Dietro le sbarre suicidi e sovraffollamento: ecco le piaghe del carcere di Liana Milella La Repubblica, 17 dicembre 2023 I detenuti sono più di 60.000 e ogni 5 giorni c’è un suicidio. Ma sono 48.000 i posti realmente disponibili nelle celle. Il tasso di affollamento è di oltre il 125%. “Il mese di dicembre - si apprende dall’Associazione Antigone - si è aperto con due notizie. La prima è che il numero delle persone detenute ha superato nuovamente la soglia dei 60.000. Era da prima della pandemia di Covid-19 che ciò non accadeva. Per la precisione, le persone in carcere sono 60.116, al netto dei circa 48.000 posti realmente disponibili. Il tasso di affollamento è di oltre il 125%. Oltre al numero totale delle persone recluse, quello preoccupa è il tasso di crescita, che nell’ultimo anno è stato del 7%, con un’impennata specialmente negli ultimi tre mesi. Se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con questo ritmo, tra un anno saremo oltre le 67.000 presenze, come ai tempi della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Tempi che furono difficilissimi sia per la popolazione detenuta che per il personale delle nostre carceri, su cui viene scaricata la fatica quotidiana di gestire questi numeri. 66 suicidi dall’inizio 2023. La seconda notizia è quella dei suicidi, due, entrambi avvenuti l’8 dicembre. Il totale del 2023 è di 67 persone che si sono tolte la vita in carcere, il terzo dato più alto mai registrato da quando Ristretti Orizzonti tiene questa statistica (dal 1992). Anche quest’anno, in carcere, ci si è suicidati al ritmo impressionante di una persona ogni 5 giorni. I più giovani, tre persone, avevano 21 anni. Il più anziano, 65. “A fronte di queste notizie - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - non si vede da parte del governo e del ministro della Giustizia Carlo Nordio nessuna progettualità per innovare, umanizzare, migliorare le condizioni di detenzione. Grande attivismo c’è stato invece nell’utilizzare lo strumento penale a scopo populistico ed elettorale, con nuovi reati e inasprimenti di pene (norme anti-rave, decreto Caivano, pacchetto sicurezza) che, se non avranno alcun effetto di prevenzione dei comportamenti criminosi, contribuiranno a riportare il carcere a livelli drammatici di vita interna, sia per le persone detenute che per il personale”. I bambini con uno o tutti e due i genitori detenuti nelle carceri italiane sono circa 100mila di Liana Milella La Repubblica, 17 dicembre 2023 I bambini con uno o tutti e due i genitori detenuti in carcere in Italia sono circa 100mila. Un numero enorme di piccoli che spesso viene anche tenuto segreto. Le organizzazioni che si occupano di questo fenomeno affermano spesso un principio semplice e centrale: quello secondo il quale questi bambini non hanno bisogno di essere trattati in modo speciale, ma solo di veder riconosciuta questa loro condizione e di essere tutelati. Gli “Spazi Gialli”. Un anno si sta per chiudere con una Campagna per creare nuovi Spazi Gialli, che fa parte della Campagna di Bambinisenzasbarre per donazioni che consentano di creare nuovi Spazi Gialli, con spot gratuiti sui canali di La7, Sky e Mediaset. Il 2022 è stato per l’organizzazione fitto di impegni, sia in Italia che all’estero e ha segnato il ventesimo anno di lavoro sulla propria missione fondante per la tutela dei diritti dei bambini, in particolare dei figli (più di 100.000 in Italia e 2,2 milioni in Europa) colpiti dall’esperienza di detenzione di uno o entrambi i genitori. Il terzo anno di lavoro. Ad ottobre è iniziato il terzo anno di lavoro del Progetto nazionale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie - Applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” con le sue azioni che si articolano nel Sistema Spazio Giallo. La “Carta” è stata rinnovata esattamente due anni fa, il 16 dicembre del 2021 a firma della ministra Marta Cartabia, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti e della presidente di Bambinisenzasbarre Lia Sacerdote. Il lavoro svolto a Napoli. Assai interessanti i risultati dell’azione (2021-2022) del Progetto Nazionale sulle scuole di Napoli Metropolitana che prosegue nell’anno scolastico 2022-2023. L’azione svolta a Napoli approda anche nelle scuole di Milano Metropolitana con l’intervento pilota “Concorso d’idee” per l’anno scolastico 2022-2023. Dopo due anni di interruzione per la pandemia si è svolta a giugno la sesta edizione della “Partita con mamma o papà” evento tanto atteso dai bambini e dai loro genitori. Hanno aderito 82 istituti penitenziari. “La partita con mamma o papà” si è svolta nell’ambito della campagna di sensibilizzazione europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, promossa dalla COPE, sul tema dei bambini figli di genitori detenuti che si svolge in contemporanea in tutti i 20 paesi membri. Le attività a livello internazionale. Bambinisenzasbarre ha svolto nel 2022 una serie di attività a livello internazionale, in particolare per illustrare la “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” e il progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie” rende più incisiva la sua applicazione nelle carceri italiane, attraverso il progetto nazionale in corso “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie-Applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, nelle sue varie articolazioni. Basta “bracci della morte”, basta 41bis, basta isolamento: non c’è civiltà finché c’è carcere L’Unità, 17 dicembre 2023 Nessuno tocchi Caino ha appena chiuso il suo decimo congresso. “Stato di diritto profanato dall’eterna lotta tra bene e male” si legge nella mozione approvata. Ecco il testo integrale. Il X Congresso di Nessuno tocchi Caino, riunito nel Teatro “Marco Pannella” della Casa di Reclusione di Opera nei giorni 14, 15 e 16 dicembre 2023, esprime, nel trentennale della sua fondazione, gratitudine nei confronti di tutti coloro che in vario modo hanno contribuito alla vita, alle lotte e ai successi dell’Associazione radicale nonviolenta, transnazionale e transpartitica “Nessuno tocchi Caino” che i suoi costituenti, a partire da Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia, hanno concepito come mezzo e fine di disarmo del potere e della giustizia con la forza gentile dell’amore e della nonviolenza. Invita dirigenti, militanti e simpatizzanti di Nessuno tocchi Caino, oltre che rappresentanti di istituzioni accademiche, culturali, politiche, a promuovere nel corso del 2024, a settant’anni dalla sua nascita e a trenta da quando è venuta a mancare, iniziative per ricordare il pensiero e l’opera di Mariateresa Di Lascia. Nota come, in questi trent’anni, l’eterna lotta tra il bene e il male abbia letteralmente mortificato il diritto penale e i principi sacri dello Stato di Diritto siano stati profanati nell’orgia del punire, provocando ovunque nel mondo un gran spargimento di sangue, di pene di morte, pene fino alla morte, morti per pena. Di fronte a tutto ciò, prende atto con soddisfazione che con le risoluzioni ONU sulla moratoria delle esecuzioni capitali e con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale italiana contro l’ergastolo ostativo, molti bracci della morte siano stati chiusi e condannati a vita siano stati liberati. Impegna organi dirigenti e iscritti a prendere iniziative volte a ridurre fino a superare il danno proprio del carcere, un istituto inutile, patogeno e criminogeno che continuiamo - giustamente - a chiamare “di pena”, perché tale è, una struttura dedita a infliggere dolore, a “cohercere”, reprimere, a “carcar”, sotterrare, anime e corpi di persone vive. Nell’immediato, impegna ad adoperarsi per chiudere tutti i bracci della morte e le strutture o i regimi altrettanto mortiferi quali sono le sezioni del 41 bis, i reparti e le forme di isolamento prolungato superiore a quindici giorni consecutivi senza significativi contatti umani che, insieme all’isolamento indefinito, le Regole Mandela considerano una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante. Prende atto con soddisfazione che, nel Trentennale di vita associativa, per la prima volta, Nessuno tocchi Caino abbia superato i 3.000 iscritti, che sono affluiti grazie anche al metodo radicale e a una concezione - che è della vita, degli organismi viventi come dell’organizzazione politica - radicalmente nonviolenta, inclusiva, “ecologica”. Un successo che dobbiamo alla nostra capacità di vivere nel senso e nel modo in cui vogliamo vadano le cose, al nostro modo di pensare, sentire e agire coerente con una visione di insieme, e a una costante cura dell’insieme che noi siamo, convinti che sia l’unione - non l’unità - a fare la forza e a farsi forte, non delle identità comuni, ma delle singolarissime diversità che connotano il nostro - di ognuno di noi - modo d’essere unici e irripetibili. Impegna tutti e ciascuno a continuare a operare in tal modo e in questo senso per assicurare a Nessuno tocchi Caino una dimensione di risorse umane e finanziarie adeguata a sostenere la necessità e l’ambizione della propria azione anche a livello transnazionale. Questo, a partire dalla lotta a tutti i regimi autoritari e illiberali, come il regime iraniano dei mullah a fronte del quale va ribadito e rafforzato l’impegno radicale ultradecennale di iniziative politiche, parlamentari, transnazionali e nonviolente a sostegno della Resistenza Iraniana. Ringrazia le oltre mille persone che nel corso del 2023 hanno partecipato ai laboratori “Spes contra spem” e alle visite effettuate in oltre 120 istituti penitenziari. Ringrazia il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per autorizzare a proseguire quest’”opera di misericordia” che arricchisce noi tutti di quei dati di conoscenza umana anche di noi stessi indispensabili per cercare di risolvere i problemi che quotidianamente affliggono la comunità penitenziaria, non solo la comunità dei detenuti, ma anche quella dei “detenenti”, come li chiamava Marco Pannella. Impegna a continuare quest’opera coinvolgendo, come è accaduto in questi anni, iscritti all’Associazione, avvocati delle Camere Penali e del Movimento Forense, magistrati, volontari, garanti, esponenti di associazioni ed eletti nelle istituzioni. Perché occorre aver visto, come sosteneva Calamandrei, e occorre che cresca la consapevolezza e quindi lo sforzo collettivo affinché la violenza insita in quei luoghi “di pena” deperisca fino a esaurirsi attraverso il loro superamento. Se non abbiamo fatto carta straccia dei principi universali che sono a fondamento della Costituzione italiana, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dobbiamo affermare con forza che solo un ampio provvedimento di amnistia e di indulto può consentire allo Stato italiano di definirsi uno Stato democratico, uno stato di Diritto. A tal proposito, ricorda con affetto Giorgio Napolitano, recentemente scomparso, un Presidente della Repubblica che, sotto la spinta di un nonviolento pressing di Marco Pannella, ha avuto l’intelligenza e l’integrità morale e civile di rivolgere un solenne messaggio alle Camere sul preoccupante stato della giustizia penale e delle carceri italiane. Tale messaggio è dell’ottobre del 2013, cioè l’anno in cui l’Italia era stata condannata per sistematici trattamenti inumani e degradanti dei detenuti nelle nostre carceri. Prospettando al Parlamento un provvedimento di amnistia e di indulto, Napolitano concluse il messaggio con queste parole: “confido che vorrete intendere le ragioni per cui mi sono rivolto a voi attraverso un formale messaggio al Parlamento e la natura delle questioni che l’Italia ha l’obbligo di affrontare per imperativi pronunciamenti europei. Si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia”. Nota come le questioni poste da Napolitano (e da Pannella) non furono “intese” dai deputati e dai senatori e nemmeno si arrivò negli anni successivi alla riforma dell’Ordinamento penitenziario auspicata dagli Stati Generali dell’esecuzione penale. Oggi, la situazione si è addirittura aggravata: mai era accaduto nella storia del nostro Paese che in un anno, il 2022, ben 84 detenuti si togliessero la vita. Quest’anno siamo già a 64 e il sovraffollamento sta sfiorando la soglia critica di dieci anni fa con oltre 60.000 detenuti stipati in 47.000 posti regolamentari. Per questi motivi, impegna gli organi dirigenti e gli iscritti a indire per il 2024 un Grande Satyagraha di azioni nonviolente che favoriscano un provvedimento di clemenza senza tralasciare, anzi dandole impulso immediato, il sostegno alla proposta del deputato Roberto Giachetti di modifica della liberazione anticipata speciale (75 giorni ogni semestre come ristoro) e ordinamentale (60 giorni ogni semestre per il futuro), così come a tutte le altre proposte - da qualsiasi parte provengano - che abbiano come finalità la riduzione del sovraffollamento e il miglioramento delle condizioni di vita della comunità penitenziaria. Impegna gli organi dirigenti a intervenire, anche con un amicus curiae, a favore dei ricorsi presentati davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dai fratelli Cavallotti e altri imprenditori e a sostenere le proposte di legge presentate nel parlamento italiano volte a riformare il regime della prevenzione che nel nome della “guerra alla mafia” ha aggravato e ormai sostituito il sistema penale con misure - quali lo scioglimento dei comuni, i sequestri e le confische personali e patrimoniali, le informazioni interdittive prefettizie - che si sono rivelate spesso più distruttive dei castighi penali e che sono incompatibili con le regole di uno stato di diritto e del giusto processo e del tutto inaccettabili e odiose quando, come spesso capita, siano inflitte a imprese e nei confronti di persone mai indagate, imputate o condannate per mafia. Quelle vite alla prova, fuori dal carcere. “Ecco i percorsi per poter rinascere” di Diego Motta Avvenire, 17 dicembre 2023 Quali spazi, e ostacoli, per la giustizia di comunità? Parla Domenico Arena, direttore dell’Esecuzione penale esterna del Piemonte per il Ministero della Giustizia. Nell’Italia del sovraffollamento carcerario, che vorrebbe costruire più istituti penitenziari al solo scopo di rinchiudere chi commette reati, un altro modo di fare giustizia è possibile. Il viaggio di “Avvenire” dentro il pianeta della cosiddetta “giustizia di comunità”, una tappa nuova nel racconto quotidiano di quanto accade dentro e fuori le sbarre, parte da Torino. I percorsi legati alla giustizia di comunità sono cruciali per abbattere la recidiva, cioè la possibilità di commettere nuovamente un reato. Si calcola che il 70-80% delle persone che hanno avuto un’esperienza detentiva finisca per ripetere il reato, mentre avere accesso alle misure extra-carcere abbassa la percentuale in questione al 20-30%. Questi percorsi sono fondamentali per restituire chi ha sbagliato a una vita degna di questo nome. Il punto è che, per seguire circa 133mila persone, oggi è al lavoro solo un migliaio di operatori. Il settore è cresciuto nelle attribuzioni e negli organici e l’obiettivo è quello di raddoppiare il personale già nel 2024. Sono stati banditi a questo scopo concorsi per centinaia di assistenti sociali e una trentina di dirigenti incaricati dell’esecuzione penale esterna, ma il reperimento di figure “ad hoc’; fondamentali per chi affronta un periodo di prova complicato, resta difficile. C’è un mondo al di là del carcere che aspetta di essere messo alla prova. Per redimersi da una colpa, per espiare la pena, per restituire alla comunità ciò che è andato perduto. Per tornare a vivere. Sono circa 133mila, tra chi ha già iniziato un percorso e chi attende di iniziarlo dopo una sentenza del tribunale, le persone affidate agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) chiamati nel lavoro di non facile tessitura degli interessi della persona che ha commesso un reato, di individuazione delle misure alternative, di applicazione delle misure di sicurezza e di coinvolgimento di soggetti del territorio, dai Comuni alle parrocchie al Terzo settore, nei progetti di reinserimento e recupero. “È un compito di grande responsabilità, che mette insieme quattro filoni diversi - spiega Domenico Arena, dal 12 agosto 2022 Direttore generale per l’esecuzione penale esterna e la messa alla prova presso il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità -: le misure alternative alla detenzione, le pene e le sanzioni sostitutive, la messa alla prova e, dal 9 dicembre, i casi legati al Codice rosso sulla violenza alle donne. A noi, infatti, è stata affidata la responsabilità di comunicare al pubblico ministero l’esito del percorso fatto dall’autore di reati come lo stalking e le molestie. Una sfida che mi toglie il sonno la notte e che nello stesso tempo riconosce ai nostri uffici un valore civile particolarmente importante per ciò che possiamo fare per le donne, per le persone e per la sicurezza delle comunità”. Arena parla dal suo ufficio storico di Torino. È entrato al ministero della Giustizia nel 1994, come educatore, e ha poi diretto diversi istituti penali per adulti, minori e uffici di esecuzione penale esterna. “Abbiamo a disposizione un ventaglio di risposte penali, ma l’opinione pubblica sembra conoscerne solo una”. Carcere, carcere e ancora carcere... Detenere una persona significa spesso sradicarla dal suo territorio, vuol dire dividere, privare qualcuno della sua libertà. Intendiamoci: è una risposta necessaria per chi si è macchiato di importanti reati, ma non può essere la risposta giusta per tutti. Dare una pena detentiva sempre e comunque rischia di produrre l’effetto contrario: uniremmo dietro le sbarre persone che hanno carriera criminale consolidata ad altre che c’entrano poco o nulla. Più di 10mila persone nel sistema detentivo devono scontare meno di 4 anni. Noi proviamo ad occuparci anche di loro, sapendo che tra il momento della commissione del reato e il momento dell’udienza per decidere la misura alternativa, possono passare molti anni, sia che a tale misura si acceda dalla libertà, sia che questo succeda dopo avere scontato una parte della condanna all’interno del carcere. Quali sono i reati commessi dalle persone inserite nei circuiti dell’esecuzione penale esterna? Si tratta di frequente di reati di contenuto allarme sociale, che hanno comunque un impatto sulla vita di una comunità: furti, furti aggravati, lesioni personali, guida in stato di ebbrezza, truffe. Vanno poi considerati i cosiddetti reati spia, dal maltrattamento al stalking. Poi fenomeni come il bullismo, il cyberbullismo, le baby gang. Infine, c’è il segmento finale di pene detentive anche lunghe vicine alla propria scadenza, per favorire - quando sia possibile - un rientro guidato e sicuro delle persone nella società libera. Che tipi di percorso vengono prospettati? Le misure extracarcerarie si basano sulla volontà della persona: vado in pena alternativa perché lo chiedo io. È l’esatto opposto di quanto avviene in cella: lì è lo scorrere del tempo a dare il peso della pena. Qui invece la persona non può aspettare che trascorra il tempo, ma deve essa stessa mettersi in gioco, mettendosi a sua volta a disposizione della comunità. È il concetto del tempo utile a richiederlo, per far maturare la consapevolezza del reato compiuto da un lato e del percorso fatto poi dall’altro. Per questo, le valutazioni si basano sui fatti. In concreto, molte migliaia di persone sono impiegate in lavori di pubblica utilità: devo riuscire a portare valore laddove prima portavo disvalore. Che umanità ha incontrato in questi anni? Si va da persone che spesso hanno storie lunghe e dolorose alle spalle, come nel caso di chi accede alla parte finale della pena fuori dalle mura del carcere, sino ad altri che entrano in contatto con il sistema penale in modo accidentale ed episodico, e che sono perfettamente inserite nel tessuto sociale, spesso con ruoli di grande competenza e professionalità. C’è il manager di multinazionali finito nei nostri percorsi per via di illegalità compiute, il professionista messo alla prova così come chi viene accusato di omicidio stradale. Ho partecipato a diversi gruppi di messa alla prova, dove le persone arrivano molto arrabbiate. Ammettere il torto è difficile e doloroso, soprattutto per chi non ha precedenti alle spalle. Servono confronti di gruppo, colloqui con gli psicologi e gli specialisti, esperienze di volontariato: tutto questo è necessario per accompagnare le persone nel recupero di una consapevolezza rispetto a ciò che è accaduto e, successivamente, nella messa a disposizione verso la comunità. L’idea stessa di giustizia di comunità si realizza sul territorio e con il territorio. La dimensione della consapevolezza si gioca non su parole ma su azioni quotidiane, è questa la cifra distintiva per abbassare il livello della diffidenza reciproca. Chi è deputato al controllo di queste persone? Il controllo sullo stato di avanzamento del programma è un controllo di tipo sociale, che si fa con le forze di polizia e insieme con un lavoro di rete: pensi ai lavori di pubblica utilità, dove si può condividere tra le parti una valutazione su ciò che si sta facendo, oppure l’affidamento ai servizi sociali, quando si va a vedere all’ora prescritta se le persone sono a casa oppure no. Poi la valutazione coinvolge gli enti stessi, dalle parrocchie alle cooperative. Esistono dei “controlli di qualità” sul concreto andamento dei percorsi rieducativi, sulle risposte e le restituzioni, in termini di partecipazione attiva e consapevole al benessere delle comunità - ad esempio in iniziative di volontariato o di cura dei beni o comuni - in questi casi gli uffici di esecuzione penale esterna cercano propriamente nelle comunità gli indicatori che denotano come un percorso si sta svolgendo, al fine di riferirne al giudice che è chiamato a decidere sulla tenuta del percorso. L’esempio degli assistenti volontari stradali, che si mettono a disposizione della sicurezza presidiando gli incroci dopo averla messa in pericolo commettendo, ad esempio, reati legati alla guida in stato di ebbrezza, può essere paradigmatico. Come si valutano i risultati di chi è stato messo alla prova? Le traiettorie di vita delle persone non sono date una volta per tutte e le modalità della risposta penale sono in costante evoluzione. Spesso bisogna avere l’onestà di dire quando non ci sono le condizioni per affrontare determinati percorsi: in quel caso, non si tratta di fallimento ma di un esame corretto della realtà. Complessivamente, il sistema di risposta penale deve mostrarsi sempre più integrato e flessibile: da un lato dobbiamo poter considerare i progressi compiuti dalle persone meritevoli, che vanno perciò avvicinate e restituite alle comunità cui appartengono, dall’altro penso che chi invece compie passi indietro meriti misure di sicurezza più incisive. incluso il carcere. In tempi in cui più di un discorso anche da parte dei leader politici è incentrato sulla logica del “mandiamoli in galera e buttiamo la chiave”, la vostra attività rischia di essere impopolare. Non crede? Viviamo in un clima di rancore, dove si contrappone l’aspetto detentivo a una visione più aperta del recupero. È inutile negarlo. Credo però che la contrapposizione tra sanzioni percepite come “dure” e sanzioni “morbide” resti in buona parte artificiosa. C’è un gran lavoro da fare, anche da parte dell’informazione, sui modelli culturali dominanti. Solo per restare al tema della violenza contro le donne, vediamo tanti ragazzi trasformare la loro insicurezza in pretesa di dominio. La giustizia di comunità ti mette a contatto con l’altro, non ti separa, evidenziando la funzione del recupero e del reinserimento. Occorre lavorare sui quartieri difficili, vincendo le paure che si sciolgono quando le persone si conoscono e iniziano a collaborare tra loro. Lo Stato deve riuscire ad accompagnare questi percorsi, uscendo da logiche spesso autoreferenziali. Giustizia e Pnrr, gli obiettivi sono ormai impossibili di Claudio Caselli* e Marco Fabri** Il Domani, 17 dicembre 2023 L’idea di usare i fondi per eliminare l’arretrato era ottima, ma non si sono risolte le criticità e ora gli obiettivi, soprattutto sul civile, sono impossibili da rispettare. L’idea di utilizzare i fondi del Pnrr per eliminare l’arretrato, vera zavorra che penalizza la giustizia italiana, e quindi ridurre drasticamente tempi e pendenze, era ottima. Vi sono però diverse criticità di cui occorre tenere conto per cercare di correggere, per quanto possibile, la rotta. Anzitutto, non si è avuta nessuna previa condivisione degli obiettivi con gli uffici giudiziari e con l’avvocatura, è mancata una efficace formazione sia dei nuovi funzionari dell’Ufficio per il processo (UPP) sia dei magistrati, per realizzare il cosiddetto lavoro in team. Non ci sono stati interventi di sostegno agli uffici in difficoltà. Il progetto soffre, di una mancanza di coinvolgimento degli attori che dovrebbero concorrere alla sua realizzazione. Non sono ancora noti i termini di rinegoziazione degli obiettivi originari con la Commissione Europea e su quali basi sono stati rideterminati, così come sono ancora piuttosto oscuri i piani di digitalizzazione e, soprattutto, i relativi tempi di realizzazione. I dati - Sulla base dei dati del giugno 2023 gli obiettivi del Pnrr relativi al Disposition Time (rapporto tra procedimenti pendenti e definiti per 365 giorni) sembrano raggiungibili, perché l’indicatore beneficia di una “compensazione” fra gli uffici a livello nazionale, che hanno prestazioni molto diverse. Nel civile si registra una riduzione del 19,2 per cento del DT, dovremmo arrivare ad un meno 40 per cento nel giugno 2026. Si può quindi essere moderatamente ottimisti, immaginando un auspicabile rush finale. Nel penale si registra una diminuzione del 29,3 per cento del DT, quindi un valore al di sopra dell’obiettivo PNRR di meno 25 per cento. I dati però devono essere letti con attenzione. Per esempio, il DT delle corti di appello in ambito penale ha avuto risultati positivi anche grazie alle sentenze di prescrizione. Ne è un esempio la Corte di appello di Napoli, con un peso sui procedimenti definiti che dal 30 per cento e arrivato al 52 per cento. Il grande problema è l’arretrato civile, che non permette “compensazioni”. Nei tribunali l’arretrato è diminuito del 19,7 per cento e nelle corti d’appello del 33,7 per cento, ma dovremmo arrivare a meno 90 per cento nel giugno 2026 e ciò appare francamente allo stato impossibile. Il Governo ne è consapevole ed è in atto un processo di rinegoziazione di questi obiettivi con la Commissione Europea. Per raggiungere gli obiettivi originali del Pnrr di riduzione dell’arretrato sarebbero servite iniziative calibrate e concentrate negli uffici che hanno l’arretrato maggiore (es. Napoli e Roma). L’investimento più cospicuo è stato la costituzione generalizzata dell’Ufficio per il processo, prevalentemente composto da giovani laureati in giurisprudenza, che dovrebbero assistere i giudici e quindi aumentarne la produttività. È una modalità di organizzazione del lavoro nuova, complessa e l’assenza di un’adeguata formazione e di un coordinamento nazionale ha portato a risultati molto differenziati. Abbastanza positivi in Cassazione ed in alcuni Tribunali, in particolare nel penale e nella protezione internazionale. Molto di meno in altri uffici. Nel frattempo, molti addetti, se ne sono andati: il 26 per cento dei primi 8233 funzionari reclutati (e soprattutto formati) si è dimesso. Che fare - Certamente per incassare le rate del Pnrr occorre ridefinire gli obiettivi relativi all’arretrato, come sembra si stia facendo, ma occorre anche altro. Serve un forte coordinamento nazionale tra Ministero, Csm, Cnf e Scuola superiore della magistratura, e un maggiore sostegno agli uffici più in difficoltà. Vanno poi date prospettive professionali agli addetti dell’UPP per disincentivarne l’esodo. È indispensabile concentrare le risorse disponibili per ridurre l’arretrato degli uffici più in sofferenza, pensando anche all’impiego di magistrati, notai o avvocati in pensione. Occorre anche sospendere le modifiche che rivoluzionerebbero gli uffici, quale il nuovo Tribunale unico per le persone, i minorenni e le famiglie ed il Gip collegiale. Gli sforzi devono essere mirati, con azioni concrete, di impatto, soprattutto sulla riduzione dell’arretrato utilizzando le iniziative, e ce ne sono, intraprese dai tribunali o dalle corti di appello che hanno dato buoni risultati. Certamente è fondamentale raggiungere gli obiettivi Pnrr, senza però dimenticare che i problemi di eccessiva durata dei procedimenti, e quindi dell’arretrato, richiedono interventi ponderati, strutturali, non caratterizzati da reclutamenti temporanei o da soluzioni estemporanee. *Presidente della Corte d’appello di Brescia **Dirigente di ricerca del Cnr Il giudice Nicolò Zanon lascia la Consulta e rivela i segreti delle Camere di consiglio di Liana Milella La Repubblica, 17 dicembre 2023 L’ex vice presidente, in podcast e interviste, contesta le decisioni su Regeni, Cappato e Ferri. Ma guarda un po’! In questa storia il punto esclamativo ci vuole proprio. Perché il giudice, ormai ex costituzionale, Nicolò Zanon, scelto da Napolitano per la Corte nel 2014, è stato il più severo sacerdote del segreto delle camere di consiglio. Pronto a protestare anche per la più minuscola divulgazione, del tipo, per decisioni sofferte, quanti colleghi si erano schierati per una tesi e quanti per l’altra. Un censore insistente. E un lettore permaloso di qualunque scritto, sempre con l’idea che dietro un aggettivo si potesse nascondere chissà quale strategia. Accadde il putiferio quando proprio lui finì indagato dalla procura di Roma perché la sua consorte usava l’auto dell’ufficio. Tutto fu archiviato, ma la vicenda - evidentemente - lasciò in lui la diffidenza verso la stampa. Costume assai diffuso nel centrodestra. E che Zanon appartenga a quell’area è per tabulas, visto che prima della Consulta fu il Pdl, il Partito delle libertà di Silvio Berlusconi, ad eleggerlo al Csm nel 2010. E il Cavaliere l’aveva scelto anche come uno dei giuristi che, nell’autunno 2013, sostennero la tesi che la legge Severino del 2012 non si potesse applicare a lui per un reato, la frode fiscale, commesso anni prima. Se questo è l’uomo veniamo a oggi. L’11 novembre lascia la Corte e la vice presidenza. E si lascia anche il segreto alle spalle. Il segreto è d’oro in una Corte dove non esiste la dissenting opinion, per cui il giudice che non condivide la decisione della maggioranza non può mettere a verbale qual è la sua tesi, che cosa pensa, perché non è d’accordo. Il dissenso, le versioni contrastanti, la stessa discussione che porta alla decisione, restano chiuse nella camera di consiglio. Ovviamente può accadere che qualche indiscrezione trapeli. Ma proprio Zanon diventa il censore più rigido delle fughe di notizie. Che accade invece quando il costituzionalista si spoglia della sua veste di giudice? La sua bocca si apre. In almeno tre casi lui consegna ai giornali, sempre di destra per restare coerente, e nell’ultimo caso a un pubblico dibattito, le sue rivelazioni sulle discussioni segrete avvenute alla Corte. Partiamo dall’ultimo caso. A Milano viene presentato il libro “La gogna. Hotel Champagne la notte della giustizia italiana” dell’ex direttore del Mattino Alessandro Barbano. E cosa dice il nostro Zanon che è tra i relatori? Fa una “rivelazione clamorosa”, come scrive Simona Musco del quotidiano Il Dubbio: “Zanon racconta per averla vissuta la spaccatura della Consulta in una camera di consiglio che di fatto schiacciò i principi costituzionali in nome di una logica corporativa. Una scelta che suscitò l’indignazione del relatore Franco Modugno che si rifiutò di sovvertire i principi costituzionali e di scrivere una sentenza diametralmente opposta a quella redatta, poco prima, nel caso che riguardava Matteo Renzi”. Giusto per spirito cronistico, merita ricordare che in una nota ufficiale emessa dall’ufficio stampa della Corte, fu bollata come “un’illazione” - parola decisamente offensiva - un’indiscrezione pubblicata da Repubblica sul possibile esito delle due vicende, quella di Ferri e quella di Renzi. Ma non c’è solo questo episodio nelle improvvise rivelazioni che Zanon consegna ai giornali. Ancora prima di lasciare la Corte, l’11 ottobre ecco un lungo articolo della Verità in cui si dà conto di un podcast dello stesso Zanon in cui, sulla sentenza Cappato, si sostiene che fu “una soluzione che nella Carta non c’è”. Meritano di essere citati i due sommari. Il primo recita: “I giudici fanno dire alle disposizioni ciò che esse non dicono”. Il secondo: “Il punto è chi decide? C’è una giuristocrazia che non apprezzo”. Non c’è due senza tre. Il 13 novembre, quando Zanon è ormai un ex vice presidente della Corte, consegna al quotidiano Libero un’intervista titolata “Migranti e Regeni, vi racconto i duelli dentro la Consulta”. Invitando la Corte ad adottare la dissenting opinion. Nel primo caso, rivela la sua contrarietà su una decisione che, sono parole sue, “ha dichiarato incostituzionale questo cosiddetto ‘automatismo ostativo’ in nome delle ragioni dell’accoglienza e dell’integrazione”. In precedenza, secondo Zanon, la Corte aveva deciso in altro modo. Il secondo caso è assai rilevante perché riguarda la dolorosa vicenda Regeni. E qui Zanon svela di non essere stato d’accordo con il sostanziale via libera al processo con la decisione sulla notifica agli imputati. Inevitabile porsi alcuni interrogativi. È corretto restare nove anni alla Consulta pur tenendo dentro un simile magone, oppure sarebbe stato più coerente dimettersi? Ed è corretto, dopo aver tolto la toga, rivelare i segreti delle camere di consiglio? E infine, come si concilia l’attuale posizione aperturista di Zanon verso la dissenting opinion con la severità verso le indiscrezioni giornalistiche? Qualcosa non torna in questa storia. Soprattutto perché se tutti i giudici costituzionali, dopo aver sottoscritto le decisioni, lasciano la Corte e le criticano svelando i contrasti, di fatto incrinano, per non dire compromettono, l’autorevolezza e il prestigio della Corte stessa. E questo si risolve in un danno per il giudice delle leggi giusto alla vigilia di modifiche costituzionali promosse dall’attuale maggioranza. È solo una coincidenza se lo stesso Zanon, nell’intervista a Libero, racconta di quando, all’età di 14 anni, “aderì al Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile missina, sull’onda dell’emozione per l’omicidio di Sergio Ramelli”? “Vivevo a Biella” aggiunge. Giusto la città dove il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove ha fatto politica. La Corte dei Conti: “Processo durato 18 anni, i giudici risarciscano lo Stato per i tempi illogici” di Marco Preve La Repubblica, 17 dicembre 2023 Il procedimento era iniziato nel 1985 e i due cittadini coinvolti avevano ottenuto l’indennizzo previsto dalla legge Pinto. Le due toghe, con il rito abbreviato, hanno pagato il 50% di quanto chiesto dal pm. Due magistrati genovesi sono stati chiamati a risarcire lo Stato che, a causa della loro negligenza, dovette versare a due cittadini un indennizzo in quanto vittime di un processo che si trascinò irragionevolmente oltre i limiti fissati dalla legge Pinto del 2001, quella che stabilisce appunto i principi “di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo”. È un caso piuttosto raro quello trattato dal processo per danno erariale dalla Corte dei Conti della Liguria. Il tema della responsabilità civile dei magistrati e della durata dei processi, infatti, è da anni al centro di un dibattito che si fa assai spesso calderone, contenitore ribollente in cui si mescolano osservazioni critiche ragionate, strumentalizzazioni politiche, interessi di parte, fake news, sensazionalismo della peggior specie. La sentenza della Corte dei Conti riguarda due magistrati, Riccardo Realini e Giulio Gaetano De Gregorio, e un processo andato a sentenza a Genova nel 2003 ma iniziato addirittura 18 anni prima, nel 1985. Certo non si può non rimarcare come anche il riconoscimento della negligenza dei giudici non sia stato particolarmente rapido, visto che solo nel 2014 la Corte di Appello di Torino ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento di 22mila euro ciascuno alle due persone vittime di “prolungata giustizia”, mentre ci sono voluti altri dieci anni per arrivare al 15 dicembre 2023 con la sentenza contabile, di cui appunto riferiamo, per danno erariale. A dare un’idea del tempo trascorso, anzi delle epoche, basti il fatto che i due magistrati sono stati citati per il loro ruolo di “giudici istruttori” figura poi soppressa con la riforma del codice di procedura penale del 1989. Entrambi, spiegano in sentenza i giudici contabili del collegio (la presidente Emma Rosati e con lei i colleghi Alessandro Benigni e Adriana Del Pozzo) sono finiti nei guai “in relazione ad un caso di accertata irragionevole durata del processo… ritenendo i medesimi responsabili, a titolo di colpa grave, del danno inferto al Ministero della Giustizia, destinatario di un’ingiunzione di pagamento a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale da eccessiva durata processuale”. Secondo quanto stabilito dalla Corte di Appello di Torino, quando condannò il Ministero a risarcire i due cittadini vittime del processo iperdilatato, emergerebbe “un’anomala durata del processo a causa del comportamento “del giudice durante il procedimento” oltre che delle parti e dei “… lunghi rinvii tra un’udienza e l’altra”. Nei confronti di Realini, De Gregorio e di un geometra - che è stato assolto da ogni responsabilità dalla Corte - che ricopriva il ruolo di consulente tecnico d’ufficio, la procura contabile aveva chiesto un risarcimento complessivo per 17mila e 300 euro. La sentenza distingue molto nitidamente il livello di responsabilità fra i due imputati: “Realini, magistrato assegnatario del giudizio dal 1985 al 1996, e De Gregorio, investito dell’ufficio nell’anno 2000, avrebbero gestito il giudizio di primo grado, ciascuno per la frazione oggetto di trattazione, con palese ed inescusabile ritardo… la cui durata supera i 18 anni, così determinandosi un ritardo di oltre 13 anni… connotata da “numerosissimi” rinvii delle udienze che sarebbero immotivati e pressoché privi di attività processuale, spesso con tempi che sarebbero “dilatati ed illogici”“. Sia Realini che De Gregorio hanno preferito non affrontare la sentenza bensì aderire al giudizio abbreviato che nella giurisdizione contabile equivale ad uno sconto rispetto alla richiesta della procura. Realini ha così deciso di pagare 5 mila euro, ossia il 45% del danno (superiore visto che era stato titolare del fascicolo per 11 anni, ndr) che gli era stato contestato, mentre De Gregorio verserà 625 euro, ossia il 50% di quanto chiesto dall’accusa. Caso chiuso, salvo l’accertamento dei versamenti dichiarati dai due imputati, fissato dalla Corte per il 18 aprile del 2024. Adr, stop del giudice: “Costi troppo elevati” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 17 dicembre 2023 L’ordinanza del tribunale di Verona sulle nuove disposizioni introdotte con la riforma Cartabia: l’importo speso per la mediazione obbligatoria viola il principio della tutela giurisdizionale. Incredibile colpo di scena a Verona: un giudice ha emesso un’ordinanza contro le disposizioni deflattive riguardanti le Alternative Dispute Resolution (ADR) introdotte dalla Riforma Cartabia. Questa decisione si basa sull’assunto che i costi elevati violino i principi fondamentali europei in materia di giustizia effettiva. Dopo le modifiche apportate dalla Riforma Cartabia, il Tribunale ha rilevato un aumento significativo dei costi per la mediazione che si interrompe al primo incontro, passando da un minimo di 364 euro per le controversie di valore più basso a un massimo di 1.596 euro per quelle di valore più elevato. Secondo il Tribunale, questi costi non sono in linea con il principio della tutela giurisdizionale effettiva, sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La questione affrontata nell’ordinanza coinvolge una controversia tra un ex cliente e il suo avvocato riguardante responsabilità professionale e inadempienza del contratto di prestazione d’opera professionale. Nonostante l’ex cliente sostenesse che la materia non richiedesse la mediazione obbligatoria, il Tribunale ha interpretato diversamente, includendo questa controversia tra quelle soggette alla mediazione obbligatoria. Tuttavia, sorgono dubbi sull’interpretazione della norma, in quanto il concetto di “contratto d’opera” è regolamentato in modo differente rispetto alla “prestazione di opera intellettuale”, sollevando incertezze sull’effettiva inclusione di queste dispute nella mediazione obbligatoria. Nonostante riconosca l’importanza della mediazione obbligatoria, il Tribunale di Verona ha deciso di disapplicare la legge, ritenendola in contrasto con i principi europei sulla giustizia effettiva, specialmente dopo l’aumento dei costi introdotto da un recente decreto ministeriale. Il Tribunale si è basato sui principi stabiliti dalla Corte di Giustizia europea, affermando che la norma nazionale sulla mediazione obbligatoria non rispetta il requisito che le spese siano proporzionate alle parti coinvolte. Tuttavia, questa decisione presenta un aspetto controverso: la discrezionalità concessa al singolo giudice nella valutazione dei costi “significativi” potrebbe portare a valutazioni soggettive, rischiando di eludere la procedura stabilita e di limitare le opportunità offerte dalla mediazione. Inoltre, sembra che non sia stata considerata adeguatamente la serie di incentivi economici previsti dal legislatore per bilanciare i costi della mediazione, come la riduzione dei costi in casi obbligatori o la possibilità di assistenza legale a spese dello Stato per coloro che sono meno abbienti. Veneto. Il Sottosegretario Ostellari: “Serve più lavoro per i detenuti” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 17 dicembre 2023 Giusto da un anno il padovano Andrea Ostellari è Sottosegretario alla Giustizia con delega all’Amministrazione penitenziaria. Una realtà complessa anche in Veneto, che secondo i dati aggiornati a questa settimana, accoglie 2.582 dei 60.221 detenuti attualmente presenti in Italia, per la maggior parte uomini (2.466 a fronte di 116 donne) e per poco più della metà stranieri (1.325 a cospetto di 1.257 italiani), nel complesso 95 in più di dodici mesi fa e 635 in più della capienza regolamentare. “Nelle carceri voglio riportare di moda le regole e il rispetto verso gli altri”, dice l’esponente della Lega. È cambiato qualcosa con la circolare sul trasferimento fuori regione dei reclusi violenti? “Fino a ottobre il sistema prevedeva una serie di sanzioni disciplinari, adottate dal direttore dell’istituto a seguito delle relazioni scritte dalla polizia penitenziaria e dall’équipe trattamentale. A queste poteva aggiungersi il trasferimento dei detenuti, quasi sempre all’interno della medesima regione. Così spesso andava a finire che le aggressioni venivano perpetrate al solo scopo di essere spostati nel penitenziario ritenuto più comodo, sottraendosi volutamente allo scopo rieducativo della pena. Chi compie questi atti va responsabilizzato e messo nelle condizioni di non nuocere: a livello nazionale nell’intero 2022 i trasferimenti fuori regione erano stati solo 28. Ora, nei due mesi di applicazione della nuova circolare, ne abbiamo già allontanati 26”. Ma le aggressioni sono calate? “L’effetto deterrente è dimostrato anche dai risultati dell’altra circolare che abbiamo voluto applicare, quella sulla permanenza in cella dei detenuti, quando non siano impegnati in attività trattamentali: ora non stazionano più nei grandi corridoi, chiamati “sezioni”, in cui si ritrovavano anche in 50, dove avvenivano bivacchi e sopraffazioni. Questo ha riportato regole e maggiore armonia, oltre alla valorizzazione del percorso riabilitativo. Contiamo di raggiungere il 100% dell’applicazione a livello nazionale per fine gennaio, ma in questi tre mesi abbiamo già registrato una diminuzione del 30% delle violenze ai danni di detenuti e agenti”. Il sovraffollamento resta però molto elevato. In Italia i detenuti effettivi sono 8.950 in più di quelli teoricamente ospitabili. E in Veneto i tassi di presenza, secondo l’ultima relazione del Garante, arrivano al 156% di Treviso e al 157% di Verona... “I numeri sono in aumento. Questo significa che il sistema-giustizia funziona: i reati vengono perseguiti. Il sovraffollamento è un problema, ma la soluzione non sta nei provvedimenti svuota-carceri che chiede la sinistra, perché rimettere in libertà persone che non si sono affrancate significa tornare ad alimentare la criminalità. Per risolverlo, stiamo investendo su due fronti. Il primo è la ristrutturazione degli edifici parzialmente chiusi, con progetti di ampliamento e ammodernamento per 166 milioni, sbloccati dal ministero delle Infrastrutture. Il secondo è fare vera rieducazione, attraverso attività di formazione e lavoro in carcere. Il 98% di chi studia o lavora, non commette più reati. Invece il 70% di chi non partecipa alle attività, aggredisce dentro e delinque fuori. Ciò dimostra che più rieducazione oggi significa meno crimini domani”. Iniziative concrete al riguardo? “Stiamo lavorando con il Cnel, ma stiamo anche parlando con Confindustria Veneto Est, per coinvolgere le associazioni di categoria, dal terzo settore alle aziende private, che a loro volta avrebbero il vantaggio di qualificare il loro bilancio sociale. In Italia lavorano solo 19.000 detenuti, di cui 16.000 alle dipendenze del Dap, quindi dello Stato, e 3.000 per soggetti privati. Vogliamo incrementare quest’ultima categoria, perché nel confronto con le regole del mercato la rieducazione e l’avviamento professionale sono più efficaci. I modelli a cui ispirarsi sono molti, penso al Due Palazzi di Padova, con la Pasticceria e la Cooperativa Giotto e alla Dozza di Bologna, con la sua officina dentro l’istituto di pena”. Fra i tanti problemi, spicca il caso di Montorio Veronese: tre suicidi in un mese, cinque dei sei ufficialmente conteggiati in Veneto negli ultimi due anni. Cosa risponde all’appello dei reclusi e delle associazioni? “In passato la politica ha sottovalutato questi numeri, noi non vogliamo farlo. Presto, già dopo le feste, tornerò in quella casa circondariale perché c’è la necessità di coordinare un progetto complessivo, che prenda spunto da esempi come quello di Padova. Ben venga il tavolo convocato dal Comune, ma serve una cabina di regia, diretta dall’Amministrazione penitenziaria, che metta insieme tutti. Un carcere che soffre è un carcere che fa soffrire, sia chi è detenuto, sia chi ci lavora”. “Sbarre di zucchero” ha chiesto di ripristinare la telefonata quotidiana dei detenuti. Pensa che sarà possibile? “Quello strumento era stato introdotto con il Covid, dopodiché l’emergenza sanitaria è stata superata ed è tornata in vigore la vecchia disciplina, con una chiamata alla settimana in regime ordinario. Ora dobbiamo trovare il veicolo normativo adeguato a modificare il decreto del presidente della Repubblica, ma intendiamo consentire ai direttori di concedere un numero maggiore di telefonate rispetto a quattro al mese, ovviamente sulla base delle valutazioni sulle singole persone”. Un’ultima domanda sugli istituti penali per minorenni. Il 2023 è stato l’anno della riapertura di Treviso dopo l’incendio, il 2024 sarà quello dell’inaugurazione di Rovigo? “Sì: a Rovigo ci saranno 50 posti e attività trattamentali all’avanguardia. Questo ci permetterà di ridurre la pressione su Treviso (dove attualmente il tasso di affollamento è al 150%, ndr.). Ma la nostra intenzione è anche di attivare delle comunità educative: l’aumento spaventoso dei reati commessi da baby gang ci dicono che i ragazzi hanno bisogno di spazi, più che di celle, come pure di regole chiare e di strumenti nuovi per farle applicare. Molti di questi sono stati inseriti dalla Lega nel ddl Caivano”. Oristano. Stefano Dal Corso morto in cella, spunta un supertestimone di Andrea Ossino La Repubblica, 17 dicembre 2023 “Pestato e ucciso, aveva visto un rapporto sessuale in carcere”. “Hanno modificato le relazioni, hanno cambiato medico legale, lo hanno vestito con indumenti della Caritas e hanno fatto sparire quelli sporchi di sangue con le prove e le impronte”: ecco la nuova ricostruzione che potrebbe stravolgere il caso del detenuto romano, deceduto il 12 ottobre del 2022 nel penitenziario di Oristano. “Gli ha rotto l’osso del collo con una spranga e due colpi di manganello”. Il supertestimone è sbucato dal nulla. Prima una mail, poi alcune telefonate. Ha una voce roca, dice di essere un “ufficiale esterno della Polizia penitenziaria” e di avere video e prove in grado di dimostrare che Stefano Dal Corso è stato ucciso. Le sue parole, adesso al vaglio dei magistrati, potrebbero stravolgere il caso del detenuto romano morto il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano. Lui è convinto di avere in mano “una bomba atomica” pronta ad abbattersi sul penitenziario e su diverse istituzioni. Intanto però la procura per la settima volta ha rigettato la richiesta di autopsia: non ci sono indagati quindi l’incidente probatorio è meglio evitarlo. Il ministro della Giustizia invece ha detto che “non si evidenzia alcuna anomalia” sul caso Dal Corso, lasciandosi scappare tuttavia un fatto inquietante: nella risposta all’interrogazione parlamentare parla dei “decessi dei due detenuti”, dunque di un secondo carcerato morto nel carcere di Oristano. Adesso tutto potrebbe cambiare. Dopo testimonianze contrastanti, rivelazioni, prove mai mostrate, perizie che pongono dubbi sul suicidio, guasti alle telecamere e libri inviati anonimamente con all’interno messaggi nascosti, c’è un supertestimone. Dice di essere stato minacciato. Sembra terrorizzato. O forse è tutta una messa in scena. Ha contattato l’avvocato che assiste la famiglia, Armida Decina. Poi ha parlato con Marisa Dal Corso, la sorella della vittima. Le ha detto che Stefano non si sarebbe impiccato alle sbarre della cella con un lenzuolo. “Hanno modificato le relazioni, hanno cambiato medico legale, hanno vestito tuo fratello con indumenti messi a disposizione della Caritas e hanno fatto sparire quelli sporchi di sangue con le prove e le impronte”, dice. Poi sostiene di essere in possesso dei vestiti realmente indossati dalla vittima e anche di un video che immortala il massacro. “Stefano - racconta - era al posto sbagliato nel momento sbagliato. Tutto è partito per una cosa minima, per darle una lezione ma è degenerata”. La vittima avrebbe visto qualcosa che non doveva: “Ha aperto la porta dell’infermeria e ha assistito a un rapporto sessuale tra due operatori del carcere. È stato cacciato via e ha fatto ritorno nella sua cella”. Poi “schiaffi, calci, pugni”, prosegue la narrazione che termina con la morte di Stefano e con il tentativo di coprire l’omicidio. Il resoconto è lungo, a tratti surreale, poi dettagliato. Pieno di particolari che solo una persona ben informata potrebbe sapere. Reale o meno una cosa è certa: intorno al caso Dal Corso gravitano circostanze macabre e anomale. Episodi che potrebbero essere chiariti con un esame. Ma questa autopsia non s’ha da fare. “La procura accerterà la veridicità o meno di quanto dichiarato. Ma tutto ciò spero possa porre un dubbio che porti ad effettuare l’autopsia” dice l’avvocato Decina. Torino. “Al Lorusso e Cutugno la situazione è esplosiva” di Massimo Massenzio Corriere Torino, 17 dicembre 2023 “La situazione negli istituti penitenziari piemontesi è critica, ma continuare a evidenziare solo le difficoltà relative alla sicurezza non risolve il problema e fornisce una visione assolutamente parziale”. A una settimana dall’inizio delle vacanze natalizie, uno dei periodi più difficili per la popolazione del carcere, il garante Bruno Mellano lancia un appello: “Dobbiamo affrontare la delicata questione delle carceri con la necessaria serenità. È quello che serve in questo momento”. A una settimana dall’inizio delle vacanze natalizie, uno dei periodi più difficili per la popolazione del carcere, le aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria piemontese sono in continuo aumento, ma Bruno Mellano lancia un appello: “Dobbiamo affrontare la delicata questione delle carceri con la necessaria serenità. È quello che serve in questo momento”. I report diffusi quasi quotidianamente dai sindacati di polizia penitenziaria, però, assomigliano sempre di più a bollettini di guerra. Occhi pesti, nasi fratturati, pentole di olio bollente usate come armi improprie assieme alle lamette da barba incollate alle dita delle mani. Senza contare che all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino si sono verificate 49 aggressioni nel 2023, 2 in più di quelle registrate in tutto lo scorso anno. L’ultimo episodio risale a venerdì pomeriggio e ha visto protagonisti due detenuti che hanno spintonato e picchiato due agenti con le gambe di un tavolo che nel frattempo avevano rovesciato e distrutto. Situazione esplosiva anche nel carcere di Ivrea, dove un 32enne, già segnalato per problemi psichiatrici, ha minacciato gli agenti con lamette da barba fissate alle dita con nastro adesivo. L’uomo si è poi spogliato e cosparso con un unguento per sfuggire alla presa del personale, minacciato con una miscela di olio bollente e zucchero preparata in una pentola. E infine ha colpito un altro detenuto con un pugnale rudimentale, prima di ingoiare alcune batterie ed essere ricoverato in ospedale. Non va meglio neppure nel penitenziario di Alba, dove martedì scorso un detenuto si è scagliato contro un agente colpendolo ripetutamente con pugni al volto. In suo soccorso sono intervenuti altri due colleghi e per tutti e tre è stato necessario il trasporto al pronto soccorso Mellano insiste sulla necessità di una visione complessiva della vita carceraria, soprattutto con il Natale alle porte: “Sappiamo che il periodo delle festività natalizie rappresenta il periodo più critico assieme a quello delle vacanze estive. Gli organici, già carenti, diminuiscono a causa delle ferie, mentre aumenta il rischio di suicidi in cella. Per questo l’amministrazione penitenziaria ha istituito un corso di formazione e prevenzione per 100 operatori di Piemonte e Liguria che si è appena concluso al Campus Einaudi”. Le aggressioni ai poliziotti restano un problema innegabile: “Ma oltre alla sicurezza serve altro - conclude il garante -. Progetti, mediatori, corsi di formazione, avviamento al lavoro e assistenza psicologica. I detenuti hanno bisogno di poter guardare al futuro fuori dalla cella. E non a caso il numero maggiore di suicidi avviene all’inizio della detenzione o in prossimità dell’uscita. Spero davvero in un confronto sereno soprattutto su questi temi. In un carcere dove i detenuti sono seguiti e impegnati anche le aggressioni diminuirebbero”. Bolzano. Nuovo carcere, Verdi e Pd attaccano la Provincia: “Progetto dimenticato” di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 17 dicembre 2023 Il centrosinistra in via Dante: “Struttura fatiscente”. Kompatscher: attendiamo risposte da Roma. Una delegazione di consiglieri regionali ha fatto visita al carcere di Bolzano, denunciando le carenze di un edificio che dovrebbe essere abbandonato in favore di un nuovo istituto: “Una struttura fatiscente, con un livello igienico tremendo” dicono i consiglieri. Per il nuovo carcere servono fondi statali, ma da Roma si muove poco, il progetto sembra dimenticato in un cassetto. “Il governo sta ancora facendo le sue valutazioni” fa sapere il presidente Arno Kompatscher. La visita di ieri mattina di una delegazione di consiglieri regionali è l’occasione per fare nuovamente luce sulle condizioni del carcere di Bolzano in via Dante. Per la prima volta dall’inizio della nuova legislatura, i consiglieri trentini e altoatesini insieme hanno potuto guardare con i loro occhi lo stato delle cose: “Abbiamo visto ancora una struttura fatiscente, con un livello igienico tremendo” è il commento a caldo. La delegazione era composta da Brigitte Foppa, Madeleine Rohrer, Zeno Oberkofler (Verdi), Sandro Repetto (PD), Francesco Valduga (Campobase) e Paola Demagri (Movimento Casa Autonomia), accompagnati dall’avvocato Fabio Valcanover. Come sempre, meglio partire dai numeri: l’istituto penitenziario è pensato per ospitare 88 detenuti, e al momento ce ne sono 114; per quanto riguarda il personale, dei 75 posti previsti ne sono occupati solo 53, con conseguente carico di straordinari mensili. Nel racconto dei consiglieri, questi dati si traducono in una situazione “drammatica: lo stato in cui versano le celle supera ogni immaginazione. In genere ci sono 4 detenuti in brandine piccole; l’angolo del gabinetto è anche l’angolo cucina. È impossibile avere un po’ di intimità o farsi una doccia in condizioni normali”. Ma, condizioni a parte, sono le prospettive che spaventano: in primavera infatti dovrebbero essere avviati una serie di interventi di risanamento, tra cui il rifacimento del tetto e della facciata. Un segno, secondo i consiglieri in visita, del fatto che di un progetto per il nuovo carcere non c’è neanche l’ombra: “Ci pare ovvio che i lavori per il nuovo carcere non sono in vista. Sarà quindi importantissimo avviare dei lavori seri di risanamento e ristrutturazione sul carcere esistente. In merito a questo faremo delle richieste politiche in tal senso”. Una prima risposta arriva direttamente dal presidente Arno Kompatscher, che aveva accompagnato personalmente qui nel giugno 2022 l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia: “Il governo sta ancora facendo le sue valutazioni. Dal Ministero ci é stato anticipato che entro breve dovrebbero prendere la decisione se andare avanti con il progetto o se intraprendere un’altra strada”. Servirebbero un centinaio di milioni per il nuovo carcere, ma a questo punto tutto pare ancora in alto mare. “Comunque - assicura il presidente - i lavori di ristrutturazione non precludono alcun iter”. Oltre alla sede però ci sono altre questioni aperte, come l’istituzione di un provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria, visto che al momento Trento e Bolzano sono insieme a Veneto e Friuli. Il Consiglio regionale aveva approvato una mozione nel 2018 a prima firma Riccardo Dello Sbarba (Verdi), ma ancora senza esito. In più, mancano ancora le figure del garante dei detenuti, sia a livello comunale (la nomina di Elena Dondio era stata revocata dal sindaco Renzo Caramaschi lo scorso giugno) che provinciale. Se aggiungiamo che a Trento quattro giorni fa è morta una donna (l’ipotesi è un suicidio ma c’è un’inchiesta aperta), si teme per situazioni analoghe anche a Bolzano: “Al momento però non si segnalano casi di aggressioni o autolesionismo. Diciamo che a livello umano il personale riesce a compensare le carenze strutturali” assicurano i consiglieri. Sabato prossimo Foppa, Rohrer, Oberkofler, Repetto, Valduga e Demagri visiteranno il carcere di Trento. Prato. Dal carcere alla magia del restauro: l’arte diventa occasione di riscatto sociale di Silvia Bini La Nazione, 17 dicembre 2023 Piacenti assume cinque detenuti. L’azienda pratese, una delle più note a livello internazionale, aderisce al progetto “Seconda Chance”. I 5 detenuti arrivano da Pianosa, Gorgona e Dogaia. “Non sono più gli stessi del passato: meritano questa possibilità”. L’arte come forma di riscatto. Arte come integrazione. Arte come opportunità. Sono innumerevoli le declinazioni per il progetto sociale che ha per protagonisti cinque detenuti che sono stati assunti dalla Piacenti Spa. L’azienda pratese, che ha all’attivo importanti interventi in Italia e all’estero tra cui il restauro della Chiesa della Natività a Betlemme, ha aderito al progetto di ‘Seconda Chancè, l’associazione impegnata nella promozione del lavoro dei detenuti partner di Ance Toscana e l’associazione delle imprese edili di Confindustria a cui Piacenti aderisce. I nuovi assunti sono due detenuti dell’isola-carcere di Pianosa, dove Piacenti sta conducendo ricerche archeologiche ed interventi nell’area in cui sorgevano le terme di Agrippa; un detenuto della colonia agricola di Gorgona e due della Dogaia, che lavoreranno ai restauri in corso nel laboratorio di Piacenti. Le assunzioni sono state decise dall’azienda dopo aver selezionato, d’intesa con le direzioni dei tre diversi carceri, i candidati in base alle loro esperienze, aspirazioni, il percorso svolto durante la detenzione e la possibilità di applicare loro i benefici previsti per essere ammessi al lavoro esterno. Quella di Piacenti Spa è, per consistenza una delle maggiori assunzioni di più detenuti contemporaneamente avvenute in Toscana, peraltro in un settore importante e delicato dell’edilizia come quello dei restauri di beni culturali. “Da alcuni anni - dice Giammarco Piacenti, presidente di Piacenti Spa - abbiamo iniziato un percorso di attenzione alle problematiche sociali e ambientali fino a redigere internamente il bilancio di sostenibilità nel 2022. Crediamo che un’impresa abbia la possibilità di fare qualcosa di utile per il proprio territorio oltre che dare lavoro. Abbiamo accolto queste persone perché condividiamo i principi di un progetto che offre davvero una seconda possibilità a coloro i quali, dopo aver espiato gran parte della loro pena, non sono più gli stessi del passato”. A tutti i nuovi dipendenti viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro del settore edile. “Accogliamo con soddisfazione - sono le parole del vicepresidente di Ance Toscana Vincenzo Di Nardo - l’assunzione dei cinque detenuti da parte della Piacenti, un’iniziativa voluta da Ance Toscana in partnership con Seconda Chance per dare risposte concrete alle imprese e, al contempo, offrire ai detenuti toscani un percorso di reinserimento lavorativo e sociale al termine della detenzione. È un’esperienza innovativa, un modello che auspichiamo possa essere replicato”. In particolare Ance Toscana ha sottoscritto alcuni mesi fa un protocollo di intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria proprio nel campo della formazione e dell’inclusione al lavoro dei detenuti. Non solo: Piacenti ha firmato uno specifico accordo di collaborazione con ‘Seconda Chancè per sviluppare insieme le iniziative di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti. Venezia. La strage silenziosa dei clochard: quattro morti in strada in 15 giorni di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 17 dicembre 2023 L’ultima persona l’hanno trovata morta nel parcheggio di un’azienda dismessa, vicino al sottopasso di via Giustizia a Mestre, giovedì. Verso le 19, non molto distante dalla stazione in via Trento, la polizia ferroviaria ha scoperto a salma di una quarantenne, il quarto senzatetto recuperato privo di vita in strada negli ultimi quindici giorni. Se non è un’emergenza, di sicuro fa pensare. Delle altre tre vittime, una sola non era nota ai servizi sociali del Comune: si tratta del giovane trovato il primo dicembre in via Filiasi, adagiato su una panchina e con segni di ecchimosi e ferite sul corpo che la procura sta approfondendo. Sotto il cavalcavia di Marghera, in via della Pila, il 5 dicembre è morto all’aperto un romeno di cinquant’anni. Non era solito chiedere un riparo, ma era tra i frequentatori delle mense. Molto cagionevole di salute e spesso ricoverato, alla fine le sue condizioni sono peggiorate e la morte è arrivata per il suo stato di fragilità. Giovedì i senzatetto ritrovati quando era troppo tardi sono stati due. Al mattino un polacco di 39 anni a San Giuliano, galleggiante in una canaletta: più volte agganciato dai servizi di strada non aveva mai voluto un posto al caldo. La sera la quarantenne, di origini ungheresi, che era seguita e accolta già da qualche anno dal Comune. Arrivava spesso allo stop&go per trascorrere la notte e gli operatori la conoscevano bene. Come possa essere rimasta addirittura più giorni per strada, senza vita, lo stabiliranno gli esami sulla salma recuperata, in parte in stato di decomposizione. Da quanto si è appreso faceva uso di sostanze; appare improbabile che il decesso sia legato all’intervento di terzi. Quattro morti ravvicinate, storie diverse che hanno in comune marginalità e dipendenze. “Sta cambiando il profilo dei clochard - commenta l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini - Non si tratta più di una scelta “romantica”, spesso dietro c’è un disagio psichico-mentale che porta anche a rifiutare il sostegno. È un tema su cui mi sono confrontato con gli assessori degli altri capoluoghi veneti e che deve essere affrontato insieme all’Usl e al legislatore”. Sono 24 le persone “recuperate” dalla strada attraverso i servizi sociali del Comune nell’ultimo triennio. Tutte hanno ottenuto autonomia abitativa, spiega Venturini: “I senzatetto non sono aumentati, sono circa un centinaio. È più complessa la loro gestione”, sottolinea. Il Comune mette a disposizione 36 posti nella Casa dell’ospitalità, che possono crescere fino a 45, e 15 sono quelli del centro di via Giustizia. Ci sono i servizi per le emergenze, garantiti assieme alla polizia locale, e quelli di strada h24. Con il piano freddo per chi non vuole un letto vengono date coperte e sacchi a pelo. “Il Comune con il progetto Oculus sgombera uno stabile abbandonato alla volta dove dei malcapitati hanno trovato riparo - commenta il consigliere comunale Pd, Paolo Ticozzi - Così non si affrontano queste situazioni, si spostano solo i problemi. Dove vanno poi le persone sgomberate?”. Trieste. Incontro per dialogare sulla “Prigione come luogo di cura?” al Circolo della Stampa ilfriuliveneziagiulia.it, 17 dicembre 2023 Incontro pubblico, martedì 19 dicembre alle ore 17.30 al Circolo della Stampa di Trieste, promosso dall’associazione Conferenza per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia, dove dialogheranno Giovanna Del Giudice - presidente di Copersamm; Valeria Verdolini - ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Presidente di Antigone Lombardia e Luca Sterchele - dottorando in Scienze sociali presso l’Università degli Studi di Padova, membro dell’Associazione Antigone. L’Associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. “Sta diventando un carcere di matti”. A dircelo, appena varcata la soglia della ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale) è un ispettore di polizia penitenziaria con tanti anni di servizio alle spalle. Con parole diverse, ma dallo stesso significato, ce lo hanno ripetuto in tanti in questi mesi, nelle molte visite fatte da Antigone nelle carceri del Paese. Poco cambia se si tratti di un grande carcere metropolitano o di una piccola struttura in provincia. In Sicilia o in Trentino. La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate. Inizia così l’approfondimento “Carcere e salute mentale” curato da Michele Miravalle nel 19° Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, dove leggiamo che secondo i dati del Garante nazionale delle Persone private della libertà nel 2022 erano 247, 232 uomini e 15 donne, le persone ospitate nelle 32 Atsm italiane, collocate in 17 istituti penitenziari: numeri molto rilevanti, che non trovano minimamente corrispettivo nella popolazione libera e che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno. L’iniziativa è promossa nel contesto del progetto “Cambiare dentro/Costruire fuori - Emancipazione, inclusione, salute mentale per le persone private della libertà”. Morto Toni Negri, creò Autonomia operaia. “Con lui anni violenti”. “Rivoluzionario” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 17 dicembre 2023 Duro l’ex sindaco di Padova Zanonato, addolorati Casarini e Caccia. Sul ruolo del leader operaista la politica si è sempre divisa. Toni Negri è morto ieri alle cinque del mattino nella sua casa di Parigi, aveva 90 anni. A darne notizia è stata sua moglie Judith Revel. Era nato a Padova nel rione Palestro, poco lontano dal suo liceo, il classico Tito Livio. “Essere comunista per me voleva dire conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene”. Il 17 agosto del 2023 Toni Negri aveva rilasciato una lunga intervista sul sito Euronomade. Era il suo testamento. Antonio Negri era nato a Padova nel 1933 nel rione Palestro, quartiere popolare della città, poco lontano dal suo liceo, il classico Tito Livio. Nella sua biografia “Storia di un Comunista”, Negri racconta la sua vita all’ombra del Santo. Parla della madre vedova forte e coraggiosa, e di una ferita dolorosa, quella del fratello Enrico, che a 17 anni si arruola nell’esercito di Salò e poco dopo muore suicida - almeno questo dicono i documenti- per non farsi catturare dai partigiani. Un eroe fascista, dicono alla famiglia. È l’infanzia di quello che molti anni dopo diventerà il “cattivo maestro” più noto d’Europa. Un epitaffio immeritato dicono in molti, un appellativo giustificato dai tempi e dal contesto, dicono altri. Certamente fu una figura radicale, “divisiva”. Mosse i primi passi nell’azione cattolica e poi fu socialista prima di votarsi al comunismo. Fondatore di Potere Operaio, e poi di Autonomia operaia nel 1973, Negri portava avanti la sua luminosa carriera universitaria diventando professore di Dottrina dello Stato a Scienze politiche a Pami dova, e dando corpo e sostanza alla corrente di pensiero dell’operaismo. Il suo nome è legato a quello del “processo 7 aprile”, la retata del 1979 che portò in carcere professori, assistenti, studenti e sindacalisti sotto l’egida del “Teorema Calogero” che creava un collegamento diretto tra Autonomia e le Br. Il procuratore Pietro Calogero venne smentito dalle sentenze: Negri e gli altri intellettuali vennero assolti da questa accusa dopo oltre cinque anni di detenzione preventiva: i giudici non trovarono alcun collegamento tra gli atti sovversivi delle Br e i militanti della sinistra extraparlamentare. A carico di Negri cadde l’accusa di sovversione armata, rimase quella di associazione sovversiva e la partecipazione, sotto il profilo del concorso morale, alla rapina di Argelato in cui morì il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini. La condanna fu a 12 anni di carcere. Mentre era in cella Negri ricevette la proposta di candidarsi con i Radicali, venne eletto con oltre 13mila voti, uscito di prigione si rifugiò in Francia, protetto dalla “dottrina Mitterand” prima che il Parlamento votasse la sua autorizzazione a procedere nei suoi confronti. I rapporti con Marco Pannella si interruppero subito con molte polemiche da ambo le parti. La morte di Negri non poteva lasciare indifferenti le molte anime della città in cui il docente ha vissuto per anni. “Per me era un padre - afferma Luca Casarini, ex leader dei centri sociali del Nordest, tra i fondatori di Mediterranea - è morto ma dovremmo gioire, ha avuto una vita straordinaria e lunga, ha cresciuto, gli devo molto, lui e Papa Francesco sono i miei modelli di ispirazione”. “Era stato a Venezia l’estate scorsa - gli fa eco Beppe Caccia, altro suo “allievo” - abbiamo passato una lunga serata alle Zattere a chiacchierare, un congedo che non dimenticheremo mai”. Ma non mancano le voci critiche. Quelle dell’anima del Pci del tempo, che Negri contestava accusando il partito di essere stato soggiogato dall’impasto di potere che preannunciava il compromesso storico. “Non potrò mai dimenticare quegli anni - racconta l’ex sindaco Flavio Zanonato, all’epoca dirigente del Pci - vivevamo nel terrore di pestaggi e rappresaglie - spiega - molti docenti vennero picchiati, il professor Angelo Ventura venne fucilato a un piede, venne colpito anche il professor Oddone Longo, poliomielitico, e non furono i soli, le aggressioni erano all’ordine del giorno racconta - nei confronti di Negri ci sono sentenze che parlano chiaro, era a capo di un movimento partecipato da molti violenti, non ho nulla di personale contro di lui, il mio libretto universitario porta la firma di un suo 30 all’esame universitario che feci con lui, ma ha avuto pesanti responsabilità”. “Sono stato picchiato da esponenti di Autonomia operaia a Monselice - spiega Piero Ruzzante, negli anni 80 segretario provinciale della Figc - furono tempi difficili, la non violenza contribuì, negli anni successivi, a creare un terreno di dialogo comune che appianò i dissensi”. Negli ultimi mesi Negri si era fatto sentire con alcuni amici storici, come Lauso Zagato, già docente di Diritto Internazionale a Ca’ Foscari a Venezia, anche lui finito nel blitz del 7 aprile: “Ci eravamo confrontati sulla guerra tra Russia e Ucraina, e mi aveva confidato di essere in grande crisi: “Non credevo che la Russia avrebbe invaso”, mi disse “adesso devo riflettere perché mi ero sbagliato”, ha dimostrato grande onestà intellettuale che lo portava a ritornare sui propri passi, aveva bisogno di tempo per formulare nuovi pensieri, ammettere gli errori non è cosa comune tra gli intellettuali”. Il processo 7 aprile e quel teorema sul “cattivo maestro” di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 dicembre 2023 Rivoluzionario di professione, docente, teorico marxista, Toni Negri era uno di quegli intellettuali militanti che si alzavano ogni mattina all’alba per intervenire ai cancelli delle fabbriche. Fino all’arresto nel 1979 che lo costrinse in prigione per anni. Maestro lo è stato di certo. Quello “cattivo”, il peggiore di tutti per alcuni, incluso il ministro della Cultura Sangiuliano che così è tornato a definirlo. Buono, anzi impareggiabile per la parte di più lucida e colta della sinistra radicale in Europa come negli Usa. Ma la statura di Antonio Negri, Toni per tutti e da sempre, scomparso a 90 anni senza aver mai perso un colpo quanto a energia e lucidità, quella non la mette in discussione nessuno. Negri è stato un grande intellettuale, il più giovane professore ordinario della storia italiana quando nel ‘67 gli fu assegnata la cattedra di Filosofia politica a Scienze politiche, università di Padova. Autore di libri che sarebbero essenziali e di altissimo livello anche a prescindere dalla sua militanza politica, come “La forma-Stato”, “Lenta Ginestra” su Leopardi, “L’anomalia selvaggia” su Spinoza, “Marx oltre Marx”, forse il testo più avventuroso nel campo di un marxismo eretico e mai scolastico. Ma Negri non ha mai pensato a se stesso come un accademico. Prima cattolico, poi socialista, mai iscritto al Pci, aveva la vocazione del rivoluzionario di professione, cambiare il mondo, sovvertire “lo stato presente delle cose” era la sua missione e la sua ossessione. Nell’Italia repubblicana è quasi impossibile rintracciare altre figure come la sua, militante e studioso, intellettuale con le mani affondate nella realtà della condizione operaia. Era uno di quegli intellettuali militanti che si alzavano ogni mattina all’alba per intervenire ai cancelli delle fabbriche, il Petrolchimico di Porto Marghera, e da quelle esperienze, dalla condizione operaia reale, dai conflitti che avrebbero partorito il decennio delle grandi lotte operaie, dal 1969 al 1980, imparava quanto dal pensiero dei suoi maestri. Era tra le firme ruggenti delle riviste “operaiste” degli anni ‘60: i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, Classe Operaia diretta da Mario Tronti, Contropiano, fondata con Cacciari e Asor Rosa. Riviste teoriche importanti, le prime e le più acute nello studio della nuova composizione della classe operaia, alle quali Negri affiancava l’intervento diretto, il tentativo di organizzare le lotte di quella stessa operaia con un foglio tutto diverso, il Potere operaio veneto-emiliano, una delle principali esperienze dalle quali sarebbero nati il ‘68 e il ‘69 operaio. Negri è stato uno dei principali dirigenti di una delle principali organizzazioni della sinistra extraparlamentare, Potere operaio, e poi dell’Autonomia operaia e risalgono a quegli anni alcune delle sue intuizioni più brillanti, di nuovo sulle trasformazioni del capitalismo, del modello produttivo, dunque della stessa composizione della classe operaia: le sue analisi sull’ascesa di una nuova figura, l’operaio sociale, non più vincolata al sistema basato sulla centralità della fabbrica anticipano tutti gli studi e gli sviluppi successivi sul postfordismo e sulla trasformazione radicale dei modi di produzione. Materia di oggi, non di cinquant’anni fa. Quegli studi e quell’attività militante instancabile furono interrotti dall’arresto, il 7 aprile 1979, con una lista di accuse chilometrica. Era il capo sia dell’Autonomia che delle Brigate rosse, il grande puparo di tutta la sovversione italiana, il cattivissimo maestro, appunto. Erano accuse infondate ma costrinsero Negri in prigione per anni. Uscito nel 1983 perché eletto dai radicali decise di fuggire in Francia per sottrarsi al nuovo arresto dopo un’autorizzazione a procedere votata a spron battuto dalla Camera, con il voto contrario del Pci, che pure aveva sostenuto e in realtà collaborato a costruire il “teorema Calogero” su cui si basava il processo 7 aprile e grazie all’astensione dei radicali, che miravano a farne un simbolo anche a costo di rinchiuderlo di nuovo in galera. In Francia Negri ha continuato a studiare concentrandosi sulla globalizzazione, a produrre riviste, Futur Antérieur, e libri di grandissimo successo anche negli Usa. Poteva passare per un divo della rivoluzione Negri, ma sarebbe un’immagine bugiarda e ingiusta. Per tutti i suoi novanta anni, fino all’ultimo giorno, è stato prima di tutto un rivoluzionario che con lo studio e con la pratica mirava solo a cambiare il mondo e a rovesciare il sistema. Intellettuale, docente, militante, teorico marxista innovativo sino alle estreme conseguenze, esule, autore di best sellers, come il fortunatissimo Impero, scritto a quattro mani con Mickey Hardt, Negri ha vissuto in nove decenni molte vite ma senza mai tradire quella che riteneva essere la sua missione: quella di un intellettuale e militante comunista ma senza nostalgie per il passato. Un cartografo e un maestro del futuro, non del passato. Toni Negri, una vita tra violenza e alta filosofia di Gigi Riva* Il Domani, 17 dicembre 2023 Il leader di Autonomia operaia è morto a Parigi all’età di 90 anni. Fu il più giovane docente universitario d’Italia. Gli esordi nell’azione cattolica, la violenza rivendicata come un diritto per gli sfruttati, il carcere, la fuga in Francia. E infine la critica feroce al neo-liberismo. Un marxista oltre Marx. Controverso, ma universalmente considerato un gigante del pensiero. Qualunque etichetta applicata a Toni Negri, morto ieri a Parigi all’età di 90 anni, è riduttiva, incapace di delineare un personaggio troppo poliedrico per essere incasellato in un’unica definizione. Divisivo anche quando arriva la notizia della fine della sua esistenza terrena e non poteva essere altrimenti. È contemporaneamente il grande filosofo di fama mondiale, il più giovane docente ordinario italiano, lo studioso indefesso e illuminante del marxismo operaista, il Marx oltre Marx adattato alla contemporaneità, il teorico della violenza di massa e però critico del terrorismo “elitista” della Brigate rosse di cui peraltro fu accusato ingiustamente di essere l’ideologo, il condannato per banda armata, associazione sovversiva, concorso morale in omicidio, l’assolto per una sequela di reati da ergastolo. E infine il “cattivo maestro”, l’epiteto sdoganato, tra gli altri, da Indro Montanelli e ripetuto ora dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Comunque, per fautori e detrattori, un imprescindibile protagonista del secolo breve protratto nei suoi tempi supplementari fino ai giorni nostri. Nelle sue origini, il Dna variegato di una famiglia cattolica ma laica, nonno e padre comunisti, fratello maggiore infatuato di Mussolini, la scuola come riscatto dalle umili origini quando in questo paese funzionava l’ascensore sociale. Che Toni Negri prese fino ai piani più alti di una carriera precoce che lo porterà alla docenza universitaria, cattedra di filosofia politica a scienze politiche in Padova, a soli 34 anni. In parallelo l’impegno politico da adolescente nell’Azione cattolica, nonostante la professione di ateismo, fino a diventarne un dirigente nazionale e all’espulsione in contrasto con il presidente conservatore Luigi Gedda, mentre la sua richiesta di iscrizione alla Democrazia cristiana fu respinta per le sue visioni eterodosse. Poco più che ventenne optò per il partito socialista “perché sembrava libero da incrostazioni staliniste che ci davano molto fastidio fin da allora”. Motivo per cui fu sempre critico con il partito comunista più tardi catalogato come ormai inserito nel potere dominante. La curiosità lo spinse ai viaggi in autostop in Europa, all’esperienza di un anno in un kibbutz israeliano. Il varo dei primi governi di centrosinistra lo portarono lentamente ad allontanarsi dal Psi per affinare il proprio credo attraverso una feconda attività culturale che lo portò a fondare con altri la casa editrice Marsilio (nome omaggio a un filosofo del quattordicesimo secolo) e negli stessi anni, da tifoso del Milan, le Brigate rossonere, le uniche a cui aderì nonostante le accuse successive, perché non di solo pensiero ma anche di passioni popolari vive un filosofo. Sessantotto ante litteram - In una sorta di Sessantotto prima del Sessantotto, quattro anni prima del fatale maggio, iniziò con Alberto Asor Rosa e Mario Tronti l’avventura della rivista Classe operaia, “mensile politico degli operai in lotta”, esperienza che sfocerà, in Potere operaio, l’organizzazione che, nei suoi intenti, doveva essere l’embrione di un futuribile partito neo-leninista. È praticamente impossibile spiegare a un millennial, oggi, cosa fosse all’epoca il magma ribollente della sinistra extraparlamentare, attraversato da scissioni in nome di una variazione anche impercettibile di linea, quando il politico dominava l’esistenza e produceva fratture diventate a lungo andare il male endemico della sinistra italiana. Basti sapere che il partito neo-leninista non nacque, Potere operaio si sciolse nell’Autonomia operaia. Toni Negri si spende davanti alle fabbriche, organizza il movimento, sforna libri. In “Il dominio e il sabotaggio” scrive le parole che gli varranno come una condanna: “Nulla rivela a tal punto l’enorme storica positività dell’autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di questa attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente mi sento il calore della comunità operaia e proletaria tutte le volte che mi calo il passamontagna... Basta con l’ipocrisia borghese e riformista contro la violenza”. La parola chiave per bollarlo come “cattivo maestro” è “passamontagna”, letta come una sorta di rivendicazione delle azioni del gruppo, in un periodo in cui non c’era giorno in Italia senza un attentato, un ferimento, un omicidio attuati da persone con il volto travisato. Il 7 aprile del 1979 la resa dei conti con la retata ordinata dal giudice padovano Pietro Calogero di centinaia di aderenti all’Autonomia. Per Toni Negri le accuse sono lunghe come un rosario, rapimenti, omicidi, rapine, furti attentati. In più il giudice Achille Gallucci gli imputa la partecipazione al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro, opera delle Brigate Rosse. Si sostiene che sia stato lui il telefonista della banda armata che annunciò la morte delle statista democristiano: errato, la voce era quella di Valerio Morucci. Nel carcere di massima sicurezza di Palmi in realtà Negri teme per la sua vita, alcuni brigatisti pare vogliamo ucciderlo a causa della linea di difesa che si è scelto. Dirà Enrico Fenzi: “Una difesa che tagliava di netto tra movimento e lotta armata e condannava dunque quest’ultima al limbo di un’esistenza marginale che era meglio dimenticare al più presto. L’innocenza degli uni doveva essere pagata sottobanco con i secoli di galera tacitamente inflitti agli altri”. Saranno le confessioni del pentito Patrizio Peci a scagionare il professore: no, non fa parte delle Brigate Rosse, nonostante alcuni incroci con Renato Curcio agli albori della stagione del terrore. Resta in carcere preventivo per alcuni delitti dell’Autonomia di cui è il dominus incontrastato quando nel 1983 Marco Pannella, vecchia conoscenza dei tempi della goliardia universitaria, gli propone di candidarsi alle elezioni con il Partito Radicale. La conquista di un seggio gli spalanca le porte del carcere. Ne approfitta per fuggire in Francia e mettersi sotto la protezione della dottrina Mitterrand. Diventa un beniamino della vita politico-culturale parigina, insegna in diverse università, concede interviste. Promette che si farà estradare ma cambia idea. E questa giravolta gli alienerà le simpatie di molti che ancora stavano dalla sua parte. Nel frattempo in Italia è stato condannato in contumacia a dodici anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale in una rapina ad Argelato dove venne ucciso un carabiniere. Revisione - Tornerà nel paese natale solo nel 1997 dove finirà di scontare la pena, in parte agli arresti domiciliari. Il suo percorso di revisione rispetto agli anni di piombo si rintraccia in alcune dichiarazioni pubbliche: “Oggi il problema non è più quello della riconquista violenta dello Stato, sono passati dieci anni è venuto il tempo della pacificazione. Se in passato ho peccato di leggerezza e irresponsabilità sarò più attento per il futuro”. All’inizio del nuovo Millennio manda alle stampe almeno due volumi cardine della sua produzione Impero e Moltitudine. Nel primo spiega che l’Impero serve a garantire la sopravvivenza dell’economia neo-liberista e, nel nuovo contesto globale, la categoria marxista di proletariato non coincide più con la sola classe operaia ma si estende a tutte le fasce sociali soggette alle forze dominanti. La “moltitudine” globale degli sfruttati è la sola in grado di abbattere l’Impero sostituendolo con una reale democrazia. E sembra l’aggiornamento del famoso slogan “proletari di tutto il mondo unitevi”. Time inserisce Toni Negri nel novero delle sette persone “che stanno sviluppando idee innovative in diversi campi della vita moderna”. Impero diventa una sorta di Bibbia per i movimenti no global e viene definito “la prima grande sintesi teorica del nuovo millennio”. Continuerà a scrivere fino alla soglia del 90 anni, una produzione immensa. Toni Negri è morto. Resteranno le sue contraddizioni. Resterà il suo pensiero, soprattutto la sua analisi critica del neo-liberismo grazie alla quale è diventato “buon maestro” per i molti che si sono accodati e ne hanno denunciato storture e disuguaglianze. *Scrittore La verità processuale, la memoria che divide e quell’ultima uscita all’Università di Padova di Luca Barbieri Corriere del Veneto, 17 dicembre 2023 Il 10 maggio 2022, in una piccola aula di via del Santo, lì dove il 7 aprile del 1979 piombavano le camionette impegnate nella retata, una piccola folla di persone ascoltava Toni Negri in collegamento da Parigi. Non annunciato nel programma ufficiale dell’evento (ed è facile capire il perché), in quello che era stato il suo istituto di Scienze Politiche Negri commemorava, in occasione dell’uscita del libro “Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo”, il suo amico “fratello maggiore, un vero rivoluzionario umanista”. Era evidente a molti che sarebbe stata una delle ultime apparizioni, se non l’ultima, e pure a distanza, in città. Avevo contato ottanta persone, coetanei di Negri da una parte e giovanissimi dall’altra, quasi senza nessuno che rappresentasse le generazioni in mezzo. Non è un caso: nel diventare simboli, magari non proprio involontariamente, le narrazioni si cristallizzano e si polarizzano. E da certi simboli, te lo insegnano da bambini fino a interiorizzarlo, è bene tenersi lontani. Sì, perché chi era il “cattivo maestro” Toni Negri? E con lui cos’erano l’operaismo, l’autonomia? E cosa hanno lasciato nella memoria collettiva e nella pratica di quella città che ne fu considerata laboratorio? Solo venti anni fa, quando nel 2002 scrissi “I giornali a processo: il caso 7 aprile”, la mia tesi di laurea, Toni Negri a Padova era ancora letteralmente un tabù. Almeno al di fuori del centro sociale Pedro. A più di 20 anni dal 7 aprile, quella era la prima volta che una tesi affrontava il caso da un punto di vista che tentava di non essere di parte. E la affrontava mettendo al centro la narrazione che i giornali avevano dato negli anni del caso giudiziario. L’intento del lavoro, in cui mi aveva seguito con un certo coraggio Gianni Riccamboni, era misurare la discrasia tra verità processuale e verità mediatica nella certezza che nella memoria collettiva Toni Negri fosse rimasto, per gran parte della nostra società, quello che non è mai stato, sulla base di cose che peraltro non sono mai esistite: “il grande vecchio del terrorismo italiano”, “l’anello di congiunzione tra le Br e l’autonomia”, addirittura per alcuni tempi “il mandante del sequestro Moro”. Ma la memoria collettiva, e i giornali, che della memoria di noi giornalisti son fatti, non funzionano come le verità giudiziarie. Se alle accuse di insurrezione armata contro i poteri dello Stato e di essere il capo delle Br togli tutti i pezzi fino a rimanere in mano con l’associazione sovversiva e il concorso nell’omicidio di Argelato, cosa si è nel frattempo cristallizzato nella narrazione pubblica? La polarizzazione, i fan delle opposte verità, senza nessuna possibilità di riconciliazione o dialogo. Di mezzo, in quello che lo storico Roberto Colozza ha definito l’”affaire 7 aprile”, ci rimangono le vittime della violenza (che in quella stagione c’è stata eccome), Toni Negri, che comunque una condanna l’aveva portata a casa, ma anche Emilio Vesce, Guido Bianchini, Luciano Ferrari Bravo - tutti assolti - e una intera generazione con colpe molto differenziate. Ecco allora che cercare di capire Toni Negri - dall’azione cattolica al Psi, da Potere Operaio all’autonomia, dal carcere al successo planetario di Impero - vuol dire raccontare il rapporto tra noi e gli anni Settanta, tra noi e una parte della società veneta che da quegli anni “di piombo”, sembra essere evaporata. Nel Veneto del “progresso scorsoio”, per dirla come l’avrebbe detta Zanzotto, quella fetta di società che fine ha fatto? E non parlo di quei rivoli più o meno evidenti, che discendono dalle esperienze disobbedienti degli anni Novanta e Duemila. Parlo di un lascito più culturale e (dis)organizzativo di cui potrebbe essere provata l’esistenza lì dov’era nato, nel mondo del lavoro. Ruotando attorno a quel concetto di autonomia che prima che diventare territoriale doveva essere di autodeterminazione soggettiva della persona all’interno dei meccanismi economici dominanti del tempo. E che dice moltissimo, anche se con un lessico diversissimo, alle generazioni di oggi. Eppure mi rimane ancora un’ipotesi di ricerca da percorrere. Provare a capire cosa di quell’esperienza, di quella cultura, rimane in quello che è il Veneto imprenditoriale di oggi. Tra la generazione direttamente precedente a quella del sottoscritto si muovono biografie ricche e sfaccettate. Quanti, constatata l’impossibilità di percorrere quelle idee nella dimensione pubblica, le hanno fatte evolvere all’interno di aziende che sembrano isole di sperimentazione soprattutto sociale? Forse un giorno scopriremo che parte del lascito di Toni Negri e di quella esperienza sta anche qui, dove forse meno ce lo aspettiamo. Non fu banda armata, la tardiva riparazione di Rossana Rossanda* Il Manifesto, 17 dicembre 2023 Rossana Rossanda così descrisse le assoluzioni e il crollo, sostanziale, del processo 7 aprile. La Corte d’Appello di Roma ha demolito il castello accusatorio del 7 aprile attraverso il quale Stato, partiti e poteri si liberarono nel 1979 dell’Autonomia operaia. E mandarono un segnale minaccioso ai movimenti, inchiodati tra l’attacco delle organizzazioni armate da un lato e quello del partito comunista dall’altro. I grandi sostenitori del delirio del procuratore padovano Calogero, del primo pentito, ancorché assassino comune, Fioroni e delle leggi speciali sono stati infatti un drappello di magistrati, avvocati, giornalisti e dirigenti comunisti, con il codazzo ossequente dell’Unità e di Repubblica. Nulla di quell’ipotesi accusatoria, che si voleva storia d’un decennio, dal 1969 al 1979, è rimasto in piedi. Non l’accusa di tentata insurrezione armata; la quieta voce del giudice Verrone ha detto quel che tutti sapevano, e cioè che “il fatto non sussiste”. Non la celebre “O”, l’organizzazione per eccellenza che, ora sotto una sigla ora sotto un’altra, avrebbe diretto occultamente l’eversione armata sotto la guida d’un pernicioso intellettuale, Antonio Negri, a partire da Potere operaio fino alle Br. Potere operaio non fu una banda armata: delle orientate memorie di Carlo Fioroni la Corte ha ritenuto soltanto, come già il giudice Palombarini e poi la Corte di Padova, che ci furono alcune persone che agirono illegalmente, caso per caso esaminandone i capi d’accusa. Non il sangue di Carlo Saronio. Esso non sta su nessuno degli imputati del 7 aprile, su cui fu gettato man mano che cadevano in istruttoria altre accuse: esso sta, come già disse la magistratura milanese, tutto su Fioroni e Casirati. Né c’è altro sangue: per Argelato, è rimasto a Negri un esitante concorso morale, verosimilmente destinato a cadere in Cassazione. Né Oreste Scalzone è mandante della rapina di Vedano Olona, nella quale peraltro il solo ferito fu uno dei giovanissimi attentatori, Zinga. Le altre sono violenze minori, illegalità contro le cose, che pesano con brevi pene su neanche metà degli imputati. Uscite dalla scena giudiziaria, come si doveva, le figure dei cattivi maestri, delle cattive idee, del discorso eversivo: la Corte ha giudicato sui fatti. Ha sempre giudicato bene? Forse no. Sorprendente la condanna di Mario Dalmaviva o di Augusto Finzi. Ma questi sono errori, che vogliamo credere riparabili, in un processo che nel suo insieme ha mandato a pezzi 45.000 pagine di istruttorie senza confronti e senza uno straccio di prove, e una sentenza di primo grado che, indifferente agli esiti del dibattimento, ha ripetuto servilmente il rinvio a giudizio. Tutto bene, dunque? Bene, un respiro di sollievo, quella pioggia di assoluzioni, di prescrizioni, il normale uso delle attenuanti, il senso della distanza, di equilibrio, di buon senso che ha impegnato la Corte. Pesante - non piangevano soltanto di felicità gli imputati assolti dopo anni di galera - la constatazione che dunque per quasi un decennio della vita di sessanta persone sono pesate accuse enormi e infamanti, e che alcune di esse hanno inutilmente scontato fino a cinque anni di carcere. La magistratura s’è prestata a punire una estrema sinistra scomoda, con una gravità che ricorda i tribunali fascisti. Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, ieri assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? e i quasi dieci anni di sospensione dall’insegnamento? E agli altri, molti, nelle sue stesse o simili condizioni? Chi cancellerà la mostrificazione di Negri, tale che non fu mai costruita su nessun killer, né politico né comune? Forse l’Espresso, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come la sua? Repubblica che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi, codardie e coperture. L’onorevole Spadolini favorì l’espatrio illegale di Carlo Fioroni e il Parlamento rifiutò di aprire un’inchiesta. Come oggi giace l’inchiesta sulla protezione a lui, latitante di stato, offerta da Andreotti per il Ministero degli esteri. Istituzioni e stampa hanno contribuito indecentemente a un’operazione politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica. Tanto che il manifesto, il Gr1, più tardi ma con ostinazione Radio radicale, sono sembrati fastidiosi e di parte, per aver detto, ripetuto, gridato: qui si commette un’ingiustizia che sporca la scena politica, distrugge la memoria, massacra tutto un passato assieme alle vite presenti. Il gusto della libera stampa, la tradizione di voler la verità, la giustizia. Le prove sono di pochi e i pochi sembrano dei fissati. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica, ma a un trucco giudiziario. Qualcuno ci ha detto ieri: e? anche una vostra vittoria. Magra vittoria vedere restituita, a otto anni di distanza, una più presentabile immagine della giustizia. Perché la pena era già stata inflitta, e? stata scontata prima del processo, una vendetta e? stata eseguita. Quella di ieri e? una tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile. *Articolo pubblicato sul Manifesto del 9 giugno 1987 Il barbiere di Rebibbia di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 17 dicembre 2023 A Rebibbia facevo il barbiere. Nessuno voleva fare il barbiere - chi lo spesino, chi l’addetto ai pacchi delle famiglie. Mi feci avanti io - eccomi. Ebbi una rapida formazione professionale - chiamarono il barbiere di un braccio, non ricordo quale. E quello mi insegnò in un’oretta: metti il pettine così, solleva i capelli, taglia così. Beh lui non era Figaro, e neanche io lo sarei stato, ma qualcosa si poteva fare. Cocciuto e precisino come sono, pensai e ripensai. Pratica non ne potevo fare, perché le forbici (mooolto arrotondate) arrivavano con le guardie e solo il giorno dedicato al taglio. E in cella non avevo buon materiale: Paolo, capelli quattro, e guai a toccarglieli, e Lucio pensava solo ai suoi baffi, e dei capelli gli fregava un czzo. Mi esercitavo mentalmente. fu la volta di mettere in pratica gli insegnamenti e l’addestramento mentale. Nessuno si fidava ma avevano tali cespugli in testa che qualunque cosa ne sarebbe venuta sarebbe stata meglio. All’inizio andavo pianissimo - flic flic flic. Millimetri ne tagliavo, millimetri. Poi cominciai a prender confidenza, zac zac. Ho avuto anche le mie soddisfazioni. quando iniziò il processo 7 aprile, la testa di Toni (Negri, ndr) fu tra le mie mani. za za za za. prima pagina de “La Repubblica” (a cui fregava un czzo di parlare delle cose, ma voleva “colore”): “eccolo il cattivo maestro, una bella giacca, un bel paio di occhiali. colpisce soprattutto il capello ben curato”. Un trionfo: ero in cronaca rosa. Con Toni. La cella di barbiere registrò un’impennata di clienti. Tutto questo per raccontarvi non le mie memorie di un barbiere (i più colti, ricorderanno Germanetto) - ma per spendere parole, ne ho titoli, per la nobile categoria professionale cui mi onoro di appartenere: i barbieri. Aprono tutti ma i barbieri e i parrucchieri no. Un’indegna discriminazione, dal sapore squisitamente politico: i barbieri, si sa, sono l’avanguardia rivoluzionaria del popolo. “Al sussidio si rinuncia, ma mancano lavoro e dignità” di Rosaria Amato La Repubblica, 17 dicembre 2023 Da Nord a Sud, da Milano a Palermo, chi ha perso o sa che perderà il reddito di cittadinanza chiede una cosa sola: poter lavorare. Un lavoro vero, pagato decentemente, in regola, perché molti degli ex percettori, soprattutto nel Mezzogiorno, si sono dovuti adattare anche al nero, e non avranno la pensione. Sui corsi di riqualificazione c’è molto scetticismo: “Fateli dentro le aziende che hanno bisogno di lavoratori”. Quando le hanno tolto il reddito di cittadinanza Barbara Montauto, 52 anni, non lo ha rimpianto particolarmente: “Erano 40 euro al mese, non ci pagavo neanche la bolletta della luce”. Barbara, che vive a Milano con suo figlio, ha infatti un contratto part-time di 20 ore settimanali, che fino a quando non si è separata doveva bastare anche a mantenere suo marito, disoccupato. “Quando ci siamo separati a lui hanno dato il reddito, 500 euro al mese. Lui aveva lavorato a lungo come rappresentante, ma poi ha perso il lavoro e non è riuscito a ritrovarne uno dignitoso: semmai lo trovano gli stranieri, se si accontentano di 300 o 400 euro al mese per 12 ore al giorno”. Con i 500 euro del reddito l’ex marito di Barbara riusciva anche a dare un piccolo contributo per il mantenimento del figlio, ma “ora gli hanno tolto l’assegno, e lui continua a non avere un’entrata”. E così tutto continua a ricadere sugli 800, 850 euro al mese guadagnati da Barbara: “Io non dico ridateci il reddito. Dico: dateci un lavoro, però un lavoro vero, pagato bene. Perché ci sono offerte che sì, rendevano più conveniente tenersi il reddito e guardare la Tv tutto il giorno. E da quando gli hanno tolto il reddito mio marito non ha ricevuto nessuna proposta di lavoro, né decente né indecente”. Giovanni Pizzo. “Scartato per l’età. Grazie al Rdc mi ero risollevato” Giovanni Pizzo, 56 anni, per 30 anni ha lavorato come ragioniere e assicuratore, e poi magazziniere e commesso di tabaccheria, “perché anche se avevo un diploma, a Palermo c’è sempre stata penuria di lavoro, e se arriva un treno lo devi prendere”. Ma poi nel 2019 è rimasto disoccupato, e l’anno dopo si è separato dalla moglie: “Ho dormito per dieci mesi in un box. Poi mi sono tirato su, grazie a un amico ho trovato una casa in affitto e dal 2021 ho ottenuto il reddito di cittadinanza. All’inizio erano 408 euro al mese, e nel 2022 sono passati a 780”. Una boccata di ossigeno, che non escludeva il tentativo di trovare lavoro, “ma mi dicevano di non farmi illusioni, che ormai ero vecchio”. Poi arriva lo stop al reddito: “L’ultimo contributo mi è arrivato a luglio. Poi per fortuna i servizi sociali mi hanno pagato l’affitto per un anno. E quando vado a prendere mio figlio a scuola, la mia ex moglie non mi nega un piatto di pasta. Al Caf di Davide Grasso ho incontrato anche persone che adesso hanno difficoltà a mangiare tutti i giorni”. Da gennaio frequenterà un corso di riqualificazione: “È una presa in giro, m’insegneranno a fare il magazziniere, ma io già lo so fare, e lo facevo bene. Voglio un lavoro, ma lo voglio qui, non lascio mio figlio, che è autistico, e ha bisogno del papà”. Giuseppe Gurrera. “Offerte da fame: turni da 12 ore e 500 euro al mese” “Io non voglio il reddito, voglio lavorare, e pagare le tasse. Ma il reddito mi ha dato la possibilità di vivere. Da gennaio prenderò un assegno di 380 euro, e di affitto ne pago 350, in una casa di 55 metri quadri in una borgata di Palermo”. Giuseppe Gurrera ha lavorato tutta la vita, ma rischia di non avere neanche la pensione: “Ho 19 anni di versamenti, devo arrivare almeno a 21”. Prima direttore commerciale Mondadori: “Vendevamo enciclopedie, ma con l’avvento di Internet ci hanno chiusi”. Poi titolare di una libreria in centro, ma anche lì si vendeva sempre meno. Infine ha ripiegato su un corso per operatore socio-sanitario, ma anche lì il lavoro è poco, e quasi sempre in nero: “Mi offrono 500 euro al mese per 12 ore di lavoro al giorno”. Giuseppe è furibondo con il governo, che accusa i percettori di reddito di non voler lavorare: “Io ho anche riferito al Caf del contratto di lavoro di mio figlio. Anche se poi devono spiegarmi quale figlio se trova un lavoro poi mantiene anche i genitori, e che senso ha quindi in quel caso decurtare il reddito”. La soluzione ce l’avrebbe, per far trovare lavoro ai percettori: “Basterebbe che chiunque cerca un lavoratore lo faccia attraverso i centri per l’impiego, e sia costretto così anche a metterlo in regola”. Salvatore Caputo. “Una vita in nero. I corsi professionali sono stati inutili” “Vengo da una famiglia numerosa, e ho cominciato a fare lavoretti a 7-8 anni. Ho sempre lavorato in nero: in 40 anni ho avuto solo due contratti regolari, uno da comparsa, e l’altro da magazziniere, per un anno. Ma poi è morto il titolare, e mi hanno licenziato”. Quella di Salvatore Caputo, 48 anni, di Napoli, è una storia di lavori precari: pizzaiolo, venditore ambulante, fino a quando, nel 2019, non è arrivato il reddito di cittadinanza. “Quando l’ho ottenuto ero pieno di gioia, ma non perché mi davano il contributo: è perché mi avevano detto che il reddito mirava al reinserimento nel mercato del lavoro”. Ma i corsi professionali si sono rivelati inutili: “Io dico, volete davvero fare dei corsi per far trovare lavoro alle persone? E allora fateli direttamente all’interno delle aziende che hanno carenza di personale, così che alla fine del corso i lavoratori vengano assunti”. Il reddito è stato comunque un sostegno per la famiglia, “perché io ho due figlie disabili, di 16 e 23 anni”, confessa Salvatore. All’inizio di quest’anno finalmente la svolta: “Un privato mi ha offerto un lavoro, con contratto a 40 ore settimanali”. Una liberazione, e lo stop al reddito: “Sono andato subito all’Inps con la busta paga. Io ho sempre detto che la vera dignità è il lavoro”. Fine vita nel deserto della legge di Ferruccio De Bortoli Corriere della Sera, 17 dicembre 2023 Mentre il legislatore non decide, e sono ormai passati quattro anni dalla pronuncia della Consulta sul caso Cappato, le Regioni sembrano muoversi in ordine sparso. Non è un argomento natalizio, ma se ci pensiamo bene può anche esserlo. Perché se il Natale è vita, proprio della vita, in tutti i suoi aspetti, dovremmo avere il coraggio di parlare. Anche di quella che si esaurisce nel dolore più atroce, insopportabile, inaccettabile. Nei giorni scorsi vi è stato, a Trieste, il suicidio assistito di Anna (nome di fantasia) autorizzato dalla Azienda sanitaria locale in seguito a una sentenza del Tribunale. La Corte Costituzionale ha depenalizzato il suicidio assistito solo in alcune precise circostanze. Ovvero nel caso di patologie irreversibili fonte di sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili, con un paziente in grado di esprimere con coscienza la propria volontà e dipendente da un sostegno vitale. Mentre il legislatore non decide (e sono ormai passati quattro anni dalla pronuncia della Consulta sul caso Cappato), le Regioni sembrano muoversi in ordine sparso. Ora comunque la si pensi - ogni posizione è legittima e rispettabile - dovremmo essere tutti d’accordo che non vi può essere un federalismo dell’ultimo tratto della vita. È un tema delicato, intimo, che riguarda l’essenza più profonda della cittadinanza, al di là del rispetto della dignità della persona umana, e richiama il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Veneto e Friuli-Venezia Giulia si avviano a discutere una legge regionale di iniziativa popolare sul suicidio assistito. Piemonte, Calabria, Marche e Sardegna l’hanno ritenuta, in passato, politicamente non praticabile. La proposta (che in diverse Regioni è sostenuta dall’Associazione Luca Coscioni) divide oggi le amministrazioni governate dal centrodestra. Ma interrogativi e distinguo abbondano anche nelle opposizioni. Avremo in futuro anche i migranti interni del dolore oltre a quelli che varcano i confini nazionali? Speriamo di no. Un Parlamento che volge lo sguardo altrove dà prova di insensibilità che sfiora il cinismo. Se la vita è prigioniera degli schieramenti politici, allora è merce della ricerca del consenso. La condizione straziante delle persone scivola inevitabilmente in secondo piano. La paura di parlarne e di discuterne apertamente dovrebbe inquietare anche i cattolici. E non si comprende fino in fondo perché sul fine vita prevalga una contrapposizione ideologica che spesso rifiuta il dialogo. Con la conseguenza di accentuare la solitudine di chi si trova di fronte a sofferenze non più lenibili, in balia di scelte che la legge non aiuta a chiarire, quasi cacciato senza alcuna colpa in una condizione di clandestinità nel proprio Paese. Noi, sedotti ma anche prigionieri della normalità, non abbiamo idea di quanto profonda e articolata sia la dimensione del dolore. Tendiamo a rimuovere il pensiero di doverla un giorno o l’altro affrontare. Direttamente o no. Come se le grandi questioni del fine vita riguardassero solo gli altri e fossero unicamente parte di una discussione filosofica, metafisica, alta, distante anni luce dalla nostra quotidianità. E nel compiere questo esercizio di colpevole banalizzazione siamo tutt’altro che attenti al rispetto della sacralità della vita. Al contrario, la svalutiamo, la abbandoniamo al caso che non è mai misericordioso. Condanniamo noi stessi, i nostri familiari e le amicizie più care all’eventualità, tutt’altro che remota, di arrivare impreparati alla gestione delle malattie invalidanti, alla perdita di autonomia non solo fisica ma anche mentale. A maggior ragione in una società che invecchia rapidamente e che dovrà fare i conti con il crescere esplosivo delle cronicità. Così si muore peggio e si fanno star male anche agli altri. Ma scaramanticamente non ci si pensa. Lo testimoniano la scarsa diffusione delle Dat, le Disposizioni anticipate di trattamento, e dei mandati in caso di incapacità di decidere sulla qualità della propria assistenza e sulla destinazione dei propri averi. Una leggerezza imperdonabile, quasi infantile. Occuparsi seriamente dei malati, avendo cura anche della loro libertà di decidere senza lasciarli alla solitudine del deserto della legge, rinsalda i legami affettivi di una società e la rende più giusta e umana. Pone la vita al centro, non la relega nel ripostiglio della casualità. Medio Oriente. La guerra dei bambini, che nessuno vuole fermare di Guido Rampoldi Il Domani, 17 dicembre 2023 Bambini israeliani rapiti durante un pogrom, poi imprigionati sottoterra e sottoterra morti. Bambini palestinesi sporchi di polvere e di sangue, disperati. Vittime di una guerra che ormai né Hamas né Netanyahu possono o vogliono davvero fermare. Mettete nel presepe un guerriero con la bandana verde e un tank con la stella di Davide: questo è il Natale della guerra ai bambini. Bambini israeliani rapiti durante un pogrom, poi imprigionati sottoterra e sottoterra morti, e da morti prezzati come sul banco di una macelleria in attesa che si concluda l’affare (qual è il loro valore di scambio? Quanti detenuti per il corpo di un bambino di 4 anni?). E in superfice, bambini palestinesi sporchi di polvere e di sangue, disperati come quello - avrà cinque o sei anni - che si batte le mani sulle tempie, seduto sul cumulo di calcinacci che forse è quanto resta di una casa, di una famiglia. Bambini sempre terribilmente solitari, da morti e da vivi. Bambini invisibili al pubblico italiano, quotidiani e tg hanno il buon cuore di cancellarli dai notiziari, siamo un popolo impressionabile e non vedendoli viene più facile la commozione selettiva, chi per le vittime di Hamas e chi per le vittime dei bombardamenti, nei nostri codici tribali la vita di un bambino non ha un valore universale. O beh, dirà qualcuno, cosa vi aspettavate? Non muoiono bambini in tutte le guerre? Qual è la novità? La novità è che a Gaza li si ammazza in una quantità che in proporzione non ha precedenti in questo secolo. Non accade, per esempio, nella guerra dell’Ucraina, dove pure la missilistica russa non si fa scrupoli di massacrare scolaretti: ma se le famiglie riescono a portarli nell’est, sono relativamente al sicuro. Nella Striscia di Gaza non c’è una via di scampo. Per accontentare Washington da alcuni giorni l’esercito israeliano usa bombe meno devastanti e intima alla popolazione di lasciare le aree che saranno bombardate. Ma quegli ordini sono contraddittori, ambigui, confusi; le “zone sicure” in realtà non sono sicure; ed è rischioso mettersi in cammino per andare ad accamparsi sul confine con l’Egitto, lì dove, intenzionalmente o no, l’offensiva sta convogliando una popolazione alla fame. Ad un bambino resta solo quello, la fame e la paura mentre aspetta che dal cielo il maglio si abbatta sulle case e su chi le abita. Scommessa irragionevole - Non è soltanto una questione di numeri di uccisi o di violazioni del diritto internazionale in serie a rendere sconcio il massacro dei bambini: questa guerra è una scommessa irragionevole, un impeto malaccorto, un azzardo rabbioso, un calcolo sballato. In una parola, è una guerra stupida. E come tutte le guerre stupide, è difficile tenerla sotto controllo. Vive di una dinamica propria. Ed è questo che spaventa. Per come si sono messe le cose ai due belligeranti conviene un allargamento del conflitto. Se fermassero le ostilità lascerebbero spazio alla diplomazia internazionale, tutta convergente sulla soluzione che entrambi aborrono, i due stati. E proprio mentre entrambi intravedono la possibilità di realizzare il loro progetto esistenziale, paradossalmente lo stesso: un unico stato dal Giordano al Mediterraneo, “from the river to the sea”. Se arabo o ebraico, la decidano le armi. Inoltre un compromesso avrebbe esiti politici disastrosi sia per Hamas, in quel caso obbligata a lasciarsi disarmare dai suoi nemici dell’Olp, sia per il governo Netanyahu, che a quel punto dovrebbe rendere conto della morte di tanti ostaggi e del fallimento della propria strategia. Il fiasco israeliano “è ogni giorno più chiaro”, scrive uno studioso di guerre, Robert Pape, sul sito di Foreign Affairs. Secondo il polemologo dell’università di Chicago i commandos di Hamas, le brigate Qassam, finora hanno retto l’urto dell’offensiva israeliana. Il loro apparato di propaganda è ancora in grado di disseminare 200 video a settimana attraverso il portale su Telegram, che adesso conta 620mila iscritti. Capace di liberare soltanto un ostaggio, l’esercito israeliano sostiene però di aver ucciso in due mesi 5000 guerriglieri. Fosse anche una stima attendibile, ed è lecito dubitarlo, ad Hamas ne restano 25mila, che alle brutte potrebbero disperdersi nel Sinai o diluirsi nella popolazione e diventare invisibili. Infine, Netanyahu sta fabbricando più terroristi di quanti ne ammazzi, dato che per ogni civile morto “ci sono familiari e amici pronti a arruolarsi in Hamas per vendicarlo”. Alla viglia della guerra i gazawi che riponevano fiducia in Hamas era il 27 per cento, grossomodo l’estensione della sua clientela: dopo l’invasione israeliana, sostiene Pape, sono triplicati. Errori di calcolo - I giornali italiani sostengono che non si può imputare a Netanyahu urbicidi e strage di civili, anche Churchill rase al suolo città tedesche. È un paragone appropriato, i bombardamenti britannici del 1944 ebbero l’unico effetto di convincere la popolazione bombardata che se gli Alleati avessero vinto le avrebbero inflitto una vendetta spietata. Si vuole inoltre che Netanyahu non aveva alternative, doveva esercitare il diritto di Israele a difendersi. Ma per eliminare Hamas, nota Pape, la strategia doveva essere tutt’altra: procedere con omicidi elettivi dei responsabili del pogrom e allo stesso tempo avviare un negoziato con i palestinesi che avrebbe isolato Hamas. E probabilmente l’avrebbe spaccata, stando al disagio segnalato da alcuni suoi vertici all’indomani del pogrom. Il raid del 7 ottobre “è stato l’errore di calcolo più grave nella storia degli errori di calcolo”, confidava all’attendibile David Hearst un “leader arabo” anonimo ma verosimilmente interno alla cupola di Hamas, dato che l’articolo apparso sul sito qatarino Middle East Eye è basato su quanto raccolto tra “gente informata del piano”. Doveva essere “una missione tattica per prendere in ostaggio al massimo due dozzine di militari”, spiega la “gente informata”, “ma quando il confine tra Israele e Gaza collassò” accorsero altri guerrieri di Hamas e di diverse formazioni armate. Sarebbe stata quest’orda spontanea e incontrollata a trasformare un’azione militare in un pogrom (senza peraltro che i comandanti di Hamas tentassero di fermarlo). Crimine contro l’umanità - Sia andata o no così, questa versione pare celare una preoccupazione sulla quale sarebbe stato intelligente fare leva. Presto la Corte penale internazionale offrirà una classificazione del pogrom che non sarà priva di effetti pratici. La propaganda israeliana l’ha caricato di storie circa decine di lattanti decapitati, come se mitragliare un bimbetto non sia già di per sé un’infamia assoluta. In molti paesi europei, Italia inclusa, l’informazione ha deciso che con quelle atrocità Hamas aveva varcato il confine oltre al quale i combattenti diventano “terroristi”, connotazione che suona assai blanda nel contesto arabo e anche in quello israeliano: il Likud di Netanyahu discende dai Begin e dagli Shamir, cioè l’Irgun e la banda Stern, formazioni che praticarono intensamente il terrorismo - impiccarono ostaggi (britannici), massacrarono il necessario per compiere “pulizie etniche” (strage di Deir Yassin e non solo), fecero saltare in aria uffici pubblici (bomba negli uffici del governatorato britannico a Gerusalemme, 98 morti, commemorata come un atto eroico nel sessantesimo anniversario, luglio 2006, dal premier Netanhyau e da vari ministri, indifferenti alle proteste di Londra). Ma quella ferocia almeno era interna ad un rapporto razionale tra mezzi e fini. Il pogrom di Hamas non appartiene alla categoria di questi “crimini di guerra”, semmai esprime la malvagità e la viltà dei genocidi, e cioè è “crimine contro l’umanità”. E come tale andrebbe perseguita dalla Corte penale internazionale, ha proposto saggiamente l’ong israeliana Physicians for Human Rights (concorda l’ex procuratore della Corte, Luis Moreno Ocampo). Se in futuro i guerrieri di Hamas portassero sulla fronte, sotto i versetti del Corano scritti sulle bandane verdi, il marchio di nemici dell’umanità, non avrebbero problemi a conservare il sostegno dall’Iran ma incontrerebbe difficoltà a trovare interlocutori perfino nel fondamentalismo sunnita. L’ospitalità e i finanziamenti che offre oggi il Qatar sarebbero in forse. Tanto più perché adesso Roma, Berlino e Parigi propongono alla Ue sanzioni non solo contro Hamas ma anche contro chi le dà sostegno. Piani da sventare - Ma intanto occorre fermare la guerra, esito che non è nella convenienza di Hamas né del governo Netanyahu. È ancora possibile sventare i loro piani? Ammesso che non sia troppo tardi sarebbe utile correre in soccorso di chi, nei due campi, tenta di arginare quei fanatismi guerrieri. Come ha dimostrato il pogrom, demonizzando l’ebreo Hamas ha offerto al male tutti i pretesti possibili. Ma radicare nel razzismo la reazione alla violenza israeliana è una pulsione cui non sfugge neppure parte dell’Olp. Per decenni gli europei hanno finto di non vederla, adesso che sanno dove conduca sarebbe saggio farne una discriminante nella distribuzione degli aiuti ai palestinesi (1,17 miliardi di euro nel periodo 2021-2024, fondi in via di riesame) per favorire la crescita di una leadership nuova. Allo stesso tempo andrebbe concretamente aiutato chi in Israele, come il giornale Ha’aretz, si trova ad affrontare da solo l’ostracismo del governo, cui bisognerebbe finalmente prospettare e applicare sanzioni se continuasse con le sue politiche annessioniste. Che altro? Sarà pure di nessuna utilità, ma a noi anime belle sarebbe di consolazione vedere per una volta in Italia un corteo che marciasse dietro le immagini due bambini morti in questa guerra, uno israeliano e uno palestinese. Così, magari solo per illuderci che nell’era che viene la santità dei bambini sia ancora un valore. Medio Oriente. In Cisgiordania la “legge” dei coloni che allontana ogni sogno della pace di Nello Scavo Avvenire, 17 dicembre 2023 La politica aggressiva degli insediamenti dei coloni e ora lo stato di conflitto permanente rende sempre più difficile la vita ai palestinesi. Sulla strada per Nablus, dopo una breve sosta per curiosare intorno a una colonia israeliana in territorio palestinese, appena dopo uno stretto tornante, un blindato dell’esercito ci sbarra la strada, mentre un colono armato piomba dalla collina polverosa con il suo fuoristrada. È il colono, un civile armato, a dare gli ordini. “Se ti rivedo ti spezzo le gambe”, grugnisce contro la nostra guida, un arabo israeliano. “Due popoli e due Stati”, sembrava una promessa buona quando la Cisgiordania era solo Palestina e Israele era solo Israele. Ma oggi nella “West Bank”, la riva occidentale del Giordano che fa da confine alla Palestina fino alle muraglie erette da Israele, gli insediamenti di occupazione, fortificati e protetti con le armi dei civili e quelle dei militari, sono più di cento e la Cisgiordania non è più un’ininterrotta regione palestinese, ma una provincia mista dove vivono 700 mila coloni e 4 milioni di palestinesi. La convivenza non è nei piani degli occupanti. “Nella prima metà del 2023, i coloni hanno compiuto 591 attacchi nella Cisgiordania occupata, una media di 95 al mese, circa tre al giorno”, spiega un report dell’International Crisis Group (Icg). Prima ancora che Hamas compisse la mattanza di 1.200 persone il 7 ottobre, la media delle aggressioni attribuite ai coloni era cresciuta del 39% rispetto al 2022. Ma gli agguati di cui l’Onu accusa i coloni sono saliti dopo il 7 ottobre, con “le forze israeliane che hanno accompagnato o sostenuto attivamente gli aggressori”, scrive l’Igc. Che avverte: “Molti atti di violenza dei coloni non vengono documentati, poiché comportano intimidazioni o molestie ma non danni alla proprietà o lesioni fisiche. Ma anche in questi casi, gli atti creano un profondo senso di insicurezza tra i palestinesi locali, che temono minacce persistenti ai loro mezzi di sussistenza”. A confermarlo ci sono alcune organizzazioni israeliane tra cui “Yesh Din - Volontari per i Diritti Umani”, fondata nel 2005 da un gruppo di israeliane impegnate “per un miglioramento strutturale e a lungo termine dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati”. Hussam Aida, un contadino palestinese che vive a Sinjil, sul confine nord con la Giordania, ha raccontato che i coloni israeliani hanno danneggiato il suo pozzo, dopo avergli rovinato in precedenza il raccolto e la fattoria. “Fino a 100 mila famiglie palestinesi della Cisgiordania dipendono dalle olive e dall’olio d’oliva come fonte primaria o secondaria di reddito. Negli ultimi mesi - denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane -, e soprattutto dal 7 ottobre, si sono ripetuti atti di violenza da parte dei coloni che hanno costretto quasi 1.000 palestinesi ad abbandonare le loro case, tra cui almeno 98 nuclei familiari, cacciati da quindici comunità di pastori beduini”. L’esercito di Gerusalemme nel migliore dei casi resta a guardare. Il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (Idf), Herzi Halevi, nello scorso giugno era stato chiaro: “Il terrorismo e le sue terribili conseguenze portano alcune persone a commettere atti che sono legalmente ed eticamente proibiti”. Per dirla tutta, secondo Halevi “un ufficiale dell’Idf che sta a guardare mentre un cittadino israeliano sta pianificando di lanciare una molotov contro una casa palestinese non può essere un ufficiale”. Ogni tanto qualche colono viene arrestato e sottoposto a detenzione amministrativa, ma non si ha notizia di condanne né di norme che scoraggino il far west. E dal 7 ottobre la spirale dell’odio innescata da Hamas non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi di Cisgiordania, pregiudicando l’accidentato cammino verso una pace sempre più lontana. Sudan. Il Darfur è diventato il teatro di una catastrofe umanitaria e dei diritti umani La Repubblica, 17 dicembre 2023 Nazioni Unite: lo scoppio del conflitto a Khartoum ad aprile 2023 ha esasperato una crisi che in Darfur non è mai stata del tutto risolta. Nove milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere e circa quattromila sono state prese di mira o uccise a causa della loro etnia. Il Darfur sta tornando agli anni bui, quelli dei combattimenti brutali e delle atrocità che provocarono, venti anni fa, la morte di trecentomila persone e lo sfollamento di milioni di altre. Il contesto storico. Il Darfur ospita circa ottanta tra tribù e gruppi etnici, comunità nomadi e stanziali. Sebbene i conflitti tribali ed etnici non siano mai mancati, la situazione si è aggravata nel 2003 quando i ribelli, in particolare l’Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM), hanno preso le armi contro il governo sudanese per protestare contro l’ineguale distribuzione delle risorse economiche. Questo conflitto ha contrapposto le forze governative sudanesi, sostenute dalla milizia nota come Janjaweed, ai gruppi ribelli che si opponevano al governo autocratico dell’ex presidente Omar al-Bashir. Il risultato di quel conflitto è macabro: trecentomila persone hanno perso la vita e milioni di altre sono rimaste sfollate. In quattrocentomila scapparono in Ciad in cerca di protezione. La storia si sta ripetendo. Sebbene negli ultimi anni il Darfur abbia attraversato fasi di relativa calma con una riduzione della violenza, soprattutto durante il periodo della missione UNAMID, sostenuta dall’ONU e dall’Unione Africana, la situazione è peggiorata in seguito allo scoppio del conflitto a Khartoum, nell’aprile 2023, tra i gruppi paramilitari che formano le cosiddette Forze di supporto rapido e le Forze armate sudanesi. Parlando al Consiglio di sicurezza a novembre, Martha Ama Akyaa Pobee, vice segretario generale delle Nazioni Unite per l’Africa, ha spiegato che le ostilità in Sudan si sono intensificate fino a provocare una convergenza pericolosa tra il peggioramento della crisi umanitaria e una catastrofica situazione dei diritti umani. La violenza. L’UNHCR ha più volte lanciato l’allarme per le continue notizie di violenze sessuali, torture, uccisioni arbitrarie e attacchi contro specifici gruppi etnici. Secondo Volker Türk, capo dei diritti umani delle Nazioni Unite, nel Darfur occidentale centinaia di persone sono morte in attacchi di matrice etnica compiuti dalle Forze di supporto rapido e dalle milizie arabe alleate. “Tali sviluppi riecheggiano un passato orribile che non deve ripetersi”, ha detto Türk, sottolineando come questi mesi siano stati caratterizzati da sofferenze, morte, distruzione e perdite. A luglio la Corte penale internazionale ha avviato un’indagine su presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella regione, in seguito alla scoperta di fosse comuni con i corpi di 87 membri della comunità etnica Masalit, presumibilmente uccisi dalle RSF e dalle milizie affiliate. L’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite segnala l’esistenza di almeno altre tredici fosse comuni a El Geneina, nel Darfur occidentale, e nelle aree circostanti, a seguito degli attacchi delle RSF e delle milizie alleate contro i civili Masalit. Questi atti, se accertati, potrebbero costituire crimini di guerra. Le Nazioni Unite in Darfur. In passato le Nazioni Unite erano presenti in Darfur con la missione UNAMID, istituita dal Consiglio di Sicurezza nel luglio 2007. Il suo mandato comprendeva, tra le altre cose, la protezione dei civili e la facilitazione della distribuzione degli aiuti umanitari da parte delle agenzie dell’ONU e di altre organizzazioni non governative. UNAMID ha lasciato il Paese il 31 dicembre 2020 e il governo del Sudan da quel momento ha assunto la responsabilità di proteggere i civili in tutta la regione, in seguito anche a un accordo di pace stretto tra le autorità sudanesi e i gruppi paramilitari. Fu quindi istituita una missione politica dell’ONU, nota come UNITAMS, per sostenere il Sudan per un periodo iniziale di dodici mesi durante la transizione verso un governo democratico. Tale appoggio includeva l’istituzione della Commissione permanente per il cessate il fuoco. Nel dicembre 2023 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di porre fine al mandato dell’UNITAMS e di iniziare a ridurre le sue operazioni entro un periodo di tre mesi che terminerà il 29 febbraio 2024. La crisi umanitaria. In Darfur i bambini muoiono negli ospedali, la malnutrizione colpisce tanto i più piccoli quanto le madri e i campi che accolgono gli sfollati sono stati rasi al suolo. Martha Ama Akyaa Pobee ha raccontato al Consiglio di Sicurezza che la violenza sessuale e di genere continua senza sosta tra stupri e molestie commessi tanto dalle RSF quanto dalle Forze armate sudanesi. Le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite hanno lasciato il Darfur quando è scoppiato il conflitto dell’aprile 2023 e molte delle loro strutture sono state saccheggiate o distrutte. Alcuni operatori sono tornati sul campo occasionalmente per portare aiuti quando la situazione della sicurezza lo ha consentito. A novembre, per esempio, alcune organizzazioni partner delle Nazioni Unite sono riuscite a raggiungere il Darfur centrale con un viaggio di cinque giorni iniziato a Kosti, nello Stato del Nilo Bianco, per consegnare forniture mediche. Molti operatori umanitari sono stati uccisi in Darfur, mentre altri lavorano in condizioni estremamente difficili per aiutare i civili. Secondo l’Ufficio degli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA) il Sudan rappresenta la più grande crisi umanitaria del mondo, ma il piano di risposta degli aiuti è finanziato solo al 33 per cento. Senza un ulteriore sostegno economico, in Sudan migliaia di persone ancora sono destinate a morire. Ungheria. Il padre di Ilaria Salis: “Mia figlia in carcere trattata come un cane” di Fabio Tonacci La Repubblica, 17 dicembre 2023 La donna rischia 16 anni di carcere ed è detenuta in condizioni disumane. Roberto Salis ha scritto alla premier Meloni (due volte), al Guardasigilli, al ministro degli Esteri, ai presidenti di Senato e Camera, per un intervento diplomatico a tutela dei diritti di sua figlia: nessuno ha risposto. “Non mi ha risposto nessuno, finora…”. Roberto Salis è un padre che sta perdendo fiducia nella politica e nelle istituzioni italiane. Ha scritto alla premier Meloni (due volte), al Guardasigilli, al ministro degli Esteri, ai presidenti di Senato e Camera, per un intervento diplomatico a tutela dei diritti di sua figlia, Ilaria Salis, 39 anni, maestra elementare e antifascista, chiusa da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza a Budapest perché accusata di aver aggredito due neonazisti. Detenuta in condizioni disumane, come la donna ha riferito in una lettera spedita ad ottobre. “Quando la trasferiscono per le udienze viene trattata come un cane”, racconta Roberto Salis, 64 anni, ingegnere, ex dirigente d’azienda. “Tenuta al guinzaglio da un poliziotto, mani e piedi legati con una catena. Ridotta così deve fare quattro rampe di scale. Per più di un mese, dopo l’arresto, ha dovuto indossare gli stessi vestiti e la stessa biancheria. Non le hanno nemmeno dato i farmaci per l’allergia scatenata dalle cimici nel letto”. Cosa spera dal governo italiano? “Che, attraverso i canali diplomatici, faccia pressione su Orban, per far rispettare i diritti di una cittadina italiana. La situazione in cui si trova Ilaria è oltre Kafka: è innocente, eppure rischia 16 anni di carcere per tentato omicidio, a fronte dell’accusa di aver fatto parte del gruppo che ha provocato a due uomini lesioni guarite in 5 e 8 giorni. C’è una sproporzione clamorosa. In passato il governo è riuscito a far cambiare i capi di accusa nel caso di un’italiana che in Kazakhstan era imputata di narcotraffico, quindi qualcosa si può fare”. Sua figlia l’11 febbraio 2023 era a Budapest, ha partecipato al controcorteo organizzato per contrastare il raduno neo-nazi. Come fa a essere sicuro che non ha partecipato a quelle due aggressioni? “Mi ha detto di non aver fatto niente e, da padre, le credo. Ha manifestato insieme ad altri contro dei nazisti, che orgogliosamente si definiscono così. La nostra famiglia ripudia la violenza e sarà la magistratura a stabilire se ha commesso reati. Questo però non cambia un fatto oggettivo: mia figlia, e Gabriele Marchesi, l’altro italiano imputato, sono dalla parte giusta della Storia. I nazisti, e soprattutto quei nazisti, sono dalla parte sbagliata”. È stato scritto che Ilaria è esponente dell’area anarchica milanese. È così? “Non è anarchica e non fa parte di Hammerbande, il gruppo tedesco che promuove assalti contro i fascisti. Ho letto le 800 pagine dell’inchiesta di Lipsia su Hammerbande e il nome di Ilaria non esce mai. È un’insegnante di scuola elementare e un’antifascista vera, militante. E io di questo sono orgoglioso”. Ritiene che l’indagine ungherese sugli scontri dell’11 febbraio sia politicizzata? “Il raduno per il cosiddetto Giorno dell’Onore, in cui vengono celebrate le SS, è sempre stato tollerato dal governo ungherese. Guarda caso nel primo anno in cui è organizzata una contromanifestazione, scattano le indagini…”. Secondo lei perché non ha ricevuto risposta dal nostro governo? “Non lo so”. C’entra qualcosa il fatto che la premier sia molto vicina a Orban, e sua figlia sia dichiaratamente antifascista? “Non riesco a capire che vantaggio avrebbe il governo a non fare niente. Anzi, promuovendo un’azione umanitaria per un’oppositrice politica avrebbe tutto da guadagnare, no?”. Sta cercando di sottrarre sua figlia al processo? “No, vorrei solo che le concedessero i domiciliari in Italia. È un suo diritto. Tramite i nostri avvocati abbiamo presentato domanda quattro volte, quattro volte è stata respinta per rischio di fuga. Devo pensare che gli ungheresi non si fidino del nostro sistema giudiziario. C’è però una decisione quadro dell’Ue che regola le misure cautelari, ma l’Ungheria non la sta applicando, per questo ho scritto al ministro Nordio”. Come state vivendo questa situazione in famiglia? “Passo il tempo a tradurre dall’ungherese gli atti d’indagine, perché non ce li hanno dati in italiano. Mia moglie, ex insegnante, si sveglia alle 4 di notte. E mi sveglio anch’io. Rimaniamo così per ore, con gli occhi a guardare il soffitto, aspettando che qualcuno ci risponda”.