” mandando avanti la famiglia fino a far diventare adulti i miei nipoti. Quindi, lo dico con forza, se volete punire un detenuto, fatelo studiare: quando si entra in carcere ci sentiamo noi le vittime, quando si apre un libro cresce in noi un senso di colpa senza fine. È lì che comincia la nostra punizione: studiando, imparando, comprendendo”. È un uomo di quasi 70 anni, la maggior parte dei quali trascorsi dietro le sbarre, a parlare. Un uomo entrato in carcere che era ancora un ragazzo, troppo grande per le scuole medie che aveva a malapena portato in fondo, troppo giovane per quell’ergastolo che lo aspettava. Dalla Sicilia alla casa di reclusione di Ranza, la sua vita è stata un viaggio sempre e solo tra corridoi infiniti e celle piccole, da una struttura all’altra fino ad approdare a San Gimignano. È qui che ha conosciuto - come già era avvenuto ad altri detenuti prima di lui - la lettura e poi lo studio e, a breve, la laurea in letteratura latina, con il professor Alessandro Fo. La storia del novello “Ovidio” - come lui stesso ama definirsi, avendo vissuto lui stesso metaforicamente l’addio del poeta a Roma - ha fatto da sfondo all’inaugurazione dell’anno accademico del polo universitario penitenziario dell’Università di Siena e dell’Università per Stranieri, occasione anche per sottoscrivere l’accordo per la creazione del primo campus universitario: “Oltre 80 gli studenti che partecipano ai corsi di laurea - ha commentato il rettore dell’Ateneo, di Pietra - siamo cresciuti moltissimo in pochi anni e questi sono numeri che fanno ben sperare perché i detenuti a Ranza sono 310 quindi oltre un terzo è impegnato nello studio. Sono i veri segnali della libertà di pensiero”. “Parliamo di università della repubblica, di tutti voi perché le università non appartengono ai professori ma a tutti voi e credo che grandi artisti che hanno passato la vita a farsi domande sul valore delle loro opere sarebbero più felici oggi, qui, e troverebbero qui risposte anziché nei saloni dei milionari del mondo - ha commentato il rettore Montanari indicando celebri dipinti di Van Gogh che alcuni detenuti hanno riprodotto come murales sulle pareti del carcere- questo è un vero progetto di liberazione, guardando al futuro”. All’evento, è intervenuta la scrittrice Mariolina Venezia, autrice dei romanzi che hanno ispirato la serie televisiva “Imma Tataranni - Sostituto Procuratore”. Hanno preso parte all’evento la Dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, direttrice della Casa di Reclusione, i due delegati alle attività del polo universitario penitenziario, professoressa Antonella Benucci e professor Gianluca Navone ed è intervenuto il Dottor Pierpaolo D’Andria, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana-Umbria. Ospite d’onore dell’evento la scrittrice Mariolina Venezia, autrice dei romanzi che hanno ispirato la serie televisiva “Imma Tataranni - Sostituto Procuratore”. Presso la struttura carceraria da anni si tengono le attività didattiche del polo universitario penitenziario. Sono stati circa 100 gli studenti che hanno preso parte alle attività didattiche e durante lo scorso anno accademico i primi studenti hanno conseguito il titolo di laurea. Un momento significativo dell’inaugurazione è stato la sottoscrizione dell’accordo per la gestione del campus universitario. L’atto individua le modalità di accesso agli studi e lo svolgimento delle attività didattiche all’interno dell’istituto penitenziario. L’incontro con Mariolina Venezia, del ciclo “Raccontami”, è stato un’opportunità per esplorare tematiche legate alle esperienze di vita, anche a partire dai personaggi dei suoi romanzi, e al ruolo della conoscenza e dell’educazione anche in contesti penitenziari. Il dibattito è stato coordinato da Antonella Benucci, docente dell’Università per Stranieri di Siena e Delegata per il Polo Universitario Penitenziario, e Alessandro Fo, docente del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università di Siena. Questo momento ha offerto un’opportunità per approfondire le tematiche trattate, creando uno spazio di discussione e confronto. Catanzaro. Lo sport entra in carcere e nelle comunità minorili lacnews24.it, 19 dicembre 2023 L’obiettivo è diminuire sintomi depressivi legati alla detenzione. Il progetto è promosso dal ministero per lo Sport in collaborazione con Sport e salute. Si promuoverà l’educazione motoria, la socialità e la cooperazione. È iniziato a novembre del 2023 il progetto Sport di Tutti-Carceri, iniziativa promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani, in collaborazione con Sport e Salute, che promuove lo sport come strumento ed opportunità di rieducazione per i detenuti, attraverso il potenziamento dell’attività sportiva negli Istituti Penitenziari e Comunità per minorili. La Minerva Team Donato, in collaborazione con la Comunità Ministeriale di Catanzaro, diretta da Massimo Martelli, ha già iniziato i lavori promuovendo l’educazione motoria del minore, per il consolidamento di abitudini sane all’interno e all’esterno della stessa comunità. Tra le finalità del progetto, alcuni punti essenziali: favorire la socializzazione e la cooperazione; educare al rispetto delle differenze culturali e religiose; rafforzare le proprie abilità di base, autonomia e autostima; creare rapporti solidali tra i soggetti coinvolti e i minori; ridurre il sedentarismo. Attraverso anche incontri programmati con il Mental Coach, figura prevista all’interno del progetto, si potrà favorire il benessere psicofisco del minore, per diminuire sintomi depressivi legati alla detenzione o alle vicende processuali che tendono ad isolare, guidando il minore verso valori più sani e più vicini alla società esterna. Nell’ambito delle attività trattamentali promosse dalle Comunità, rientrano le progettualità relative a tutte le discipline sportive proposte dagli stessi partner: calcio grazie alla collaborazione della FIGC di Catanzaro, diretta da Saverio Mirarchi; attività finalizzata alla salute e al fitness e motoria di base; danza sportiva e sala attrezzi; attività di formazione e tirocinio. L’azione di comunicazione nel complesso, sarà indirizzata al raggiungimento di alcuni obiettivi generali tra cui incentivare la conoscenza e la consapevolezza collettiva del ruolo dello sport all’interno delle Comunità minorili e dei Penitenziari. Reggio Emilia. “Vi racconto i miei 14 anni vissuti all’Opg” Il Resto del Carlino, 19 dicembre 2023 Fabrizio Maiello presenta il suo libro “Nel carcere dei matti delinquenti”, raccontando la sua esperienza di 14 anni in OPG. Intervengono Maria Grazia Fontanesi, Federico Amico e Franca Garreffa. L’incontro tratta di dignità dei detenuti e inclusione sociale. Fabrizio racconta come una sfera di cuoio gli abbia dato una possibilità di salvezza. L’esperienza dell’Opg raccontata da chi l’ha vissuta in prima persona. Stasera alle 21, al circolo Gardenia, presentazione del libro ‘Nel carcere dei matti delinquenti’ a cura di Fabrizio Maiello. Il libro ricostruisce, attraverso la narrazione autobiografica e stralci di diario, i 14 anni di reclusione di Maiello in ospedale psichiatrico giudiziario, ma anche la sua storia straordinaria di successi, riscatto e impegno sociale. Durante la serata intervengono - oltre all’autore del libro - Maria Grazia Fontanesi (psicologa e psicoterapeuta), Federico Amico (presidente commissione per la parità e per i diritti delle persone della Regione), Franca Garreffa (coautrice del libro). L’incontro diventa anche occasione per parlare di dignità dei detenuti e di inclusione sociale. A moderare il dibattito è Delia Cardinale del circolo Gardenia. L’esperienza detentiva percorre la biografia di Fabrizio, in un ripetersi di episodi di rabbia, ribellione, punizioni e trasferimenti che lo portano all’Opg. Fino a quando una sfera di cuoio, trovata nel cortile chiuso da mura, mostra a Maiello una possibilità di salvezza, che si traduce in amicizia verso Giovanni: il compagno di cella più bisognoso di aiuto. Il rapporto di cura riuscirà a dare un senso alle loro esistenze nell’annichilente quotidianità dell’Opg. Maiello oggi ha vinto la partita più complicata della vita, da cittadino libero. Roma. “Made in Jail”, un film documentario per le scuole garantedetenutilazio.it, 19 dicembre 2023 Coinvolti i detenuti dei corsi di serigrafia di Rebibbia, Regina Coeli e Terza Casa nella realizzazione di due t-shirt contro la violenza sulle donne. Sabato 16 dicembre a Roma, al Polo Culturale Educamedia è stato presentato il progetto che porterà negli istituti scolastici di Roma e del Lazio la proiezione del film documentario “Made in Jail” di Matteo Morittu e Gianluca Calabria, iniziativa sostenuta anche da Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, con la partecipazione di Silvio Palermo, deus ex machina dell’associazione Made in Jail, che da 35 anni aiuta le persone detenute - ed ex detenute - a reinserirsi nel tessuto sociale, culturale e lavorativo tramite i suoi corsi di serigrafia in carcere: “Perché, molte volte, neanche loro sanno di avere certe doti. Con noi si rendono conto di poter essere utili alla società, di farne parte”. La conferenza stampa è stata aperta dall’intervento di Fabio Zenadocchio dell’ACEC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) Lazio e Abruzzo e Direttore del Cinema Teatro Don Bosco sull’importanza della diffusione, soprattutto nelle scuole, di progetti come questo film sull’incredibile storia di Made in Jail, prodotto dalla società di comunicazione Numidio. “Non dobbiamo dimenticare mai che lo scopo degli Istituti di pena è la rieducazione - ha sottolineato Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale -. In questo momento, la durezza delle condizioni e l’imminente, nuovo sovraffollamento delle carceri rendono quanto mai necessarie iniziative come questa di Made in Jail”. Per l’occasione, anche Marcello Morlacchi, vicepresidente e assessore alle Politiche educative e scolastiche del VII Municipio di Roma, ha rimarcato l’idea che, per costruire una società più sicura, sia necessario valorizzare il tempo delle persone private della libertà, renderlo “meno vuoto” e, al contempo, insistere sull’educazione dei più giovani ai concetti di sicurezza e collettività. “Vorremmo e dovremmo dare più spazio a chi si occupa degli altri - gli ha fatto eco Arianna Camellini, Consigliera del II Municipio di Roma, Presidente Commissione Speciale Turismo Università, Giubileo, Grandi Eventi, Pnrr -. Il film e l’intero progetto Made in Jail deve essere distribuito soprattutto nelle scuole perché è da lì che parte la formazione del futuro della società”. Made in Jail ha coinvolto i detenuti dei corsi di serigrafia di Rebibbia, Regina Coeli e Terza Casa nella realizzazione di due t-shirt contro la violenza sulle donne: il ricavato della vendita andrà interamente a finanziare una casa rifugio per donne vittime di violenza nel II Municipio di Roma del Telefono Rosa. Emiliana Vergara ne è la responsabile: “Le donne che aiutiamo scappano da situazioni di grande pericolo - ha detto -. Le segnalazioni dei loro casi, ci pervengono dagli ospedali, assistenti sociali, carabinieri… Noi le aiutiamo a ricostruire il proprio quotidiano un po’ alla volta, e spesso assieme ai loro bambini. Ci preme soprattutto renderle economicamente indipendenti, visto che è questa la causa principale che le rende vittime. Offriamo loro un’alternativa, rimarcando il concetto che, da un’emergenza, può nascere un’occasione di salvezza”. Alla conferenza stampa è intervenuto anche Diego Ciarafoni, Responsabile di Libera del Presidio “Rita Atria” del VII Municipio di Roma: “La violenza di genere è un problema che non possiamo più ignorare. Perciò, quest’iniziativa, idealmente, chiude un cerchio: si inizia a parlarne in carcere, ci si pone come interlocutori presso le istituzioni e, lentamente, si fanno passi avanti”. Il film è stato realizzato da Numidio con un lungo lavoro di ben tre anni, senza contributi pubblici o privati. Gli autori si sono impegnati ed hanno rischiato in prima persona perché ritengono doveroso avviare una campagna di comunicazione profonda sul carcere. Non a caso, il film rientra in una campagna di educazione più ampia, ideata da Numidio e da Made in Jail, per diffondere la cultura della legalità e dell’inclusione sociale. Attualmente il film è visibile anche online, su una piattaforma dedicata www.numidio.com/madeinjail, mentre le due magliette a sostegno della casa rifugio del Telefono Rosa sono acquistabili sul sito https://www.madeinjail.org/campagna-donna. La proiezione del documentario è stata anche il momento giusto per annunciare che, l’anno prossimo, Made in Jail sarà accolta anche all’Accademia di Belle Arti di Roma nell’ambito di un Workshop del corso di serigrafia. Roma. “The Cagers”, progetto di basket inclusivo nelle carceri rainews.it, 19 dicembre 2023 La selezione porterà alla formazione di una squadra di 14 detenuti dopo aver girato gli istituti di tutta Italia. Arriva a Roma, sul playground del Colle Oppio con vista Colosseo, il progetto The Cagers, che sta girando le carceri italiane per mettere insieme una squadra di basket di detenuti, con i 14 prescelti che saranno anche protagonisti di una docu-fiction. Una selezione effettuata da ex giocatori professionisti, ora approdata nella capitale ma nata da un incontro a Trieste e che tornerà per la sua seconda fase nella città giuliana, dove si allenerà il futuro team. I cagers sono i giocatori della pallacanestro delle origini, che lottavano dentro una gabbia, come in qualche modo può essere considerata la prigione, dove serve una ventata di libertà ma soprattutto il rispetto delle regole, del ragionare come gruppo e mettere il noi davanti all’io. Un lavoro, sostenuto da Sport e Salute, che con tutto il percorso dei protagonisti diventerà un documentario, ripreso dalle telecamere di una vera troupe cinematografica con l’idea, avallata dai ministeri dello sport e della giustizia, che hanno dato il patrocinio, di avere in futuro anche dei cagers dediti ad altre discipline. Perché create “mostri” da mettere in prima pagina invece delle verità che sono sotto gli occhi di tutti? di Roberto Saviano Corriere della Sera, 19 dicembre 2023 Avevo iniziato a scrivere queste righe col tono della farsa, volevo dileggiare quella stampa sovranista e ottusa (soprattutto ottusa, ma anche sovranista, house organ della peggiore destra che l’Italia abbia avuto dal secondo dopoguerra) che lavora quotidianamente sbattendo in prima pagina il mostro, anzi, creando ogni giorno un mostro da sbattere in prima pagina. Anzi, credendo di essere addirittura capace di creare mostri, senza capire che il mostro, in questo caso, sta negli occhi di chi guarda che osserva il mondo con lenti deformate. Normalmente sulle loro prime pagine ci sono io e vi prego di credermi se vi dico che non sto scrivendo perché risentito, non mi sento tradito o abbandonato. So che queste penne sono sempre vigili e attente, so che continueranno a darmi lo spazio (la punizione) che merito (chi prende posizione poi paga), perché banalmente tutto il blabla su di me è molto più facile da produrre di un qualunque articolo che abbia un contenuto vero. Mostro è stata a lungo anche Michela Murgia, ahimé, ahinoi. Questi erano i ragionamenti, quando - non mi succedeva da anni - il programma di scrittura che utilizzo si chiude inaspettatamente e non avevo salvato il file: tutto perso. Lo prendo come un segno, stavo affrontando un argomento serio credendo di poter sdrammatizzare. Pensate che scoop - avevo scritto - si sono accorti che il Papa e la Chiesa si interessano agli ultimi, sono dalla parte dei poveri, di chi ha bisogno di aiuto e sostegno. Pensate che scoop: si sono accorti che ci sono imbarcazioni, come la Mare Jonio della Ong Mediterranea Saving Humans che salvano vite in mare e per farlo hanno bisogno di risorse, perché il carburante costa, costa l’equipaggiamento, costa la manutenzione, costano le scorte di viveri, scorte in previsione di giorni e giorni in mare, perché mica è certo che subito dopo il salvataggio arriva il via libera per l’approdo... No, non è una sicurezza con cui si parte. Si prende il mare, sempre che la nave non venga bloccata in porto con cavilli burocratici e multata per assottigliare le risorse, sapendo che non sarà facile trovare un porto, che si proverà in ogni mondo a raccontare quell’operazione di salvataggio come “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e l’arrivo di naufragi come “invasione”. Suggerivo il Pulitzer per queste scoperte; chi mai penserebbe che la Chiesa e il Papa hanno a cuore il destino di chi soffre; chi mai penserebbe che una imbarcazione per prendere il mare ha bisogno di risorse... Chi? Quale stolto? Chi? Ma magari il Pulitzer è anche poco. Il premio GAC (vedi Propaganda live) sarebbe forse più appropriato. I mostri questa volta sono un prete, un attivista, un giornalista, una Ong, in fondo anche il Papa, solo che si ha paura a dirlo, lo si dice sottovoce per premura, per paura... e se Dio esistesse davvero? Si ciancia di fedeli truffati da una carità cristiana che non si limita alle mani giunte in preghiera, ma che si sostanzia in un aiuto concreto offerto a chi si occupa di salvare vite in mare. Come osa la Chiesa sostenere una Ong? Come osa un parroco - don Mattia Ferrari - imbarcarsi sulla Mare Jonio? Cosa vuole dimostrare? Perché mai Luca Casarini, che è stato anche a Genova nel 2001 (cosa c’entra questo non chiedetelo a me), non capisce che il tempo dell’attivismo è finito? Che il nuovo corso è: ciascuno badi alle proprie vite, pensi a sé e smetta di credere che il mondo si può cambiare? E poi Nello Scavo, il giornalista che dalle colonne di Avvenire da anni racconta cosa accade in Libia nei lager finanziati dall’Europa, cosa accade in mare durante le traversate della speranza, che racconta cosa accade ai migranti che arrivano in Italia: perché non capisce, Nello Scavo, che questa battaglia l’informazione l’ha persa? Perché continuare a scrivere verità che sono sotto gli occhi di tutti, che sono tangibili e dimostrabili con fatti e prove, quando abbiamo a disposizione una verità suggestiva, complottarda, fatta di intercettazioni orecchiate, tagliuzzate, rimontate e riportate? Quanta ostinazione... Che ci importa che la vita e la carriera politica di Mimmo Lucano, per non parlare delle politiche per l’accoglienza, siano state distrutte da questo modo di fare indagini e informazione. Anzi, non perdiamo altro tempo, corriamo su Amazon a comprare freccette e alleniamoci a fare centro, in attesa del prossimo mostro sbattuto in prima pagina. Migranti. 2023, anno orribile dei naufragi: più di 2.500 morti. Nel silenzio di Daniela Fassini Avvenire, 19 dicembre 2023 Cutro non è servita: +60% di morti da inizio anno. La denuncia di Oim e Ong: perdono la vita 8 persone al giorno. I 61 dispersi di sabato scorso potevano essere salvati. Fa ancora male l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo di sabato scorso. L’ennesima strage che poteva essere evitata. Le Ong che navigano in lungo e in largo tra il Nord Africa e l’Europa lo sanno bene. Fintanto che nulla cambierà si continuerà a morire. E resta la rabbia che questi ultimi 61 “dispersi” (il termine tecnico che indica i morti ma che rimarranno tali fintanto che non saranno ritrovati i corpi senza vita in mare) si sarebbero potuti salvare. Più di 2mila morti dall’inizio dell’anno: per l’esattezza 2.571 uomini, donne e bambini che hanno perso la vita soprattutto lungo la rotta del Mediterraneo, soprattutto fra Libia, Tunisia e Italia e Malta. “I decessi nel Mediterraneo sono aumentati” scrive in una nota Medici senza frontiere. L’aumento in percentuale, secondo i dati dell’Oim, sarebbe addirittura del 60%. “Sono oltre 2.271 le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo Centrale quest’anno - spiega Flavio di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) - l’anno scorso in tutto l’anno furono 1.417, un numero drammatico che purtroppo dimostra che non si fa abbastanza per salvare vite in mare”. “È inaccettabile che l’Ue scelga di proteggere i suoi confini piuttosto che la vita delle persone” accusa Medici senza frontiere. “Quest’anno nel Mediterraneo centrale sono morte 8 persone al giorno - denuncia la Ong che ha anche in mare una nave per salvare i migranti in difficoltà - questo numero continua a crescere anno dopo anno. Le persone che soccorriamo nel Mediterraneo portano i segni delle violenze addosso: arti spezzate, cicatrici, gravidanze indesiderate. E l’Europa cosa fa? L’Europa respinge. Gli Stati dell’Unione europea stanno facendo di tutto per evitare che le persone arrivino in Europa. Erigono barriere, fanno accordi con Paesi terzi, respingono e riportano indietro chi cerca di scappare da posti non sicuri. O più semplicemente si rifiutano di aiutare chi è in pericolo. Come Malta che ignora le richieste di aiuto in mare. O come l’Italia che con le sue leggi ostacola il lavoro di ricerca e soccorso in mare delle organizzazioni non governative e ci assegna porti sempre più lontani. Quante altre persone devono morire prima che le cose cambino davvero?”. “Questi naufragi non sono dovuti soltanto al maltempo, ma chiamano in causa la responsabilità di chi chiude tutte le vie di ingresso legale, stipula accordi con autorità che non garantiscono una vera attività di ricerca e salvataggio, e tantomeno porti sicuri, ed allontana le navi del soccorso civile imponendo porti di sbarco sempre più lontani” sottolinea il giurista e docente di diritto d’asilo a Palermo, Fulvio Vassallo Paleologo, spiegando dove andrebbero cercate le responsabilità dell’ultimo naufragio. La tragedia di Cutro non è servita. Il 2023 si appresta ad essere l’annus horribilis dei naufragi: dopo la morte di decine di persone di fronte alle coste calabresi del febbraio scorso (e con un numero ancora indecifrato di dispersi) che sembrava aver risvegliato le coscienze, diverse altre tragedie del mare si sono consumate sotto gli allarmi inascoltati delle Ong. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati e il ministero dell’interno italiano, nel 2023 sono arrivati ??in Italia oltre 153mila rifugiati e migranti provenienti soprattutto da Tunisia e Libia. Secondo i dati di Missing migrants dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dall’inizio del 2023 sono morte 2.571 persone in mare. Ma secondo l’organizzazione EuroMed Rights questo numero è sottostimato. Dopo Cutro, nel mese di giugno quasi seicento persone sono annegate al largo di Pylos (Grecia) nel mar Mediterraneo. “Tra gennaio e luglio, le autorità tunisine hanno recuperato un totale di 901 corpi al largo delle coste” sottolinea EuroMed rights. “Esortiamo la comunità internazionale a raddoppiare gli sforzi per porre fine a questa tragedia umanitaria” scrive Sara Prestianni di EuroMed Rights. Intanto il Comitato 3 ottobre, (nato dopo il maxi naufragio del 2013 davanti Lampedusa) chiede una banca dati europea sui migranti morti. “Negli ultimi 10 anni, almeno 60.000 persone sono morte lungo le tante rotte che portano in Europa e oltre 27.000 hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo e altre migliaia sono scomparse - scrive Tareke Brhane, presidente del Comitato - Dietro ad ogni numero c’è un essere umano: una sorella, un fratello, una figlia, un figlio, una madre o un padre. La speranza è che non restino senza identità”. Ma la Commissione Europea che “si duole per ogni vita persa nel Mediterraneo” non esprime nessuno commento specifico riguardo all’ultimo naufragio al largo delle coste libiche. Lo precisa un portavoce dell’esecutivo Ue. “I leader hanno discusso il tema della migrazione nel corso del consiglio europeo: lavoriamo su tutte le diverse iniziative per arrivare a un sistema che possa gestire al meglio la migrazione in Europa”, precisa. E in Italia, sull’ultima tragedia del mare, si accende la polemica: “L’avete chiamato Cutro, quel decreto, ma da quella strage non avete voluto imparare niente” punta il dito la segretaria del Pd Elly Schlein. Migranti. I consiglieri nel Cpr di via Corelli a Milano: “Qui dentro è ancora tutto come prima” di Massimo Pisa La Repubblica, 19 dicembre 2023 Docce ghiacciate, poco cibo e risse. Il capogruppo Pd in Regione, Pierfrancesco Majorino e il collega Paolo Romano sono entrati nella struttura dove le condizioni di vita sono ancora disumane. Il principe Tomasi di Lampedusa, buonanima, avrebbe saputo pennellare la situazione con sapienza. “La sostanza vera”, sintetizza il capogruppo Pd in Regione, Pierfrancesco Majorino, “è che abbiamo trovato l’ente gestore lì bello al suo posto”. I gattopardi in questione sono quelli della Martinina srl, la cooperativa salernitana che ha in appalto la gestione del Cpr, salda al suo posto in via Corelli nonostante il sequestro impeditivo d’urgenza disposto la scorsa settimana dai pm Paolo Storari e Giovanni Cavalleri. Con somma sorpresa di Majorino e del collega consigliere Pd Paolo Romano, che ieri hanno visitato il Centro di permanenza e rimpatrio a cavallo dell’ora di pranzo. “Entriamo - ribadisce stupito Romano - e trovo la stessa direttrice del servizio psicologico della mia ultima visita, nonché la stessa vicedirettrice. Non ho potuto trattenere la domanda: che ci fate qua?”. Attesa. Della decisione del gip se convalidare il sequestro. E del resto l’attesa è l’unica attività praticata in via Corelli in un infinito e disumano giorno della marmotta che coinvolge, al momento, quarantotto “ospiti”, in maggior parte tunisini e marocchini, sospesi nel nulla delle lamentele e della rabbia. A cominciare dai pasti. “Che abbiamo assaggiato - racconta Romano - ed erano pure mangiabili ma in quantità insufficienti e di una tristezza imbarazzante. Cous cous con due piselli che si sfarinava, formaggio in vaschetta e strisce sottili di peperoni. Ma il cibo, o la consistenza delle lenzuola ignifughe che di fatto sono di carta velina, sono il meno. È tutto questo regime di restrizione che è inaccettabile e intollerabile, tutto il concetto di detenzione amministrativa che è da Stato dittatoriale. Basti dire che noi, che pure abbiamo potuto dialogare con le persone senza restrizioni da parte della polizia, abbiamo parlato con due numeri: 16-50 e 17-12. Come i cartellini appesi alle loro porte. È devastante per la loro identità, ci riporta alle pagine più buie dell’umanità”. E cosa dicevano questi numeri? “Why? Perché? Continuava a chiedere alternando italiano e inglese - spiega Majorino - un ragazzo centrafricano che domandava: cosa ci faccio qua? Spiegandomi che non era mai stato un giorno in carcere e non capiva perché fosse finito in quel posto. Perché questo è ed è terribile una situazione completamente sfuggita di mano. Siamo di fronte a un piccolo carcere senza le garanzie presenti in un carcere”. Peggiore perché dentro il Cpr (e quello di via Corelli non è il peggiore d’Italia a detta di tutti gli operatori) a pesare è soprattutto il limbo. “Nessuna attività - ribadisce Romano - a parte il cellulare, stai lì in un loop infinito. La tensione ovviamente è alta, noi siamo entrati subito dopo una rissa, c’erano ragazzi col ghiaccio in faccia, altri si erano spogliati totalmente e non volevano tornare dentro. Che poi, solo il 50 per cento finisce rimpatriato. Gli altri tornano in strada, senza dignità né documenti, con questo carico psicologico e questa rabbia. Qualcuno lavora qui, ha i figli che vanno a scuola, beccato senza permesso su un treno per Treviglio, alle 5 di mattina, mentre andavano in cantiere, ovviamente in nero. Altri usciti dal carcere dopo due giorni finiscono a Corelli. E anche questi ti dicono: ma io ho già pagato, perché devo ricominciare, per cosa?”. Docce ghiacciate, turche che non si chiudono, qualche copertuccia per la notte. Ed è tutto. “Bisogna velocizzare i rimpatri di chi deve essere rimpatriato e procedere immediatamente alla chiusura del Cpr”, sintetizza Majorino, “e convertirlo in luogo d’accoglienza per chi, italiano o straniero, non ha un tetto sotto il quale stare”. Sarebbe pure la soluzione più sicura, aggiunge Romano: “Lì dentro c’è solo costruzione di marginalità e disagio. Chi uscirà da qui e non sarà espulso tornerà in strada: e con quale atteggiamento, anche verso le stesse forze dell’ordine? Le destre vorrebbero aumentare i tempi di detenzione a 24 mesi, è impossibile, implausibile, sconsigliabile. Una follia. Non dovrebbero esistere, non si dovrebbe restare lì dentro nemmeno per 24 ore”. Cpr, la battaglia del Pd di Ferrara: “Carceri a cielo aperto. Diremo no in ogni Consiglio” di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 19 dicembre 2023 Il segretario provinciale Minarelli: “Centri inumani che creano insicurezza”. Segala (Unione comunale): “Diamo vita a un movimento con i cittadini”. I Dem all’attacco del “modello Cpr”, il centro di permanenza per i rimpatri che - siamo sempre sul campo delle ipotesi e con uno studio di fattibilità in corso - potrebbe sorgere anche a Ferrara o in una zona del basso ferrarese. “Un modello - tuonano Nicola Minarelli, segretario provinciale del Pd, e i componenti dei gruppi consiliari comunali e provinciale - totalmente sbagliato. Lo ribadiremo chiaramente in tutto il territorio ferrarese, per questo in tutti i consigli comunali, sia dove il Pd è maggioranza sia dove è all’opposizione, e in Consiglio provinciale verrà presentata una risoluzione che impegna le amministrazioni a manifestare ferma contrarietà a qualsiasi ipotesi di realizzazione di questi centri”. Un’iniziativa con l’obiettivo di sollecitare “Governo e Parlamento a rivedere la legislazione in essere relativa al sistema di detenzione amministrativa disponendo la chiusura dei Cpr”. Centri ritenuti “inumani, degradanti e pericolosi”, come dimostrano i fatti avvenuti a Torino. “Carceri a cielo aperto che - continua Minarelli - creano problemi per e con la cittadinanza. Creano conflitti, tensioni e insicurezza. Questa risoluzione vuole difendere i territori, senza lasciarli alla bassissima speculazione che ne sta facendo il Governo di Roma, il quale proponendo un Cpr in provincia di Ferrara si dimentica del nostro territorio, dimostrando che non è tra le priorità del Paese”. Non basta più solo la politica, “è ora che anche le Istituzioni facciano la loro parte, da Bondeno a Comacchio, da Goro a Argenta, da Cento a Mesola, da Lagosanto a Portomaggiore, da Ostellato a Riva del Po, da Copparo a Fiscaglia, da Vigarano a Codigoro, passando per Ferrara”. Stessa linea quella di Enrico Segala, referente nuova cittadinanza della segreteria Unione comunale del Pd. “Il no ai Cpr - spiega in una nota - va al di là del mero slogan. Vuol dire dare piena attuazione ai diritti fondamentali dell’individuo (art. 2), attuazione piena del principio di uguaglianza (art. 3) e soprattutto attuazione piena degli obblighi internazionali che ci siamo assunti (art. 10). Parliamo di Costituzione. Di valori fondamentali dell’individuo. Di democrazia. L’abbiamo visto due lunedì fa al Cinema Apollo, il docufilm che ha testimoniato ancora una volta che le condizioni interne ai Centri non sono democratiche”. La cittadinanza, aggiunge subito, “è solidale al problema e vuole rendersi parte diligente per la causa. Federica Borlizzi dal palco ci ha raccontato che i Cpr sono stati chiusi là dove la popolazione si è unita alle associazioni e ha fatto nascere uno spontaneo movimento a favore dei diritti dell’individuo”. In modo corale, chiude la nota, “dobbiamo dare voce a chi non può parlare, perché non conosce la lingua, perché non sa di poterlo fare, perché non ha i documenti per farlo”. Migranti. Macron e Merkel furono i “pionieri”: volevano gli hotspot fuori dall’Ue di Francesco Grignetti La Stampa, 19 dicembre 2023 Meloni, Sunak e Rama non sono i primi a cercare una soluzione esterna al problema: al tentativo del 2018 si associò Conte. L’intesa tra Giorgia Meloni, Edi Rama e Rishi Sunak ha in filigrana un obiettivo comune: spedire i migranti il più lontano possibile, a qualunque prezzo, e addio agli scrupoli umanitari. Se questo è il fine, il terzetto di palazzo Chigi è in nutrita compagnia. Già perché la pazza idea di liberarsi di un “fardello” che ha costi politici notevoli, specie per i governi di destra, viene da lontano e attrae molti Paesi europei. Era il 2018 quando Emmanuel Macron propose di creare degli “hotspot” in Africa. L’ipotesi del Presidente francese era ancora potabile: creare in Ciad, Niger, Tunisia ed Egitto centri della Ue da far gestire alle Agenzie dell’Onu in collaborazione con quelle europee dell’Asilo, dove i migranti avrebbero potuto presentare una domanda e lì attendere l’esito. In fondo, l’idea di esternalizzare la “grana” c’era già. Qualcuno si spinse a ipotizzare i centri persino in Libia, ma la cosa subito si rivelò una chimera. Il progetto prevedeva che se poi al richiedente asilo fosse andata male, sempre la Ue, in collaborazione con l’Oim, avrebbe previsto dei voli di rimpatrio volontario dai quattro Paesi africani per la nazione di origine del migrante. A questa proposta si associarono Giuseppe Conte per l’Italia e Angela Merkel per la Germania e divenne una proposta della Commissione. Tutto si arenò, però, perché alla Cancelliera, che pure aveva in dote un ricco assegno, sbatterono la porta in faccia sia la Tunisia, sia l’Egitto. A seguire, fu il gruppo di Visegrad - Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca - a riprendere l’idea, ma in forma più arcigna: i centri si sarebbero dovuti trasformare in luoghi di detenzione e rimpatrio perché, si sa, i quattro di Visegrad non vogliono stranieri in nessuna forma. L’idea piacque molto a Danimarca e Austria che ne hanno fatto oggetto di una proposta ufficiale a Bruxelles. Il sogno proibito dell’allora cancelliere austriaco Sebastian Kurz e del danese Lars Lokke Rasmussen era un campo pilota da realizzare in Kosovo o in qualche altro Paese balcanico. Si associarono il Belgio con il nazionalista fiammingo Theo Francken, il Gruppo di Visegrad, la Slovenia e la Bulgaria. Sebbene pure quella ipotesi sia abortita, qualcosa di sinistro ne è rimasto. La Danimarca ha raggiunto un accordo con il Kosovo per fargli “ospitare” a pagamento 300 detenuti nelle sue carceri. E ora vorrebbe seguire la Gran Bretagna con il modello Ruanda. Intanto, questa impostazione sta facendo breccia. C’è stata una lettera di Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Grecia, Malta e Austria perché la Commissione europea finanzi la costruzione di muri di confine. Il nuovo premier della Slovacchia, Robert Fico, ha appena annunciato di essere pronto ad utilizzare anche la forza contro i migranti che si presenteranno ai confini. Questo per non dire delle maniere brutali utilizzate dalle polizie di Ungheria, Grecia, Croazia e Slovenia. Vendetta e giustizia: c’è differenza di Dacia Maraini Corriere della Sera, 19 dicembre 2023 La vendetta dell’individuo singolo oggi viene considerato un reato. La vendetta condotta da un esercito in nome di una nazione invece viene accettata come prassi politica. Dobbiamo pensare che la differenza fra giustizia e vendetta stia solo nella inconfutabilità di una autorità riconosciuta? Ho usato la parola vendetta in un dialogo pubblico a proposito della reazione di Israele all’orribile massacro di Hamas e sono stata subito redarguita dicendo che Israele non si vendica ma fa giustizia. Non ho avuto il tempo per rispondere, ma penso che sia interessante approfondire. Cosa è che distingue la vendetta dalla giustizia? Non c’è dubbio che la vendetta risponda a un istinto arcaico e naturale. Si prova un piacere quasi sensuale a vendicarsi. A un torto si risponde con un altro torto. Ma possiamo chiamarlo un compimento di giustizia, anche se risponde grossolanamente a un bisogno di equità? Riflettendo si capisce che la vendetta si basa su una presa di potere, mentre la giustizia si basa su un principio etico, su regole condivise e riconosciute dalla comunità. Nel caso poi in cui la vendetta venga legittimata dalla volontà di un Dio, oppure di un capo politico in nome del “sacro popolo”, i principi della giustizia vengono sospesi in nome della difesa del paese. La vendetta, fra l’altro ha bisogno di teatralità e la morte degli innocenti incendia l’immaginazione. Uccidere cittadini inermi, anche quando in mezzo a loro si nascondono i responsabili del delitto, suscita terrore, insicurezza e senso di impotenza. La vendetta dell’individuo singolo oggi viene considerato un reato. La vendetta condotta da un esercito in nome di una nazione invece viene accettata come prassi politica. Dobbiamo pensare che la differenza fra giustizia e vendetta stia solo nella inconfutabilità di una autorità riconosciuta? La vendetta, come ho detto, risponde a un istinto profondo che abbiamo in comune con gli animali. Il più forte colpisce il più debole per un torto subito, ma indiscriminatamente, senza tenere conto delle conseguenze che colpiscono gli innocenti. La vendetta in effetti risulta veloce, drastica e appagante, mentre la giustizia ha i tempi lunghi e spesso delude, ma è importante che chi viene offeso non usi le stesse armi dell’offensore, e sia esempio di una fedeltà alle pratiche della giustizia, anche quando si presentano lunghe e spinose. So che la politica è complessa e tortuosa, ma so pure che un grande paese democratico come Israele potrebbe benissimo trovare il modo giusto per perseguitare e punire i massacratori senza coinvolgere cittadini innocenti. La pietà a corrente alternata: il doppio standard dell’umanità in guerra di Gianfranco Pagliarulo* Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2023 Non credo di sbagliare interpretando la pietà come condivisione del dolore e perciò come sua rappresentazione. La Pietà di Michelangelo ne incarna simbolicamente il sentimento e il principio. Il più significativo archetipo della pietà mi pare la morte del figlio, perché rappresenta per il genitore lo strappo più feroce alla legge di natura. La guerra è la negazione per antonomasia della pietà, perché la stragrande maggioranza dei militari morti sono giovani, da tempo le guerre sono di fatto guerre ai civili, le prime vittime di queste guerre sono i bambini. La ricaduta giuridica della pietà è nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1948. Cito, solo ad esempio, l’articolo 3: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. È così in una società e in sistema economico e sociale in cui, al di là delle petizioni di principio, è al centro il mercato, la competizione, il profitto e oggi - diciamolo - la guerra? Ovviamente no, perché il sentimento, il valore, il principio della pietà ha senso solo in una comunità internazionale che metta al centro la persona umana e, assieme, ne riconosca i limiti. Questo vale in particolare per l’occidente, che di tali valori si fregia da tempo. Accade invece che si realizzi una patologia sostitutiva. Si chiama doppio standard e consiste nell’applicazione del principio umanitario a corrente alternata, a seconda cioè degli schieramenti in campo, degli interessi nazionali o sovranazionali, delle specifiche politiche di governo. La pietà c’è, ma alle volte. A proposito del recentissimo naufragio davanti alle coste libiche, la ong Alarm Phone ha scritto: “Noi abbiamo allertato le autorità, compresa la cosiddetta guardia costiera libica che ha dichiarato di non volerli cercare”. Da quanto poi riporta Fanpage, “due velivoli di Frontex avrebbero sorvolato la zona nelle stesse ore in cui incrociava la Ocean Viking di Sos Mediterranée che aveva già salvato 26 migranti a bordo di una piccola imbarcazione. La nave umanitaria che avrebbe voluto prendere parte alle ricerche del gommone ha ricevuto invece l’ordine di tornare verso l’Italia. (…) Nel frattempo il gommone alla deriva si è rovesciato”. È l’enormità del presente e della destra italiana: le ong non hanno l’autorità e la possibilità giuridica di intervenire pienamente in casi di naufragio. Secondo l’Organizzazione internazionale dei migranti “sono oltre 2250 le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale quest’anno”. Insomma, l’Europa c’è, ma non risponde (per non parlare dell’Italia: penso a Cutro). No alla sostituzione etnica, dice la destra estrema. Intanto si pratica la sostituzione etica, cioè la rimozione e la negazione della prima responsabilità di qualsiasi navigante, che è quella di salvare e accogliere il naufrago. Poi c’è la guerra e i bambini, ove il doppio standard si presenta nella sua forma più rivoltante. Grande enfasi (sacrosanta) sui bambini ucraini uccisi dalle bombe russe in quasi due anni di guerra. Pruderie e abborracciati equilibrismi lessicali sull’olocausto di bambini palestinesi uccisi dalle bombe israeliane. In fondo, una dura necessità per contrastare Hamas. Come se spianando Gaza e ammazzando - fino ad oggi - ventimila palestinesi, sia possibile distruggere Hamas che, proprio per questo, aumenta i suoi consensi in Medio Oriente e anche oltre. E - anche se fosse verosimile - come se la distruzione di Hamas giustificasse il massacro in corso. Ma c’è di più: mentre l’orribile strage di israeliani innocenti da parte di Hamas viene sempre nominata come tale e giustamente esecrata, l’eccidio quotidiano di palestinesi sovente viene descritto come causato dai bombardamenti, senza specificare di chi sono. E la politica occidentale balbetta rimbrottando (ma non sempre) Israele perché esagera, ma non facendo mai mancare il sostanziale appoggio alla guerra in corso contro i palestinesi. E fa niente se ci rimette la pelle anche qualche ostaggio israeliano. Perché meravigliarsi del crescente isolamento dell’occidente alle Nazioni Unite, confermato dalla recente votazione per il cessate il fuoco a Gaza, quando gli stessi Paesi dell’Unione Europea si sono divisi in tre, fra astenuti, favorevoli e contrari? Ancora un esempio del doppio standard? La proclamata (e sacrosanta) preoccupazione per il destino del dissidente russo Navalny. Neanche una parola per il dissidente americano Assange, attualmente detenuto nel Regno Unito, nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, la cosiddetta “Guantanamo di Londra”, in attesa di estradizione verso gli States, dove potrebbe rimanere in carcere a vita “per aver pubblicato informazioni veritiere, che rivelarono crimini di guerra commessi dal governo degli Stati Uniti”, come ha affermato Stella, sua moglie. Libertà di stampa e sicurezza dello Stato non sempre combaciano, alla faccia delle omelie sulla democrazia. Doppi standard. Una sessantina d’anni fa Franz Fanon scriveva - cito a memoria - che l’occidente è per la difesa dei diritti umani. E aggiungeva: “dei bianchi”. Nell’ottobre dello scorso anno il responsabile della politica estera dell’Unione Europea, il progressista Josep Borrell, paragonava l’Europa a “un giardino” e il resto del mondo ad una “giungla che potrebbe invadere il giardino”. Che fare? “andare nella giungla”, “altrimenti, il resto del mondo ci invaderà”. C’è tutta la subalternità culturale al pensiero della destra, all’idea di un’Europa bella e buona assediata da un mondo brutto e cattivo, c’è il retropensiero che solo l’uomo bianco sia portatore di civiltà, cultura e progresso. Se lo sguardo europeo verso il resto del mondo è sempre quello di chi in ultima analisi vede il colonizzato, perché stupirci se il resto del mondo vede nell’europeo il colonizzatore? In questo tempo di mostri - la guerra e i fascismi - occorre prendere atto che l’Unione Europea deve scegliere: o asseconda il suo declino, costruendosi attorno un muro che isola se stessa a tutto vantaggio del nazionalismo sovranista, o riconquista il futuro afferrandolo con le sue mani. Pietà l’è morta? No, si è solo perduta. È difficile. Ma si può cambiare, tornando ai principi della carta di Lisbona e al manifesto di Ventotene, conquistando l’autonomia politica, pensando a un’Unione Europea portatrice di coesistenza pacifica. In sostanza cambiando lo sguardo sul mondo e mettendo al centro dell’Europa e del pianeta la persona, cioè la pietà ritrovata. C’è sempre una luce in fondo al buio. Val la pena provarci. *Presidente nazionale ANPI Medio Oriente. Detenuti dall’Idf: “Morti a decine” di Cosimo Caridi Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2023 Il quotidiano israeliano Haaretz ha scoperto dove finiscono i prigionieri gazawi dell’Idf, “tutti terroristi”, anche i 14enni. Detenuti senza accuse precise, bendati, denudati e trasportati sui camion nel deserto del Negev senza dare notizie ai familiari. Il quotidiano israeliano Haaretz ha scoperto dove finiscono i prigionieri gazawi dell’Idf, “tutti terroristi”, anche i 14enni. Da diverse settimane, i gazawi arrestati dall’esercito israeliano (Idf) vengono trasferiti in una base militare nel deserto del Negev. Il quotidiano Haaretz ha rivelato che alcuni prigionieri sono morti mentre si trovavano in regime detentivo. Non sono chiare le circostanze che hanno causato i decessi, ma l’Idf ha immediatamente replicato “erano tutti terroristi”. L’esercito non ha ritenuto necessario specificare il numero di morti, né diffondere altri dati o avvisare le famiglie. I sospettati vengono trasportati fuori dalla Striscia bendati, ammanettati e con indosso solo la biancheria intima. Secondo la ricostruzione fatta dal giornale israeliano, i palestinesi vengono poi detenuti in aree recintate, con le mani bloccate e gli occhi coperti per buona parte della giornata. Le luci della struttura carceraria restano accese tutta la notte. I sospettati sono sottoposti a lunghi e ripetuti interrogatori. Ci sono almeno quattro strutture diverse all’interno della zona militare, una costruita nelle ultime settimane, e permettono di mantenere in isolamento buona parte dei detenuti. Chi è ritenuto innocente viene rilasciato, gli altri trasferiti presso altre carceri in tutto il Paese. Israele non riconosce i gazawi arrestati come militari di un altro esercito. Dal 2002, Tel Aviv si è dotata di una legge che definisce i miliziani, di Hamas e Jihad islamica, come “combattenti illegali” a cui non si applicano le convenzioni internazionali. Gli accusati possono essere trattenuti per 30 giorni senza che vengano formulate accuse e hanno diritto di vedere un legale solo dopo 28 giorni. Un giudice può decidere che il tempo necessario prima di essere assistiti da un avvocato arrivi a 80 giorni. L’Idf ha comunicato la scorsa settimana che nel mese di novembre ha arrestato 500 terroristi, tra cui 350 operativi di Hamas e 120 della Jihad islamica. Otto giorni fa sono state diffuse le prime immagini di arresti di gruppo, decine di persone caricate seminude sui camion dell’esercito. L’esercito ha ripetuto più volte che si trattava di tutti miliziani di Hamas che si erano arresi. Secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Difesa, almeno il 60% di quegli uomini e ragazzi - c’erano diversi quattordicenni tra fermati - sono stati giudicati innocenti e quindi rilasciati. Non ci sono giornalisti internazionali che hanno potuto incontrare gli uomini liberati. Ma diverse fonti palestinesi riportano di botte, angherie, pessime condizioni igieniche, poca acqua e cibo per tutto il periodo di detenzione. Ungheria. Ventidue Garanti dei detenuti scrivono a Meloni sul caso Salis di Eleonora martini Il Manifesto, 19 dicembre 2023 “Condizioni preoccupanti” per la donna detenuta a Budapest da 11 mesi. Ventidue Garanti regionali, comunali e provinciali dei detenuti ha firmato un appello diretto alla premier Meloni e al ministro degli Esteri Tajani sulla situazione di Ilaria Salis, dallo scorso febbraio detenuta a Budapest perché accusata di aver aggredito due neonazisti. La vicenda, peraltro, interessa anche un altro italiano, Gabriele Marchesi, che la giustizia ungherese vorrebbe gli venisse consegnato dall’Italia sempre per un accusa di aggressione. Sul punto la Corte d’Appello di Milano deciderà il prossimo 16 gennaio, con la procura generale che ha già fatto presente di essere contraria alla sua estradizione. “Le notizie giunte dagli organi di stampa, dai suoi legali e dalla sua famiglia sono preoccupanti - scrivono i garanti su Ilaria Salis -. Celle malsane ed infestate da topi e parassiti, difficoltà ed impedimenti nei contatti con i familiari, carenze igieniche e di cibo”. E ancora: “Non saremo noi ad entrare nel merito del reato contestato ad Ilaria Salis, a questo penseranno i suoi legali. Quanto chiediamo è di attivare la nostra rete diplomatico-consolare per fornire assistenza alla detenuta e curare i contatti con la sua famiglia. Vi domandiamo inoltre di utilizzare i vostri buoni uffici con il Governo magiaro perché sia garantito un giusto processo ad Ilaria Salis e per favorire il trasferimento in Italia in base alla Convenzione di Strasburgo, qualora si arrivasse ad una condanna della nostra concittadina. In ultimo, chiediamo di voler ascoltare la famiglia di Ilaria Salis, la sofferenza che esprime per la figlia reclusa in difficili condizioni ma anche la fiducia con cui si rivolge alle autorità italiane perché si adoperino a trovare una risposta che sia rispettosa al contempo delle competenze nazionali e dei diritti individuali”. Il processo per Salis comincerà il 24 gennaio a Budapest: per il reato che le viene contestato rischia una pena fino a sedici anni di carcere e le è stato proposto di patteggiare a undici (e lei ha rifiutato). In Italia l’aggressione aggravata è un reato che si persegue solo dietro querela di parte e il massimo della pena arriva a quattro anni.