Il Csm contro Davigo: “Denigra i suoi colleghi” di Felice Manti Il Giornale, 18 dicembre 2023 Chiesta un’azione a tutela dei magistrati di Brescia attaccati dall’ex pm: “Un intervento inopportuno”. C’è un derby che scuote la magistratura italiana dalle fondamenta, con esiti imprevedibili. Partiamo da Piercamillo Davigo e dal suo show a senso unico da Fedez al Muschio Selvaggio. Tra le macabre contumelie sparate contro Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e i suicidi di Tangentopoli (“Mi è spiaciuto perdere delle fonti di informazioni”) Davigo ha anche sparato a palle incatenate contro la Procura di Brescia: “Lì le cose non sempre le capiscono, per questo mi hanno condannato” in primo grado per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Eni-Amara-Loggia Ungheria, è stato l’affondo dell’ex magistrato. Fedez e il suo socio podcaster Mr Marra sono rimasti zitti, si è mosso il presidente della Prima commissione del Csm Enrico Aimi: “Da Davigo un attacco all’autonomia e al prestigio della magistratura, nonché un atto denigratorio del lavoro svolto negli uffici giudiziari di Brescia, ancor più inopportuno visto il giudizio pendente in corso”. Il tribunale della città lombarda ha infatti la competenza sui pasticci dei magistrati milanesi legati alle accuse ad alti magistrati del superteste Pietro Amara, considerate prima credibili poi carta straccia. Brescia non le manda a dire: “Il Tribunale manifesta vivo stupore e sconcerto” per i “pesanti giudizi” che “costituiscono incomprensibile negazione del rispetto dovuto alla giurisdizione tout court, doveroso ed esigibile soprattutto da chi ha indossato la toga per oltre quaranta anni”. Che quella di Davigo non sia stata un’intemerata a sorpresa ma una scelta precisa e ponderata lo sottolinea lo stesso Caimi; “Sorprende che un magistrato così esperto rilasci dichiarazioni che minano la credibilità dei giudici interessati e dell’intero ordine giudiziario”, proprio quello che Davigo dice di voler difendere da politica e lobby potentissime. Ma c’è anche un altro fronte incandescente. È quello aperto dall’ex consigliere della Corte costituzionale Nicolò Zanon. Mercoledì scorso alla presentazione del libro La Gogna di Alessandro Barbano su l’Hotel Champagne e le trame tra Luca Palamara, Luca Lotti, Cosimo Ferri e altri cinque consiglieri del Csm, Zanon ha rivelato che una sentenza della Consulta avrebbe fatto strame della Costituzione pur di non mandare in vacca i processi in corso al Csm e in Cassazione contro quei protagonisti. Le conversazioni captate grazie al trojan inoculato sul cellulare dell’ex leader Unicost per un’accusa (la corruzione) poi caduta quasi subito, anziché finite sui giornali avrebbero dovuto essere distrutte perché irrispettose delle guarentigie costituzionali di Lotti (uomo di Matteo Renzi) e Ferri, magistrato a riposo e leader di Magistratura indipendente eletto in Parlamento. “È stata la più grande rivelazione del segreto d’ufficio della storia giudiziaria d’Italia”, ha scritto Barbano nel suo volume. La Consulta per preservare quelle conversazioni stabilì invece un precedente che per Zanon “ha messo la Costituzione sotto i tacchi”: per intercettare un parlamentare basta non indagarlo. Quella sentenza avrebbe dovuto avere un altro relatore, Pietro Modugno, che oggi è il numero due della Consulta guidata da qualche giorno da Augusto Barbera. Al suo posto a firmare la sentenza è stato Stefano Petitti di Md, guarda caso la corrente delle toghe che ha incassato il miglior dividendo dai guai di Palamara e Ferri. Liana Milella su Repubblica aveva anticipato che la sentenza avrebbe dato ragione a Ferri, l’allora presidente Silvana Sciarra la smentì. E oggi sappiamo perché. Sul suo blog la Milella accusa Zanon di aver commesso un reato “perché di centrodestra”, di fatto rafforzandolo anziché smentirlo. Per Barbera, dal ‘76 al ‘94 sugli scranni Pci-Pds, una bella gatta da pelare. Attacchi alla magistratura: se parla Crosetto è il finimondo, se lo fa Di Matteo tutti zitti di Paolo Pandolfini Il Riformista, 18 dicembre 2023 Quando si affronta il tema delle correnti della magistratura scattano inevitabilmente i “distinguo”: dipende sempre da chi parla. L’ultimo in ordine di tempo ad essere rimasto travolto dalle polemiche è stato, come si ricorderà, il ministro della Difesa Guido Crosetto. Il fondatore, insieme alla premier, di Fratelli d’Italia, alla fine del mese scorso in una intervista al Corriere della Sera, a proposito di rapporti fra magistrati e politici, aveva raccontato di aver saputo di riunioni di una corrente non meglio specificata della magistratura in cui si sarebbe parlato di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Immediatamente, come detto, si era scatenata la polemica politica con la richiesta a Crosetto da parte delle opposizioni, Pd in testa, di riferire quanto prima in aula o di formalizzare la sua denuncia. E lo scorso 6 dicembre, a sorpresa, Crosetto era stato addirittura convocato in Procura a Roma per essere interrogato dal procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi proprio in merito a quella intervista. Crosetto, per la cronaca, aveva comunque chiarito il senso del suo intervento sull’opposizione giudiziaria nell’intervista al Corriere della Sera. “Era una battuta, un modo di dire riferito al destino che hanno avuto i governi di centrodestra negli ultimi 20 anni”, aveva precisato Crosetto. La frase in questione “era riferita solo a quello”, al fatto che “sembra che ci sia più l’organizzazione di una opposizione da parte di chi ha invece altri compiti”, aveva aggiunto, sottolineando che “non stiamo parlando della magistratura ma di alcuni esponenti della magistratura”, “piuttosto che una opposizione che, mi pare evidente, non rappresenta in questo momento un pericolo particolare per il governo. I governi reggono fin quando non esiste un’alternativa politica, alternativa politica fin qui non ne hanno messe in piedi, dunque la vita del governo resta, da questo punto di vista, abbastanza tranquilla”. Stesso trattamento, invece, non è stato riservato al magistrato antimafia Nino Di Matteo, idolo dei grillini e di Marco Travaglio, che per mesi e mesi aveva accusato il Consiglio superiore della magistratura, organo di rilevanza costituzionale presieduto dal capo dello Stato, di usare “metodi mafiosi” nella gestione delle nomine delle toghe. A novembre 2021, il filmato è reperibile in rete, in un’intervista al compianto Andrea Purgatori su La7 Di Matteo aveva affermato che “soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Csm e dell’intera magistratura”. “Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”, aveva aggiunto Di Matteo, equiparando dunque l’attività dell’organo di autogoverno delle toghe a quella di una cosca. Le considerazioni di Di Matteo erano poi finite nel suo ultimo libro “I nemici della giustizia”. Si tratta, indubbiamente, di affermazioni molto più gravi e, come si dice in questi casi, molto più ‘circostanziate’, provenendo da un magistrato con oltre trent’anni di esperienza, che è stato in servizio alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo e successivamente alla Direzione nazionale antimafia e che, a causa del suo impegno, vive sotto scorta, utilizzando per gli spostamenti un blindato. Di Matteo, ironia della sorte, nel 2019 è stato poi eletto proprio al Csm, il luogo dove quelle consorterie costituite da magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria e da altri “esponenti” operano “con metodo mafioso” che ha ormai “inquinato i poteri, non solo la magistratura”. È di tutta evidenza che affermare l’esistenza di una magistratura divisa in “cordate”, “inquinata” e che operi con “metodo mafioso” per “condizionare l’attività del Csm e dell’intera magistratura”, presieduto dal presidente della Repubblica, sia una accusa molto più grave di quella espressa da Crosetto che forse si era lasciato prendere la mano. Peccato, però, che il magistrato antimafia siciliano e che i grillini avrebbero voluto a via Arenula, in questi anni non sia mai stato convocato da nessun procuratore per i dovuti chiarimenti. Blitz di destre & Iv per rendere segreti gli ordini di arresto di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2023 Al voto (a scrutinio segreto) l’emendamento Costa per vietare la pubblicazione delle ordinanze. Governo diviso: ok di Fi e Lega, FdI contraria. Una trappola parlamentare studiata dal deputato di Azione Enrico Costa per porre fine alla pubblicazione di atti d’indagine sui media. Domani la destra che sostiene il governo Meloni è intenzionata a votare a scrutinio segreto un emendamento alla legge di delegazione europea che imporrebbe di vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare durante le indagini. Resta la contrarietà di Fratelli d’Italia che però è isolata: con lo scrutinio segreto l’emendamento ha ottime possibilità di passare. Domani mattina alla Camera sarà il ministro della Difesa Guido Crosetto a introdurre il tema della giustizia svolgendo un’informativa dopo l’intervista al Corriere della Sera di due settimane fa in cui aveva accusato i magistrati di voler “far cadere il governo”. Crosetto è stato ascoltato come persona informata dei fatti dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi e ripeterà le stesse accuse alle correnti di sinistra della magistratura in Parlamento. Ma tra domani e mercoledì il calendario dei lavori a Montecitorio prevede anche il voto sulla legge di delegazione europea. Un provvedimento che in teoria servirebbe solo ad adeguare il diritto italiano a quello comunitario. Ma è in questo testo che il deputato Costa ha preparato una trappola parlamentare: un emendamento per delegare il governo a scrivere un provvedimento che vieti la pubblicazione integrale o sommaria delle ordinanze di custodia cautelare durante le indagini. Giovedì scorso il governo ha dato parere negativo ma in questo caso la maggioranza rischia di spaccarsi: Forza Italia si è già detta favorevole e il voto, su richiesta dello stesso Costa, sarà segreto poiché riguarda le libertà personali. Fratelli d’Italia è contraria perché chiede di bilanciare l’esigenza di rispettare la presunzione di innocenza con quella di diritto di cronaca, ma resta isolata nella maggioranza: a scrutinio segreto, i voti per la norma arriveranno trasversalmente da destra e da tutte le altre forze politiche. Oltre a Forza Italia e ai centristi, anche la Lega è favorevole al provvedimento e diversi voti potrebbero arrivare anche da singoli deputati di FdI. Così in queste ore i meloniani, con la regia del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, stanno provando a evitare che l’emendamento passi chiedendo al M5S di votare contro come indicazione del governo: i voti dei due partiti uniti basterebbero per respingerla. Ma è un rischio perché FdI non si fida dei pentastellati: nonostante la contrarietà del M5S, sarebbe troppo forte la tentazione di fare un’imboscata alla maggioranza mandandola sotto in aula. Quindi o il governo cambierà parere all’emendamento approvandolo (magari con una riformulazione), oppure la maggioranza rischia di spaccarsi nel voto segreto con risultati imprevedibili. Un cul de sac studiato ad arte dal deputato calendiano Costa, a lungo considerato uno dei consiglieri del ministro Nordio. Sempre martedì, la Camera sarà chiamata a votare la relazione della giunta per le Autorizzazioni che a ottobre aveva respinto la richiesta del Csm di poter utilizzare le intercettazioni nel procedimento disciplinare nei confronti dell’ex deputato Cosimo Ferri. Stiamo parlando delle captazioni fatte nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 all’hotel Champagne in cui il giudice e allora deputato Pd disegnava strategie insieme a Luca Palamara, Luca Lotti e cinque consiglieri togati del Csm per la nomina di procuratore a Roma. La Corte Costituzionale ha stabilito che la Camera non poteva negare l’utilizzo delle intercettazioni e così il Csm a settembre ha rimandato gli atti a Montecitorio: a ottobre la giunta per le Autorizzazioni ha negato l’uso degli ascolti e domani l’aula di Montecitorio sarà chiamata a votare la relazione. Il risultato è quasi scontato: la destra confermerà compatta il “no” all’utilizzo delle intercettazioni come in giunta con l’opposizione divisa e solo il M5S compatto per il “sì” alla richiesta del Csm. Campania. Al lavoro con Lucia Castellano, provveditrice dell’amministrazione penitenziaria di Micaela Zucconi iodonna.it, 18 dicembre 2023 Punta sul reinserimento dei detenuti, con scuola e corsi di formazione che offrono nuove opportunità di lavoro. Il suo relax? Libri, musica e “Un posto al sole” in tv. Lucia Castellano, classe 1964, laureata in Giurisprudenza a Napoli, è Provveditrice dell’amministrazione penitenziaria della Campania dall’agosto 2022, dopo essere stata Direttrice generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di messa in prova presso il Ministero della Giustizia, a Roma. Tra i numerosi incarichi in diverse città, è stata Direttrice del Carcere di Bollate a Milano, consigliera regionale della Lombardia e assessora a Casa, Demanio e Lavori Pubblici del Comune di Milano. Vive a Napoli con il suo compagno, ma quando può scappa nel capoluogo lombardo, che le è rimasto nel cuore. ore 6.45 “Vivo in una casa del centro storico con una bella terrazza. Dopo la sveglia faccio ginnastica e ascolto le notizie alla radio. Segue il rito del caffè fuori insieme al mio compagno, professore di storia dell’arte all’Università, prima di avviarmi al lavoro. Sono responsabile di 15 istituti penali: uno femminile, gli altri maschili e uno a custodia attenuata per detenute madri. Ho vissuto in diverse città italiane e non ho avuto figli per scelta. Rivendico questa libertà, ma ammiro le donne che riescono a realizzarsi su piani diversi. Come generazione Boomer ho dovuto sfondare qualche tetto di cristallo. Ancora oggi la questione di genere riguarda soprattutto le donne con una famiglia, gravate da un doppio incarico. Nell’amministrazione pubblica però a livello di salario e di nomine ai vertici, come i direttori generali, viene ormai rispettata la parità”. ore 8.30 “Ho cinque uffici dirigenziali sotto di me: sicurezza, sanità, contabilità, percorsi di trattamento e reinserimento dei detenuti, ufficio del personale e affari generali. Un’organizzazione complessa, gravata da lentezze burocratiche. Abbiamo 7.200 ospiti, di cui 2.100 a Poggioreale, e 350 donne. Una realtà difficile. Seguo diversi gruppi di lavoro che si occupano di molti aspetti, compresa l’educazione scolastica o universitaria dei detenuti e mi impegno per offrire opportunità per il “dopo”: ci sono progetti che coinvolgono la lavanderia industriale di un istituto o altri in cui si producono ortaggi e frutta da vendere all’esterno. A fare la differenza è la sinergia con la magistratura di sorveglianza, il territorio e le imprese”. ore 13.30 “Dieci minuti per uno spuntino veloce con il mio assistente, che mi è molto caro. ore 14 “Mi trattengo in ufficio per appuntamenti, se posso torno a casa presto e lavoro in remoto. Altre volte passo le giornate negli istituti penitenziari, per far sentire la mia vicinanza. Per la detenzione femminile abbiamo un gruppo di lavoro con la direttrice dell’Istituto penitenziario di Pozzuoli e le educatrici delle sezioni femminili presso gli istituti maschili. Obbiettivo: conoscere le ospiti e i loro bisogni, valutare eventuali misure alternative. In generale, il mio focus è la sicurezza all’interno degli istituti, la dignità della detenzione e quella del lavoro degli agenti”. ore 20.30 “A me e al mio compagno piace molto prepararci una cosa buona a casa, spesso con amici o parenti. Guardiamo poca tv, ma non perdiamo una puntata di Un posto al sole. Ascoltiamo tanta musica. Da Schubert, Chopin e Schumann ai Pooh. Leggo molto: ora Napoli stanca, racconti di 17 scrittori, a cura di Mirella Armiero, edito da Solferino. Tra gli autori preferiti Emmanuel Carrère, di cui ho letto tutto”. Ivrea (To). Inchiesta sul penitenziario eporediese, dalla Cassazione arriva un altro stop di Giuseppe Legato La Stampa, 18 dicembre 2023 “La condotta di alcuni agenti non è trattamento inumano”. Gli agenti non dovevano essere sospesi, ma restano indagati. Per la Cassazione nella Casa circondariale di Ivrea otto agenti di Polizia penitenziaria non commisero alcun reato di tortura nei confronti di due detenuti. Lo scrivono i giudici della Suprema Corte che hanno escluso la sussistenza del reato: “La condotta assunta dagli agenti, nei termini in cui è stata accertata, alla luce della necessaria contestualizzazione dell’atto, non potrebbe essere qualificata in termini di trattamento inumano o degradante, in quanto finalizzata al necessario e doveroso contenimento del detenuto”. Per i giudici sono incoerenti tra loro le versioni dei detenuti e dei medici. A ricorrere in Cassazione era stata la pm Valentina Bossi dopo che il Riesame aveva già escluso il reato di tortura e che gli agenti, raggiunti da un provvedimento interdittivo, non andavano sospesi dal servizio. Nelle sei pagine del provvedimento la Corte presieduta dal giudice Gerardo Sabeone entra anche nel merito: “Parte di queste condotte (essere spogliato nudo, perquisito e costretto a fare flessioni sulle gambe), appaiono finalizzate ad eseguire una perquisizione particolarmente accurata al momento dell’ingresso in istituto”. Per gli avvocati difensori degli agenti, Enrico Scolari e Mario Benni “la Cassazione ha confermato la tesi difensiva e la corretta audizione dei medici”. Per l’avvocato Celere Spaziante è “una soddisfazione personale e professionale perché la Cassazione chiarisce l’insussistenza dei profili di colpevolezza”. Il provvedimento rischia di “azzoppare” l’inchiesta sulle presunte botte e torture che vede 45 indagati tra direttori, medici e agenti penitenziari. Gli otto agenti restano indagati e l’inchiesta non è conclusa. La procuratrice capo d’Ivrea, Gabriella Viglione, sul punto, è chiara: “Abbiamo raccolto altri elementi. Sicuramente dovremo adeguarci al provvedimento”. Ivrea (To). Torture sui detenuti, il testo della Cassazione fa venire i brividi di Ilaria Cucchi* La Stampa, 18 dicembre 2023 “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà”, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Questo è per il nostro ordinamento il reato di Tortura. Una norma che non ci piacque ma che comunque poteva già rappresentare qualcosa rispetto ai numerosissimi richiami inflitti da Cedu ed Onu al nostro paese per il quarantennale rifiuto di dotarsi di una norma di civiltà e democrazia. Le maglie lasciate aperte per l’interpretazione di concetti come “violenze o minacce gravi”, “agendo con crudeltà”, “acute sofferenze fisiche”, “trattamento inumano e degradante”, ecc. ecc., sono larghissime. Noi non possiamo entrare nello specifico caso di Ivrea ma il solo leggere le parole della Cassazione ci fanno venire i brividi. Sembrano concetti vuoti e generici per noi ma, vi assicuriamo, non lo sono affatto per coloro che quei comportamenti li subiscono. Sta tutto nella sensibilità culturale, politica e personale dei giudici che sono chiamati ad applicarle. Siamo certi che la sensibilità richiesta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è ben più alta di quella espressa dall’interpretazione di questa norma offerta dai nostri giudici. Si possono tranquillamente infliggere violenze e minacce gravi, così come trattamenti disumani e degradanti, senza procurare lesioni gravi. Tutto si misura con la consistenza del concetto di dignità e rispetto che si vuole riconoscere a coloro che sono nelle mani dello Stato. Si misura con il senso di responsabilità dello Stato nel tutelare i propri detenuti da sofferenze ultronee ed inutili. Il riconoscimento del valore di quelle persone è lo spartiacque tra il cinismo autoritario e l’essenza democratica di un Paese. Tutto qui. Scusate se è poco. La gente non conosce il mondo delle Carceri e dei CPR. La gente sa soltanto che il nostro Governo si permette di distinguere tra Giudici buoni e Giudici cattivi a seconda delle proprie esigenze. E che vorrà dare loro, in un prossimo futuro, pure le pagelle, con buona pace dell’oramai perduta indipendenza della Magistratura. Auguri a tutti coloro che avranno bisogno in futuro della Giustizia. *Senatrice Ivrea (To). Denudati, pestati e imbottiti di ansiolitici: l’inferno dei detenuti nelle carte dell’inchiesta di Giuseppe Legato La Stampa, 18 dicembre 2023 Il giudice: “Emerge un’inaudita disumanità”. Sospesi il direttore e il comandante, interdetti 8 agenti della penitenziaria. I medici del carcere non riferivano mai come i detenuti si procuravano quelle ferite. “Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: “Questo infame non si sa fare la galera”. Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c’era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: “Se parli col comandante o con il medico, ti ammazzo”. Poi il trasferimento nella cella liscia: “Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. C’era solo un letto piantato per terra e un materasso di spugna sporco. Mi hanno concesso di mettere le mutande, solo quelle. Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l’ora d’aria”. L’inferno nel carcere di Ivrea del detenuto Vincenzo Calcagnile è agli atti dell’inchiesta per tortura che vede indagati 45 tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici interni al penitenziario e vertici - amministrativi e militari - dell’istituto. Meglio: ex vertici. Il Dap li ha rimossi nelle scorse ore dall’incarico nominando due nuovi dirigenti. Contestualmente il gip di Ivrea ha disposto l’interdizione per 8 agenti travolti dalla bufera giudiziaria accusati di essere una squadra di picchiatori libera di fare il bello e - soprattutto - il cattivo tempo tra le mura del penitenziario. Non potranno rimettere piede al lavoro per un anno in attesa che l’inchiesta faccia il suo corso. Il giudice descrive il trattamento riservato al detenuto come “connotato da inaudita disumanità che ha causato una altrettanto inaudita lesione della sua dignità di persona”. In un mese quest’uomo ha perso 18 chili. “Mi somministravano un ansiolitico contro la mia volontà. A seconda di quanto insistevo nel chiedere di parlare col mio avvocato mi costringevano a bere dalle 30 alle 50 gocce. Mi hanno ridotto come un morto vivente, ho paura della mia ombra, ho il terrore anche di sognare. L’unico mezzo per comunicare con l’esterno erano i telegrammi ma mi dicevano sempre: “Hai rotto il cazzo, ora basta”. Una notte arrivò anche una crisi di panico: “Venne un assistente siciliano e mi disse: “Non rompere la minchia e dormi”. Basterebbe questo per raccontare cosa - per i pm - accadeva in questo carcere di provincia al centro di 6 inchieste negli ultimi 5 anni tutte avocate dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo una volta preso atto che avevano imboccato la strada dell’archiviazione. Quarantacinque indagati in un filone, 25 in un altro ma in entrambi c’è più di un elemento che convoglia i fatti in un unico imbuto di orrore. Le botte, certo e una presunta squadretta in divisa blu - con nomignoli del tenore di Shumacher, Harley Davidson, Sansone e Kamikaze - che lo stesso ex comandante dei secondini, Michele Pitti, sentito dai pm il 22 novembre scorso, racconta cosi: “Nel tempo ho capito che c’era un gruppo di colleghi più anziani che aveva maturato questo modo di lavorare, probabilmente perfezionato durante il periodo in cui erano senza comandante e sono stati lasciati un po’ a se stessi”. Un metodo “di contro segnalazione” dunque, secondo il quale - dice ancora l’ex capo delle guardie penitenziarie - “taluni detenuti malmenati o percossi variamente dai colleghi venivano denunciati per fatti commessi in danno del personale e nessun credito veniva dato alle loro denunce”. Colleghi temuti da tutti “anche dagli altri agenti che non so se per minacce implicite o esplicite - dice ancora Pitti - tendono a non riferire le cose come stanno neppure quando li interrogo”. Reticenti anche i medici del penitenziario: “Non riferiscono mai sulle modalità con cui possono essere state prodotte certe lesioni ai detenuti e addirittura in alcuni casi non si trovano i referti e le cartelle”. Una cosa è certa per tutti: “Certo erano anomali i plurimi infortuni accidentali”. C’è ancora - e rileva nell’economia delle contestazioni agli indagati - la storia di un detenuto marocchino convocato in un ufficio per comunicargli “il trasferimento ad altro istituto”. Si legge agli atti: “Riceveva un colpo fortissimo alla spalla, lo colpivano al ginocchio e ancora calci pugni e manganellate a cui lui non opponeva resistenza. Si metteva in posizione fetale per proteggersi e in quel momento l’assistente capo lo strangolava alla gola dicendogli: “Tu sei un boss... ah ah, abbiamo un boss”. Ancora a un detenuto italiano è stato spezzato un braccio: “Lo hanno aggredito in quattro - ha confermato un vicino di cella - poi lo hanno fatto sedere su una sedia-. Lui piangeva e sveniva. Quando sono entrato in cella ho visto che faceva braccio di ferro con un agente che vantava di avere rapporti con il clan dei Casalesi e per questo era temuto. Ho sentito crac”. Gli indagati dichiararono “che era scivolato perché c’era dell’acqua per terra”. Oristano. “Picchiato e ucciso perché ha visto un rapporto sessuale tra due agenti” di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 18 dicembre 2023 Dopo sette richieste di autopsia respinte, arriva la testimonianza che potrebbe far riaprire il caso sulla morte di Stefano Dal Corso. Trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato. Sentire o addirittura vedere qualcosa che non si poteva né vedere né sentire. Stefano Dal Corso sarebbe morto perché avrebbe assistito a un rapporto sessuale tra due agenti all’interno del carcere di Massama. E quel suo involontario non farsi gli affari propri, assieme all’intervento in favore di un altro detenuto che aveva bisogno di assistenza, gli sarebbe costato la vita. Forse per soffocamento, forse per le botte con un bastone e un manganello che gli avrebbero spezzato il collo. Dopo sette richieste di autopsie respinte, spunta un super testimone che potrebbe far riaprire il caso del detenuto romano di 42 anni, deceduto nella casa di reclusione di Massama-Oristano. La deposizione, registrata e raccolta nelle scorse settimane dall’avvocata Armida Decina, che tutela la famiglia di Stefano Dal Corso, contiene elementi che hanno convinto i legali a chiedere per l’ottava volta alla procura di Oristano di effettuare l’autopsia sulla salma che si trova custodita in una cella frigo all’interno di una bara di zinco, motivo per cui le sue condizioni sarebbero ancora buone per effettuare un esame medico legale molto preciso, nonostante la morte sia avvenuta il 12 ottobre di un anno fa. Sono passati quattordici mesi e la famiglia di Stefano Dal Corso mai ha creduto che il loro caro fosse morto per motivi di salute proprio nei giorni in cui si trovava a Massama perché doveva effettuare una testimonianza per un processo in corso al tribunale di Oristano. Era quindi quello che viene definito un detenuto “in transito” e per tale motivo era stato sistemato nella zona dell’infermeria del carcere, dove avrebbe involontariamente assistito a quell’atto sessuale raccontato ora dal super testimone e che avrebbe fatto precipitare la situazione. Oristano. “Le urla di dolore di Stefano si sentivano per tutta la sezione” di Davide Cavalleri La Stampa, 18 dicembre 2023 La sorella non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio e ha fatto riaprire le indagini. Ora le parole di un testimone che si definisce “Ufficiale esterno della Polizia penitenziaria” potrebbero dare una svolta al caso. “Le urla di dolore di Stefano si sentivano per tutta la sezione dove era recluso. Mio fratello, la sera prima del 12 ottobre 2022, quando venne trovato morto in cella, subì un pestaggio da parte delle guardie”. Parole dure, pesanti, quelle di Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, trovato morto nel carcere di Massama ad Oristano, durante la conferenza stampa alla Camera dei deputati assieme al parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha presentato sul caso un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. E ora - come rivela Repubblica - spunterebbe un supertestimone che racconta una versione dei fatti del tutto nuova. “Gli ha rotto l’osso del collo con una spranga e due colpi di manganello” avrebbe raccontato questa persona che dice di essere un “ufficiale esterno della polizia penitenziaria” e di avere video e prove in grado di dimostrare che Stefano Dal Corso è stato ucciso. Le sue parole, come scrive Repubblica, sono adesso al vaglio dei magistrati e potrebbero stravolgere il caso del detenuto. Lui è convinto di avere in mano “una bomba atomica” pronta ad abbattersi sul penitenziario e su diverse istituzioni. Secondo il supertestimone Dal Corso si sarebbe trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. “Tutto è partito - racconta - per una cosa minima, per darle una lezione ma è degenerata”. La vittima avrebbe visto qualcosa che non doveva: “Ha aperto la porta dell’infermeria e ha assistito a un rapporto sessuale tra due operatori del carcere. È stato cacciato via e ha fatto ritorno nella sua cella”. Poi “schiaffi, calci, pugni”, prosegue la narrazione che termina con la morte di Stefano e con il tentativo di coprire l’omicidio. Lo sfogo della sorella - “Quella sera un altro detenuto che era nella cella di fronte a mio fratello si sentiva male perché da cinque giorni non riceveva i medicinali per il diabete, di cui soffriva - racconta la donna -. Mio fratello quindi ha chiamato gli operatori, ne è nata una discussione con loro. Dopo un po’ sono entrati nella sua cella, hanno chiuso il blindo e le urla di Stefano si sentivano fino alla cucina”. È possibile che nel chiamare gli operatori Stefano Dal Corso abbia assistito a ciò che ora racconta il supertestimone? Marisa Dal Corso racconta che in un primo momento la sua reazione alla morte del fratello è stata di incredulità, poi quando con l’aiuto di una psicologa è riuscita a vedere le foto del cadavere l’incredulità è diventato dubbio, a partire da un dettaglio in particolare: le scarpe. “Mio fratello ha sempre indossato sneaker slacciate fin da piccolo, nelle foto invece aveva delle scarpe di una marca che detestava, di un numero più grande e allacciate con due lunghi fiocchi. Lui non le avrebbe mai indossate così”. E qui c’è la questione degli abiti che indossava quando è stato trovato cadavere e che il supertestimone tira in ballo. “Hanno modificato le relazioni, hanno cambiato medico legale, hanno vestito tuo fratello con indumenti messi a disposizione della Caritas e hanno fatto sparire quelli sporchi di sangue con le prove e le impronte”, dice. Poi sostiene di essere in possesso dei vestiti realmente indossati dalla vittima e anche di un video che immortala il massacro. Lecce. Appello della moglie di un detenuto: “È malato, rischia la vita” di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 18 dicembre 2023 “Mio marito rischia di morire in carcere”. A scrivere è la moglie di un 44enne salentino, (le cui generalità non si rendono note per ragioni di tutela della privacy), detenuto nella Casa circondariale di Salerno in custodia cautelare per reati di mafia. L’oggetto della segnalazione è un problema di salute a cui consegue la richiesta di un trattamento sanitario adeguato. Ovunque, viene specificato anche per fugare ogni sospetto, anche in un’altra struttura penitenziaria. La lettera - “Premettendo il fatto che credo fermamente nella Giustizia e nella Legge e che se un cittadino sbaglia deve essere rieducato con le misure idonee, rimango sconcertata dal trattamento che un uomo, ancora in attesa di giudizio, è costretto a subire. Un’attesa che durerà diversi mesi ma che, considerate le attuali condizioni di salute di mio marito, rischia di diventare pericolosamente lunga”, scrive la donna. L’uomo fu arrestato nel corso di un blitz antimafia che scaturiva da indagini sul clan Tornese - Politi, attivo tra Monteroni e Carmiano. Fu portato dapprima nel carcere di Taranto, poi a Salerno. A quanto viene riferito, i problemi di salute hanno avuto origine da uno sciopero della fame durato una settimana. La situazione si è poi aggravata: il 44enne ha perso 30 chili, riferiscono i famigliari, e ha difficoltà ad alimentarsi. Sostiene i colloqui con i parenti in videochiamata e quasi sempre è costretto a stare a letto. Da ciò sono sorte diverse richieste formali, formulate al Tribunale attraverso l’avvocato. I rigetti opposti sono sorretti da una perizia medico-legale che attesta la compatibilità con il regime carcerario attuale. I parenti tuttavia sono preoccupati: “Per dire no ad una detenzione severa - raccontano in una lettera - ha cominciato lo sciopero della fame. Per sollevare l’attenzione sulla giusta e commisurata ‘punizione’ rispetto ad un reato, ma sempre nel rispetto del principio di rieducazione e magari reinserimento nella società. Nulla di tutto ciò, ignorato totalmente. Nessun consulto psicologico e nemmeno un prete con cui parlare. Una sensazione di abbandono totale che ha aggravato inevitabilmente il suo stato psico-fisico a tal punto che ha sviluppato una conclamata forma di anoressia. Tutto questo dopo che ad ottobre un medico di parte ha accertato il suo stato di salute riconoscendo un inizio di anoressia nervosa”. La richiesta di cure - Da qui l’appello, perché il detenuto possa ricevere cure specifiche per la sua situazione: “Chi sbaglia paga - si legge ancora - è giusto e condivisibile ma nel rispetto dei diritti fondamentali di un uomo. Anche quelli sono garantiti dalla Costituzione. Pertanto, chiedo solo a chi di dovere di intervenire prima che sia troppo tardi”. Moglie e figli hanno a disposizione una perizia di parte in cui lo stato di salute del 44enne viene definito “estremamente precario” dal medico legale incaricato. E invocano un intervento tempestivo, non solo a tutela della “dignità” della persona, ma soprattutto delle sue condizioni fisiche. Non una scorciatoia per ottenere benefici, specificano, ma una denuncia che concerne una situazione narrata come un “calvario”. Da qui le richieste di intervento che al momento non sono supportate da perizie super partes che consentano modifiche alla situazione attuale. Le istanze sono state respinte, ma la battaglia prosegue: “Mio padre - spiega il figlio - deve essere condotto in una struttura adatta, dove possa ricevere un trattamento adeguato alla sua situazione. Dove possano alimentarlo, considerato che al momento non riesce a farlo in autonomia. Ha perso molto peso, lo vediamo e sentiamo in seria difficoltà. Non sta bene, bisogna fare qualcosa al più presto, prima che per lui possa essere troppo tardi”. Bolzano. Sopralluogo in carcere del Consiglio comunale: “Livello igienico tremendo” salto.bz, 18 dicembre 2023 Consiglieri e consigliere in visita al carcere. “A breve sono annunciati lavori di risanamento. Se la nuova struttura slitta ancora siano fatti seriamente”. La visita agli istituti di detenzione è un diritto dei consiglieri e delle consigliere provinciali e regionali, in ogni momento. Per questo, in questi giorni, una delegazione è stata nel carcere di Bolzano. Erano presenti Brigitte Foppa, Madeleine Rohrer, Zeno Oberkofler (Verdi), Sandro Repetto (PD), Francesco Valduga (Campobase) e Paola Demagri (Movimento Casa Autonomia), accompagnati dall’avvocato Fabio Valcanover. “Abbiamo visto ancora una struttura fatiscente, con un livello igienico tremendo,” raccontano. “Il carcere di Bolzano è sovraffollato. Invece dei previsti 88 detenuti ne ospita ben 114. Lo stato in cui versano le celle supera ogni immaginazione. In genere ci sono 4 detenuti in brandine piccole; l’angolo del gabinetto è anche l’angolo cucina. Come anche nelle visite passate, abbiamo notato che la carenza strutturale viene in qualche modo compensata dall’umanità e dall’impegno che dimostra il personale del carcere. Ma anche questo è pesantemente sotto organico: dei previsti 75 posti ne sono occupati solo 53 - e solo 33 persone svolgono servizio di turno, assumendosi un carico di lavoro assolutamente eccessivo, se pensiamo che si accumula una media di 30 straordinari al mese. Quindi riassumiamo: troppi detenuti e assoluta carenza di personale,” così i consiglieri. La delegazione dei consiglieri è venuta a conoscenza, nel corso della visita, di una serie di interventi di risanamento della struttura che dovrebbero essere avviati in primavera, tra cui il rifacimento del tetto e della facciata. “Ci pare quindi ovvio che i lavori per il nuovo carcere non sono in vista. Sarà quindi importantissimo avviare dei lavori seri di risanamento e ristrutturazione sul carcere esistente. In merito a questo faremo delle richieste politiche in tal senso”, avvisano i consiglieri regionali e provinciali Foppa, Rohrer, Oberkofler, Repetto, Valduga e Demagri. A questo si aggiunge la richiesta dell’istituzione di un Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria (per ora le carceri di Bolzano e Trento sono gestiti a livello del Triveneto), come già approvato con una mozione a prima firma Dello Sbarba in Consiglio Regionale il 24/01/2018, in modo da poter gestire in loco la difficile questione della detenzione. Inoltre, si deve tornare ad occuparsi della questione degli alloggi del personale di vigilanza carceraria, visto che la mancanza di alloggi a prezzo ragionevole sta alla base della carenza di personale. E resta pressante la questione della formazione e del reinserimento lavorativo dei detenuti. “Altrimenti il carcere resterà un posto dove chi esce saluta, già sapendo che ci tornerà presto; e questa è una sconfitta di tutta la società,” concludono i consiglieri. Foppa, Rohrer, Oberkofler, Repetto, Valduga e Demagri continueranno a occuparsi del tema già sabato prossimo 23 dicembre, quando insieme all’avvocato Valcanover visiteranno il carcere di Trento. Milano. Detenuti impiegati nelle Ferrovie grazie al protocollo d’intesa “Mi riscatto per il futuro” ansa.it, 18 dicembre 2023 Entra nel vivo il primo accordo attuativo del protocollo d’intesa “Mi riscatto per il futuro”, firmato nel luglio 2022 tra Ministero della giustizia e Ferrovie dello Stato italiane, che prevede percorsi volti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Sono al momento cinque, informa gNews, quotidiano online del dicastero, i detenuti assunti, con contratti a tempo determinato di sei mesi, da Rete Ferroviaria Italiana &ndash Rfi e Trenitalia, rispettivamente capofila dei Poli infrastrutture e passeggeri del Gruppo FS italiane. Provenienti tutti dalla casa di reclusione di Milano Opera, sono stati selezionati con la supervisione della magistratura di sorveglianza e individuati insieme a rappresentanti delle risorse umane delle società del Gruppo FS. Dopo uno specifico corso di formazione, tre di loro sono stati assegnati al servizio con Rfi rispettivamente nei ruoli di addetto alla Sala blu, per i servizi di assistenza ai viaggiatori con ridotta mobilità, addetto a supporto del referente di stazione e addetto a supporto dello staff di formazione della scuola professionale. Gli altri due operano in Trenitalia, in qualità di addetti alla segreteria tecnica di impianto. L’azienda valuterà presto se proporre il rinnovo dell’attuale contratto a tempo determinato per altri sei mesi, come previsto dall’accordo (il limite massimo sono 12 mesi complessivi). L’obiettivo è, ora, estendere il progetto ad altri istituti. Prato. “Seconda Chance”, 5 detenuti restaurano beni culturali con impresa specializzata ansa.it, 18 dicembre 2023 Cinque detenuti di tre diverse carceri toscane lavoreranno nel settore dei restauri di beni culturali. Sono stati infatti assunti dalla stessa azienda specializzata di Prato, la Piacenti Spa, che ha condotto, tra gli altri, il restauro della Chiesa della Natività a Betlemme. I nuovi assunti sono due detenuti dell’isola-carcere di Pianosa (Livorno), dove Piacenti sta conducendo ricerche archeologiche ed interventi nell’area in cui sorgevano le Terme di Agrippa. Oltre a loro assunto anche un detenuto della colonia agricola di Gorgona, che lavorerà ai restauri in corso nel laboratorio di Piacenti insieme ad altri due detenuti del carcere Dogaia di Prato. L’impresa pratese ha infatti aderito al progetto di Seconda Chance, l’associazione impegnata nella promozione del lavoro dei detenuti e che è partner di Ance Toscana, l’Associazione delle imprese edili di Confindustria a cui Piacenti aderisce. Ance Toscana ha sottoscritto alcuni mesi fa un protocollo di intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria proprio nel campo della formazione e dell’inclusione al lavoro dei detenuti. La stessa impresa Piacenti ha firmato uno specifico accordo di collaborazione con Seconda Chance per sviluppare insieme le iniziative di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti. Le assunzioni sono state decise da Piacenti SpA dopo aver selezionato, d’intesa con le Direzioni dei tre diversi carceri e con il Prap, i candidati in base alle loro esperienze, aspirazioni, il percorso svolto durante la detenzione e la possibilità di applicare loro i benefici previsti per essere ammessi al lavoro esterno. A tutti viene applicato il Contratto collettivo nazionale di lavoro del settore edile. “Da alcuni anni - dice Giammarco Piacenti, presidente di Piacenti SpA - abbiamo iniziato un percorso di attenzione alle problematiche sociali e ambientali. Abbiamo accolto queste persone in azienda perché condividiamo i principi di un progetto che offre davvero una seconda possibilità a coloro i quali, dopo aver espiato gran parte della loro pena, non sono più gli stessi di molti anni fa e perché crediamo seriamente che lo scopo della detenzione sia quello indicato dalla Costituzione e cioè che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato”. Soddisfazione è stata espressa anche dalla fondatrice e presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi: circa 200 i detenuti avviati al lavoro nell’ultimo anno attraverso le iniziative dell’associazione che, anche in questo periodo, sta accompagnando imprenditori di ogni settore, dall’edilizia, ai servizi, dal tessile all’alberghiero al farmaceutico, nel percorso di colloqui con i detenuti in diverse carceri della Toscana finalizzati alla ricerca di personale e siamo impegnati nell’organizzazione di corsi di formazione negli istituti”. Per il vicepresidente di Ance Toscana, Vincenzo Di Nardo, quello del protocollo firmato con il Prap “è un’esperienza innovativa, un modello che auspichiamo possa essere replicato presso altre imprese del sistema quale buona prassi da diffondere sul territorio regionale e nazionale, anche nell’ottica di fornire una risposta alla grave mancanza di manodopera lamentata dal settore”. Di “risultato importante” ha parlato Pierpaolo D’Andria, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria in Toscana e Umbria, sia per il numero di detenuti assunti contemporaneamente dalla stessa impresa, sia per “un aspetto non secondario dal punto di vista qualitativo e cioè che in questo caso detenuti saranno impegnati in un contesto importante come quello del restauro dei beni culturali”. Catanzaro. La Camera penale sostiene il progetto della cooperativa “Mani in Libertà” catanzaroinforma.it, 18 dicembre 2023 Formazione professionale e assunzione dei detenuti. La Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” ha deciso di sostenere il progetto avviato dalla società cooperativa “Mani in Libertà”, con la partnership della Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro, del locale Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di Promidea e delle associazioni Liberamente ed Amici con il cuore che hanno aderito ad un bando indetto da Fondazione con il Sud, teso alla formazione professionale e all’assunzione dei detenuti. A darne notizia i Responsabili dell’Osservatorio carcere ed esecuzione penale, Avv. Pietro Mancuso e Avv. Vincenzo Galeota, e il Presidente Del Consiglio Direttivo, Avv. Francesco Iacopino. In tale ottica sono state avviate interlocuzioni con l’imprenditoria e le associazioni accreditate sul territorio, non solo per promuovere il progetto ma anche per collocare sul mercato la produzione natalizia rappresentata da ottimi panettoni artigianali il cui prezzo di vendita alimenterà le risorse necessarie alla prosecuzione del progetto ed all’assunzione dei detenuti. Per queste ragioni il 19 dicembre alle ore 17.00 nella sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in Catanzaro, volendo dare ampia risalto alla meritoria iniziativa e ringraziare coloro i quali vi hanno aderito, sarà tenuto in incontro con la Stampa al quale prenderanno parte i responsabili del progetto avviato presso la Casa Circondariale, gli imprenditori, gli Enti privati ed i responsabili della Camera Penale al fine di rendicontare gli esiti dell’iniziativa e convenire per il futuro. Crotone. Seminario sui diritti dei detenuti e sulle agevolazioni fiscali per il reinserimento sociale ildispaccio.it, 18 dicembre 2023 Nei giorni scorso si è tenuto il seminario giuridico ai fini della formazione per avvocati e dottori commercialisti, promosso dal garante comunale dei detenuti avv. Federico Ferraro, congiuntamente agli Ordini professionali di categoria forense e contabile, per il tramite dei rispettivi presidenti: avv. Caterina Marano e dott. Giuseppe Irrera. All’iniziativa hanno aderito anche la Camera Penale “Giuseppe Scola” di Crotone e la Commissione Pari Opportunità del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Crotone. Oltre ai saluti istituzionali dei presidenti e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Crotone dott. Giuseppe Capoccia, già presente anche al seminario promosso nel 2019, dall’avv. Ferraro sui reati culturalmente motivati, hanno relazionato il Presidente della Camera Penale avv. Aldo Truncè, il Presidente del CPO Ordine Avvocati Crotone avv. Pasquale Montesano e la Presidente del CPO Ordine Commercialisti dott.ssa Laura Caccavari. L’iniziativa formativa ha visto la partecipazione di numerosi iscritti ed ha focalizzato l’attenzione sulle varie criticità del sistema penitenziario italiano, considerando anche le potenzialità e gli obiettivi da raggiungere grazie ad una sinergia a 360° inter-istituzionale. Ad oggi, nel nostro Paese, molti diritti dei detenuti sono negati de facto: dall’ambito sanitario penitenziario con i vari ritardi burocratici e carenze strutturali, al tema del sovraffollamento soprattutto critico in tempo Covid-19; infine, rimane aperta la grande sfida del reinserimento sociale per detenuti ed ex detenuti. L’occasione ha sancito una forte volontà a costruire insieme un percorso comune, partendo dall’autorità di vigilanza sul mondo carcere insieme agli ordini e alle associazioni forensi e commercialisti. Trieste. “Carceri psichiatrizzate? Un cammino senza ritorno”, incontro aperto al pubblico triesteallnews.it, 18 dicembre 2023 “Sta diventando un carcere di matti”. A dircelo, appena varcata la soglia della Atsm (Articolazione per la tutela della salute mentale) è un ispettore di polizia penitenziaria con tanti anni di servizio alle spalle. Con parole diverse, ma dallo stesso significato, ce lo hanno ripetuto in tanti in questi mesi, nelle molte visite fatte da Antigone nelle carceri del Paese. Poco cambia se si tratti di un grande carcere metropolitano o di una piccola struttura in provincia. In Sicilia o in Trentino. La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate. Inizia così l’approfondimento “Carcere e salute mentale” curato da Michele Miravalle nel 19° Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, dove leggiamo che secondo i dati del Garante nazionale delle Persone private della libertà nel 2022 erano 247, 232 uomini e 15 donne, le persone ospitate nelle 32 Atsm italiane, collocate in 17 istituti penitenziari: numeri molto rilevanti, che non trovano minimamente corrispettivo nella popolazione libera e che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno. Di questo si parlerà martedì 19 dicembre alle ore 17.30 al Circolo della Stampa di Trieste in un incontro promosso dall’associazione CoPerSaMM/Conferenza per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia. Con la presidente di CoPerSaMM, la psichiatra Giovanna Del Giudice, ci saranno Valeria Verdolini, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Presidente di Antigone Lombardia, e Luca Sterchele, dottorando in Scienze sociali presso l’Università degli Studi di Padova, membro dell’Associazione Antigone, un’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. L’iniziativa è promossa nel contesto del progetto “Cambiare dentro/Costruire fuori - Emancipazione, inclusione, salute mentale per le persone private della libertà”. Ascoli Piceno. “Lo sport ti rimette al mondo”: presentato il progetto per le carceri di Rachele Tirelli cityrumors.it, 18 dicembre 2023 Ecco il programma “Lo sport ti rimette al mondo”. Presentato ad Ascoli Piceno e molto sentito dai detenuti della città. Il Ministro dello Sport e dei Giovani, Andre Abodi, insieme al Dipartimento per lo Sport e Sport Salute SpA, ha vinto il bando “Sport di tutti - Carceri”. Con la promozione, hanno poi ideato l’iniziativa “Lo sport ti rimette al mondo” e lo hanno presentato proprio pochi giorni fa. In primo piano, come società sportiva, troviamo l’U.S. ACLI Nicola A. S. D. APS. Assieme a lei hanno collaborato il Comune di Ascoli Piceno, il Comitato Territoriale Csi di Ascoli Piceno, l’Associazione Centro Famiglia Odv e l’U. S. Acli provinciale di Ascoli Piceno. Il progetto “Lo sport ti rimette al mondo” è stato un successo nel giorno della sua presentazione. Per primo sul palco è salito Sandro Tortella, presidente di U.S ACLI Nicola A.S.D APS, poi è stato invitato a salire il presidente Csi Ascoli Piceno, Antonio Benigni, Giulio Lucidi, coordinatore del progetto, Massimiliano Brugni, assessore alle politiche sociali del Comune di Ascoli, il rappresentante allo Sport e Salute Spa Giorgio Allegrini e altri vari rappresentanti della rete del partenariato che hanno collaborato nella realizzazione del progetto. Ma in cosa consiste il programma di “Lo sport ti rimette al mondo”? Il progetto durerà per 18 mesi e si propone come supporto per promuovere il benessere e la salute, sia psichica che fisica, dei detenuti. Questo porta ad una facilitazione nel recupero di queste persone. Lo sport aiuta nella parte educativa, perché ci sono delle regole da seguire ed è previsto il lavoro di squadra, ma anche nella parte di disagio sociale e psicofisico. Grazie all’attività fisica e la competizione, il detenuto può imparare a lavorare in gruppo, socializzando e includendo l’altro evitando così l’emarginazione delle minoranze. Questo progetto permetterà al detenuto di provare sport come la ginnastica, il calcio e gli scacchi, mentre il Lions Club ha presentato il progetto “Salviamo le Api e la Biodiversità”. È previsto un tirocinio, corsi per gli allenatori ed arbitri di calcio, acquisto di attrezzature e attività Educativa e Socio-Psico-Pedagogica. “Lo sport ti rimette al mondo” fa parte di quelle attività previste dal protocollo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. I detenuti, grazie allo sport, potranno veramente reimparare a stare al mondo “Figli del carcere” Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2023 Il podcast di Sara Tirrito sul doppio infanticidio di Rebibbia e sulle tutele che l’Italia ancora non dà ai minori. A volte la cronaca cambia il modo in cui si formano le leggi, l’opinione pubblica, le idee. Di un episodio spartiacque nel dibattito sulle detenute madri con figli al seguito parla “Figli del carcere”, un podcast Audible, scritto dalla giornalista Sara Tirrito e realizzato in collaborazione con Storielibere.fm e disponibile dal 18 dicembre (solo su Audible). La serie audio parte dal doppio infanticidio avvenuto nella sezione nido del carcere di Rebibbia il 18 settembre 2018: Alice Sebesta, detenuta nella sezione nido di Rebibbia insieme ai figli di 4 e 18 mesi, provoca la morte dei piccoli gettandoli dalla tromba delle scale. Il podcast non solo ricostruisce quanto avvenuto quel giorno di più di cinque anni fa, ma affronta anche la condizione dei minori rinchiusi insieme alle madri nelle carceri italiane, 22 secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia e aggiornati al 30 novembre. Il podcast - Frutto di un lavoro di ricerca iniziato nel 2019, la serie audio si divide in sei episodi da circa 30 minuti ciascuno. I primi quattro ruotano intorno al duplice infanticidio. Si ricostruiscono i momenti che hanno preceduto e seguito la morte dei due bambini in carcere. L’arresto della 33enne di origini tedesche per traffico internazionale di stupefacenti mentre era a Roma di passaggio a fine agosto. Circa 20 giorni dopo, l’epilogo. Da quei fatti Sebesta è stata assolta per vizio totale di mente, e oggi si trova in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nel podcast si racconta la rete in cui si è trovata, venuta alla luce nel corso di un’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma e condotta dai Carabinieri della compagnia Parioli. Un’indagine che nel marzo 2021 ha portato all’arresto di oltre 55 persone, in gran parte ancora sotto processo, accusate di traffico internazionale di stupefacenti in un patto tra criminalità albanese, nigeriana e italiana. Le ultime due puntate invece sono dedicate ai figli piccoli di madri detenute in Italia. Dopo un viaggio nell’Istituto a custodia attenuata per madri (Icam) di Lauro, in provincia di Avellino, si fa il punto sulla legislazione, che con l’ultimo pacchetto sicurezza presentato dal governo potrebbe prevedere il carcere anche per le donne incinte o con figli minori di un anno. Le voci - Sono 19 le persone intervistate nel podcast. Tra gli ospiti, chi ha vissuto la tragedia di Rebibbia: dalla nonna dei bambini, Ulrike Oelkers-Hornuff, al cappellano che ne ha celebrato i funerali, don Sandro Spriano. Ma non solo. Parlano anche: i cronisti che hanno dovuto seguire quella storia Marco Carta, Romina Marceca, Adelaide Pierucci; l’avvocato della donna all’epoca dei fatti, Andrea Palmiero; i garanti dei detenuti che hanno dovuto fin da subito capire cosa fosse successo. Tre le autorità di garanzia dell’epoca presenti nel podcast: la garante nazionale Daniela De Robert, l’autorità regionale del Lazio Stefano Anastasia, e la garante del comune di Roma all’epoca dei fatti, Gabriella Stramaccioni. Nel podcast, un focus sulle dinamiche psicologiche scientificamente riconosciute nelle madri che uccidono i propri figli, attraverso le spiegazioni di Simone Giacco, psichiatra della Rems di Castiglione delle Stiviere. Il resto del podcast è dedicato al tema che il doppio infanticidio ha riportato alla luce. I figli al seguito delle madri detenute - È proprio dopo la morte dei due bambini a Rebibbia che le sezioni nido delle carceri femminili si sono progressivamente svuotate, passando da una media di 60 allo zero che si è registrato poco dopo la pandemia. Oggi i numeri sono tornati a crescere, ed è anche per questo che il podcast si sofferma sulle alternative alle sezioni nido nelle carceri. Con un’intervista a tre detenute dell’Icam di Lauro, al suo comandante Felice Galeotalanza e all’educatore dell’istituto, Domenico Truoiolo, la serie audio analizza i limiti e le caratteristiche degli Icam. L’ex deputato Paolo Siani spiega poi la genesi della proposta di modifica dell’attuale legge, 62/2011, ispirata al caso di Rebibbia. Votato quasi all’unanimità alla Camera nel maggio 2022, quel disegno di legge aveva l’obiettivo di rendere applicabile fino in fondo la normativa attuale, che in teoria prevede che una donna detenuta con figli da 1 a 10 anni non sconti la pena in un carcere ma vada con il figlio in una casa protetta come prima scelta, in un Icam, come seconda, in carcere solo in casi di “eccezionale rilevanza”. Nel podcast si analizza l’iter del provvedimento, oggi naufragato nonostante la parlamentare Pd Debora Serracchiani l’avesse ripresentato con procedura d’urgenza a inizio legislatura. Con interviste a Siani, a Luigi Manconi, alla fotografa Anna Catalano, che ha scattato immagini in tutti gli Icam d’Italia, e al magistrato di sorveglianza del tribunale di Roma Marco Patarnello, il podcast racconta le difficoltà di decidere se una donna con figli piccoli debba stare in carcere o no e quali sono le reali possibilità oggi. Donne, gay, migranti: l’anno nero dei diritti. “L’Italia è arretrata su tutti i fronti” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 18 dicembre 2023 Si chiama “Rapporto sullo stato dei diritti in Italia” ma a leggerlo nel dettaglio sembra più la cronaca di un assedio. Migrazioni, libertà di espressione, sanità, ambiente, povertà, parità di genere, famiglie omogenitoriali, persone Lgbtq+, disabilità, carceri: non c’è angolo di libertà individuale o collettiva che tra il 2022 e il 2023 non sia arretrato. È una preziosa raccolta di dati e analisi il “Rapporto sullo stato dei diritti” che ogni anno l’associazione “A Buon Diritto”, fondata da Luigi Manconi, elabora grazie al sostegno dell’Otto per mille della chiesa Valdese e che sarà presentato stamattina alla Camera. “Quello che ci chiediamo è quanto peserà il governo di Destra su una situazione già così fragile sul fronte dei diritti. Ci sarà soltanto un rallentamento o un arretramento significativo?”, dice Luigi Manconi. Ciò che preoccupa, spiega Manconi, “è questa svolta politica pan-penalista, di fatto autoritaria e di inasprimento delle pene, che in certi campi, ad esempio l’immigrazione, rischia di alimentare la xenofobia”. Xenofobia già ben radicata nel nostro paese, così come l’omofobia, acuita oggi da provvedimenti governativi che hanno già colpito duramente i figli delle coppie omogenitoriali. “Mi sembra che rischi di passare un messaggio ideologico che vede i diritti non come libera facoltà di scelta delle persone ma come concessioni, dunque restringibili o revocabili”. Il rapporto di “A Buon diritto” esamina diciassette diversi ambiti, eccone alcuni tra i più significativi. Ambiente Da un punto di vista climatico e ambientale, mancano politiche serie di decarbonizzazione che permettano di contrastare i cambiamenti climatici in atto e le loro conseguenze. Il nostro paese è colpito da centinaia di eventi meteorologici estremi come siccità, piogge estreme, gelate improvvise, trombe d’aria, alluvioni, che causano danni ingenti ai territori e alle persone. Povertà Nel 2023, quando l’attuale Governo ha deciso di ridimensionare il Reddito di cittadinanza ha annullato anche i contributi all’affitto, ossia il buono casa e la morosità incolpevole, due contributi erogati storicamente a migliaia di famiglie. Senza più sussidi le famiglie più fragili sono state lasciate in balia delle dinamiche di mercato. La campagna di demonizzazione del Reddito di Cittadinanza è stata portata avanti per tutto il 2022 da parte di diversi rappresentanti politici e ha trovato un seguito con l’insediamento del nuovo Governo. Il decreto lavoro dell’agosto 2023 ha di fatto, ristretto in maniera sostanziale la platea dei potenziali beneficiari. Questo ha portato a una significativa riduzione del numero di persone che nel 2023 hanno potuto avere accesso al reddito di Cittadinanza, e che sono destinate a ridursi ancor più drasticamente non appena diventeranno operativi gli effetti del decreto. Violenza di genere Nel nostro paese c’è un problema evidente e strutturale: nel 2022 il numero dei femminicidi è stato di 106 donne uccise, mentre nel 2023 il numero totale dei femminicidi lesbicidi e transicidi secondo l’Osservatorio nazionale di “Non Una di Meno” è di 113. Nell’attuale legislatura sono state approvate la legge sulla Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, la legge n. 122 del 2023, che interviene su alcuni aspetti relativi alla persecuzione dei reati di genere e la legge “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne”, entrata in vigore il 09 dicembre 2023, che però ripropone interventi di natura emergenziale e in chiave securitaria, già dimostratisi inefficaci. Diritti Lgbtq+ Mancano politiche e investimenti di contrasto alla discriminazione nei confronti delle persone Lgbtq+, anche in ambito lavorativo. Il 2022 e il 2023 hanno visto l’assenza di proposta legislativa in materia di diritti delle persone omosessuali e di contrasto alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale Nel luglio 2023 è stata approvata alla Camera una proposta di legge sulla maternità surrogata come reato universale e i cui rischi sui figli delle coppie omogenitoriali sono preoccupanti. Migranti La retorica dell’invasione, smentita dai dati statistici, ha continuato a caratterizzare il dibattito pubblico e politico con l’evocazione del rischio di sostituzione etnica. Il tema della difesa delle tradizioni religiose e identitarie ha portato a narrazioni islamofobiche e ostili alle minoranze etniche e religiose ma anche alla produzione di leggi contro le persone richiedenti asilo e migranti. Il governo Meloni ha varato nel giro di un anno una serie di decreti che vanno a colpire sia chi soccorre sia chi prova ad arrivare nel nostro paese. In particolare il cosiddetto decreto Ong e il decreto Piantedosi. Le modifiche introdotte dal decreto 20/2023 hanno ulteriormente modificato la protezione speciale, rendendo il suo riconoscimento più limitato. Minori Nelle politiche sulla condizione minorile la tutela ha lasciato spazio all’allarme sociale. L’anno 2023 sarà segnato anzitutto dal “Decreto Caivano”. A tacere del carattere simbolico dell’intervento vale la pena di sottolineare che entrano nell’ordinamento il daspo urbano sin dai 14 anni e l’ammonimento orale. Si inasprisce la sanzione nei confronti degli esercenti la potestà genitoriale in caso di mancato rispetto dell’obbligo scolastico. Infine si estendono i casi di applicazione della custodia cautelare al soggetto minorenne. Migranti. Polveriera Cpr di Flavia Amabile La Stampa, 18 dicembre 2023 Dopo Milano esplode la rivolta dei migranti a Gorizia. A fuoco materassi e coperte: “Qui è peggio di uno zoo”. Ancora una protesta è scoppiata sabato sera nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca di Isonzo, a Gorizia. Alcuni degli stranieri presenti nella struttura hanno appiccato sei incendi a materassi, coperte ed effetti personali e hanno lanciato oggetti contro il personale di vigilanza. La segnalazione arriva dagli attivisti del gruppo “Mai più lager. No ai Cpr”. È la seconda protesta in una settimana. Dal 10 dicembre, si legge sui social, “ancora nulla è cambiato: il freddo è pungente ma i riscaldamenti non funzionano da settimane e settimane, le condizioni della struttura fatiscente sono vergognose. Immondizia, muffa dappertutto, latrine e docce senza acqua calda (e spesso senza neppure acqua fredda) otturate e maleodoranti, finestre rotte, coperte luride, materassi di gommapiuma logori e sporchi”. Il tutto, in una “struttura che è fatta da gabbie indegne anche per animali dello zoo”. I Centri di permanenza sono strutture in cui vengono detenute le persone che non hanno un permesso di soggiorno valido per rimanere in Italia, in attesa di essere rimpatriate. Il governo ha deciso di potenziarli. Era settembre quando ha annunciato la decisione di raddoppiare i Cpr presenti sul territorio italiano (da 10 a 20) prevedendo un centro per ogni Regione e un allungamento dei mesi di permanenza da 3 a 18. “Una scelta incomprensibile”, commenta Gianfranco Schiavone dell’Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Le proteste di Gradisca scoppiano mentre è emerso che a Milano nel Cpr di via Corelli i migranti vivono in “condizioni che non pare esagerato definire disumane “ in “una situazione al limite dell’infernale” come afferma la procura che ha aperto un’indagine dopo il blitz della Guardia di Finanza degli inizi del mese che ha denunciato la presenza di migranti che si cuciono le labbra “per protesta”, che scrivono “voglio morire” e di una struttura in profondo degrado, dal cibo “pieno di vermi” ai “bagni otturati e vergognosi” fino alla somministrazione continua di psicofarmaci, È una scelta incomprensibile - sostiene Gianfranco Schiavone - perché è impossibile pensare che la prefettura di Milano non fosse a conoscenza della situazione di degrado del centro di via Corelli. Le prefetture sanno e accettano”, avverte. “È così in tutti i centri”, aggiunge lui che li ha visitati quasi tutti, trovandosi di fronte ovunque allo stesso degrado. In primavera è andato a Gradisca. “Non c’erano finestre, era tutto rotto, un centro da chiudere eppure il prefetto che era con noi disse una frase del tipo: “come vedete non è male”. A Gradisca è andato anche Riccardo Magi, deputato e segretario di +Europa, l’ultima volta due mesi fa. “Una situazione fuori controllo - racconta. Le persone mangiano nelle gabbie perché la mensa non è mai stata attivata. Il 70-80 per cento degli ospiti sono sedati senza che un piano terapeutico lo preveda, solo per tenerli calmi come ho denunciato in un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro Piantedosi a cui non ho mai avuto risposta”. Ilaria Cucchi, senatrice di Avs, è andata due volte nel Cpr di Ponte Galeria a Roma. “Vi sono recluse persone che non hanno commesso reati, trattate come bestie. Sono in gabbie, divise per etnia e passano le loro giornate imbottiti di psicofarmaci. Nella mia seconda visita ho chiesto al medico se non erano troppi i farmaci somministrati, lui mi ha risposto: “altrimenti fanno casino”. Luoghi disumani, quindi. “E inefficaci”, aggiunge Luca Di Sciullo, presidente di Idos. “Sono 6.383 le persone transitate nei Cpr nel 2022, il 68,7% in più rispetto al 2021, ma solo la metà è stata rimpatriata, una percentuale in linea con quella degli anni precedenti, a dimostrazione che la scarsa efficacia è intrinseca al sistema. Chi non viene rimpatriato alla fine della detenzione ha un foglio di via ma in realtà resta, alimentando l’irregolarità. Il tutto a fronte di una spesa di circa 56 milioni di euro nell’ultimo triennio, e che nei prossimi anni è destinata ad aumentare”. Migranti. Condizioni disumane nel Cpr di Milano, ma la Prefettura aveva rinnovato il contratto di Luca Rondi e Lorenzo Figoni altreconomia.it, 18 dicembre 2023 La Procura di Milano ha chiesto il sequestro preventivo d’urgenza della struttura per il concreto rischio che i gravissimi reati ipotizzati continuino. L’ha fatto anche perché l’attuale gestore si era visto prolungare di un altro anno l’incarico dalla prefettura. Alle violazioni dei diritti umani si affianca l’opacità dell’impianto amministrativo. “Era un vero e proprio lager, neanche i cani sono trattati così nei canili: gli psicofarmaci vengono dati come fossero caramelle, in alti dosaggi, con uno smodato uso di Rivotril. I medici erano razzisti: ‘meglio che muori, torna al tuo Paese’, dicevano. La pulizia? Erano posti pieni di piccioni, nutriti dagli stessi trattenuti e, com’è noto, i piccioni portano malattie. Vi era spazzatura ovunque, le stanze erano lorde, piene di mozziconi, le lenzuola erano sporche, fatte di tessuto non tessuto e non venivano ovviamente cambiate tutti i giorni. Durante l’estate poteva capitare che il sapone, pur presente, non veniva dato ai trattenuti per cui di fatto le docce non venivano fatte”. Questo era ed è il Cpr di via Corelli a Milano nelle parole di un lavoratore di Martinina Srl, società che gestisce la struttura dall’ottobre 2022 grazie a “promesse” false di servizi forniti ai reclusi, come anticipato nell’inchiesta di Altreconomia. Non è una dichiarazione isolata: leggere le 164 pagine con cui i sostituti procuratori Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, il 13 dicembre 2023, hanno argomentato la richiesta di sequestro preventivo d’urgenza del ramo d’azienda che gestisce il centro, permette di ricostruire nel dettaglio l’orrore del “Corelli”. Sono gli stessi magistrati a scrivere che i reclusi “sono ridotti in condizioni che non pare esagerato definire disumane”. “Secondo te questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo avrebbe detto un medico del centro rivolgendosi a un operatore che accompagnava in ambulatorio un recluso. Il diritto alla salute sarebbe stato calpestato su più fronti. Per la necessità del gestore di risparmiare, Abdul, nome di fantasia, “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; Amin, invece, pur avendo il piede fratturato non sarebbe stato visitato “per il rifiuto del gestore di pagare”. C’è poi, come abbiamo già raccontato, l’abuso di psicofarmaci. “Al centro ho visto dare quantità da 75 milligrammi a 300 milligrammi per tre volte al giorno di Lyrica, c’era una persona che assumeva circa 300 milligrammi di Lyrica per tre volte al giorno, cioè quasi un grammo, dose sostanzialmente fuori dosaggio”, racconta un’operatrice. “Vi era un uso smodato di Rivotril -racconta un’altra- Alcune volte venivano somministrati ad alcuni pazienti 100 gocce, io sono arrivata a diluire la boccetta con l’acqua per evitare effetti collaterali negativi”. “L’unico modo per gestire le criticità sanitarie era o lo psicofarmaco o la chiamata al 118”, ha dichiarato agli inquirenti Nicola Cocco, medico esperto di detenzione amministrativa. Nel centro c’erano persone che non avrebbero potuto esserci: gli inquirenti hanno ricostruito che le visite di idoneità alla comunità ristretta sono “assolutamente carenti”. Lo dimostrano la presenza all’interno del Centro di “ospiti affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti” e, al momento della visita del primo dicembre, la presenza di una persona “cui sarebbe stata asportata la milza nel 2018”. “Vi erano numerosi malati psichiatrici all’interno”, racconta un’altra operatrice. Persone che vivevano in luoghi sudici. “Gli ambienti erano sporchi, c’erano anche dei topi all’interno delle diverse aree: le pulizie venivano svolte molto superficialmente, tanto che molti ospiti hanno avuto delle malattie epidermiche dovute alle scarse condizioni igieniche -racconta un dipendente-. Ci sono stati anche episodi di scabbia su più ospiti. Agli ospiti non è stato mai consegnato il kit per l’igiene personale, né saponi, né le lenzuola, dovevano arrangiarsi con quello che trovavano all’interno”. Ancora. “Gli ospiti vestivano sempre con la stessa tuta per l’intera giornata, sia di notte sia di giorno. Una volta a settimana avveniva il lavaggio della tuta e se qualcuno non aveva la possibilità di un cambio, restava seminudo fino a quando non venivano riconsegnata la tuta pulita”. E poi il cibo avariato: “Poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti -si legge in una delle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti-. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato”. Questo è il quadro, questo è il Cpr di via Corelli. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha pubblicato la scorsa settimana un dettagliato report sulle lacune nella gestione del Cpr, evidenziando anche l’immobilismo della prefettura di Milano. “Dai verbali trasmessi all’Asgi a seguito di accesso civico generalizzato riguardante i verbali delle visite di controllo effettuate dalla prefettura non emerge tuttavia alcuna verifica sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone trattenute nel Cpr, né alcun rilievo da parte dell’amministrazione riguardo della corretta erogazione dei servizi previsti in offerta tecnica”, scrive l’associazione a margine del report. Un paradosso, a cui se ne aggiunge un altro. La richiesta dei Pm di sequestrare la struttura arrivata a sorpresa il 13 dicembre 2023 nasce da un motivo ben preciso. Il 13 novembre 2023 la società Martinina, gestita da Alessandro Forlenza (amministratore di fatto), accusato di frode insieme alla madre Consiglia Caruso (fino al 31 agosto amministratrice unica sostituita poi dalla moglie di Forlenza, Paola Cianciulli), si è vista rinnovare il contratto siglato con la prefettura di Milano per la gestione della struttura per un altro anno. Dall’ufficio territoriale del Viminale, in seguito alla perquisizione della Guardia di Finanza al centro del primo dicembre, avevano fatto sapere di aver “già avviato un procedimento amministrativo per la contestazione di condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali a seguito di alcune criticità gestionali emerse nei mesi scorsi” che si sarebbe concluso con “l’irrogazione della massima sanzione prevista”. Quali criticità? “Il verbale dell’ispezione del 18 aprile 2023 -si legge però nel report di Asgi- non viene trasmesso sostenendo di non volere compromettere le verifiche tutt’ora in corso, essendo in corso istruttoria in merito alle spese sostenute per il personale”. Una presunta “massima sanzione” quindi che potrebbe essere riferita a questo specifico punto. Anche perché il 13 novembre il contratto è stato rinnovato. Ecco perché i procuratori Storari e Cavalleri hanno sequestrato la struttura. “Gli elementi testimoniano una situazione di frode non soltanto a oggi in atto ma destinata a proseguire nel prossimo futuro -scrivono- tale situazione di illegalità non potrà prevedibilmente che protrarsi almeno per un ulteriore intero anno”. C’è poi un’altra stranezza: dopo che l’Asgi ha inviato il report all’Autorità nazionale anticorruzione, il 10 novembre 2023 la prefettura ha pubblicato il contratto del precedente appalto di gestione del Cpr (all’epoca la società gestita di fatto da Forlenza era la Engel Italia). Le associazioni Dianova, BeFree, l’organizzazione “Musica e Teatro” vengono citate tra i firmatari dei protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica di Engel Srl formulata il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere. La richiesta della Procura è quella, come detto, del sequestro del ramo d’azienda che gestisce la struttura “senza però determinare la cessazione del Cpr, con l’immissione in possesso di un amministratore”. I magistrati non stanno quindi chiedendo la chiusura del Centro -almeno per ora- ma non è chiaro che cosa succederà e come verrà gestita la struttura. Nel frattempo, venerdì 15 dicembre, si è svolta l’udienza di fronte al giudice per le indagini preliminari per decidere se Martinina potrà in futuro partecipare a bandi pubblici. Al di là dell’esito giudiziario della vicenda, si ha un’altra prova dell’orrore di quello che succede nel Corelli, come denunciano da anni diverse associazioni, dalla rete Mai più lager - No ai Cpr al Naga. E non solo. “Emerge il fallimento del sistema Cpr, incluso il caso di Milano -spiega Giulia Vicini, avvocata Asgi-. Si tratta di un fallimento che non riguarda solo le ormai croniche e documentate violazioni dei diritti fondamentali e l’inefficienza, ma anche l’opacità dell’impianto burocratico-amministrativo che concede in appalto la vita delle persone a società private”. “Si entra come persona -ha raccontato un’operatrice agli inquirenti-. poi viene assegnato un tesserino di riconoscimento con un numero, e a quel punto si diventa numeri e si esce da zombie imbottiti di psicofarmaci”. Migranti. Lasciare affogare le persone è contro l’umanità e indegno della nostra civiltà di Mario Giro* Il Domani, 18 dicembre 2023 Forse pensiamo che il cattivismo ci convenga. Ma non è vero: ci rendiamo soltanto più odiosi. Oltre 60 affogati al largo della Libia ma non è stato possibile salvarli a causa delle nuove regole che ci siamo dati: la Ocean Viking che era nei pressi ma è stata costretta ad allontanarsi per andare a sbarcare la ventina di salvati di un’altra imbarcazione a… Livorno. Si tratta di un’inutile cattiveria che sconteremo. Sì, perché certe cose si vengono a sapere, corrono sui social e rilanciano l’immagine del nostro paese. Già è noto che i nostri centri sono terribili, che il trattamento in Italia non è lontanamente comparabile a quello di altri paesi. Ora sta finendo anche la reputazione che ci eravamo fatti nel mondo: gli italiani salvano vite, non come gli altri europei. Italiano è colui che salva le vite perché sono la cosa più preziosa. Come Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Cappellini che nel 1940 si impuntò e - contro ogni regola militare - salvò i naufraghi della nave che lui stesso aveva affondato. Quando i nazisti gli chiesero spiegazioni lui (la frase è famosa) reagì dicendo che “un comandante italiano ha alla spalle 2000 anni di civiltà”. Punto. Questo è quello che si dovrebbe dire di noi, non propalare un inutile cattivismo che oltretutto non serve a nulla. Infatti le peggiori condizioni non convinceranno nessuno a non tentare lo sbarco: le condizioni di partenza sono molto peggiori. Ma soprattutto c’è la questione del futuro. Come disse una ragazza afgana: “Sbagliate voi europei a pensare che noi cerchiamo in Europa un futuro migliore: cerchiamo un futuro e basta”. Di fronte a tale enorme push factor non c’è pull (leggi le navi delle Ong) che tenga. Stiamo soltanto rovinando la nostra reputazione che nel mondo di oggi è tutto ciò che conta. C’è chi si sorprende che papa Francesco e la Cei continuino a sostenere una società aperta nella quale chi fugge, per qualunque motivo sia, deve essere salvato. Non si emigra e non ci si sposta per sport o a cuor leggero: questo forse ancora non è chiaro a molti. La protezione della vita - di qualunque vita - è prioritaria per la chiesa, anche per i cattolici che considerano papa Francesco troppo aperto. Sulla questione migratoria i vescovi degli Stati Uniti hanno la medesima posizione. Si tratta di un tema di fondo: la vita è sacra e si salva sempre. Lasciar morire in mare chi poteva essere salvato è contro la morale cristiana e direi umana. Ma qui mi preme rammentare che è anche contro la tradizione umanistica italiana. Altro discorso è poi come accogliere: ma prima di tutto occorre salvare, sempre. Ciò è iscritto nell’umanesimo italiano: sarebbe un danno enorme farlo morire. Sulla gestione si può discutere, mai sulla salvezza delle vite. Dicevamo un tempo: restiamo umani. Certo davanti agli orrori di questi anni, Ucraina, Gaza e così via, forse ci siamo abituati al male. La nostra sensibilità nazionale può essersi attutita e siamo diventati come gli altri, dei sonnambuli che vagano in un campo di macerie senza accorgersi più di nulla. Oppure ci siamo talmente impauriti pensando che in un mondo a pezzi è meglio chiudersi in casa propria e basta. Ma va subito recuperata la pietas della nostra tradizione: i veri italiani salvano le vite e non le lasciano affogare per nessuna ragione. *Politologo L’odissea dei migranti minorenni: vittime, ma fatti passare per criminali e maggiorenni di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro* Il Domani, 18 dicembre 2023 Le nuove norme colpiscono i più deboli. Ragazzi e ragazze spesso vittime anche di tratta. I casi di adolescenti costrette a prostituirsi a 14 anni, incriminate per complicità con l’organizzazione e messe nel carcere degli adutli. Lamin viene dal mare. Arriva a Lampedusa l’8 settembre 2011 su un barcone con 82 persone, ha poco più di 17 anni. È la sua seconda traversata - la prima era finita in un naufragio, con 26 persone morte davanti ai suoi occhi. Non ha paura: non perché viene da un posto di mare, dal Gambia, e sa nuotare. Ha paura perché sa che non si può morire due volte e lui, dopo aver lasciato casa, si sente già morto. Oggi ha 33 anni, da sette fa il mediatore culturale e l’operatore sociale. “Sono andato via perché la situazione politica del mio paese era molto delicata”, racconta. Per le strade gli studenti manifestavano contro il governo di Yahya Jammeh e un sistema dittatoriale che durava da più due decenni. Dopo alcuni arresti nel corso di una manifestazione a cui partecipa, Lamin scappa per il timore di fare la stessa fine. In Europa non si è perso solo grazie a un pizzico di fortuna. La prima settimana dopo lo sbarco nell’hotspot di Lampedusa è di blackout: nessun operatore o operatrice parla altre lingue, ci si capisce a gesti. Ma poi compare un’avvocata testarda, che con un po’ di inglese va in giro a spiegare alle persone i loro diritti. Per esempio a Lamin spiega che, a 17 anni, per la legge è un minorenne e ha quindi accesso a maggiori tutele. “Dicevo di essere maggiorenne e ne ero sinceramente convinto. Nel nostro paese sei già adulto a 15 anni e devi essere un uomo. Non capivo questa faccenda della minore età”. Come criminali - S. ha 14 anni e mezzo quando in Nigeria viene reclutata e spedita a prostituirsi in Italia, a Torino. Federica Gaspari, psicologa sociale della Cooperativa Parsec, la incontra tre anni dopo, nel 2019, all’Istituto Penale per Minorenni di Roma “Casal Del Marmo”: borderline, arrabbiata, violenta e a un passo dalla schizofrenia. Arrestata a Torino a 16 anni, viene ritenuta maggiorenne e detenuta nel carcere ‘Lorusso e Cutugno’ delle Vallette a Torino. “Dopo qualche mese qualcuno deve finalmente averla guardata in faccia”, chiosa Gaspari. S. viene quindi trasferita al minorile ma la condanna, per direttissima, è molto pesante: tre anni e mezzo, con l’accusa di essere una reclutatrice di altre ragazze. Nessuno capisce che è lei per prima trafficata. Solo quando viene in contatto con il servizio antitratta, a Roma, racconta la sua storia. S. vuole smettere di prostituirsi e chi la sfrutta le spiega che un modo per ripagare il debito c’è: fai arrivare in Italia un’altra ragazzina che prenda il tuo posto, le dicono. “In quegli anni, nel 2017-18 molti e molte minori venivano usati così dalle organizzazioni. E mi sono state segnalate tante vittime di tratta considerate dallo stato come trafficanti”, dice Gaspari. Con l’aiuto della madre in Nigeria e di altri emissari riesce a far arrivare una ragazza più o meno della sua età a Lampedusa. La nuova arrivata però, nel centro di accoglienza, riceve moltissime telefonate, gli operatori sociali si insospettiscono e la ragazzina, alla fine, racconta tutto. È così che S. viene incastrata dalle intercettazioni. La verità sulla sua storia però, nel frattempo comincia a emergere. La ragazza denuncia, segue un lungo percorso di psicoterapia, si diploma. Oggi ha una bimba, un compagno, un progetto famigliare e un lavoro che vuole migliorare. Moussa vorrebbe fare l’avvocato, anche se per ora fa un corso da cuoco per lavorare il prima possibile. Forse perché è stato un avvocato a tendergli la mano dopo due settimane che dormiva alla stazione Termini di Roma, trovandogli un posto in un centro per minori stranieri non accompagnati. Era scappato dal Mali a 12 anni, da solo, la sua famiglia si è separata per via della guerra seguita al colpo di stato del 2012. Finisce in un centro per adulti a Perugia, dichiarato maggiorenne nonostante i suoi 16 anni. “Non ci siamo capiti con il poliziotto allo sbarco”, dice con flemma. Dopo un po’, con altri tre, viene buttato fuori: protestano per le condizioni del centro. “Non facevamo scuola, eravamo lontani dalla città e anche il cibo era poco”. E quindi finisce alla stazione Termini, luogo malfamato ma anche dove, se sei un ragazzo con il colore della pelle diverso, nessuno fa caso a te. Maggiorenne. Anzi no - Il 18 dicembre è la Giornata internazionale Migranti. Domani ha deciso di dare spazio ai minorenni che viaggiano soli: più vulnerabili ma anche storicamente più invisibili. Almeno fino all’estate scorsa, quando la sigla Msna ha cominciato a rimbalzare sui media. I comuni, cui è in capo l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, hanno iniziato ad avvertire il governo che non avrebbero più accettato altri ragazzi e ragazze per esaurimento dei posti. “Non siamo più in grado di rispettare la legge”, spiegava Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione. I finanziamenti e la determinazione del numero dei posti disponibili è in capo al Viminale, ma la gestione è dei comuni. La legge 47/2017, cosiddetta legge Zampa sui minori migranti prevede un percorso di accoglienza e integrazione rafforzata per il migrante bambino - che non è possibile respingere, rimpatriare o espellere. Quindi costoso: in media 100 euro al giorno. Il governo, per bocca del sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano e della responsabile immigrazione di FDI Sara Kelany, ha iniziato a sostenere la tesi dei ‘falsi minori’ (chi all’arrivo, maggiorenne, dichiara di avere invece meno di 18 anni) che toglierebbero risorse ai ‘veri minori’. “La verità è che il governo non riesce a bloccare gli sbarchi e deve trovare un capro espiatorio”, spiega la senatrice Sandra Zampa, prima firmataria della legge. La percentuale dei minori sugli arrivi è stabile da anni al 10 per cento: il problema è l’aumentato afflusso. Ad agosto erano oltre 100mila le persone sbarcate in Italia, di cui 9.792 minori soli non accompagnati. Al 31 ottobre, secondo il ministero del Lavoro, sono quasi 24mila i Msna presenti sul territorio italiano (il più alto numero precedente, 26mila, è del 2016): l’88 per cento è maschio, il 71,4 per cento dichiara di avere tra i 16 e i 17 anni. Dati sui ‘falsi minori’ non se ne trovano (né si parla del fenomeno opposto: minorenni che dicono di avere più di 18 anni proprio per sfuggire alle maggiori tutele e al sistema, come capite a molte ragazze nelle maglie della tratta) e non è chiaro come l’esecutivo abbia individuato in questo presunto fenomeno la causa di tutti i mali del sistema di accoglienza (che, come fa notare per esempio l’Anci, soffre piuttosto, e da tanti governi a questa parte, di mancanza di programmazione pure prevista per legge). L’Italia è anzi stata recentemente condannata due volte dalla Corte europea per i diritti umani per aver tenuto illegalmente una minorenne, vittima di abusi, in un centro per adulti e alcuni under-18 per mesi nell’hotspot di Taranto. Duri con i deboli - Ma il governo va avanti: da una parte con il decreto ‘Cutro 2’ del 6 ottobre, per cui in momenti di emergenza-arrivi le procedure per l’accertamento dell’età saranno accelerate (e con metodologie come la radiografia del polso: invasive, con margini di errore di due anni ed esplicitamente proibite come parametro unico dalla legge Zampa che invece parla di commissioni multidisciplinari). Il minore (che si dichiara tale) avrà 5 giorni per ricorrere. Dall’altra gli over 16 potranno essere inseriti i centri per adulti fino a un massimo di 90 giorni, con relativo “risparmio” sui costi di accoglienza. L’ultima legge di bilancio taglia infatti 45 milioni, ovvero circa la metà dei fondi destinati ai comuni per i Msna, a favore del rinnovo del contratto delle forze di polizia. “Le ultime disposizioni del governo in pratica forniscono una base normativa a quello che già succede”, spiega Anna Brambilla, avvocata di Asgi, associazione studi giuridici sull’immigrazione, “come al Cara di Crotone: anche se sono separati, hanno aree comuni”. Il problema è che le collocazioni con adulti non corrispondono quasi mai all’interesse superiore del minore, dice l’avvocata, cioè l’unica deroga permessa dalla Direttiva europea del 2013 sull’accoglienza. “Anzi, nei casi che abbiamo documentato i minorenni sono collocati in strutture fatiscenti”, chiosa Brambilla. “Cerchiamo di porci come contrappeso di fronte al rischio di sfruttamento”, spiega Rudy Mesaroli, uno dei fondatori di Civico Zero, centro diurno per minori stranieri che lavora con unità di strada per recuperare i ragazzi che si ‘perdono’, prede del sottobosco criminale che gravita attorno alla Stazione Termini e non solo. “E se non mostriamo un’alternativa i minori vengono fagocitati da fenomeni che per loro sono più attrattivi, si legano ad adulti che possono offrire altro in termini economici e di identità”. Anche per Save the Children “la permanenza protratta in promiscuità in strutture di prima accoglienza per adulti rappresenta un serio rischio per un minorenne, in termini di possibilità di subire danni e incorrere in situazioni di sfruttamento”. La necessità “di proteggere i minorenni senza alcuna distinzione operata sulla base della nazionalità o della provenienza è un principio di derivazione sovranazionale, previsto anche dalla nostra Costituzione”, ricorda Raffaela Milano, direttrice programmi Italia-Europa di Save the Children. *Autrici di “Perdersi in Europa senza famiglia. Storie di minori migranti”, 2023, ed. Altreconomia Stati Uniti. Perché così tante persone sostengono ancora la pena di morte? di Marina Viola wired.it, 18 dicembre 2023 La pena capitale esiste ancora in ventisette stati ed è appoggiata dal 47% della popolazione. Si chiama Kenneth Smith e ha cinquantotto anni uno dei 2.394 detenuti in attesa della pena di morte negli Stati Uniti. Venne condannato in Alabama nel 1988 per l’assassinio della signora Dorlene Sennett. Suo marito, che era un pastore protestante, pagò Smith per ammazzarla. Benché gli venne dato l’ergastolo, il giudice cambiò la sentenza trasformandola in pena di morte. Il novembre scorso, il signor Smith passò ore legato sul tavolo dell’esecuzione mentre i boia cercavano di inserire l’ago con il liquido letale, ma malgrado diversi tentativi in molte parti del corpo, non riuscirono a trovare le vene giuste. Se la pena di morte di per sé è già disumana, il tentato omicidio non riuscito da parte delle forze dell’ordine è una ciliegina sulla torta che si sarebbe potuta evitare. Per ammazzare il signor Smith (la data dell’esecuzione è fissata il prossimo 25 gennaio) lo Stato dell’Alabama ha deciso di utilizzare un metodo ancora mai sperimentato sugli uomini: gli faranno respirare azoto puro per farlo morire soffocato. Neanche i veterinari, che pure usarono l’azoto per sopprimere gli animali, ormai lo fanno più, perché considerato crudele. Ma evidentemente un uomo che il governo ha stabilito di ammazzare, è considerato inferiore a un animale. Un paese diviso - La pena di morte esiste ancora in ventisette stati americani, e viene inflitta in casi di omicidio, terrorismo, spionaggio, tradimento e in alcuni casi di giustizia militare. L’inizio di tale metodo di punizione si può tracciare alla metà del Seicento. Gli Stati Uniti sono uno dei 54 paesi nel mondo che ancora la utilizza. Partì da loro l’ideona di terminare la vita dei condannati con iniezioni letali. Molti degli stati americani che ancora usano la pena di morte sono al sud: Texas, Alabama, Florida, Mississippi, Kentucky, Arkansas e altri, che tra l’altro sono gli stati in cui vivono più credenti cristiani: alla pole position troviamo proprio l’Alabama, in cui il 78% della popolazione è protestante, il 7% cattolico, seguito dal Mississippi (77% protestanti) e Tennessee (73% protestanti). Invece, la maggior parte degli atei è contraria alla pena di morte. Sarà una coincidenza, ma questi sono anche gli stati in cui è stato abolito l’aborto, perché un feto è considerato una persona. Infine, sono posti in cui non solo il partito repubblicano vince facile, ma non serve neanche il porto d’armi per acquistare armi da combattimento. Adesso però basta con i numeri: dovremmo piuttosto soffermarci sull’incongruenza di tutto questo, perché se la vita è un dono di Dio, allora terminarla significa rovinare il lavoro del Creatore, che in teoria sarebbe l’unico a poter decidere chi va e chi resta. Invece in Alabama, chi va e chi resta lo decidono i giudici. Portare a termine qualsiasi tipo di gravidanza, anche quelle avvenute perché le donne sono state stuprate, o che rischiano la morte in caso di parto; quelle che portano nell’utero un feto malato e quelle che sono talmente povere da non garantire una vita dignitosa ai figli non si possono sottrarre, sono obbligate a terminare la gravidanza. E guai a lamentarsi: l’hai voluta la bicicletta? Anche questo, tra l’altro, l’ha deciso un gruppo di giudici. Questi feti, annunciano senza mezzi termini, hanno tutto il diritto, anzi: il sacrosanto dovere di essere salvati. Perché la vita è un dono di Dio. Poi, invece, quando diventano grandi, spesso dopo aver vissuto vite disagiate, violente o essere nati con una disabilità mai curata, e compiono un atto terribile, allora lì sì che possono morire. Anzi: deve morire. Semplicemente, li si elimina. È la filosofia dell’occhio per occhio, che tanto piace alla mafia. È un atteggiamento che i giovani osservano e copiano, perché viene loro insegnato in questo modo: devono sempre fare i bravi, ma se un giorno a John gli girano i cinque minuti e tira un pugno a un compagno, non bisogna porgere l’altra guancia, come insegnano in Chiesa, ma spaccargli il naso con una testata di quelle date bene. Così impara. Il 47% degli americani appoggia la pena di morte. l’80% di questi sono repubblicani, il 50% democratici e il 64% sono indipendenti. Quando Trump era al governo, sono stati ammazzati più detenuti che negli ultimi 150 anni. Fecero scalpore le esecuzioni di detenuti disabili, e cioè con un quoziente intellettuale sotto la norma. La questione sociale - Perché così tanti americani supportano la pena di morte? Perché quando si commette un crimine violento, non solo si sentono moralmente giustificati a farlo, ma credono che sia un deterrente per chi volesse ammazzare qualcuno. Il problema di questo ultimo punto è che se davvero lo fosse, visto che la pena di morte esiste negli Stati Uniti prima ancora che fosse scritta la Costituzione, a metà del 1700, adesso dovrebbe essere un paese tranquillo, senza omicidi e violenza, mentre sono al ventiquattresimo posto dei paesi più violenti del mondo, ma solo perché nei 23 paesi prima ci sono le guerre. È seguita da Sudafrica, Haiti e Burundi. Il tasso di incarcerazione americano è il più alto del mondo. La pena di morte riflette il razzismo istituzionale, quello che a volte è più difficile da decifrare. È riservata, nella maggior parte dei casi, a persone nere. Ci sono molti studi che mostrano un fatto strano: per lo stesso crimine, viene data la pena di morte ai neri rispetto ai bianchi. Il numero di detenuti neri negli Stati Uniti è alquanto superiore rispetto a quello dei bianchi. Dopotutto, le aree più povere sono abitate per la maggior parte da afroamericani, il ché significa che le scuole ricevono pochi finanziamenti statali, così come i servizi sociali e pubblici e i trasporti, i negozi alimentari e così via. Da queste situazioni complesse, cresce la criminalità, così come il numero di detenuti neri e dunque di persone che aspettano la pena di morte. Per esempio, in Texas, di quelli che aspettano la propria esecuzione, il 24% è bianca contro al 45.8% nera. Questi sono dati facilmente reperibili facendo una piccola ricerca su Google. La speranza è che, prima di andare a votare, qualcuno decida di vedere come sta andando nel loro paese. La speranza è l’ultima a morire (di morte naturale, s’intende). Brasile. Senza fissa dimora decuplicati in dieci anni: sono (ufficialmente) quasi 230mila di Giuseppe Bizzarri Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2023 Lula lancia il progetto “Strade visibili”. Finire a vivere sul marciapiede è il terrore dei brasiliani. Sono molti a vedersi implorare almeno cibo, poiché le monete per l’elemosina sono quasi scomparse dalle tasche “digitalizzate” dei passanti indebitati che schivano l’invisibile Povo da rua, il popolo della strada. Da lunedì i senza fissa dimora brasiliani, però, sono più percepibili anche a Brasilia, dove il presidente Inácio Lula da Silva ha annunciato “Strade visibili”, il piano d’aiuti che prevede un investimento iniziale di 982 milioni di reais per iniziative volte a ridurre l’inquietante numero di persone che vive oggi nelle strade del Brasile. Alcuni giorni prima che il presidente Lula, con accanto il carismatico Don Júlio Lancellotti - il coordinatore della Pastorale del “Povo de rua” dell’Arcidiocesi di São Paulo - annunciasse il piano per i sem teto, l’Ipea, l’Istituto di ricerche economiche applicate, ha presentato alla stampa l’inedito studio preliminare del ricercatore Marco Antônio Carvalho Natalino, condotto per conto del Ministero della Pianificazione, sull’evoluzione del numero di persone senza un tetto. Nell’agosto 2023 il numero dei cittadini che avevano fatto del marciapiede la propria dimora era 227.087. Il numero è più di dieci volte superiore a quello registrato nel 2013 quando si contavano 21.934 senza fissa dimora. E il numero reale deve essere ancora maggiore visto che non tutti i senzatetto sono registrati a CadÚnico, il Registro del governo federale usato da Natalino per redigere le sue drammatiche statistiche. L’Anagrafe unica è un insieme d’informazioni sulle famiglie brasiliane in situazioni di povertà e povertà estrema. Dei 96 milioni di persone presenti in CadÚnico nell’agosto 2023, 227mila erano ufficialmente registrate come senza fissa dimora. L’Ipea però avverte che questo numero non può essere considerato un censimento ufficiale della popolazione senza dimora. Nel dicembre 2022, una stima della stessa Ipea affermava che la popolazione dei senzatetto in Brasile superava le 281mila persone. Pertanto, per il 2020 e il 2021, il numero stimato della popolazione senza dimora è rispettivamente di 214.451 e 232.147 persone. Si tratta di un’espansione molto più elevata di quella della popolazione brasiliana nell’ultimo decennio, pari solo all’11 per cento tra il 2011 e il 2021, rispetto ai dati dell’Istituto brasiliano di geografia e statistica. “Questa breve rassegna storica rende chiaro quanto siamo ancora vicini a trattare le persone di strada come, nella migliore delle ipotesi, cittadini di seconda classe”, ha affermato il ricercatore dell’Ipea alla stampa brasiliana. Per Natalino il conteggio da parte delle autorità pubbliche è strategico, altrimenti si corre il rischio di riprodurre l’invisibilità sociale di questo segmento dei brasiliani nella gestione delle politiche pubbliche. Una delle spiegazioni dell’aumento dei senza fissa dimora è dovuto al fatto che dodici anni fa nessuno era registrato come senza dimora nell’Anagrafe unica, perché non c’era neanche lo spazio per segnarlo sul modulo. Ciò che è cresciuto è il numero delle persone senza dimora registrate che ora potranno accedere ai programmi sociali recentemente annunciati dal presidente Lula. Tra le ragioni dell’aumento del numero di persone che vivono in strada, il rapporto cita le ripetute crisi economiche che il Brasile vive da quasi un decennio e che “la grave insicurezza alimentare, la fame, diventata ancora una volta un problema negli ultimi anni”. La pandemia da covid-19, secondo l’Ipea, ha poi aggravato la situazione. Le principali cause che spingono i brasiliani a vivere per strada sono i problemi con la famiglia e il partner (47,3 per cento), la disoccupazione (40,5 per cento), l’abuso di alcol e altre droghe (30,4 per cento) e la perdita della casa (26,1 per cento). Dai dati emerge che la maggioranza della popolazione senza dimora, il 68 per cento, si dichiara afro-discendente. La maggioranza dei senza fissa dimora brasiliani non vive nella città in cui è nata: il 60 per cento sono migranti e 10.586 sono stranieri, pari al 4,7 per cento del totale. “Se esiste questa situazione è colpa dello Stato. E la politica avviata qui arriva a cambiare la vita di queste persone” ha affermato Lula, assieme a padre Lancellotti che da decenni lavora con i senzatetto. Russia. Che fine ha fatto Navalny? di Anna Zafesova La Stampa, 18 dicembre 2023 Da 12 giorni si sono perse le tracce del dissidente russo, il rischio è che sia stato “suicidato” dallo Stato in carcere. Sono dodici giorni che non si ha traccia del detenuto più celebre della Russia. Alexey Navalny è sparito nelle viscere del sistema penitenziario russo, generando le voci più inquietanti sulla sua sorte. Quel che resta della sua organizzazione - prevalentemente in esilio in Europa - ha cercato di lanciare una campagna per costringere il governo russo a rispondere alla domanda #whereisnavalny, dov’è Navalny, ma per ovvi motivi la mobilitazione si è svolta soprattutto all’estero. In Russia, c’è il silenzio, dell’opposizione schiacciata dalle repressioni e del governo che ormai non solo non si sente obbligato a mostrare un volto umano, ma anzi usa la sparizione del prigioniero politico per mostrare quale sorte attende chi osa protestare. Intanto, canali Telegram vicini al gruppo Wagner sostengono che Navalny sia morto, anzi, che si sia suicidato, mentre la responsabile della ong di aiuto ai carcerati “La Russia dentro”, Olga Romanova, riferisce che la “radio carceraria” segnala la presenza del politico in un ospedale del famigerato Vladimirsky Zentral, una delle prigioni di transito storiche dell’Arcipelago Gulag. Notizie discordanti quanto inquietanti, alle quali Ivan Zhdanov, il direttore della Fondazione anticorruzione creata da Navalny, replica ammettendo: “Non abbiamo la più vaga idea di cosa stia succedendo e dove si trovi Alexey”. Il capo dell’opposizione russa è sparito dai radar della colonia penale a regime severo IK-6 della regione di Vladimir, a circa 230 chilometri da Mosca, senza preavviso. La direzione del carcere ha cancellato un collegamento video di Navalny con il tribunale dove era in corso uno dei suoi numerosi processi. Il motivo ufficiale erano stati “problemi con la rete elettrica”, che si sono ripetuti cinque giorni dopo. Nel frattempo, i nuovi avvocati di Navalny - quelli storici sono stati arrestati a loro volta con l’accusa di essere complici nell’”organizzazione estremista” per la creazione della quale il dissidente è stato condannato a 19 anni di reclusione - venivano tenuti per ore fuori dall’ingresso del carcere. Infine, l’annuncio: Navalny non è più nella lista dei detenuti dell’IK-6. Da allora, le ricerche del prigioniero politico non hanno dato nessun risultato. La notizia - diffusa dal sito di notizie Baza - che Navalny fosse stato trasportato in uno dei carceri giudiziari di Mosca, non è stata confermata: il suo nome non risulta nelle liste dei carcerati della capitale. Le voci di suicidio appaiono ancora più infondate, anche perché Navalny viene guardato a vista, ma ovviamente fanno temere che il politico sia stato “suicidato”. Potrebbe avere problemi di salute, come suggeriscono gli informatori di Olga Romanova, che parlano di “problemi di glicemia”. Poche settimane fa, Navalny si era sentito male in cella, e secondo gli avvocati si era trattato di uno “svenimento da fame”, a causa della detenzione in cella di punizione, dove i detenuti ribelli vengono torturati con il freddo e una razione di cibo appena sufficiente. Un’altra ipotesi è che Navalny sia stato indirizzato all’”etap”, il trasferimento verso il carcere di regime speciale al quale era stato condannato nel suo ultimo processo. Nell’Arcipelago Gulag, gli “etap” si svolgono ancora in ferrovia, in carrozze speciali per detenuti, e possono durare anche settimane, spostando il carcerato da una prigione di transito all’altra, in attesa di coincidenze per trasportarlo verso la destinazione finale. Che rimane segreta: fino all’arrivo nel luogo dove il prigioniero sconterà la pena, né la sua famiglia, né i suoi avvocati sanno nulla, monitorare le condizioni di trasporto e detenzione è impossibile, e il rischio di un “incidente”, un “malore” o addirittura un “suicidio” lontano dai riflettori è massimo. I collaboratori del politico hanno promesso una ricompensa per chi riuscirà a dare informazioni su dove si trovi Navalny. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha negato di saperne qualcosa: “Non possiamo né vogliamo monitorare gli spostamenti dei condannati”, è stato il suo il commento. Ma è evidente che Navalny è un sorvegliato speciale di Putin, anzi, il suo prigioniero prediletto, al quale il Fsin, il sistema penitenziario russo, ha creato un inferno personale composto di celle di punizione, lettere bruciate dalla censura, avvocati arrestati e assenza di cure mediche. Probabilmente, anche il fatto che il dissidente sia sparito subito dopo aver chiesto ai suoi seguaci di votare “qualunque candidato che non sia Putin”, alle presidenziali di marzo prossimo, non è una coincidenza: nonostante la reclusione, la voce di Navalny continuava ad arrivare fuori dal filo spinato. Ora, gli è stato imposto il silenzio, così come a un altro prigioniero politico, Alexey Gorinov, l’anziano ex consigliere comunale di Mosca, condannato a 7 anni per aver denunciato la guerra in Ucraina. Anche lui stava molto male nelle ultime settimane, e anche di lui non si ha più traccia, nonostante centinaia di medici russi avessero firmato la richiesta di ricoverarlo perché la sua vita era a rischio Hong Kong. Inizia il processo a Jimmy Lai, l’editore democratico che non si è arreso di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 18 dicembre 2023 Lunedì alla sbarra, rischia l’ergastolo per violazione della sicurezza cinese. Taglia su cinque giovani fuggiti all’estero. Ha compiuto in carcere 76 anni l’8 dicembre Jimmy Lai, l’editore democratico di Hong Kong arrestato nel 2020 per aver sostenuto il movimento di opposizione con il suo giornale Apple Daily e per aver partecipato ai grandi cortei popolari del 2019. Lunedì tornerà alla sbarra, questa volta accusato di aver violato la Legge di sicurezza nazionale cinese: un’imputazione che prevede l’ergastolo in caso di condanna. Il caso di Jimmy Lai riassume la storia di Hong Kong e ne racconta il dramma: nato in Cina nel 1947 da una famiglia di possidenti terrieri del Guangdong punita dal nuovo governo comunista, era fuggito da ragazzo nella colonia britannica per lasciarsi alle spalle il pauperismo eretto a sistema di governo da Mao. Negli Anni 70 aprì un’industria tessile e impose anche sul mercato cinese il suo marchio di abbigliamento economico ma vicino alla moda occidentale. Era già milionario nel 1989, quando il massacro di Piazza Tienanmen lo spinse in politica. Scrisse un articolo su una rivista hongkonghese nel quale definiva il primo ministro cinese Li Peng “un figlio di puttana”. Con quella scelta di campo, il suo futuro come industriale che faceva affari anche nella Repubblica popolare era segnato. Jimmy Lai decise di dedicarsi solo alla stampa e fondò Apple Daily, giornale democratico diventato capofila di un piccolo impero editoriale. Il resto della storia è recente: le grandi manifestazioni per difendere le libertà speciali di Hong Kong, dal 2014 al 2019, con i giornali di Lai che raccontavano la mobilitazione dei giovani e l’editore che sfilava pacificamente in prima fila, con gli anziani. Gli scontri, la Legge di sicurezza cinese imposta nell’estate 2020, la retata intimidatoria condotta da duecento poliziotti nella redazione del suo giornale, l’arresto di Jimmy Lai, portato via in manette davanti alle telecamere. Nel 2021 la pietra tombale su Apple Daily, costretto a cessare le pubblicazioni per il congelamento dei fondi. Da tre anni Jimmy Lai è in carcere. Le condizioni nel vecchio carcere coloniale di massima sicurezza di Stanley sono dure: l’anziano detenuto è in isolamento per 23 ore al giorno, ha diritto a soli 50 minuti all’aria aperta, in un piccolo cortile circondato dal filo spinato. La scorsa estate un fotoreporter dell’Associated Press è riuscito a scattare alcune immagini: Lai appare dimagrito, ma ha sempre la schiena dritta, accanto ai secondini. È stato condannato una prima volta a venti mesi per “manifestazione non autorizzata”. Scontata quella pena, le autorità hanno trovato un’altra imputazione, questa volta commerciale: il subaffitto di un locale, una questione ridicola sollevata solo per tenerlo in cella mentre veniva istruito il processo per violazione della nuova Legge di sicurezza cinese, che potrebbe portarlo all’ergastolo con l’accusa di “collusione con forze straniere e sedizione”. Ma per un uomo di 76 anni, già la condanna a cinque anni e nove mesi per il subaffitto è quasi una sentenza a vita. Lunedì 18 dicembre comincia il giudizio finale. Contrariamente alla consuetudine giudiziaria di Hong Kong, a Jimmy Lai è stata negata la libertà su cauzione, rifiutato anche il patrocinio da parte di un avvocato britannico, niente giuria popolare, il governo ha scelto i tre giudici del processo. “Parlare di giustizia in queste condizioni è una farsa, tutti sanno che si tratterà di un processo-spettacolo”, dice Sebastien Lai, uno dei figli dell’editore, che vive all’estero. Jimmy Lai ha passaporto britannico, perché non ha lasciato Hong Kong quando era ancora in tempo? Sebastien ha spiegato al Corriere: “A mio padre piace definirsi un troublemaker, un piantagrane che è pronto ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Lui è nato in Cina ed è emigrato a Hong Kong tanti anni fa, crede che la città gli abbia dato tanto e non ha voluto tradirla. Ha detto che se fosse andato via avrebbe fatto perdere al movimento democratico parte della sua integrità. Non è una questione di faccia, ma personale, interiore”. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha appena ricevuto il figlio dell’editore a Londra. Niente più che un gesto di solidarietà per un prigioniero che è un suddito di Sua Maestà britannica. Ma è bastato il breve colloquio concesso al giovane Lai per suscitare l’ira cinese: “Jimmy Lai è un noto elemento anti-cinese, una pedina nelle manovre e interferenze straniere che ora dovrà rendere conto delle sue azioni criminali”. Alla vigilia dell’apertura del processo a Jimmy Lai, che dovrebbe durare tre mesi, suona come un ammonimento cinese alla comunità internazionale anche l’ultimo annuncio di una taglia da un milione di dollari hongkonghesi sulla testa di cinque attivisti del fronte democratico rifugiati in Occidente. “Hanno venduto il loro Paese (la Cina, ndr) e Hong Kong e per questo saranno perseguiti fino alla fine”, ha detto il capo del Dipartimento sicurezza nazionale del territorio. Lo scorso luglio era stata messa una taglia anche su altri otto giovani oppositori auto-esiliati. Il Chief Executive di Hong Kong, l’ex capo della polizia John Lee, ha detto che “l’unico modo per porre fine al loro destino di latitanti, quindi perseguitati per tutta la vita, è di arrendersi, altrimenti consumeranno i loro giorni nella paura”. I fuggiaschi sono stati accolti nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Londra e Washington hanno risposto all’annuncio delle taglie definendolo “uno sfacciato disprezzo per le norme internazionali e un atto intimidatorio che non sarà tollerato”.