Sentirsi “come se non fossimo più persone” di Raffaele D.* L’Unità, 16 dicembre 2023 Antonio era un ragazzo di 35 anni, arrivato da poco in sezione. La prima volta che l’ho visto mi ha colpito la sua corporatura, e ho notato subito diversi tagli, uno dei quali molto grosso nella parte interna del gomito. Gli era stata assegnata una cella poco distante dalla mia, lui socializzava con tutti, ma allo stesso tempo viveva un po’ nel suo “mondo”, forse anche per il fatto che prendeva tanti medicinali. Quel 30 agosto erano passate da poco le 20 quando, con tutta la sezione chiusa e liberi solo un paio di lavoranti, ho visto l’addetto alle pulizie che correva dicendo che un ragazzo si era “appeso”. A quel punto, mentre il lavorante scappava ad avvisare il personale, è partito un allarme generale. Noi detenuti abbiamo cominciato a sbattere diversi oggetti sulle porte: dalle pentole ai mattarelli. Sono stati minuti interminabili, non saprei dire con precisione quanto tempo è trascorso prima dell’arrivo dell’agente, che in quel momento si trovava in un’altra sezione per un altro tentato suicidio. Finalmente l’agente è arrivato ed ha aperto la porta di Antonio. Mentre i due lavoranti-detenuti cercavano di sollevare il corpo, io ho chiesto che venisse aperta anche la mia cella per poter dare una mano. Con delle forbicine chicco mi sono fondato subito a dare una mano. Il lavorante, nonostante fosse la metà di lui, cercava con fatica di sorreggerlo. Io ho provato a rimanere il più freddo possibile: ho tagliato il laccio che gli stringeva il collo, mi sono caricato Antonio su una spalla e con l’aiuto di altri due detenuti che gli tenevano i piedi, lo abbiamo portato nel corridoio Una volta poggiato a terra, mi sono reso conto di quanto il viso fosse nero e gli occhi, avendo tutti i capillari rotti, erano diventati completamente rossi e sporgenti. Ho controllato che non avesse niente in bocca che gli ostruisse il respiro e ho cominciato il massaggio cardiaco. Dopo due o tre sequenze, lo abbiamo sentito rantolare. Ho continuato con un altro massaggio fino a che non mi è sembrato che respirasse autonomamente. Abbiamo aspettato che qualcuno recuperasse una barella e l’abbiamo portato in infermeria. In quel momento tutta la sezione si è sentita invadere da un momentaneo entusiasmo. Il dubbio che le cose non fossero andate bene come ci eravamo immaginati mi venne, quando la mattina seguente mi accorsi che l’ispettore e il comandante stavano chiudendo la cella di Antonio per sigillarla con dello scotch e timbri del ministero. La conferma della sua morte ci arrivò poco dopo l’apertura. Nelle settimane successive dalla tv ho scoperto che nelle carceri italiane si erano tolti la vita in quei giorni altri tre detenuti, a Busto Arsizio, Regina Coeli e Viterbo. Mi sono chiesto spesso, avendo vissuto in 13 diversi istituti detentivi, se il problema dei suicidi in carcere non sia legato alla visione della pena unicamente punitiva, che porta con sé un forte senso di abbandono e di violenza motivata dalla credenza che questo tipo di modello sia l’unico possibile. La prima cosa necessaria per prevenire i casi di suicidio sarebbe aumentare il personale. Gli agenti sono spesso sotto organico e si ritrovano a controllare più sezioni e a non fare in tempo ad intervenire in caso di bisogno. Gli educatori e gli psicologi seguono molto spesso più di cento persone a testa. Molti detenuti poi si trovano in carcere ed invece dovrebbero stare in comunità, perché hanno problemi psichiatrici o di dipendenza da sostanze, come Antonio, che aveva una storia di tossicodipendenza e stava aspettando un posto in comunità. E poi si dovrebbero aprire di più le strutture carcerarie al mondo esterno, in modo da non farci sentire isolati ed emarginati. Il suicidio di Antonio è avvenuto il 30 agosto, la mattina del 31 ho chiesto come mai una persona come lui, che già altre volte aveva tentato il suicidio, era stata messa in una cella singola, senza nessuno che gli stesse accanto. “Eh, sono cose che capitano” mi sono sentito rispondere. Non ho potuto non provare un senso di impotenza, amplificato anche dalla sensazione di disinteresse, rassegnazione e disumanità che troppo spesso regna in posti come questi, come se non fossimo più persone, come se solo così dovesse e potesse andare. Mi domando se noi tutti avremmo potuto dare più importanza a una frase di Antonio, a un suo gesto, a un suo silenzio, forse se l’avessimo fatto le cose non sarebbero andate così. Quando penso ad Antonio mi vengono in mente, anche se leggermente modificate, le parole di Fabrizio De André: “Anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti”. *“Alcatraz”, rubrica a cura di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti Suicidi in carcere, 67 da gennaio. Un’enormità di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 16 dicembre 2023 Ogni cinque giorni si ammazza un detenuto nelle carceri d’Italia. Un elenco tragico che ho deciso di riportare qua di seguito, per restituire loro memoria e in alcuni casi anche giustizia (molte di queste storie le conosciamo grazie alla tenacia informativa di Ristretti Orizzonti). Indira Rustich, 37 anni, si è suicidata a Trento il 10 dicembre. Il 10 dicembre è il giorno in cui vengono celebrati i diritti umani. Si sarebbe impiccata sotto la doccia. Pare avesse da scontare poche settimane ancora di carcere. Saidiki Oussama, Mortaza Fahradi e Cristian Mizzon sono tutti morti per propria mano nel carcere di Verona. Quest’ultimo sarebbe stato classificato come morto per overdose. Sedhawi Ahmed, Oumar Dia, Davide Pessina, Italo Calvi, un signore sconosciuto moldavo, Rosario Curcio, Luis Fernando Villa Villalobos sono tutti morti suicidi nelle galere milanesi di San Vittore e Opera. Nel solo carcere romano di Regina Coeli si sono tolti la vita Riccardo Bianchi, Denys Molchanov, Alessandro Di Gianbattista nonché un signore libico di cui non conosciamo il nome. E poi ancora Ibrahim Ndiagne, Rodolfo Hilic, Davide Bartoli, G.Z., F.A., C.S. e F.L. (italiani), Damiano Cosimo Lombardo, Makrem Ben Rahal, O.M. e T.R. (marocchini), Erik Roberto Masala, Antonio Di Mario, Andrea Muraca, le donne Azzurra Campari, Graziana Orlaray e Susan John (tutte nella sezione femminile del carcere di Torino), Federico Gaibotti, Massimo Alfieri, Angelo Libero, Alexandre Sante de Freitas, Alexandru Lanosi, Francesco Cufone, Bessem Degachi, Abdelilah Ait El Khadir, Luca Maiorano, Massimo Del Mas, Onofrio Pepe, Giacomo Maurizio Ieni, Mbengue Babacar, Liborio Zarba e Victor Pereshshako (nel giro di qualche giorno dopo un lungo sciopero della fame si sarebbero lasciati morire nel carcere di Augusta), Pino Carmelo, Gaetano Luongo, Filippo Giovanni Corrao, Angelo Frigeri, Unici Xhafer, Aymes Dahech, Luca Di Teodoro, Michele Pellecchia, Fabio Romagnoli, Fabio Gloria, Moura Chaid e altri ancora le cui identità non sono certe e note (molte delle storie le conosciamo grazie alla tenacia informativa di Ristretti Orizzonti). Sino al numero di sessantasette detenuti che si sono suicidati o forse anche più, in base a come viene classificata una morte dalla dinamica incerta. Tra i 67 morti suicidi nelle prigioni italiane dal primo gennaio del 2023 c’è Fakhri Marouane che si è dato fuoco nel carcere di Pescara lo scorso luglio. Era una delle vittime delle violenze brutali avvenute nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Aveva avuto il coraggio di testimoniare su quello che era accaduto a lui e agli altri. Chiunque lo abbia conosciuto ha raccontato di una persona profonda, interessata alla cultura e all’arte. Nessuno si immaginava che si sarebbe tolto la vita in quel modo così doloroso. Sessantasette morti suicidi sono una enormità. I detenuti nelle carceri italiane stanno salendo vertiginosamente e sono al momento circa 60 mila. Più o meno gli stessi abitanti di una piccola città come Viareggio. Ma se a Viareggio dall’inizio dell’anno si fossero ammazzate 67 persone, tra cui giovani e anziani, donne e uomini, italiani e stranieri non sarebbe questa diventata la prima notizia di tutti i media e giornali? E qualcuno non avrebbe cercato di indagare sulle eventuali responsabilità sociali, istituzionali, pubbliche, di fronte a numeri così fuori scala? Ogni detenuto morto suicida è sicuramente una storia a sé che non si risolve andando alla ricerca di capri espiatori da sanzionare. Non si risolve sanzionando il poliziotto che si sarebbe distratto o lo avrebbe perduto di vista per qualche secondo fatale. Si affronta guardando alle cause sociali, culturali e strutturali del sistema penitenziario italiano. Modernizzando una vita penitenziaria che ancora si snoda con ritmi e riti premoderni; aprendo le carceri al territorio; non chiudendo le persone in cella per venti ore al giorno; non burocratizzando tutta la vita penitenziaria; non rendendo difficile ogni contributo esterno di volontari, associazioni, cooperative, scuole e università; riempiendo di vita le giornate delle persone; assumendo migliaia di giovani operatori che abbiamo la voglia e il tempo di trasformare numeri di matricola in donne e uomini con i loro problemi, le loro storie, i loro fallimenti. *Presidente dell’Associazione Antigone Il carcere crea malattia, e che ne è di chi entra già malato mentale, poi come ne uscirà? di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 16 dicembre 2023 Nel cuore pulsante milanese, esiste il mondo poco noto della Casa Circondariale di San Vittore, che con il suo design panottico, si rivela non solo luogo di detenzione, ma anche il palcoscenico per uno dei momenti più ambiti, la Prima alla Scala, quest’anno annerito da una tragedia umana. È successo a Milano nel carcere di San Vittore, mentre invitati esterni, tra cui io, e detenuti, partecipavano mediante megaschermo, alla Prima del Don Carlos alla Scala. Un detenuto egiziano di 46 anni, tenta il suicidio per poi morire poco dopo in ospedale, evento che colpisce sempre più i nuovi giunti, in particolare giovani. Il trasmettere per i detenuti la Prima della Scala nella Casa Circondariale di San Vittore è un evento che si ripete felicemente dal 2013, nel tentativo di intrecciare la magia della lirica con la realtà della vita dietro le sbarre. Quest’anno la Prima si è trasformata in un palcoscenico unico, dove le sublime note di Don Carlo di Verdi hanno incontrato la realtà carceraria in una struttura dal passato “redentivo” del XIX secolo. La serata ha preso una piega inaspettata durante il secondo atto, con un improvviso via vai dal quinto Raggio, di operatori sanitari e membri delle forze dell’ordine, catturando l’attenzione degli spettatori, creando un’atmosfera densa di preoccupazione e drammatica emergenza, fino alla comunicazione, con profonda umanità e competenza da parte del Direttore, del grave fatto avverato dietro le sbarre. Nel vuoto seguito all’annuncio, si è svelata una realtà non nascosta, ma da anni sbandierata dietro le sbarre: il problema del suicidio in carcere specie per i nuovi giunti e con preminenza giovanile, dramma che si è manifestato nella sua cruda realtà, superando la magia dell’opera di Verdi proiettata sullo schermo. In quella sera, detenuti e ospiti, hanno condiviso la consapevolezza dell’importanza di ascoltarsi reciprocamente, consci che alcune considerazioni di fondo rimangono inascoltate e granitiche nella loro immutabilità; sono le continue denunce rilevate anche dai mass media nazionali e che condivido, su persone detenute poste all’ammasso, verso cui non si intravede alcuna politica governativa agli atti, in grado di risolvere il problema. Anni fa in situazioni analoghe presentai due proposte, che riconfermo nella loro attualità: la prima fu accettata con modifiche, per attenuare in modo immediato il sovraffollamento senza ricorrere alle “grazie regie” e verteva sulla liberazione anticipata che poteva essere aumentata di un anno per chi aveva avuto una applicazione positiva e per chi non aveva reati di particolare gravità; la seconda, non accettata, partiva dalla considerazione che l’aver cancellato gli Ospedali Psichiatrico Giudiziali per portare i malati di mente in carcere, mi trovava e mi trova in totale disaccordo. Attualmente in Italia esistono le REMS, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè strutture sanitarie di accoglienza per autori di reato affetti da disturbi mentali (infermi di mente) e socialmente pericolosi, con gestione interna di esclusiva competenza sanitaria, poiché afferenti al Dipartimento di Salute Mentale delle ASL di competenza. Le REMS (poste all’interno del contesto carcere) possono ospitare al massimo 30 posti: contenitore non sufficiente per un numero sempre in aumento in quanto la depressione in carcere è endemica ed è tenuta a bada con forti dosi di ansiolitici. Quindi il carcere crea malattia, e che ne è di chi entra già malato mentale, poi come ne uscirà? Forse sarebbe il caso di rivedere proposte passate nelle idee migliori e riprenderle, adattandole al presente, senza ricercare l’araba fenice che salva e risolve. Quando si parla di strutture contenitive perché riferirsi costantemente ai colossi del neo regno italico/sabaudo immensi, vetusti, solenni che non più intimidiscono dall’esterno ma consumano, chi vi entra, dall’interno? La proposta che indico, è la creazione diversificata di strutture custodialistiche, quando non sono possibili quelle non custodiali, in base alla tipologia di reato ed alla pericolosità criminale, che può non essere quella della condanna per i malati mentali responsabili di reati, e per chi non ha risorse esterne per beneficiare di pene alternative. Per questi ultimi il carcere rimane un bene rifugio, in quanto fuori non avrebbero altra soluzione che commettere reati, perché non hanno nessun supporto esterno, o per chi preferisce il carcere alla prospettiva del rimpatrio. Il contenitore custodiale può avere altro aspetto, meno costoso e più funzionale, riutilizzando strutture dismesse e non utilizzate dallo Stato, senza riproporre le stesse architetture e le stesse modalità operative/organizzative datate 1861. Può anche distribuire nuove pene, come quelle economiche, che per certi reati appaino maggiormente punitive che quelle custodiali. Infine nei nuovi e diversificati luoghi detentivi dovrebbero lavorarci agenti di polizia penitenziaria preparati e motivati, che non li considerino posti di lavoro punitivi, ma il fiore all’occhiello della Giustizia in quanto a vari gradi, anche alti, tutti chiamati lì a operare. Forse così si potrebbe invertire il primato crescente dei suicidi tra detenuti e tra agenti, favorendo un buon trattamento, attualmente troppo assicurato dalla quantità di psicofarmaci somministrati ai detenuti. *Ex dirigente superiore dell’A.P., ex Giudice Onorario Ministro Nordio ci faccia un vero dono: passi il Natale coi detenuti e porti con sé anche Meloni di Valter Vecellio Il Dubbio, 16 dicembre 2023 Il sogno. Per Sigmund Freud (ovviamente si procede a colpi d’accetta), il modo in cui il nostro inconscio comunica con noi, mostra il nostro desiderio o cose che proviamo, ma non si riesce ad accettare; cosicché la mente ci “inganna”, le camuffa, rendendole storie e/ o immagini senza senso apparente. Altra la teoria di Carl G. Jung: “il materiale onirico non consiste solo di ricordi, ma racchiude nuovi pensieri che non sono ancora coscienti”. Infine, Jacques Lacan: il sogno non si limita a trasporre semplicemente “materiali” già dati; disegna un circuito grazie al quale “sorge qualcosa di nuovo”. Freud, Jung o Lacan, se accade di sognare Claudio Bisio? Il Bisio di Benvenuto Presidente! e di Bentornato Presidente!, i film di Riccardo Milani e della coppia Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi. Il Bisio che interpreta lo strampalato montanaro Giuseppe Garibaldi, eletto per disperazione presidente della Repubblica prima, del Consiglio dopo, perché politici e forze politiche ben riconoscibili non riescono a trovare un accordo. Strampalato ma saggio, questo Garibaldi; forte di quella saggezza di cui sembra essersi smarrita memoria. Sarebbe bello se anche solo per un giorno, al Quirinale o a palazzo Chigi ci fosse un Garibaldi/ Bisio. Qui, ora, il sogno di fa serio. Damiano Aliprandi su questo giornale informa che in pochi giorni nelle carceri di Parma, Milano San Vittore e Verona- Montorio tre detenuti si sono tolti la vita in meno di un mese: “Le carceri italiane hanno vissuto un’epidemia di suicidi, con ben 66 detenuti che si sono tolti la vita”. Per il presidente dell’Unione delle Camere Penali Francesco Petrelli “la terribile sequenza di suicidi di detenuti che si sono tragicamente verificati in questi ultimi giorni costituisce non solo un richiamo alla responsabilità delle istituzioni e del Governo, ma anche una denuncia del fallimento delle politiche carcerocentriche”. Il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella ricorda: “Abbiamo superato i 60 mila detenuti. Ci stiamo avvicinando al numero dei suicidi del 2022 quando ci fu il massimo storico. Questo è segno del dissesto del nostro sistema penale penitenziario, perché ovviamente non è così che si costruisce sicurezza. Così si negano i diritti, così si nega quella funzione della pena che è in Costituzione”. Un anno fa, di questi tempi, il leader della Lega Matteo Salvini, a suo dire sconcertato per la fuga, senza troppa fatica, di alcuni ragazzi (poi ripresi, sempre senza troppa fatica) dal carcere minorile milanese Cesare Beccaria annunciava come lui sa annunciare “interventi per mettere in sicurezza tutte le carceri italiane”. Magari si fosse dato seguito a quella promessa: si fosse fatto qualcosa di organico, strutturale per porre rimedio all’incivile situazione delle carceri italiane, per davvero “mettere in sicurezza” chi vi sconta le pene e chi vi ci lavora: detenuti, agenti, comunità penitenziaria. Niente, invece. Nel 2022 ci sono state quasi un centinaio di “evasioni”, queste definitive: detenuti che hanno “lasciato” la cella impiccandosi, o avvelenandosi con il gas, o stringendosi al collo un sacchetto di plastica; ora “riposano” in altrettante bare. Don David Maria Riboldi la realtà delle celle la vive tutti i giorni, cappellano del carcere di Busto Arsizio, fondare della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. A chi propone di costruire nuove carceri oppone una ragionevole contestazione: “Le sigle sindacali lamentano sempre e non senza ragioni la grave carenza di organico già allo stato attuale nella gestione dei penitenziari. Non si riesce ad avere personale per le carceri che già abbiamo: come possiamo immaginare di crearne di nuove?”. Racconta poi che nella sua cooperativa in due anni hanno accolto una dozzina di persone: “Nessuna di loro ha commesso nuovi reati. Forse la soluzione non è costruire nuove carceri, ma favorire misure alternative alla detenzione, che danno risultati decisamente più “rassicuranti” in termini di recidiva”. Si chiama, in termine tecnico-giuridico “giustizia riparativa”: misure alternative al carcere e percorsi di studio e professionalizzanti che offrono ai detenuti un’alternativa seria, fatta di lavoro e di normalità, alla tentazione di ritornare alla “malavita”. Questo è un modo serio per affrontare la questione del carcere, senza indulgere nelle “sparate” demagogiche di chi è a caccia di facili consensi di “pancia”. È quello che da anni sostiene don Ettore Cannavera, alle spalle una lunga esperienza di cappellano carcerario, fondatore e animatore de “La Collina” (una comunità che strappa, letteralmente, detenuti minorenni dal carcere e li reinserisce nella società), presidente del Partito Radicale: “Il carcere è strutturalmente, pedagogicamente inidoneo a questo percorso di recupero e quindi ecco trovarci, paradossalmente, più malavitosi formatisi nelle nostre carceri a spese della collettività”. Cannavera propone una diversa impostazione e trasformare le carceri, soprattutto quelle minorili, in “comunità educanti”. Si torna ora al “sogno”. Il presidente della Repubblica ha il potere di domanda di grazia. Si informa del numero di detenuti suicidi degli ultimi dieci anni, e annuncia che per ogni suicidio firmerà una domanda di grazia. Un presidente della Repubblica Bisio/ Garibaldi forse lo farebbe. Un piccolo personale indulto, insomma. E non solo “grazie” quanto il numero dei detenuti suicidi. Si informerebbe anche su quanti agenti di custodia si sono tolti la vita: più di quanto si creda e si immagini: anche loro fanno una vita da carcerati, patiscono le condizioni incivili dei detenuti e ne risentono. Loro e le loro famiglie. Altro sogno: il ministro della Giustizia Carlo Nordio chiede udienza al presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Ho saputo che, come ogni anno, il Partito Radicale organizza Natale e Capodanno in carcere. Ho contattato il segretario Maurizio Turco, la tesoriera Irene Testa e chiesto loro di accompagnarli, a Natale e Capodanno, nelle loro visite in carcere. Sarebbe bello se ci fossi anche tu, Giorgia”. Cosa sono, Freud, Jung, Lacan, questi sogni? Mi limito a dire: adda veni Garibaldi! Carcere, è tempo di valutarlo come un servizio pubblico di Ilaria Dioguardi vita.it, 16 dicembre 2023 Uno studio mette in luce l’importanza di studiare e valutare il sistema penitenziario sotto l’aspetto economico-aziendale, che porta a focalizzare l’attenzione sulla coerenza tra missione e performance e, quindi, sull’adeguatezza dei modelli organizzativi a supporto del fine istituzionale. “Ragionare in termini di performance permette di recuperare una visione di sistema”, afferma Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale dell’Università Lumsa di Roma. Gli studi aziendali hanno storicamente ignorato gli istituti penitenziari, abitualmente oggetto di altre scienze sociali. Eppure le carceri, come le scuole, le università, gli ospedali e tutte le amministrazioni pubbliche sono istituzioni che forniscono alla collettività un servizio pubblico finanziato con le tasse dei cittadini. Di recente è stato pubblicato il working paper “Il sistema penitenziario come pubblica amministrazione. Mission, performance, costi e modelli organizzativi”, scritto a quattro mani da Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale dell’Università Lumsa di Roma e co-direttore del Master in Management e Politiche pubbliche, e Antonio Walter Rauti dell’Università degli Studi di Milano e componente del team di ricerca del Pnrr Lab di Sda Bocconi School of Management. Giordano, cosa può dirci di questa vostra ricerca? Per analizzare gli istituti di pena dal punto di vista economico-aziendale è necessario collocarsi nella prospettiva del management pubblico. L’obiettivo di questa ricerca è rimarcare l’importanza per il decisore pubblico di adottare un approccio evidence-based nella valutazione ed elaborazione delle politiche pubbliche nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria. Abbiamo ritenuto interessante ragionare sul concetto economico-aziendale di performance del sistema penitenziario. È un concetto presente oggi nel linguaggio della pubblica amministrazione italiana e che è stato introdotto da un punto di vista normativo dal decreto Brunetta 150/2009. Secondo la norma, la performance può essere organizzativa o individuale, ma c’è anche una performance di sistema intesa come risultato complessivo dell’azione pubblica in un determinato ambito o servizio pubblico. Accostare la parola performance a un sistema penitenziario ha un duplice obiettivo. In primis significa riconoscere che il sistema penitenziario offre un servizio alla collettività (e che quindi che ci sono delle aspettative collettive nei confronti di questo comparto dell’amministrazione pubblica). In secondo luogo, dal punto di vista della gestione, ragionare in termini di performance significa considerare che i dati sul sistema non sono semplici statistiche ma il risultato di ciò che l’amministrazione pubblica fa e ci mette in quel servizio. Pertanto, i dati devono essere la base su cui poggiare le scelte di allocazione delle risorse e organizzative. In altri termini il concetto di performance permette di stimolare il sistema penitenziario a darsi degli obiettivi da raggiungere, a mettere in campo azioni correttive e misurarne gli esiti. Questo aiuterebbe anche a dare un senso maggiore al lavoro degli operatori. Cosa ci mette l’amministrazione pubblica nel sistema penitenziario? Ci mette risorse finanziarie, persone (che portano non solo competenze ma anche cultura e valori), spazi e infrastrutture. Il ragionamento sulla performance del sistema penitenziario deve, prima di tutto, riguardare l’adeguatezza delle risorse a disposizione e dei modelli organizzativi a supporto rispetto alla complessità della sua missione. Può spiegarci in cosa è complesso il sistema penitenziario? La complessità del carcere è data dal fatto che deve perseguire strutturalmente una molteplicità di obiettivi riconducibili a due macro-aree: quella della sicurezza (intesa come complesso di attività che devono garantire l’esecuzione penale, l’ordine e la sicurezza interna, la tutela delle persone vulnerabili, la prevenzione dei rischi, la protezione della società) e quella educativa, il cosiddetto trattamento (intesa come complesso di pratiche che ha lo scopo di “rieducare” i detenuti e restituirli alla società nella prospettiva del reinserimento sociale, ndr). I concetti di sicurezza e rieducazione necessitano di essere declinati e adattati alle specificità dell’utenza e alle caratteristiche dei singoli istituti di pena. Per questo ragionare in termini di performance costringe a sviluppare un pensiero con implicazioni operative rispetto a queste due dimensioni dell’agire organizzativo. Nella ricerca si parla anche di equità e di etica... Equità è la capacità del sistema di non trattare tutti allo stesso modo, è riconoscere la necessità che, per raggiungere uno stesso risultato, bisogna erogare un servizio con ingredienti e intensità diverse a seconda delle specifiche caratteristiche dell’utente. Persone straniere, con gap culturali, con problemi di tossicodipendenza richiedono interventi ad hoc. Nel sistema penitenziario è necessaria un’offerta basata sull’individualizzazione e sulla personalizzazione. Va offerto un servizio individualizzato, costruito sulla base delle caratteristiche del singolo detenuto. Il tema dell’individualizzazione e della personalizzazione è uno dei temi centrali, attorno a cui hanno ruotato molte riforme che sono state fatte in altri paesi. Il tema dell’etica invece richiama l’annoso dibattito sulle condizioni delle carceri tra chi chiede condizioni più dignitose di detenzione e chi considera la scarsa qualità del “servizio” un elemento connaturato alla natura punitiva della condizione carceraria. La dimensione etica di un servizio è riferibile all’accettabilità politico-sociale del suo livello quali-quantitativo, delle risorse ad esso assegnate. Questo tema ci interroga sulla cultura che abbiamo come paese. Creerebbe più scandalo in Italia una cella spartana, magari anche in cattive condizioni, o una cella ben arredata funzionale allo studio e in generale a condurre una vita dignitosa? Anche per quanto riguarda i dati, bisognerebbe personalizzarli e lavorare per avere sempre più dati disaggregati? Sì, ad esempio abbiamo poche informazioni sugli esiti dell’esecuzione penale in termini di inclusione sociale. I dati che circolano sulla recidiva sono poco solidi dal punto di vista scientifico, sono necessari seri approfondimenti. Per avere una misurazione solida è, per esempio, necessario circoscrivere il concetto di recidiva rispetto all’orizzonte temporale di misurazione (un conto è misurare la recidiva a distanza di un anno, altro è a cinque anni). Bisogna considerare le caratteristiche sociali e la condizione socio-sanitarie delle persone, il tipo di reato, l’età, la nazionalità, ecc. E, quindi, valutare quali sono le cause dei comportamenti recidivanti, quali attività rieducative funzionano su certi target e quali no. Un dato complessivo sulla recidiva, ammesso che ci sia, non ci aiuta nello sviluppo di politiche pubbliche efficaci. l dati disaggregati ci fanno capire dove e come intervenire. Che il lavoro abbatte la recidiva è ovvio, se si ha un’opportunità lavorativa ci sono meno probabilità di tornare in carcere nel breve periodo. Ma come deve essere progettato un intervento di reinserimento lavorativo per essere efficace rispetto ad uno specifico target? Le ricerche sulla recidiva devono aiutarci a rispondere a questa domanda. Come si può fare un salto di qualità dal punto di vista della ricerca, in ambito penitenziario? Le istituzioni devono aiutare i ricercatori, l’elemento di criticità rispetto allo studio di questi fenomeni è la qualità dei sistemi informativi oggi, sia dal punto di vista della rilevazione dei dati sia dal punto di vista dell’integrazione dei dati, della capacità dei dati di “parlare” ad altri dati. C’è un problema di integrazione dei dati tra il Ministero della Giustizia e altre istituzioni che lavorano e collaborano sul tema dell’esecuzione penale, penso agli enti territoriali della scuola, della sanità e dei servizi di welfare. È l’integrazione di dati provenienti di queste istituzioni che ci permette di capire se il sistema di esecuzione penale genera inclusione o esclusione sociale. Lei studia da quasi dieci anni il sistema penitenziario, da un punto di vista economico-aziendale. In quest’arco di tempo, l’istituzione penale in Italia, secondo lei, ha fatto dei passi in avanti? Non vorrei rischiare di essere banale, ma c’è veramente ancora molto da fare. Il linguaggio della disciplina economico-aziendale manca al mondo della giustizia ed questo è il motivo per cui abbiamo iniziato a sviluppare dei ragionamenti sul tema della performance ma anche in passato sull’organizzazione. In questi anni ho studiato questo mondo mettendo più a fuoco i problemi. Adesso è il tempo di pensare e studiare soluzioni. I problemi sono condivisi da tutte le componenti dell’amministrazione penitenziaria, il salto di qualità è quello di studiare soluzioni condivise. In confronto a quello di altri paesi, com’è il sistema penitenziario italiano? Nella nostra ricerca, abbiamo provato a mettere a confronto il sistema penitenziario dell’Italia, sulla base dei dati disponibili degli osservatori nazionali e internazionali, con altri paesi più vicini a noi come caratteristiche: Spagna, Germania, Francia, Uk, Norvegia. Abbiamo cercato di capire quali riforme siano state fatte in questi paesi. Abbiamo un sistema che costa relativamente di più rispetto agli altri. L’incidenza sul Pil della spesa sull’amministrazione finanziaria è dello 0,14%, la più alta. Vediamo questa spesa alta anche nella spesa pro-capite, 55,49 euro. Abbiamo deciso di inserire nella ricerca, tra gli indicatori, la spesa pro-capite perché il costo per detenuto è un dato assolutamente fuorviante: più detenuti hai, più il costo medio scende. Il costo alto può significare o che ci sono meno detenuti o che si ha un servizio con una qualità maggiore. Un altro indicatore che potrebbe stimolare la riflessione è la composizione del personale di custodia sul totale, al 92% in Italia, il dato più alto tra i paesi analizzati, dove oscillano tra il 52% della Spagna e l’87,55% della Germania. Questo vuol dire che il 92% del personale si occupa di sicurezza nelle carceri italiane, e questo pone un problema in termini di bilanciamento di competenze e conferma come il nostro sistema storicamente abbia prestato maggiori attenzioni e risorse al tema della sicurezza. Nelle carceri italiane la rieducazione e il reinserimento sono sistematizzati? No, manca una reale politica pubblica sul tema della rieducazione e del reinserimento. Per politica pubblica intendo una regia nazionale e una strategia, che si traduca in risorse e interventi organici e duraturi. Sono riservate al trattamento poche decine di milioni, dei circa tre miliardi di budget dedicati al sistema. Tutto quello che accade nei singoli istituti, dal punto di vista trattamentale, è prevalentemente legato alle risorse messe a disposizione dai territori. L’attività trattamentale in carcere è totalmente affidata alla libera iniziativa della società esterna, in prevalenza enti del Terzo settore. Una percentuale bassissima sia di risorse che di progettualità provengono dall’amministrazione penitenziaria. La presenza di pochi attori specializzati sul reinserimento dei detenuti rende la maggior parte di queste iniziative estemporanee e precarie poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I progetti di rieducazione sono, dunque, a carattere locale e di piccole dimensioni, sia dal punto di vista delle risorse impiegate che del numero detenuti coinvolti. Quindi sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo le opportunità offerte ai detenuti sono molto differenti da carcere a carcere. Quello che accade in una città come Milano dipende dal privato sociale molto attivo, che propone e svolge attività all’interno degli istituti. Le opportunità che sono offerte a un detenuto del carcere di Bollate sono sicuramente maggiori di quelle offerte nelle carceri meridionali, ad esempio. Anche la situazione regionale è molto eterogenea, nella stessa Lombardia ci sono disparità strutturali. In Lombardia non esiste solo Milano, ma ci sono anche territori meno ricchi di risorse come il pavese, il cremonese e il mantovano. Questo evidenzia la necessità di sviluppare programmi nazionali e progetti di più ampio respiro, con possibilità di scaling up, in grado di raggiungere impatti più significativi. Per quanto riguarda, nello specifico, le opportunità lavorative per i detenuti, cosa ci può dire? Un terzo dei detenuti, in questi anni, ha avuto opportunità lavorative. Di queste persone, il 29% ha avuto rapporti di lavoro con l’amministrazione penitenziaria, il 4% ha avuto opportunità lavorative grazie alle cooperative sociali, meno dello 0,4% dei detenuti ha lavorato per imprese. Questo significa che le opportunità di lavoro qualificato per le persone detenute oggi sono pochissime. Lavoro qualificato vuol dire lavoro effettivamente riabilitante: portare il vitto nelle sezioni o fare le pulizie fa guadagnare qualche soldo, ma non qualifica. Per lavoro qualificato intendo opportunità che facciano acquisire competenze e che aprano alla possibilità di inserimento. Su questo c’è ampio spazio per il protagonismo delle imprese. No ai libri: i pm si accaniscono su Cospito di Frank Cimini L’Unita, 16 dicembre 2023 L’unica cosa che Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis nel carcere di Sassari Bancali, può fare per passare il tempo è leggere che tra l’altro resta la sua passione da sempre. Ma può, diciamo, rifornirsi solo dalla biblioteca destinata ai reclusi del 41bis. Nei giorni scorsi, racconta l’avvocato Maria Teresa Pintus che assiste l’anarchico insieme a Flavio Rossi Albertini, è stata celebrata un’udienza davanti al Tribunale di Sorveglianza. L’oggetto del contendere era la possibilità di accedere all’elenco dei libri contenuti nella biblioteca centrale del carcere perché in quella del 41bis sono veramente pochi. L’avvocato ha chiesto anche di poter utilizzare i libri contenuti nella biblioteca del comune di Sassari. Il pm ha chiesto ai giudici di rigettare il reclamo perché non si tratta di un diritto e perché i libri non possono entrare da altre vie. La richiesta ovviamente faceva riferimento alla possibilità di ricevere i libri attraverso gli agenti penitenziari. Ma il magistrato non ha voluto sentire ragioni. Adesso il Tribunale di Sorveglianza ha cinque giorni di tempo per decidere ma si tratta di un termine assolutamente non perentorio. Insomma la tortura continua. I libri evidentemente nella logica dei burocrati del carcere sono un pericoloso veicolo di messaggi, soprattutto quelli della biblioteca centrale della prigione, per non parlare di quella del Comune di Sassari. Alfredo Cospito oltre che scontare la condanna per i pacchi bomba di Fossano (nessun morto, nessun ferito, 23 anni di reclusione, più del doppio per il ferimento del manager Roberto Adinolfi) sta pagando una sorta di reato politicamente molto più grave, il lungo sciopero della fame di sei mesi che aveva messo in crisi il sistema dove a un certo punto non sapevano più che pesci pigliare. Di qui l’accanimento terapeutico sui libri, la negazione di un compact disk musicale, il blocco di due magliette dove sarebbero stati raffigurati dei teschi e invece non era vero. Insomma un 41bis che va ben oltre lo spirito e la lettera dell’articolo più duro del regolamento penitenziario. Per il resto Alfredo è in attesa della fissazione dell’udienza sulla revoca del 41bis chiesta dagli avvocati dopo la mancata risposta del ministro Nordio. Se ne occuperà il Tribunale di Sorveglianza di Roma l’unico in tutta Italia dove si discutono i reclami contro l’applicazione del carcere duro. Perché evidentemente non ci si fida dei tribunali territoriali violando persino il principio del giudice naturale. Il tutto nel silenzio generale, perché da tempo di Cospito sui giornali si parla esclusivamente come riflesso del processo per violazione di segreto al sottosegretario Andrea Del Mastro. E lui l’anarchico, sulla cui pelle i partiti regolano i conti tra loro, ai suoi legali ha riferito di divertirsi a leggere le notizie sul caso che indirettamente lo riguarda. Duello Renzi-Delmastro: “Non avete messo Nordio nelle condizioni di lavorare” di Liana Milella La Repubblica, 16 dicembre 2023 Alla festa di Atreju è scontro tra Matteo Renzi e il sottosegretario Andrea Delmastro. Il sottosegretario attacca il Pd: “Io non vado a trovare Cospito in galera e non vado dai mafiosi se me lo dice Cospito”. L’ex premier boccia la maggioranza che “in quest’anno non ha fatto niente sulla giustizia”, ma salva il Guardasigilli Carlo Nordio, che gli sta seduto vicino, perché “fino a oggi non l’avete messo in condizione di fare”. Non è dunque lui il “colpevole” dell’inattività, ma i suoi che non lo sostengono a sufficienza. Il ministro non raccoglie la provocazione, vola alto e insiste soprattutto sull’impegno di accorciare i tempi della giustizia civile per via del Pnrr. Conferma che la separazione delle carriere si farà, ma solo dopo il premierato. E ci sarà anche la stretta sulle intercettazioni, perché “sequestrare un telefonino è sequestrare una vita in quanto ormai è pieno di atti riservati, anche se per fortuna la Consulta ha fatto piazza pulita sulla corrispondenza (con la sentenza su Renzi, ndr)”. Dibattito a quattro voci, con Nordio, Renzi, Delmastro e Giulia Bongiorno, la presidente leghista della commissione Giustizia del Senato. Che non solo conferma i prossimi interventi sulle intercettazioni, ma sposa l’idea dei test psico attitudinali per i giudici. “Alla Pubblica amministrazione - in cui è stata ministro nel governo gialloverde - i test li fanno tutti perché farli non significa verificare se sei pazzo. Quello del magistrato è un lavoro delicato che richiede la massima ponderazione ed equilibrio, quindi cosa c’è di male se vieni sottoposto al test?”. Ovviamente scoppia un applauso nella sala molto affollata. Ola anche per i duetti tra Renzi e Delmastro. “Abbiamo l’occasione storica di chiudere la pagina del giustizialismo, e lo dico io che ci sono passato, quindi andate fino in fondo su quello che ha sempre detto Nordio” dice l’ex premier, che apre con una battuta: “Sono stato chiamato a sostituire la collega Elly Schlein...”. Delmastro sfoggia tutto il suo giustizialismo di destra. Subito contro Piercamillo Davigo e la frase sugli imputati suicidi (“perdiamo una fonte…”), “ci vogliono i test psico attitudinali di fronte a un cinismo così barbarico, violento e sanguinario”. E poi ancora contro il Pd e il caso Cospito. Renzi gli dà il là: “Non sono uno di voi, se lo fossi avrei detto a Delmastro: ‘ma come ti è venuto in mente di darlo a Donzelli quel materiale? Donzelli non si tiene un cecio in bocca’, come si dice a Firenze. La prossima volta fatti più furbo”. E pure un “ma chi te li scrive i discorsi?”. A proposito di quel “spezzare le reni” di mussoliniana memoria. E Delmastro fa la nuova intemerata sul caso Cospito: “Io non vado a trovare Cospito in galera, e non vado a trovare i mafiosi se me lo dice Cospito. Io e Donzelli non ci teniamo un cecio in bocca, ma quello che facciamo lo sanno tutti. C’è un ometto in galera che ha gambizzato un ingegnere e poi ha messo un ordigno all’ingresso di una caserma… Prima è aumentato di 35 chili e poi si è messo a dieta (allude allo sciopero della fame dell’anarchico, ndr) e pretendeva che gli togliessimo il carcere duro mentre mandava pizzini alla galassia anarchica. Se tolgo il carcere duro a lui poi lo devo togliere pure a Messina Denaro che ha il tumore, ma noi non gliel’abbiamo tolto”. Scatenato, va avanti contro le decisioni dei giudici: “Un certo Dimitri Fricano che ha piazzato 57 coltellate a Erika Preti, è fuori, ma che giustizia è questa?”. Per questo sottoscrive in pieno i test psico attitudinali. Ma non basta. Davanti al suo pubblico che lo applaude Delmastro è scatenato. Eccolo accusare ancora le toghe, “nel libro di Palamara, ogni pagina contiene 22 notizie di reato, ma non mi risulta ci siano indagini…”. E poi contro Renzi, “hai governato due anni, ma non hai fatto le pagelle”. E mentre il leader di Italia viva accusa FdI “di aver fatto le manifestazioni sotto le nostre case quando ci hanno indagato le famiglie” e chiede a Delmastro “se sei in grado di parlare il linguaggio del garantismo?”, lui svicola sul caso Apostolico: “L’insindacabilità per una corporazione la conosco solo in Iran per gli Ayatollah”. La parola passa a Bongiorno. Che con la mano fa cenno alla necessità di abbassare i toni. Ed è proprio lei che conferma la futura stretta sulle intercettazioni. “Sono contraria a pubblicare singoli passaggi sui giornali perché se ne estrapoliamo uno siamo in grado di trasformare la Bibbia in un libro pornografico. Se pubblico solo un passaggio ne deriva solo confusione e degrado. L’uso delle intercettazioni è spropositato, ma non si può chiudere il rubinetto perché sono fondamentali per la mafia, ma nel codice è scritto che vanno usate solo se sono ‘indispensabili’. E ‘indispensabile’ vuol dire ‘indispensabile’ e non quando fa comodo per fini investigativi, perché lì si finisce nell’abuso. I magistrati devono usare invece i vecchi strumenti come le perquisizioni e i pedinamenti, ma è da escludere che le intercettazioni possano essere eliminate. La domanda invece è la seguente: c’è un abuso di chi indaga o di chi le pubblica? Quando escono quasi sempre non potrebbero essere pubblicate, ma non si trova mai il colpevole”. Ecco, alla fine, a pagare il conto della riforma sarà il diritto di fare cronaca giudiziaria. Giustizia, sponda di Renzi. E la Lega rilancia i test psico-attitudinali per pm di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2023 Per l’avvocato e senatrice leghista Giulia Bongiorno sulle intercettazioni va trovato un punto di equilibrio tra “la pesca a strascico” e la loro eliminazione. Ma l’applauso della platea di Atreju è lasco: le mani si spellano quando le viene proposto un pezzo di repertorio, vecchio cavallo di battaglia berlusconiano e lei si fa trovare pronta: “Io sono stra-favorevole ai test psicoattitudinali per i magistrati”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio invece è applaudito, ma sempre in tono minore anche quando annuncia in tromba che grazie a lui il Senato sta per varare “una rivoluzione copernicana per la giustizia”. Sarà, ma non scalda il pubblico nemmeno la promessa che il bello deve ancora venire: il Guardasigilli dice che la riforma della giustizia, quella vera, ci sarà ma solo dopo la revisione della Costituzione. Cioè campacavallo e a quel punto gli occhi tornano tutti su Matteo Renzi che ha appena finito di dire che in un anno e spicci Meloni sulla giustizia non ha portato a casa niente. Una carezza in un pugno, anche se è apprezzata soprattutto la prima, lo schiaffone assestato al Pd ancora prima di sedersi: “Sono stato chiamato a sostituire Schlein che non poteva venire” dice prima che inizi il ping pong con il sottosegretario Andrea Delmastro. “Se fossi stato in te, non avrei mai dato quel materiale a Donzelli che conosco dai tempi dell’università e non si tiene un cecio in bocca”, dice Renzi a proposito del vespaio sulle informazioni uscite da via Arenula sulla visita in carcere del Pd a Alfredo Cospito che sono costate il rinvio a giudizio al sottosegretario. Che dà atto a Renzi di essere “il Maradona della battuta”. Ma è una sfida ad armi pari. “Hai detto ‘spezzare le reni’. Ma chi ti scrive le battute?” lo incalza Renzi. E Delmastro: “Lo stesso che scrive i tuoi discorsi in inglese”. “Le ordinanze cautelari segrete fino all’udienza preliminare”: Costa e FI sfidano Nordio di Simona Musco Il Dubbio, 16 dicembre 2023 Presunzione d’innocenza, il niet del ministro all’emendamento: “Ma era d’accordo con me”. Vietare la divulgazione letterale dell’ordinanza di custodia cautelare fino alla chiusura delle indagini preliminari. A chiederlo, con un emendamento alla legge di delegazione europea, che si voterà mercoledì, è Enrico Costa, deputato di Azione. Che ha già ricevuto il niet di Carlo Nordio, ministro della Giustizia, lo stesso che a gennaio, nel corso di un Question time, aveva puntato il dito proprio contro la pubblicazione arbitraria di contenuti non rilevanti, che si è verificata anche dopo la riforma Orlando. L’emendamento di Costa, appoggiato in aula da Forza Italia, è stato annunciato nello stesso giorno della scadenza dei due anni che il governo aveva a disposizione per i decreti sulla direttiva sulla presunzione d’innocenza. Senza i quali gli effetti concreti del recepimento di tale direttiva sono stati minimi. L’emendamento risponde proprio “al fine di garantire l’integrale e compiuto adeguamento della direttiva 2016/ 343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, anche al fine di integrare quanto disposto dal decreto legislativo 8 novembre 2021, numero 188 nonché di assicurare l’effettivo rispetto dell’articolo 27 comma secondo della Costituzione”, delegando il governo “ad adottare uno o più decreti legislativi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le procedure di cui all’articolo 31 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, acquisito il parere delle competenti commissioni parlamentari”. Ad aderire alla proposta, per Forza Italia, è stato Tommaso Calderone, capogruppo in Commissione Giustizia. “Un principio di massima civiltà giuridica”, ha affermato, per uno Stato che pretende di essere “uno Stato di diritto. Avviene che, al momento dell’esecuzione di un’ordinanza custodiale, colui che viene raggiunto da un provvedimento restrittivo, con un artifizio che mi permetterò, sia pure per le vie brevi, di rappresentare a codesto Parlamento, viene ad essere “sbattuto” in prima pagina - ha aggiunto - perché l’ordinanza custodiale contiene, con un artifizio ipocrita - mi sia consentito - tutte le notizie utili, che non dovrebbero essere contenute nei giornali del giorno dopo. Mi spiego: se un’ordinanza restrittiva contiene tutte le intercettazioni, le sommarie informazioni testimoniali e l’intero compendio probatorio, questo significa che, venendo meno la segretezza perché lo impone e lo prevede l’articolo 114 del codice di procedura penale, con questo artifizio noi mettiamo nella condizione, chi si trova a patire una misura coercitiva, di essere “sbattuto” in prima pagina, con tutte le intercettazioni, con tutte le conversazioni, con tutte le sommarie informazioni e con tutte le dichiarazioni, sebbene - ed è qui il ipocrita - l’articolo 114 del codice di procedura penale vieti - si badi che è un espresso divieto - di pubblicare gli atti di indagine fino all’udienza preliminare. Ecco perché Forza Italia è fermamente convinta che questo sia un emendamento brillante, un emendamento che va osservato con grandissima attenzione, onorevole Costa, ed è quello che faremo”. Parte della maggioranza, dunque, sta con Costa. Che al Dubbio dichiara la sua “nostalgia” per il Nordio della prima ora, quello delle relazioni in Parlamento. “Io stimo il ministro - spiega il deputato di Azione - e ho applaudito alle sue dichiarazioni in aula, che ho definito musica per le nostre orecchie. Però devo dire anche che ci sono delle cose che mi stupiscono nelle posizioni del governo, come il parere contrario dato al mio emendamento. Non so se nelle more del dibattito di ieri possa cambiare - aggiunge -, ma il punto è che Nordio si era detto d’accordo, sia nell’incontro che abbiamo fatto a settembre, al quale ha partecipato anche Carlo Calenda, sia in Parlamento”. Il tentativo di Costa è quello di mettere una pezza alle falle della direttiva sulla presunzione di innocenza, mai effettivamente entrata in vigore. “Continuano a dare i nomi alle inchieste - sottolinea il deputato -, inoltre il ministero si era impegnato a fare un monitoraggio sull’attuazione della direttiva, ma non se n’è saputo mai nulla. Il punto essenziale, oggi, è quello della pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Il pm può mantenere la sua comunicazione nei confini di un comunicato stampa, perché se si buttano chili di intercettazioni nelle ordinanze cautelari e il gip fa copia e incolla, con intercettazioni che magari riguardano terze persone, selezionate dal pm, quello è un pugno in faccia alla persona indagata, che poi magari verrà assolta, ma che sarà per sempre perseguitata da quegli atti”. L’emendamento è costruito in modo che il Parlamento si possa esprimere liberamente, senza vincoli di casacca. Ovvero con il voto segreto, “perché le casacche di partito ti imbrigliano in posizioni populiste e giustizialiste, mentre così dici quello che pensi”. Un tema, quello del voto segreto, che Costa vuole proporre nella sua controriforma della Giustizia, che prevede anche la maggioranza qualificata, “quantomeno per introdurre reati e alzare le pene”. Quattro server per conservare intercettazioni: “Saranno facili da bucare” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2023 Pronti i decreti per creare i Centri che conserveranno le captazioni di tutte le procure. Genchi: “Sfuggiranno al controllo dei pm. Imprenditori si spartiranno la torta”. Roma, Milano e poi Napoli e Palermo. Si troveranno in queste città i quattro server dove verranno raccolte le intercettazioni di tutte le Procure italiane. I decreti ministeriali con i requisiti per la loro realizzazione sono pronti, manca solo la firma del ministro Carlo Nordio. E intanto, proprio su quello che sarà il futuro della conservazione delle intercettazioni, alcuni magistrati avanzano perplessità. Una su tutte: esternalizzando dati così delicati, non aumenta anche il rischio che siano più facilmente accessibili da terzi? L’allarme lo lancia anche Giacchino Genchi, uno dei massimi esperti in materia di analisi informatica di tabulati e intercettazioni: “In questo modo - spiega - le captazioni sfuggiranno al controllo dei pubblici ministeri. Senza parlare dei problemi per la sicurezza e l’intangibilità che il server unico rappresenta”. Il progetto del ministero della Giustizia nasce su input della Direzione Investigativa Antimafia ed è contemplato nel decreto legge n. 105 del 10 agosto 2023 che ha istituito la creazione di “infrastrutture digitali interdistrettuali”. Queste si troveranno, secondo quanto risulta al Fatto, a Roma, Napoli, Milano e Palermo, luoghi dove confluiranno le intercettazioni delle Procure limitrofe. Cosa cambierà dunque in futuro? A oggi ogni Procura custodisce le intercettazioni in un Archivio digitale (Adi), che però ha un ovvio limite di capienza e immagazzinamento. Per superarlo, quindi, si è pensato a questi grandi server esterni: un’idea - spiegano alcuni magistrati - non del tutto sbagliata per superare i limiti dell’Adi, ma che potrebbe risultare pericolosa anche perché le centrali dei server dovranno essere gestite da un amministratore. Il punto è che adesso il rischio di un accesso illegittimo alle intercettazioni è frammentato su diverse procure, ma se tutte le captazioni verranno conservate su quattro server, ciò vuol dire che chi riuscirà a penetrarne uno solo di questi avrà accesso a una mole incredibile di materiale. Facciamo un esempio: se qualcuno riuscirà a “bucare” il server del Sud Italia avrà accesso alle intercettazioni di più regioni e delle più svariate indagini, mafia, camorra, corruzione e così via. Dunque da come verranno scritti i decreti ministeriali per realizzare questo progetto si capirà quali saranno i limiti di segretezza e che garanzie di impenetrabilità esterna, ma anche interna, ci saranno. Nel decreto legge di agosto si stabiliva che con i decreti ministeriali verranno definiti “i requisiti tecnici essenziali al fine di assicurare la migliore capacità tecnologica, il più elevato livello di sicurezza…”. Inoltre anche il ministro Nordio ha assicurato che “la gestione e la manutenzione di questi server da parte del ministero non comporta minimamente l’accesso del ministro a questi dati sensibili, il decreto anzi lo vieta esplicitamente”. Per la realizzazione delle infrastrutture è previsto un investimento di 43 milioni di euro per il 2023 e di 50 milioni di euro annui per il 2024 e il 2025, mentre altri 3 milioni di euro annui serviranno per la manutenzione e la gestione dei server. Dei rischi del progetto però è certo Gioacchino Genchi, quarant’anni di esperienza nel campo dell’analisi informatica di tabulati e intercettazioni, prima come perito e poi pure come indagato poi assolto, ora come avvocato penalista. “La realizzazione di questi server - spiega - consentirà a chi gestisce le infrastrutture di disporre di quelle intercettazioni come vuole, sfuggendo al controllo del pubblico ministero, dei giudici delle indagini preliminari e dei difensori degli indagati. Così l’amministratore potrà fare ciò che vuole: ha un potere di ricatto e di interdizione nei confronti di chi vuole. Aspetto questo molto preoccupante”. Per Genchi la questione è anche giuridica: “In Italia c’è il principio della competenza territoriale, che verrà completamente stravolta con la realizzazione di questi mega contenitori”. Il tutto “per tutelare i soliti interessi: gruppi imprenditoriali che si occupano di intercettazioni si spartiranno la torta tra loro, speculando su un investimento così ghiotto. Così si creerà un monopolio”. Mancini: “Intercettare serve solo al potere”. Intervista all’ex numero due dell’Aise di Paolo Comi L’Unità, 16 dicembre 2023 L’idea che si possa addirittura per legge lasciarsi aperta la porta a intercettazioni preventive di giornalisti mi mette ansia. Preferisco mille volte il rischio per la mia sicurezza mentale di leggere tutte le mattine Marco Travaglio o Piero Sansonetti, che pensarli sottoposti ad intercettazioni per individuarne le fonti. L’intelligence ci deve tutelare dal terrorismo non dalla libertà di pensiero”, afferma Marco Mancini, ex numero due dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna). Direttore, secondo quanto riferito da alcuni Consorzi di giornalismo internazionale, l’Italia sarebbe però favorevole alle intercettazioni dei giornalisti. Come si spiega una decisione del genere? Da quello che ho letto, alcuni Stati dell’Unione europea, tra cui oltre al nostro Paese anche la Francia e la Germania, si opporrebbero alla volontà del Parlamento europeo di preservare i giornalisti da intercettazioni motivate dalla tutela della sicurezza nazionale. Non entro nel merito di norme - se la notizia fosse confermata - in corso di valutazione. Su questi aspetti non ritengo opportuno da parte mia intervenire, stante la mia esperienza pregressa di dirigente del controspionaggio che non ha mai discusso delle leggi ma si è limitato a rispettarle. Mi interessa porre invece la questione strategica. Mettere al centro della sicurezza, come fossero il nodo fondamentale per difenderci, le indagini tecniche preventive, tra cui primeggiamo le intercettazioni telefoniche e ambientali, è il limite clamorosamente fallimentare delle attività di intelligence in situazioni di crisi. Non conviene quindi intercettare i giornalisti? Non entro nella questione morale e di civiltà, non ho titolo per presentarmi come esperto di etica. Noto che le intercettazioni dei giornalisti non mi pare siano di aiuto a salvaguardare la sicurezza delle democrazie. Le praticano Putin ed Erdogan e, credo, tendano ad assicurarne il loro potere autocratico piuttosto che il benessere dei rispettivi popoli. I due leader che ho citato sono specialisti nel catturare il dissenso ed eliminare gli avversari, con uso di polonio o di carceri e di bombardamenti su popoli riottosi (penso a curdi e armeni del Nagorno Karabak). Sarebbe più interessante mettere il controspionaggio al servizio della caccia agli evasori e all’esportazione di denaro nei paradisi fiscali che non di cronisti. Mi viene in mente quando Oriana Fallaci intervistò Khomeini. Intercettarla sarebbe servito a individuare i canali utilizzati per il contatto con l’imam. Però è stato molto più utile lasciarle fare senza filtri preventivi il suo lavoro. Invece, ad esempio, di intercettare un giornalista come Nello Scavo di Avvenire che ha svelato con i suoi servizi l’orrore dei traffici di essere umani coordinati da alcuni capi della guardia costiera libera, sarebbe il caso che le intelligence e le autorità occidentali imparassero da lui il metodo: essere presenti sul territorio, osservare le cose. Eviterebbero di finanziare gli assassini che si presentano come tutori dell’ordine, perché rallentano le partenze usando la tortura e carceri immonde. Lei ha parlato di questione strategica per le intercettazioni... L’enfasi sulle intercettazioni, al punto da intervenire per consentirne l’utilizzo nel lavoro giornalistico, segnala una caduta verticale dell’idea di intelligence e quindi la sua riduzione ad analisi a tavolino di captazioni elettroniche e satellitari. Insomma, le intercettazioni come sintomo di una cattiva filosofia della sicurezza? Non è una disquisizione accademica. Ci ricordiamo il 7 ottobre con l’operazione terroristica di Hamas? Hamas non dice niente al telefono, non usa pizzini, i satelliti non segnalano nulla di quel che accade nei grandi tunnel che innervano Gaza. Le informazioni passano a livello di padiglione auricolare. Il livello militare di Hamas non ha trasmesso dati o date, neppure ai sommi capi politici in Qatar. Le agenzie israeliane, che hanno il primato assoluto delle tecnologie spionistiche, sono state spiazzate da mezzi rudimentali, e per questo hanno intonato il mea culpa. Satelliti perfetti sono stati umiliati da aquiloni sospinti da motorini. Perché? Ci si è seduti sulla superiorità cyber. Non sono qui a fare la mistica del bel passato antico, ma di attualizzare lo scopo ultimo del lavoro delle agenzie spionistiche. È quello di cui parla nel suo libro “Le regole del gioco”? Si. Quali regole e quale gioco? Quelle del controspionaggio attivo, dove sia preminente il fattore umano e il controllo democratico. Certo non significa il ritorno al piccione viaggiatore. Ovvio. L’uso delle indagini tecniche preventive, la cui autorizzazione comunque deve essere accuratamente vagliata, ha il vantaggio dell’immediatezza delle informazioni che si ricevono, ma l’appoggiarsi ad esse in maniera predominante atrofizza gli organi dell’intelligence, li riduce alla passività, alla ricettività tecnologica, alla distanza umana. Ciò determina il tramontare dell’essenza stessa per cui l’intelligence è nata, l’esaltazione del fattore umano attraverso le sue vaste possibilità di declinarsi in atto: dall’utilizzo delle fonti, dall’infiltrazione di agenti, e così via. Attività nelle quali in Italia eravamo dei maestri riconosciuti. Rivolgere attenzione esclusivamente all’applicazione della tecnologia, peraltro utilissima in una certa misura, standardizza, mortificando un esercizio come l’intelligence, che si fonda sul pensiero e l’abilità nell’applicazione flessibile dello stesso. Senza valorizzare il fattore umano, le professionalità non si elevano e la qualità della performance in termini di prevenzione alle minacce alla sicurezza nazionale si banalizza nell’attesa, spesso vana se non fuorviante, di un colloquio estemporaneamente captato. Scusi se torno al tema specifico. Ma chi effettuerebbe poi queste intercettazioni per la “tutela della sicurezza nazionale”. I Servizi? Ci saranno leggi e decreti attingibili sulla gazzetta ufficiale. Io ora sarei impreciso nel citarli a senso. Gabrielli: “Sicurezza bene comune, no nuovi reati” di Claudia Fusani Il Riformista, 16 dicembre 2023 Intervista all’ex sottosegretario alla presidenza nel governo Draghi ora consulente per la sicurezza del sindaco Sala. Prefetto Gabrielli, perché il sindaco Sala l’ha chiamata al suo fianco a Milano? “Ho lasciato anticipatamente l’amministrazione dell’Interno lo scorso luglio e la Sda Bocconi mi ha offerto un contratto triennale come Professor of practice in Public Management. Questo ha spostato i miei interessi sulla città di Milano e quando il sindaco Sala mi ha chiesto una mano sui temi della sicurezza e della coesione sociale ho accettato la sfida, non nascondendomi le difficoltà e le insidie. La anticipo: la consulenza è a titolo gratuito. Sono coinvolto in questi temi da quasi quarant’anni e cerco di dare una mano”. Milano fa paura o sono le persone ad avere percezione della paura? “Milano, rapportata a realtà del suo livello e della sua complessità, non vive una condizione di emergenza sotto il profilo della sicurezza. Lo ha detto, prima e più autorevolmente di me, l’attuale Ministro dell’Interno. Detto questo, visti gli standard cui sono abituati i milanesi e gli indubbi fenomeni di criminalità predatoria violenti, la città ha qualche problema. Non a caso il Sindaco, pur avendo sui temi della sicurezza un ruolo ancillare rispetto alle competenze statuali, ha intrapreso un ambizioso piano assunzionale di vigili urbani che, a regime, nel 2025 vedrà un aumento degli organici di 500 unità al netto del ripianamento del turnover”. La maggioranza di destra che governa il paese sta mettendo sotto accusa i sindaci sui temi della sicurezza. O meglio, dell’insicurezza. Cosa possono fare i sindaci? In questo caso, cosa può fare Sala? “Questo pressing sui sindaci è molto strumentale perché assistiamo ad una narrazione che attribuisce al sindaco ruoli e responsabilità che non ha e non può avere. Detto questo, e mi riferisco a Milano, quando il Procuratore della Repubblica Marcello Viola denuncia la mancanza di personale sia tra i magistrati (il 22%, ndr) che tra gli amministrativi (24%, con punte del 40% tra i dirigenti, ndr) fino ad ipotizzare la paralisi degli uffici; quando il carcere minorile, il Beccaria, ha 40 posti disponibili; quando, è successo di recente, su 13 direttissime ci sono state 13 scarcerazioni; quando questa è la situazione, come si fa a pretendere giustizia e sicurezza dal sindaco? Ripeto: sui temi della sicurezza il sindaco ha un ruolo ancillare”. Tasso di propaganda altissimo? “Sì, ed è un uso della sicurezza che ho sempre deprecato. La sicurezza oltre ad essere un diritto è un bene comune e come tale dovrebbe essere tenuto al riparo da un uso meramente propagandistico. Ma essendo così remunerativo sotto il profilo dell’acquisizione a buon mercato del consenso, molti vi indulgono”. La Corte suprema di Tirana, su ricorso delle opposizioni politiche al premier Rama, ha congelato il Protocollo Italia-Albania sull’immigrazione. È un atto dovuto che non inficia l’iter dell’accordo? “È stata riconosciuta la legittimità dei ricorsi presentati dalle opposizioni. Adesso la Corte si dovrà esprimere nel merito. Il Protocollo in sé ha un palese intento dissuasivo rispetto alla volontà di intraprendere un percorso migratorio verso l’Italia. Che è il mai sottaciuto obiettivo dell’attuale governo. La procedura seguita mi appare onerosa e complicata e nei fatti dubito che produrrà effetti significativi rispetto ai flussi in arrivo”. Questo governo in tredici mesi ha firmato/approvato sei pacchetti sicurezza tra decreti e disegni di legge. Per restare ai più noti, il decreto rave, il decreto Cutro, il decreto Caivano, contro le baby gang, il disegno di legge sulle mamme zingare in carcere se sorprese a rubare. Si calcolano circa 15 reati in più. Più reati significa più sicurezza? “Da tempo ho cessato di immaginare che la risposta penalistica ai problemi della sicurezza sia risolutiva. Il punto è che l’inasprimento delle pene o la previsione di nuovi reati impatterà su un sistema giudiziario e carcerario a dir poco in affanno. Volendo utilizzare un parallelo motoristico è come se in presenza di un motore ingolfato la soluzione fosse l’aumento degli ottani della benzina. Se prima non rendi funzionante il sistema/motore gli altri interventi sono inefficaci se non addirittura dannosi. Se non crei posti in carcere, un sistema di pene - non solo detentive - efficace, una giustizia che non sia una gogna mediatica e non abbia tempi biblici, tutto diventa abbastanza inutile. Pene più dure e nuovi reati intercettano un consenso nel breve periodo ma cambiano poco o nulla il reale stato delle cose”. Fatti accaduti nelle ultime ore: un ragazzino di 15 anni preso a cazzotti per strada a Milano alle cinque del pomeriggio; a Caserta una ragazzina di 17 anni ha accoltellato una compagna di classe; a Cagliari un quindicenne ha reagito al bullismo di cui era vittima con il coltello. Coincidenze? Oppure? “Innanzitutto sono episodi che nessun sistema di sicurezza per quanto performante può intercettare preventivamente. Purtroppo non sono coincidenze e mi viene da dire che si registrano meno casi di quanti se ne potrebbero verificare. C’è in giro una carica di aggressività soprattutto nelle fasce giovanili che le vicende pandemiche hanno sicuramente contribuito ad accrescere. In un tempo in cui imperano le “community social” avremmo bisogno di recuperare un diverso senso di comunità. La mamma del ragazzo milanese ha denunciato, giustamente, un clima di indifferenza in cui si è svolta la violenza che dovrebbe far riflettere tutti, istituzioni ma anche i cittadini”. Dopo anni di “porti chiusi” (Salvini-Conte), “li rimpatrio tutti” (Salvini) e “muri navali” (Meloni) siamo arrivati a 155 mila sbarchi a fronte di 105 mila dell’anno scorso. L’obiettivo del governo era dimezzare gli arrivi, quindi una debacle. Cosa dovrebbe fare il governo? E cosa dovrebbe fare l’Europa? “Al di là di facili polemiche, potremmo dire benvenuti nel mondo reale. Le questioni migratorie sono complesse E devono essere affrontate con il convinto sostegno dell’Europa. Stiamo andando finalmente in questa direzione. È necessario un approccio olistico a questo dossier. Da tempo sostengo la necessità di istituire un Ministero per le politiche migratorie che affronti in maniera unitaria flussi, rimpatri e integrazione”. C’è molto rumore sulla condanna a 17 anni del gioielliere Roggero. Parliamo di legittima difesa. La norma va bene così com’è o va corretta? “Credo si sia fatta, al solito, un po’ di confusione non sempre per nobili fini. Un conto è la legittima difesa un altro conto è farsi giustizia da soli. Nessuna riforma della norma potrebbe, nel nostro sistema, trovare una simile formulazione”. D’accordo con la seconda pistola, privata e più maneggevole, al personale di polizia? “Sì, e l’ho trovata una polemica surreale. Gli operatori delle forze di polizia statuali, già oggi, possono portarsi sempre al seguito l’arma. Io stesso, quando sono stato Capo della polizia e il terrorismo jihadista minacciava le nostre città, ho sollecitato che si portassero sempre l’arma. Spesso gli operatori si sono lamentati delle dimensioni dell’arma in dotazione. Da qui la richiesta di poter disporre di una personale e più maneggevole che comunque sarà tracciata al pari di tutti i cittadini”. Lei è stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Draghi e ha avuto la delega all’intelligence. Come stanno le nostre agenzie di sicurezza? “Quando ero direttore del Sisde feci un’audizione in occasione della riforma dell’intelligence del 2007 in cui sostenni già allora la necessità del Servizio unico. Lo sono ancora di più dopo l’esperienza ultima di Sottosegretario. Ovviamente in un quadro di potenziamento dei controlli da parte dell’organo parlamentare”. L’Ucraina deve entrare in Europa? “Non sono mai stato fautore di un allargamento indiscriminato dell’Unione perché ne ho intravisto sempre i limiti e le contraddizioni. Mi verrebbe da dire cosa è rimasto oggi che siamo diventati 27 dello spirito originario? Al netto della particolare e tragica vicenda che sta riguardando l’Ucraina continuo ad essere di questo parere”. Il 2024 sarà un anno molto intenso politicamente. Usa, Russia, Europa andranno al voto per rinnovare i propri rappresentanti. C’è il rischio di condizionamenti e alterazioni del voto tramite campagne web sui social? “Temo proprio di sì. La storia recente ci fornisce innumerevoli esempi e gli interessi in gioco renderanno questa eventualità assolutamente probabile”. Il presidente Macron sta lavorando all’ipotesi di portare Draghi alla guida dell’Europa perché, con tutto il rispetto per gli attuali leader, servirà uno standing speciale, più tecnico che politico, l’identikit di Draghi appunto, per fronteggiare il nuovo disordine mondiale. Cosa ha pensato quando ha letto queste ricostruzioni? “Ho avuto il privilegio di apprezzare lo standing e la “sostanza” del Presidente Draghi per cui non posso che condividere le ragioni che stanno caldeggiando questa scelta. Sono più scettico che l’interessato possa accettare ma come si usa dire, mai dire mai”. “Il problema della giustizia sono certi magistrati a piede libero”, l’accusa del pm Tarfusser di Paolo Pandolfini Il Dubbio, 16 dicembre 2023 È utile rileggere le audizioni al Csm in cui i magistrati della Procura di Palermo parlarono del dossier mafia appalti. Il problema principale della giustizia italiana sono alcuni “magistrati a piede libero”. La ho dichiarato mercoledì scorso il sostituto procuratore generale milanese Cuno Tarfusser, intervenendo per un saluto alla presentazione sotto la Madonnina del libro “Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia”, scritto dall’avvocato Basilio Milio, difensore dell’ex comandante del Ros dei carabinieri, il generale Mario Mori. Tarfusser non ha fatto nomi e quindi si possono fare solo delle supposizioni su cosa intendesse dire. Per rimanere, ad esempio, al processo trattativa su cui è incentrato tutto il libro di Milio, potrebbe essere di aiuto rileggere le audizioni al Csm del luglio 1992 durante le quali i magistrati della Procura di Palermo parlarono del dossier mafia appalti, l’indagine di cui si interessò Paolo Borsellino nei giorni prima della sua uccisione. Nel 2019 quei verbali diventarono di pubblico dominio e vennero prodotti da Milio nel processo trattativa, dove Mori è stato poi assolto, e dall’avvocata Simona Giannetti in un processo per diffamazione avviato dagli ex pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, quest’ultimo ora senatore del M5s. All’indomani della strage di via d’Amelio, che seguì l’uccisione di Giovanni Falcone, all’interno della Procura di Palermo si aprì una gravissima frattura e ben otto magistrati (inclusi Vittorio Teresi, Antonio Ingroia e lo stesso Scarpinato, ndr) chiesero un cambio al vertice e segnali concreti da parte delle Istituzioni a tutela delle toghe. E poche settimane dopo l’allora procuratore Pietro Giammanco venne trasferito dal Csm e al suo posto arrivò Gian Carlo Caselli. Dalla lettura delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo emergono diversi aspetti di fondamentale importanza. Tutto ruota intorno a una riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, Giammanco convocò in Procura per salutare i colleghi alla vigilia delle ferie estive, ma anche per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti, racket delle estorsioni”. Il giorno prima Lo Forte e Scarpinato avevano terminato di redigere la richiesta di archiviazione dell’indagine mafia e appalti voluta da Borsellino. Nella riunione del 14 luglio, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata. Non solo. Emergono il forte interesse riposto da Borsellino all’indagine, il suo malcontento per le modalità con cui l’indagine era stata gestita, e la sua profonda fiducia nei confronti dell’operato dei carabinieri del Ros che avevano condotto l’inchiesta. Alla riunione partecipò Luigi Patronaggio, all’epoca da soli due mesi pm a Palermo, che in seguito al Csm riferì: “Prima di questo momento io non avevo cognizione diretta delle divergenze e delle spaccature, incomincio a capire che esistono queste divergenze e queste spaccature proprio da questa riunione di martedì 14 luglio 1992”. Patronaggio affermò che la riunione gli era sembrata “una sorta di ‘excusatio non petita’” e quindi “si invitano i singoli colleghi a parlare di determinati processi perché sono attenzionati dall’opinione pubblica e la cosa mi stupisce, mi stupisce ancora di più quando il collega, il procuratore Borsellino, chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza, vuole chiarezza su determinati processi, chiede, si informa, e per cui già capisco che qualche cosa non mi convince, non va”. Il procedimento in questione su cui Borsellino chiese insistentemente chiarezza era proprio quello su mafia e appalti, che vedeva coinvolto Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, e altri. “Paolo Borsellino - aggiunse dunque Patronaggio - chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo e altri, e capisco che qualche cosa non va evidentemente, perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente delle relazioni dei colleghi assegnatari dei processi, una riunione che doveva avere tutt’altro carattere se non quello di salutarci prima di andare (in ferie, ndr)”. In quella riunione, emergono il forte interesse riposto da Borsellino all’indagine, il suo malcontento per le modalità con cui era stata gestita. “Borsellino in questa ottica - ribadì Patronaggio - chiese spiegazioni su questo processo contro Siino Angelo perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento, chi c’era, chi non c’era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente”. Insomma, “Borsellino chiese spiegazione di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché….”. Borsellino, infatti, ricordò Patronaggio, “disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati giudiziari di maggiore respiro”, non solo nei confronti di politici ma “anche nei confronti degli imprenditori”, e “su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell’imprenditore in questo contesto”. Anche Antonella Consiglio, da pochi mesi pm a Palermo, nell’audizione al Csm, confermò che, quando nella riunione del 14 luglio Lo Forte relazionò sull’indagine mafia e appalti, “Paolo Borsellino fu l’unico che aveva qualche argomento in più, che ebbe qualche argomento che interessò i colleghi”. Indagine di cui, però, la Procura di Palermo chiese l’archiviazione dopo soli tre giorni dall’uccisione di Borsellino, ottenendola il 14 agosto 1992. La contestazione suppletiva dell’aggravante non allunga la prescrizione del reato già estinto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2023 La recidiva ad effetto speciale contestata successivamente al decorso del termine di prescrizione del reato originariamente ascritto all’imputato, nella forma non aggravata, non consente la prosecuzione del procedimento a suo carico. La Corte di cassazione a sezioni Unite penali - con la sentenza n. 49935/2023 - ha sciolto il contrasto di giurisprudenza che si era verificato sul tema degli effetti della contestazione suppletiva di un’aggravante che di per sé prolunga il termine prescrizionale nel caso in cui il reato non aggravato risulti già prescritto al momento del rilievo della recidiva da parte del pubblico ministero. La Cassazione penale di fatto oggi afferma che la contestazione suppletiva che legittimamente il pubblico ministero può fare prima della pronuncia della sentenza non solleva il giudice dall’obbligo di dichiarare immediatamente il reato estinto quando il termine è già scaduto. Le sezioni Unite escludono l’ontologica appartenenza della recidiva qualificata infraquinquennale al reato contestato anche quando essa concretamente sussista. In quanto ciò determinerebbe la compressione illegittima del diritto di difesa che viene esercitato per contrastare l’accusa del reato oggetto dell’imputazione specifica. L’orientamento scartato dalle sezioni Unite affermava invece, a fronte di una contestazione suppletiva che allunga la prescrizione, una sorta di riviviscenza della perseguibilità del reato per cui è processo, anche quando questo risulti estinto per il decorso del tempo. Tale orientamento presuppone che l’aggravamento di un reato sia insito al punto di render ininfluente l’avvenuto decorso prescrizionale della fattispecie inizialmente imputata nella forma non aggravata. La Cassazione precisa, infine, sul caso della recidiva, che essa per quanto ancorata a dati formali, cioè precedenti condanne, non è frutto di un puro dato formale, ma è oggetto di valutazioni di merito del giudice. Un giudizio di merito non più consentito una volta che viene meno la perseguibilità del reato inizialmente ascritto dall’accusa all’imputato. La prescrizione sopraggiunta non è superabile di fatto da una nuova contestazione a carico dell’imputato di cui il reato “effettivamente” imputato risulta estinto per l’avvenuto decorso del tempo. Il giudice di pace non può escludere tenuità del fatto per lo straniero che viola l’ordine di allontanamento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2023 Sbaglia il giudice di pace che esclude la possibilità di dichiarare l’improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel caso in cui il reato contestato sia la violazione dell’ordine questorile di allontanamento dal territorio nazionale imposto allo straniero illegale. Non è quindi legittima l’affermazione del giudice che riconnette automaticamente al reato, previsto dal comma 5 ter dell’articolo 14 del testo unico dell’immigrazione, la particolare rilevanza dell’interesse tutelato dalla norma penale, pretermettendo del tutto l’esame degli altri elementi che costituiscono il presupposto della particolare tenuità del fatto e della conseguente improcedibilità dell’azione. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 50118/2023 - ha annullato la decisione impugnata che aveva escluso in radice la possibilità che sussistessero elementi di particolare tenuità del fatto, in quanto la violazione dello straniero rimasto in Italia contro l’ordine di allontanamento avrebbe comunque intaccato un rilevante interesse dello Stato ciò che costituirebbe un ostacolo a qualsiasi valutazione sulla consistenza del reato commesso. Il principio di diritto che detta la Cassazione è netto e afferma che il giudice di pace può sempre riconoscere laddove sussista la particolare tenuità del fatto in relazione al qualsiasi reato attribuito alla sua competenza dall’articolo 4 del Dlgs 274/2000. Quindi in sintesi il giudice di pace non può escludere a priori l’applicabilità dell’articolo 34 che prevede la causa di improcedibilità. Il Legislatore nell’attribuzione delle fattispecie sottoposte alla cognizione del giudice di pace non ha affatto posto limiti per il reato in questione rispetto al riconoscimento della tenuità, che si fonda anche su parametri diversi da quello dell’interesse tutelato, come l’occasionalità della condotta, ad esempio. Il giudice di pace è quindi tenuto a far la comparazione tra i vari elementi che sono indicati dalla norma come presupposti dell’improcedibilità. Calabria. Carceri: tante le ombre, ma si intravede la luce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2023 Luci e ombre delineano il panorama del sistema penitenziario calabrese, con particolare attenzione al complesso sistema sanitario che coinvolge gli istituti penitenziari. L’avvocato Luca Muglia, Garante della Regione Calabria per le persone private della libertà, ha recentemente presentato la relazione annuale che analizza dettagliatamente vari aspetti dell’attività svolta nel contesto carcerario e oltre, nel territorio calabrese. Il sistema penitenziario calabrese evidenzia aspetti critici, in gran parte in linea con quelli rilevati in altre regioni, ma con peculiari sfaccettature. Tra le criticità più rilevanti spiccano il progressivo sovraffollamento in nove istituti su dodici, con situazioni particolarmente gravi in strutture come Arghillà, Cosenza e Rossano. Le condizioni strutturali datate o carenti di manutenzione, la carenza di personale, soprattutto nella polizia penitenziaria, nei funzionari giuridico- pedagogici e nei mediatori linguistico- culturali, rappresentano altrettanti nodi problematici. La sanità penitenziaria mostra miglioramenti, ma alcune carenze persistono, specialmente per i detenuti con patologie psichiatriche. Il deficit di personale della polizia penitenziaria coinvolge tutti e dodici gli istituti calabresi, con livelli preoccupanti in alcune sedi. Questa carenza genera effetti a catena, mettendo a rischio la sicurezza complessiva e richiedendo sforzi sovrumani da parte del personale in servizio. La mancanza di funzionari con competenze giuridico- pedagogiche impatta sul trattamento e la rieducazione dei detenuti, oltre a compromettere l’accesso a misure alternative. L’analisi degli eventi critici all’interno delle carceri calabresi offre una panoramica dettagliata di decessi, suicidi, atti di autolesionismo, manifestazioni di protesta, aggressioni e altro ancora. Questi eventi evidenziano le forme di vulnerabilità delle persone detenute e la complessa natura dei conflitti che si sviluppano negli istituti penitenziari. Criticità sanitarie dietro le sbarre - La relazione del Garante regionale, compilata a seguito delle prime visite istituzionali a partire dal novembre 2022, offre uno sguardo dettagliato sullo stato critico della sanità penitenziaria nella regione. Le gravi carenze sanitarie riscontrate durante le visite hanno portato l’avvocato Muglia a instaurare un dialogo serrato con il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria e i direttori degli istituti. La richiesta di un’analisi dettagliata delle disfunzioni sanitarie ha portato alla successiva ricezione dei dati elaborati dai direttori, mettendo in evidenza una situazione estremamente critica a livello sanitario. Dalle informazioni fornite emerge una serie di criticità comuni a diversi istituti penitenziari. Le principali problematiche riguardano la carenza di personale medico, infermieristico e specialistico, impedendo spesso la tempestiva erogazione delle prestazioni mediche. La mancanza di tamponi rapidi Covid e di farmaci ha ulteriormente aggravato la situazione, con il ricorso frequente a prestazioni esterne, generando ritardi e difficoltà logistiche. L’attenzione si è concentrata sugli istituti penitenziari di Catanzaro e Reggio Calabria, dove la carenza di personale ha reso insostenibile la situazione, specialmente nei reparti dedicati ai detenuti con patologie psichiatriche. La mancanza di locali adeguati e personale idoneo ha compromesso gravemente l’erogazione di servizi essenziali. Dopo l’interlocuzione con il Dipartimento regionale, sono stati intrapresi diversi interventi mirati a migliorare la situazione. Tuttavia, nonostante alcuni miglioramenti registrati nel tempo, molte criticità sono perdurate, richiedendo ulteriori sforzi per garantire standard sanitari accettabili. La relazione del Garante regionale dettaglia diverse segnalazioni successive, includendo criticità nell’area sanitaria di istituti penitenziari nella provincia di Cosenza, insufficienza nell’assistenza psichiatrica, carenza di personale e servizi in vari istituti. Il Garante regionale ha sollecitato interventi immediati per affrontare queste problematiche, garantendo il diritto alla salute dei detenuti. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - Il capitolo della relazione dedicato alla sanità pone una lente di ingrandimento sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), concentrandosi sulle esperienze di Santa Sofia d’Epiro e Girifalco. L’analisi rivela un quadro complesso, caratterizzato da buone prassi terapeutiche ma anche da significative criticità legate a limiti strutturali, logistici e di sicurezza. Santa Sofia d’Epiro emerge come un’esperienza positiva, nonostante le limitazioni strutturali. La residenza ha dimostrato nel tempo la validità delle sue prassi terapeutiche, attualmente ospitando 19 pazienti. Tuttavia, le sfide strutturali possono rappresentare un freno alla piena realizzazione del suo potenziale, evidenziando la necessità di investimenti e miglioramenti infrastrutturali. Girifalco, aperta alla fine del 2022, è identificata come una residenza di eccellenza nel panorama nazionale. Tuttavia, ha incontrato difficoltà legate a ragioni logistiche e di sicurezza, limitando la sua capienza a soli 5 pazienti. Queste sfide potrebbero derivare da fattori come la mancanza di risorse adeguate o problemi organizzativi, suggerendo la necessità di interventi mirati per sbloccare il suo pieno potenziale. La relazione sottolinea un’evidente insufficienza nella capacità di accoglienza complessiva delle Rems. Con una lista di attesa che supera i 40 soggetti, i rischi derivanti dall’assenza di tutela gravano non solo sulle persone socialmente ritenute pericolose ma anche sulle loro famiglie e sull’intera collettività. Questo sottolinea la necessità di espandere e potenziare le strutture esistenti per affrontare la crescente domanda. Ci sono anche spiragli di luce - Nonostante le sfide, emergono aspetti positivi. Progetti educativi e trattamentali, insieme a iniziative come corsi professionalizzanti e laboratori artigianali, offrono opportunità concrete di crescita e formazione ai detenuti. L’attivazione di classi scolastiche di istruzione superiore e la proposta didattica dei Poli Universitari Penitenziari sono iniziative lodevoli. Il Garante Muglia sottolinea che lavoro, formazione, scuola e università costituiscono un terreno fertile in cui le probabilità che la persona in conflitto con la legge maturi una diversa percezione di sé sono oggettivamente più elevate. Un plauso alla Casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello e alla Sezione a custodia attenuata della Casa circondariale di Paola, che comprovano come una detenzione “altra e diversa” garantisca buoni risultati sia in termini rieducativi e di inclusione sociale che di riduzione della recidiva. I dati dell’Uiepe Calabria mostrano numeri importanti riguardo agli incarichi gestiti dagli uffici, evidenziando l’efficacia delle misure alternative alla detenzione. Tuttavia, si evidenzia la necessità di rafforzare gli organici per garantire un servizio adeguato. La relazione del Garante della Regione Calabria evidenzia sia i problemi strutturali del sistema penitenziario che i progressi compiuti. È fondamentale affrontare le criticità, potenziare il personale, in particolar modo quello volto all’opera trattamentale, migliorare le condizioni carcerarie e garantire il rispetto dei diritti dei detenuti. Emilia Romagna. Il Garante: “Rinnovare il permesso di soggiorno ai detenuti stranieri” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 16 dicembre 2023 Le raccomandazioni del garante Roberto Cavalieri presentate al termine di un ciclo di incontri promossi con il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria: “Sappiamo che alcuni detenuti sono stati condizionati da frasi del tipo ‘è inutile chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, non te lo daranno mai”. I detenuti stranieri non devono essere ostacolati nel percorso per ottenere il permesso di soggiorno. Il monito arriva dal garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. “Le informazioni che circolano - spiega Cavalieri - non sempre sono corrette. Sappiamo che alcuni detenuti stranieri sono stati condizionati da frasi del tipo ‘è inutile chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, non te lo daranno mai’. Inoltre, sussistono difficoltà a reperire i documenti negli uffici anagrafici e c’è poca chiarezza su quelli che sono i reati che non consentono di presentare la richiesta”. “Prima di tutto - sottolinea il garante - il detenuto deve essere seguito e supportato nel percorso di richiesta del permesso di soggiorno, deve essere informato sulle procedure corrette da seguire e deve essere aiutato nel reperire tutta la documentazione utile alla compilazione della domanda (anche rispetto ai legami familiari in Italia). Serve, poi, un particolare sostegno a chi ha diritto alla protezione internazionale, strumento che può consentire al detenuto di scontare la pena nello stato in cui soggiornano i familiari. Inoltre, occorre attivare forme di coordinamento fra le direzioni carcerarie, gli uffici immigrazione delle questure e gli uffici anagrafe comunali”. Il garante regionale, infine, rileva che alcune categorie di detenuti necessitano di particolari tutele: “Bisogna prevedere corsie preferenziali per i detenuti affetti da patologie che non possono essere adeguatamente curate nel paese d’origine, per chi ha commesso reati prima dei diciotto anni d’età, per quelli che hanno diritto, anche con un decreto di espulsione, a un programma di protezione internazionale - in questi casi vanno evitati contatti con le autorità dei paesi d’origine. E, infine, per chi è stato costretto a commettere un reato dai trafficanti di esseri umani”. Il tema è stato trattato in un ciclo di tre incontri promossi da Roberto Cavalieri, con la collaborazione del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, allo scopo di coinvolgere tutti gli attori interessati. Su proposta del garante è in fase di ultimazione la redazione di un documento con le raccomandazioni rivolte a tutti i soggetti coinvolti. Lecce. La storia di Patrizio Simeone, detenuto morto in ospedale dopo mesi di agonia di Andrea Aversa L’Unità, 16 dicembre 2023 Aveva 43 anni, noto come “Serpico”, era originario di Francavilla Fontana in provincia di Brindisi. Recluso nel penitenziario di Borgo San Nicola nel Leccese, la vittima aveva prima accusato dei malori nel mese di giugno, poi - in seguito ad una febbre molto alta - è entrato in coma a luglio. Era ricoverato nel nosocomio di Casarano. I familiari che hanno sporto denuncia erano all’oscuro di tutto. Lo scorso lunedì è stata eseguita l’autopsia sulla salma. La procura ha avviato un’inchiesta, iscrivendo come atto dovuto, cinque sanitari nel registro degli indagati. Cinque medici in servizio presso il carcere di Borgo San Nicola a Lecce sono ufficialmente indagati dalla locale Procura. L’atto dovuto è stato firmato dalla Pm Maria Consolata Moschettini. Questa l’accusa: responsabilità colposa per morte in ambito sanitario. La vicenda è quella relativa a Patrizio Simeone, detenuto 43enne (divorziato con un figlio) originario di Francavilla Fontana (località in provincia di Brindisi), che ha perso la vita lo scorso 16 ottobre presso l’ospedale della città salentina. I suoi familiari hanno sporto denuncia contro ignoti, ritenendo che Patrizio sarebbe stato abbandonato e sottoposto a terapie sbagliate nel penitenziario pugliese. Ma facciamo un passo indietro e ricostruiamo i fatti. Lo scorso 17 giugno, Simeone - che aveva problemi di dipendenza dall’alcol - non si è sentito bene ed è stato ricoverato in ospedale. Secondo quanto appreso da l’Unità che ha sentito i parenti del 43enne, Patrizio sarebbe giunto presso il nosocomio privo di sensi. Dopo un primo ricovero e i dovuti accertamenti, Simeone è stato riportato in cella. Della cosa la famiglia non è stata messa a conoscenza. Il mese successivo, a luglio, i parenti della vittima avevano ricevuto una telefonata. Era il loro legale, l’avvocato Michele Fino (che li assiste insieme al collega Gianluca Aprile). Quest’ultimo li aveva informati che Simeone era stato ricoverato presso l’ospedale di Casarano (cittadina in provincia di Lecce) in gravi condizioni. Era il 24 luglio scorso e Patrizio era stato intubato e trasferito nel reparto di rianimazione. La sorella del 43enne, svolta la consueta pratica burocratica, era riuscita ad ottenere l’autorizzazione per vedere il fratello, in quel momento piantonato. Alla donna è comparsa davanti agli occhi una scena terribile. Dell’uomo che conosceva e che ricordava dall’ultimo colloquio, non c’era neanche l’ombra. Simeone aveva tubi ovunque ed era in stato di coma. A causare quel repentino peggioramento di salute, sarebbe stata una febbre altissima che il detenuto avrebbe contratto già in carcere. Dopo 82 giorni di agonia, trascorsi nel nosocomio, il cuore di Patrizio ha smesso di battere. Sulla sua salma l’autorità giudiziaria, in seguito all’apertura di un fascicolo per l’avviamento dell’inchiesta, ha disposto l’autopsia, regolarmente eseguita lo scorso lunedì. “La denuncia della famiglia Simeone - ha spiegato a l’Unità l’avvocato Fino - è stata sporta lo scorso mese di settembre, prima che Patrizio perdesse la vita. L’esposto è stato presentato per lesioni e contro ignoti”. Ci hanno invece detto i parenti del 43enne: “Noi vogliamo solo verità e giustizia. Vogliamo sapere Patrizio come è morto. Una persona detenuta deve pagare il suo debito con la società, scontando la sua pena. Ma non può saldarlo con la vita. I reclusi sono persone che hanno diritto ad essere curati e a vivere con dignità anche in carcere. Chi ha sbagliato dovrà risponderne in Tribunale”. Insomma, ci troviamo di fronte all’ennesimo presunto caso di mala sanità, avvenuto tra le mura di un penitenziario. Reggio Calabria. Sanità Penitenziaria, le carceri reggine hanno fatto il salto di qualità reggiotoday.it, 16 dicembre 2023 Il tavolo tecnico, istituito dai Garanti dei detenuti, ragiona per obiettivi di legalità e trasparenza. Reggio ancora una volta traccia una svolta rivoluzionaria nella sanità penitenziaria. Presente per la prima volta e solo poche settimane dopo la sua nomina il prefetto Clara Vaccaro; assieme a lei l’autorevole presenza del procuratore aggiunto Stefano Musolino, della presidente del Tribunale di sorveglianza Daniela Tortorella, della Garante del comune di Reggio Calabria Giovanna Russo, del Garante regionale Luca Muglia e della Dg dell’Asp Lucia di Furia a cui vanno i meriti degli obiettivi rivoluzionari raggiunti in così poco tempo, il Coordinatore sanitario dirigente Nicola Pangallo, il coordinatore degli infermieri delegato Nursind Filippo Errante. A rappresentare l’amministrazione penitenziaria reggina il direttore Giuseppe Carrà, i vicedirettori Roberta Velletri e Marianna Stendardo, le comandanti dirigenti aggiunte Maria Luisa Alessi e Gabriella Mercurio; le operatrici di Polizia penitenziaria Daniela Iiriti e Fabio Viglianti e Bandiera Danilo per il Sinappe. Effettuata una visita dei locali dell’area sanitaria depPlesso di Arghillà per prendere atto dell’Importante evoluzione in soli 18 mesi dall’attivazione del tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria voluto dalla Garante. Molto è stato fatto, molto c’è da fare, ma sicuramente come espresso dalla Di Furia “Arghillà è un modello che deve essere replicato in tutti gli istituti della provincia reggina per i risultati importantissimi raggiunti, frutto del sacrificio e dell’abnegazione di medici e infermieri. Una visita dal fortissimo segnale istituzionale nella quale per la prima volta un Prefetto ha voluto vedere e relazionarsi con i principali interlocutori. Con pragmatismo ha manifestato di volersi occupare con tutte le autorità interessate del tema carcere rileggendo la funzione rieducativa della pena in un’ottica di costruzione di risultati anche sul piano trattamentale. Affine il pensiero del procuratore aggiunto Stefano Musolino che ribadendo l’Impegno della procura reggina ha condiviso una puntuale riflessione sull’importanza della garanzia dei diritti negli istituti di pena, sul dovere della magistratura di vigilare rispetto all’effettività del trattamento penitenziario ricordando che c’è una sfida istituzionale dentro e fuori gli istituti penitenziari. Intervento di grande equilibrio quello della presidente Tortorella che ha manifestato sempre grande attenzione al tema della sanità penitenziaria in un’ottica di terzietà ma vicinanza al reale riconoscimento dei diritti delle persone recluse. Saluti del direttore Carrà e condivisione del percorso sanità penitenziaria nell’anno in corso, relazione delle attività da parte del coordinatore Pangallo e riflessione sugli investimenti futuri. Chiosa della Garante che ha ringraziato le autorità presenti, tutto il personale sanitario e di polizia penitenziaria, le organizzazioni sindacali, ribadendo il concetto che ciascuno è chiamato a fare il proprio dovere e che i garanti lavorano in sinergia grazie al cambio di passo condiviso e scandito dal collega Muglia sin dal suo insediamento. “La costruzione di una sana leadership pubblica, di risultato di squadra, pone tante sfide e queste nella loro accezione positiva sono le opportunità più grandi del nostro tempo perché evidenziano come, non il potere ma la responsabilità sia l’atto rivoluzionario nel lavoro che siamo chiamati a svolgere ogni giorno. Solo nella dedizione e nella corresponsabilità continueremo a tracciare rotte e segnare risultati di crescita, visione e collaborazione verso le sfide inedite di questo secolo”. La Garante accogliendo le proposte su lavoro, reinserimento, monitoraggio sanità, problematiche di ordine e sicurezza dentro e fuori le mura che si ripercuotono sui diritti delle persone recluse, avanzate dal Prefetto, ha annunciato in una prospettiva di sempre più compatte sinergie istituzionali l’avvio dei lavori di un tavolo permanente sul carcere che includa oltre agli attori già presenti anche gli uffici di Prefettura, Procura e i Tribunali. Reggio è un modello che funziona quando ci si dedica con professionalità, coraggio e coerenza alle sfide che interessano la società tutta sia essa libera o reclusa. Ferrara. Carcere, il Pd attacca: “Non è ancora stato nominato il nuovo Garante” ferraratoday.it, 16 dicembre 2023 I consiglieri Dem: “Serve un documento su sovraffollamento e organico sottodimensionato”. “I tanti problemi che vivono quotidianamente gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori sanitari della Casa circondariale di Ferrara sono noti da tempo e troppo seri per farne l’argomento di una puerile ripicca politica”. A parlare sono i consiglieri comunali del Partito Democratico Davide Nanni e Mauro Vignolo, aggiungendo che “purtroppo, abbiamo constatato in più occasioni che il consigliere Francesco Carità non la pensa allo stesso modo e per ottenere un po’ di visibilità ha rilasciato alla stampa locale dichiarazioni che fugano ogni dubbio. Invoca un ‘atteggiamento costruttivo e collaborante’ su un tema che, certamente, dovrebbe raccogliere l’impegno unanime della politica locale: rendere più sicura e vivibile la realtà carceraria di via Arginone. Predica bene e razzola male”. I consiglieri comunali Dem hanno aggiunto che “Carità e i suoi compagni di maggioranza, negli scorsi mesi, hanno tenuto una ‘linea’ politica per nulla collaborativa tutte le volte che abbiamo cercato di tradurre in fatti concreti le buone intenzioni sul carcere: durante il Consiglio comunale del 3 luglio, ad esempio, hanno votato contro la richiesta di discutere in via urgente un documento presentato dal Partito Democratico che impegnava il sindaco Fabbri a fare pressioni presso il Ministero di Giustizia affinché assegnasse al nostro penitenziario, da tempo sovraffollato e con organico sottodimensionato, almeno 45 nuove unità di personale. Dieci giorni dopo scadeva il termine per le assegnazioni e il Governo ha mandato a Ferrara un numero insufficiente di agenti (18) che, al netto di pensionamenti e altre mobilità, non ha risolto il problema: il saldo positivo è stato di sole 9 unità”. Nanni e Vignolo hanno sottolineato che “oggi gli agenti di polizia penitenziaria a Ferrara sono ancora costretti a un elevato numero di turni straordinari per coprire tutti i circuiti detentivi, spesso fronteggiano situazioni molto problematiche aggravate dal sovraffollamento di una struttura che ha 244 posti e ospita circa 380 detenuti. Nonostante ciò, il consigliere Carità, anziché lavorare seriamente a un accordo politico tra forze di maggioranza e opposizione in Consiglio comunale per votare un documento unitario sul tema, come più volte suggerito dagli stessi promotori dell’ordine del giorno ignorato a luglio, ha preferito presentare una risoluzione puramente autocelebrativa. Un testo inutile e fuori luogo: chi lavora in carcere sa bene che, purtroppo, la realtà non è cambiata affatto negli ultimi cinque mesi”. Inoltre, gli esponenti Dem hanno evidenziato che “dal 7 febbraio a oggi, per le divisioni interne alla maggioranza, non è ancora stato possibile nominare il nuovo ‘Garante delle persone private di libertà personale’. Il mondo del carcere, chi ci lavora e chi vi è detenuto, è quindi l’ultima delle preoccupazioni per Fabbri e le forze politiche che lo sostengono. Tuttavia, siccome crediamo che la politica seria ha il dovere di affrontare e risolvere i problemi, ricercando la più ampia intesa possibile, noi saremo sempre disponibili a un confronto leale e costruttivo nell’interesse della città. Riteniamo sia inutile e poco rispettoso di chi lavora, invece, strumentalizzare problemi seri per farsi autopromozione in campagna elettorale o, peggio, ricercare lo scontro personale a ogni costo”. Genova. Nell’officina che ripara le biciclette la seconda occasione dei detenuti di Erica Manna La Repubblica, 16 dicembre 2023 Sono 90 quelli già formati nel laboratorio allestito da Nuovi Cicli a Genova nel carcere di Marassi. Riescono a smontare e a rimontare completamente una bici, i detenuti che hanno già finito il corso: “Con una velocità e una competenza tecnica impressionanti”, racconta Luca Bianchi, fondatore della onlus Nuovi Cicli - ma l’aspetto più complesso per loro è riuscire a reinserirsi in un contesto di lavoro, relazionarsi con i clienti”. È qui, nello spazio che aprirà al pubblico oggi in via Santi Giacomo e Filippo 29 r, che inizierà la palestra vera: “Nuovi cicli ciclofficina sostenibile”. Ovvero, uno spazio che vuole diventare punto di riferimento per appassionati ed e-biker, e dove i clienti potranno riparare la propria bicicletta. Per i detenuti, è una seconda occasione: l’inizio di una nuova vita in autonomia. Sono una novantina, i detenuti già formati nel laboratorio allestito da Nuovi Cicli all’interno della casa circondariale di Marassi. Diciotto, i corsi della durata di tre mesi - partiti nel 2017 - già realizzati in partnership con la società cooperativa Il Biscione e il patrocinio del Comune. “Per i detenuti è stata una boccata d’ossigeno - racconta Lidia Botto, responsabile dell’area penale della cooperativa il Biscione - lavorare li calma molto, ha una forte valenza terapeutica ed educativa. Tanto che l’idea è di proseguire ed estendere questi corsi anche a minorenni autori di reato”. L’officina, a pochi passi da piazza Corvetto, è gestita da un manager professionista, Massimo Montagna, che è anche un ciclista appassionato. I ciclo-meccanici provenienti dal carcere - alcuni in uscita, altri in regime di semilibertà, altri assegnati al lavoro esterno secondo l’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario - saranno assunti per un massimo di un anno, e completeranno sul campo la formazione già ricevuta in carcere. Alla base del progetto, infatti, c’è la sfida di reintrodurli nel mercato del lavoro e di creare una rete sempre più fitta, in modo che possano poi trovare un impiego stabile nel mondo delle ciclo-officine. “Da anni portiamo avanti da anni la formazione tecnica di base sulla meccanica della bicicletta all’interno del carcere - sottolinea Mauro Candela, presidente della cooperativa sociale Il Biscione - insieme a Nuovi Cicli, con il fondamentale supporto della direzione del carcere, dell’area trattamentale e della polizia penitenziaria. L’apertura della ciclofficina rappresenta il naturale prosieguo del progetto, per dare la possibilità a chi ha partecipato di misurarsi attivamente con il mondo del lavoro in un’ottica di emancipazione, autonomia e libertà”. Il progetto - spiegano - evoca anche una metafora: “Come per la bici, anche vita c’è un’alternanza di salite e discese, di fatica e di soluzioni, da affrontare con resilienza e costanza”. “Questo è solo un punto di partenza - spiega Luca Bianchi di Nuovi Cicli - una sfida sociale, collettiva e di sostenibilità anche economica: perché l’obiettivo è il pareggio di bilancio dell’attività”. Nuovi Cicli ha anche una forte vocazione ambientale: “Ci appoggiamo a fornitori eco-friendly - continua Bianchi - utilizziamo una vasca lava-pezzi a ciclo chiuso, in modo che non ci sia nessun sversamento nell’ambiente”. In questo spazio, oltre alla manutenzione e alla riparazione delle bici, sono allo studio altri servizi: consulenza per l’acquisto online delle biciclette in modo da evitare errori, progetti di bike fitting (ovvero, una valutazione esperta per evitare dolori alla schiena e alle ginocchia), servizi di manutenzione preventiva con lavaggi ecologici delle componenti del mezzo. Ancona. “In carcere ho imparato un mestiere”. La storia di un detenuto che si è riscattato di Marina Verdenelli anconatoday.it, 16 dicembre 2023 Grazie all’orto sociale ora lavora in un’azienda agricola. Condannato a 5 anni impara un mestiere mentre si trova recluso nel carcere di Barcaglione. Un passo importante che gli sta dando un riscatto di vita. Così un detenuto ha trovato lavoro e ottenuto un contratto. È pastore, mungitore e casaro, esperto nell’arte di fare i formaggi. E lo è diventato grazie all’orto sociale che il sistema penitenziario ha avviato con successo nel capoluogo marchigiano, poi affinando le sue doti in una vera stalla con venti pecore sempre all’interno della casa circondariale di Ancona, un carcere dove i detenuti arrivano per lo più per la fine pena. La storia a lieto fine è di Petrit Goxhaj, 44 anni, albanese. È emersa a margine del convegno “L’agricoltura, strumento d’integrazione sociale per il sistema penitenziario”, organizzato dalla Regione Marche, dall’Amap (Agenzia per l’innovazione nel settore agroalimentare e della pesca), dal Ministero della Giustizia, Coldiretti e dal Garante regionale dei diritti alla persona, che si è tenuto alla Loggia dei Mercanti. A Barcaglione da anni, con il progetto Fattoria, c’è un’azienda agricola multifunzionale che impiega i detenuti che ne fanno richiesta. “Sono arrivato a Barcaglione nel 2019 - racconta Petrit - e appena mi sono affacciato dalla finestra ho visto un signore che metteva le canne per far crescere i pomodori. Ho chiesto agli altri detenuti chi fosse e mi hanno spiegato che era un volontario che insegnava a lavorare la terra. Mi sono subito informato su come potevo aderire anche io, ho parlato con la direzione del carcere e mi hanno fatto fare una domanda. Poi ho iniziato subito a zappare la terra, ad usare la motozappa. Non pensavo che un carcere potesse offrire tanto. Un agronomo mi seguiva - aggiunge -, dal carcere mi osservavano, hanno visto che lavoravo bene, così oltre a farmi operare all’interno delle mura mi hanno dato la possibilità di lavorare anche fuori e ho potuto imparare tante cose che oggi mi hanno dato un lavoro e soprattutto la possibilità di farmi riavvicinare alla mia famiglia”. Petrit si è occupato anche delle api - “invasavo il miele” - e dell’olio: “ho lavorato anche agli ulivi”. Tutte le mattine dalle 8.30 alle 11.30 si occupava della stalla con le pecore, “dove sono stato promosso mungitore, pastore e casaro, ho fatto un corso”. Ad aprile 2022 lo ha raggiunto ad Ancona la sua famiglia, moglie e figli, e “adesso viviamo tutti insieme, ho una casa mia, mi sento fortunato di questa seconda possibilità nella vita, il mio passato non lo cerco più, ho sbagliato è stato giusto pagare, la mia fine pena sarà a marzo quando sarò totalmente libero”. Da un anno e mezzo non deve più stare in carcere, perché ha un affiancamento ai servizi sociali in prova a cui ha avuto accesso grazie ad un agricoltore che lo ha assunto per lavorare nella sua azienda. Adesso ha un contratto e una nuova vita davanti. Prato. La Caritas lancia il nuovo progetto per aiutare gli ex detenuti La Nazione, 16 dicembre 2023 “Una casa per ricominciare” è il nuovo progetto per aiutare gli ex detenuti a ricostruirsi un futuro, ecco come contribuire. “Una casa per ricominciare”. È questo il tema del tradizionale Avvento di Fraternità in programma domenica 17 dicembre. Questo fine settimana le offerte raccolte durante le celebrazioni delle messe festive e prefestive nelle chiese di Prato saranno devolute per sostenere la realizzazione di casa San Leonardo di Noblac. Abate benedettino vissuto in Francia nel VI secolo, San Leonardo viene spesso raffigurato con delle catene o dei ceppi perché è considerato patrono dei carcerati. Ed è proprio per loro, i detenuti, anzi, coloro che hanno finito di scontare la pena carceraria, che è pensato il nuovo progetto della Fondazione Caritas di Prato. “Si tratta di un nuovo passo nel contrasto alla recidiva - spiega don Enzo Pacini, direttore della Caritas e cappellano del carcere della Dogaia -, perché chi esce da un periodo di detenzione si trova indubbiamente in difficoltà e se qualcuno non lo sostiene e lo accompagna in percorsi di autonomia e di ripresa della propria vita, è molto probabile che questa persona torni a delinquere”. La nuova opera sarà aperta all’interno di un terratetto lasciato in eredità alla diocesi di Prato da un’anziana signora che ci ha vissuto fino al giorno della morte. Nel testamento è scritto che l’abitazione sarebbe stata donata per l’assistenza dei bisognosi e dei senzatetto. L’edificio, una tipica casa alla pratese a tre piani con piccolo stanzone annesso, si trova in via Zipoli e prima di essere messo a disposizione del progetto avrà bisogno di essere ristrutturato. Casa San Leonardo sarà composta da sei stanze con bagno e angolo cottura privati, mentre al piano terra ci saranno alcuni spazi comuni e la presenza di un operatore dedicato. È prevista anche la realizzazione di un laboratorio dove svolgere attività formative o lavorative. L’obiettivo è quello di rendere autonomo ogni ospite, perché è dall’autonomia personale che inizia il cammino verso il reinserimento sociale. L’alloggio dato in uso all’ex detenuto sarà temporaneo, per non più di un anno o due, “il tempo necessario per dargli modo di fare un salto di qualità nella propria vita”, conclude don Enzo. Cremona. Don Musa agli studenti: “Vi racconto l’umanità del carcere” di Davide Luigi Bazzani La Provincia di Cremona, 16 dicembre 2023 Il cappellano al “Polo Romani” ha incontrato i ragazzi delle quinte superiori in preparazione della visita a Ca’ del Ferro. Preparare gli studenti del Polo Romani alla visita programmata per febbraio alla Casa circondariale di Cremona. Questo l’obbiettivo dell’incontro che questa mattina a partire dalle 9 per un paio di ore si è svolto in aula magna al Polo Romani. A parlare ai ragazzi e alle ragazze è stato invitato don Roberto Musa, cappellano del carcere di via Ca’ del Ferro, alcuni giorni fa protagonista di un incontro analogo all’Istituto Einaudi di Cremona. L’evento - denominato ‘La scuola incontra il carcere’ - è stato organizzato dalla docente di religione Antonella Maria Maglia. “La visita - ha spiegato la professoressa Maglia - sarà articolata in due gruppi e coinvolgerà tre quinte dell’Itis, una quinta del liceo scientifico, una quinta del liceo classico”. Durante gli incontri, don Musa ha esplorato diversi aspetti del sistema penitenziario italiano, focalizzandosi in particolare sulla realtà del carcere di Cremona. Ha stimolato una riflessione tra gli studenti sulle differenze tra la vita quotidiana di un individuo libero e quella di un detenuto, impegnato a risarcire il proprio debito con la società. Un altro tema chiave è stata l’importanza dell’aspetto rieducativo della detenzione, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana. Particolarmente toccante per gli studenti è stato il racconto delle storie personali di alcuni condannati. Un altro aspetto toccato questa mattina è stato quello della molteplicità di nazionalità presenti nella struttura carceraria: “Sono rappresentate 50 nazionalità e a volte il dialogo è difficile. Ad esempio, quando c’è il ramadan (il mese sacro del digiuno nella religione islamica, nda), c’è chi lo rispetta e chi no, ed è stato necessario strutturare il funzionamento della cucina per consentire a tutti di mangiare quando è possibile”. Don Musa ha parlato anche di reinserimento sociale e lavorativo. A Cremona don Roberto ha fondato “Fratelli tutti”, una cooperativa di tipo B con la previsione di una seconda panetteria con laboratorio, simile a quella già esistente in via Robolotti, dove lavoreranno sia ex detenuti che persone con disabilità. Roma. “Finché il caffè è caldo”, incontri e acquisti natalizi per reinserimento dei detenuti adnkronos.it, 16 dicembre 2023 Lunedì 18 dicembre alle ore 17.00, a Palazzo Caetani in via delle Botteghe Oscure 32 a Roma, si terrà l’evento Finché il caffè è caldo organizzato e promosso dall’Università di Roma Tor Vergata, con la collaborazione della Fondazione Camillo Caetani e delle cooperative Panta Coop, Men at Work e Gustolibero. L’occasione per mostrare i risultati e i progressi di una realtà basata sul lavoro in carcere, una occasione legata al progetto ultradecennale dell’ateneo romano legato alla didattica in carcere per lo studio e la formazione dedicata alle persone detenute. Il tema del caffè è stato scelto dalla curatrice dell’evento Serena Cataldo, assegnista di ricerca del progetto Rome Technopole, sotto la direzione di Marina Formica, professoressa ordinaria di Storia Moderna all’Università di Roma Tor Vergata e delegata del rettore per la formazione universitaria negli istituti penitenziari. La torrefazione che produce il “Caffè Galeotto” è luogo di lavoro, apprendimento e integrazione sociale per i detenuti della casa circondariale Rebibbia Nuovo Complesso. Il protagonista dell’evento è “il Caffè Galeotto - spiega Serena Cataldo - un prodotto che nasce nel carcere di Rebibbia grazie al profuso impegno di Mauro Pellegrini, presidente della Panta Coop, cooperativa sociale che da oltre 20 anni si occupa di reinserimento lavorativo dei detenuti”. Ma oltre al caffè, saranno raccontati altri prodotti made in carcere (tozzetti, biscotti secchi, marmellate ecc) della cooperativa sociale Men At Work, anch’essa impegnata nel reinserimento sociale dei detenuti attraverso l’assunzione lavorativa e la formazione specifica. Saranno presentati anche i prodotti di Pastificio Futuro, laboratorio artigianale che opera nel carcere minorile di Casal del Marmo, progetto realizzato dalla Cooperativa Sociale Gustolibero. Nella bellissima cornice romana di Palazzo Caetani, introduce l’evento il presidente della Fondazione Camillo Caetani, Antonio Rodinò di Miglione, che ha aperto le porte della Fondazione dimostrandosi davvero molto entusiasta e sensibile all’argomento. La professoressa Formica descriverà il progetto universitario in carcere e coinvolgerà nel dibattito l’ex garante dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni e alcuni ex detenuti laureandi e laureati. È previsto l’intervento di Valentina Calderone, Garante Comunale delle persone private della libertà personale. Parlano anche i detenuti e gli ex-detenuti, studenti a “Tor Vergata”. Ci sarà la testimonianza di Giacomo Silvano, in semilibertà, laureato in Giurisprudenza con il massimo dei voti; Giovanni Colonia, ora in libertà, laureando magistrale in Scienze dell’Informazione, racconterà la sua esperienza anche lavorativa con la Panta Coop. A descrivere il lavoro nella torrefazione di Rebibbia e di tutti i passaggi nel lavoro della materia prima, dalla scelta dei crudi, alla miscela, dalla tostatura fino alla macinazione, Domenico A. detenuto in art. 21, laureando in Beni Culturali. La presenza delle persone attualmente in carcere sarà ovviamente possibile previa autorizzazione. In conclusione, Mauro Pellegrini, Luciano Pantarotto ed Elio Grossi di Pastificio Futuro racconteranno le storie e il lavoro delle cooperative sociali e l’importanza di offrire opportunità concrete attraverso il lavoro e la formazione professionalizzante per contrastare il rischio di recidiva. Dopo il dibattito tutti i presenti saranno invitati a degustare il caffè sotto al portico della Fondazione e potranno assaggiare i prodotti offerti dalla Men At Work. Molti prodotti saranno anche esposti e potranno essere acquistati. L’evento sarà trasmesso in diretta streaming sul canale youtube della Fondazione Camillo Caetani https://www.youtube.com/channel/UCYva3ugA2IXiOepO-ewlwOg/featured Campobasso. “Scrittodicuore”, premiate le lettere scritte da detenuti delle Carceri di tutt’Italia molisenetwork.net, 16 dicembre 2023 “Scrittodicuore” quest’anno premia la preghiera di perdono di un detenuto Antonio, ospite nella Casa Circondariale di San Gimignano che si aggiudica la settima edizione del concorso nazionale di scrittura che ha coinvolto gli istituti carcerari di tutt’Italia. L’iniziativa ideata e promossa dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani. “Una lettera che celebra la complessità dei sentimenti più profondi e contrastanti. Dal mondo invisibile del carcere parte una struggente preghiera di perdono, da chi ha tolto la vita al figlio di un amico. Senza filtri, senza indulgenza per sé, una scrittura pulita, calda, tragica”. È con questa motivazione che la Giuria Tecnica ha assegnato ad Antonio, ospite nella Casa circondariale di San Gimignano, la settima edizione di Scrittodicuore, il Concorso nazionale di scrittura rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale, promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli, la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso e il patrocinio della Presidenza del Consiglio Regionale della Regione Molise nell’ambito di “Ti racconto un libro” laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione 2023. Una lettera che ha profondamente emozionato non solo i giurati che l’hanno valutata, ma anche i presenti alla proclamazione dei vincitori che hanno potuto leggerla nella voce degli attori Michele Di Cillo e Francesco Vitale. “Sul secondo gradino del podio Aymane, ospite nella Casa circondariale di Campobasso, che grazie a una foto contemplata nella solitudine del carcere riscopre persone, momenti e situazioni che hanno dato un’impronta alla propria vita e di cui all’epoca non si è colto il significato fino in fondo. Ed è proprio una foto di famiglia che ispira la sua bellissima lettera di cuore indirizzata alla madre, alla mamma. È una lettera sincera, colma di amore, di rimpianto ma anche di speranza, che arriva dritta al cuore e che ci abbraccia tutti.” Segnalata dalla Giuria Tecnica anche la lettera di Francesco R. ospite nella Casa circondariale di Poggioreale, che con una scrittura pulita, matura, ricercata eppure asciutta, firma una lettera capace di animare anche le piccole cose, come l’abito monacale che tanto fa arrabbiare il destinatario della sua missiva. La Giuria Giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona, Angelica Calabrese e Vincenzo Pentori, ha invece voluto segnalare la lettera scritta da Renato C., della Casa circondariale Bollate, che si rivolge ad un caro amico a cui confida le proprie paure, senza però abbandonare la speranza di salvezza e di una nuova vita. La proclamazione dei vincitori di questa settima edizione di Scrittodicuore ha rappresentato anche l’occasione per intitolare il premio allo scrittore Pino Roveredo, tra i più importanti esponenti della letteratura italiana contemporanea. Il Concorso porta ora il nome dello scrittore friulano, membro storico della Giuria tecnica del premio, prematuramente scomparso lo scorso anno. L’evento è stato inaugurato con la lettura di un brano tratto da Mandami a dire, la raccolta di racconti con cui Roveredo ha vinto il premio Campiello nel 2005, affidata all’attore Michele Di Cillo. Un riconoscimento che l’Unione Lettori Italiani di Campobasso ha voluto fare per ricordare una persona che oltre alle indiscusse doti letterarie, era capace di stabilire una profonda connessione con il suo pubblico, che lo ha sempre seguito con affetto e partecipazione. “La gogna”, quando il potere giudiziario è fatto di piccole cose di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 16 dicembre 2023 Il libro di Barbano è una fotografia sui meccanismi della magistratura. Il titolo non deve creare confusione. “La gogna” non è la storia di un qualche supplizio mediatico-giudiziario, né l’anticamera di una denuncia contro le sopraffazioni che talvolta si insinuano nelle pieghe dei processi per obiettivi inconfessabili. È piuttosto una fotografia, nitida, ravvicinata di un meccanismo di potere che viene messo a nudo in una dimensione quasi domestica, persino pantofolaia. Ricorda la Microfisica del potere di Michael Foucault perché vuole conseguire una ricostruzione minuta, dettagliata, ravvicinata di come il potere talvolta si inceppi, poi consumi epurazioni esemplari e, infine, riparta cercando di dimenticare e di far dimenticare la vergogna di certe epifanie poco commendevoli. Probabilmente erra chi cerca nelle pagine di Alessandro Barbano pruderie istituzionali, bassifondi morali, screpolature caratteriali. Perché è piuttosto il tentativo di raccontare il potere giudiziario da una quota più bassa, con un compasso più stretto, da una prospettiva a tratti antropologica che si concentra sui dettagli dei comportamenti, sull’emotività delle reazioni, sulla banalità delle giustificazioni, sulla modestia delle conversazioni per sverniciare un sistema di potere dall’aura di superiorità morale che le è stata cucita addosso nel corso degli ultimi tre decenni e che le verità ufficiali dell’incontro all’hotel Champagne vogliono caparbiamente preservare. C’è del marcio in alcuni gangli del potere giudiziario italiano racconta Barbano. A fronte di una quasi totalità di toghe impegnate nell’immane compito di dare risposte qualificate alla domanda di giustizia dei singoli e della collettività, un corpuscolo di faccendieri si aggira nelle stanze del potere o si accampa fuori di esse nel tentativo di occuparle appena libere e per farlo cerca intese, raggiunge compromessi, brucia vite, consuma nefandezze, stringe patti scellerati con certi giornalisti. È un prisma opaco, che non scinde e proietta le luci dell’iride, quello che il libro descrive; è piuttosto una sorta di buco nero che conosce alla perfezione le regole della sopravvivenza e, quando occorre, della sopraffazione per tentare di perpetuarsi, e soprattutto di non farsi travolgere da qualche infausto incidente. Per farlo si rendono necessarie operazioni spregiudicate, si devono sacrificare i meno fortunati, si devono sganciare le carrozze malmesse di un treno che rischia di deragliare alla prima curva. Con un paradosso apparente: mentre la politica, la finanza, l’economia, la burocrazia si trovano a patire indagini e processi senza grandi mezzi, se non quelli legittimi del processo, la giustizia - quando veste i panni di Crono che divora i propri figli - ha sempre un occhio rivolto alla corporazione che vuole preservare, al potere che deve restare intatto anche a costo di assumere il volto più feroce, di assumere le iniziative più severe. Ecco perché il titolo scelto da Barbano (La gogna) appare appropriato a quanto si prefigge di raccontare. Se il fortunato libro di Sallusti e Palamara (Il Sistema) è una storia raccontata dalla parte degli sconfitti e insieme una chiamata in correità contro alcuni magistrati per una gestione condivisa e diffusa delle spartizioni e delle carriere, il testo di Barbano è - invece - una faticosa, dura, spiacevole a tratti, risalita della corrente impetuosa che ha frettolosamente diluito in mare il sottofondo istituzionale e il sottobosco umano che trapela oltre l’attovagliamento serale dell’hotel Champagne. Potrebbe essere quella dell’autore una scelta giornalistica riservata agli addetti ai lavori, destinata a un pubblico selezionato di esperti di cose di giustizia, se non fosse per la scrittura accattivante, serrata, da giallo poliziesco con cui quel precipitato di congerie processuali e marchingegni istituzionali è reso nelle pagine del libro. La gogna non cerca colpevoli occulti, non diluisce responsabilità e, soprattutto, non dispensa assoluzioni. Vuole comprendere il contesto che porta a un’indagine che utilizza trojan a intermittenza e fa incetta di bugie; vuole descrivere gli uomini che ne sono rimasti coinvolti, in primo piano e dietro le quinte; vuole spiegare che la giustizia è in mano a persone normali, con debolezze normali, con paure normali, ma con un potere talvolta enorme che non tollera obiezioni o non ammette eccezioni. Restano alcune domande finali tra le righe: si deve diffidare delle toghe? Certo che no, anzi a tratti nelle pieghe del libro si intravedono magistrati coraggiosi, gente con la schiena dritta che non partecipa ad alcun intrigo, sono spesso gli sconfitti, ma questo non conta ovviamente, la loro gogna è un laico martirio; ci sono rimedi per evitare che tutto quel che Barbano racconta possa ripetersi? Spetta alla politica assumersi la responsabilità di riformare carriere, processi e organizzazione giudiziaria, tutte cose complicate assai; tanti magistrati stanno facendo il possibile e si deve dare atto al nuovo Csm di scelte trasparenti e metodi di lavoro innovativi, al riparo da moralismi e vittimismi. *Magistrato La nuova emergenza è la musica trap. Polizia a caccia di baby gang di Mario Di Vito Il Manifesto, 16 dicembre 2023 Quaranta arresti e settanta indagati, molti minorenni. Piantedosi esulta sui social. Il video ufficiale diffuso dalla polizia per accompagnare il racconto dell’operazione sembra lo spot di una fiction: motociclette che sfrecciano per le strade, luci blu che illuminano le notti di periferia, agenti in borghese che si aggirano nei parchetti, cani antidroga, perquisizioni, ragazzini in tuta con il volto oscurato. E poi tirapugni, pistole, fucili giocattolo, bustine apparentemente piene di sostanze. I numeri del blitz di ieri mattina contro le baby gang sembrano importanti: 500 agenti al lavoro in quattordici province da nord a sud, una quarantina gli arrestati (uno su quattro è minorenne), una settantina gli indagati, 6.342 persone identificate, 124 contravvenzioni, 27 veicoli sequestrati insieme a tre chili di hascisc, un chilo e trecento grammi di cocaina, oltre cinque chili di eroina. E appena 10.000 euro in contanti. Il comunicato della polizia sottolinea come si tratti di giovani inseriti in “aree di aggregazione giovanile e in contesti contigui al mondo dei trapper”. SU X, complice il nuovo social media manager che verga per lui almeno un post al giorno, esulta il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ormai da qualche mese ha identificato nelle baby gang il nemico pubblico numero uno: dalle strette del famigerato decreto Caivano fino ai blitz cinematografici che periodicamente riempiono le cronache e le discussioni dei talk show. La musica trap, per il resto, sembra ormai essere diventata un elemento costante della cronaca nera: a Milano ormai da mesi si rincorrono le notizie di faide tra cantanti e rispettive gang a colpi di video minacciosi, aggressioni e anche qualcosa di più. Mohamed Lamine Saida, 21 anni, noto anche con il nome d’arte di Simba La Rue, lo scorso ottobre è stato condannato a quattro anni in primo grado per un’aggressione, e un mese dopo di anni ne ha presi altri sei (e quattro mesi) per una sparatoria nei pressi di corso Como a Milano. A gennaio uscirà il suo primo disco e pochi giorni fa, dai domiciliari, ha rilasciato un’intervista a Rolling Stone. “Non faccio certi video per dire ai ragazzini che devono spacciare tutti la bamba, essere dei narcotrafficanti e sparare alla polizia. Penso non sia quello il messaggio. È arte e basta: uno se lo può inventare e un altro lo può raccontare perché l’ha vissuto davvero. Io dico sempre di non essere un esempio per nessuno”, dice prima di confessare quale sia la sua unica grande paura: “Tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io”, cioè tra microcriminalità e carcere minorile. Zaccaria Mouhib, 22 anni, si fa invece chiamare Baby Gang e il suo curriculum giudiziario parla di una rapina (4 anni e 10 mesi in primo grado) oltre alla sparatoria che ha visto coinvolto anche Simba La Rue e che gli è costata cinque anni e due mesi. Su Instagram, dove conta 2,2 milioni di follower, ha commentato la sentenza mostrando il dito medio alla fotocamera. Didascalia: “Siamo cresciuti con l’ingiustizia. Ora ci facciamo due risate”. Il suo disco, uscito lo scorso maggio, s’intitola “Innocente”. Forse dicevano già tutto alcuni versi scritti dal rapper Marracash nel 2011: “Conosco un criminale che vorrebbe fare il rapper, conosco un rapper che vorrebbe fare il criminale”. Nell’operazione portata a termine ieri dalla polizia la parola trap appare come un marchio di fabbrica, la certificazione che si sta parlando di criminalità e non di un genere musicale. Poi, però, a scorrere l’elenco degli arrestati e degli indagati solo in un caso gli atti parlano di un ragazzo “dedito alla musica trap”: un minorenne accusato di rapina. Il sospetto di panico morale è altissimo e la sensazione è che gli uffici giudiziari stiano mischiando troppo la loro attività investigativa con la sociologia. Il rapporto intitolato Le gang giovanili in Italia, compilato un anno fa dal centro di ricerca Transcrime in collaborazione con i ministeri dell’Interno e della Giustizia, riconosce che siamo in presenza di un fenomeno “molto variegato e complesso” e identifica alcuni fattori che accomunano tutte le baby gang: “rapporti problematici con le famiglie, con i padri o con il sistema scolastico, difficoltà relazionali o di inclusione nel tessuto sociale e un contesto di disagio sociale o economico. Influente è anche l’uso dei social network come strumento per rafforzare le identità di gruppo e generare processi di emulazione o autoassolvimento”. Le risposte, però, sin qui non prevedono iniziative di carattere culturale o politiche che provino quantomeno a tamponare l’esclusione sociale, ma solo e soltanto repressione: blitz, arresti, condanne. Tutto spettacolarizzato, perché la materia è terreno fertile per un tipo di propaganda molto caro a questo governo. Sorvegliare e punire. E scriverlo sui social. Droghe. “Politiche centrate sul penale. Fortemente stigmatizzate le persone che usano sostanze” redattoresociale.it, 16 dicembre 2023 L’intervento di Stefano Vecchio, presidente del Forum Droghe. “Nonostante la Riduzione del danno sia un Lea fin dal 2017, non è attuata nella gran parte del paese. Questa situazione tende a far prevalere culture professionali legate a modelli obsoleti e colpevolizzanti”. E aggiunge: “La tendenza dei servizi pubblici è, di conseguenza, tesa a patologizzare le problematiche delle persone con problemi legati all’uso di droghe”. “Le politiche italiane sulle droghe sono centrate sul modello penale, per cui, per effetto di un articolo della legge che equipara detenzione e spaccio, un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è costituito da ‘tossicodipendenti’. Le Persone che Usano Droghe (PUD), come è più rispettoso chiamarle, anche quando non sono internate in carcere, sono fortemente stigmatizzate e soggette a gravi pregiudizi. La stessa realtà dei servizi socio-sanitari, ferma agli anni ‘90, è oggi largamente insufficiente e richiede una innovazione sostanziale in particolare seguendo la prospettiva della Riduzione del Danno”. Ad avviare la riflessione è Stefano Vecchio, psichiatra, direttore del Dipartimento dipendenze della Asl Na Centro, presidente nazionale di Forum Droghe e che ha partecipato alla stesura delle prime linee guida nazionali sulla Riduzione del danno. Una riflessione ripresa da Fuoriluogo. Afferma Stefano Vecchio: “Nonostante la Riduzione del Danno (RdD) sia un LEA fin dal 2017, non è attuata nella gran parte del paese e laddove è operante è fortemente precaria. Questa situazione, che vede l’attuale governo sostanzialmente impegnato contro la RdD, nonostante sia un LEA, ostacola le innovazioni nei servizi e tende a far prevalere culture professionali legate a modelli obsoleti e colpevolizzanti”. E continua: “La tendenza dei servizi pubblici prevalente è, di conseguenza, tesa a patologizzare le problematiche delle persone con problemi legati all’uso di droghe, equiparando ogni problematica a una malattia cronica e inguaribile… creando rischi di nuove forme di istituzionalizzazione e nuove stigmatizzazioni. D’altro canto, chi sfugge alla detenzione o alla patologizzazione può andare incontro a gravi sanzioni amministrative o altre complicazioni di legge. Molte esperienze innovative realizzate nelle realtà di servizi pubblici di diverse città italiane (es. Napoli, Torino, Bologna) che hanno attuato servizi e attività di Riduzione del Danno integrati nel sistema pubblico hanno operato nella prospettiva universalistica del modello territoriale intesa come Tutela e Promozione della Salute delle PUD centrata sul diritto alla salute al pari degli altri servizi territoriali. Il cambio strutturale delle politiche sulle droghe, in prospettiva, prevede da una parte, la legalizzazione e la depenalizzazione e il riconoscimento dei diritti civili e dall’altra il riconoscimento del diritto alla salute e del diritto alle cure a partire dalla tutela e promozione della salute delle persone che usano droghe. Ma, ciononostante, è possibile, anche nel contesto istituzionale attuale, introdurre innovazioni sostanziali tese a spostare le funzioni dei servizi verso la Tutela e Promozione della Salute delle PUD secondo la prospettiva trasversale della Riduzione del Danno. Una tematica analoga alla Tutela della Salute mentale, della salute delle donne, del bambino, dei lavoratori, dei disabili, degli anziani. Mi riferisco cioè a quella concezione del sistema affermata dalla Legge 833/78 di riforma del sistema sanitario centrata sul modello territoriale”. “Credo, quindi che, quando diciamo che il sistema sanitario italiano debba essere difeso e rilanciato dobbiamo pretendere che si riaffermi la centralità del territorio nell’ambito della riorganizzazione del sistema coerentemente con i principi della prima riforma sanitaria citata e ancora in vigore - continua -. Quando critichiamo giustamente la contrazione della spesa sanitaria e la tendenza pervasiva alla privatizzazione, ad esempio, non possiamo limitarci a dire che bisogna difendere l’ospedale pubblico, garantire i presidi emergenza, ridurre le liste d’attesa smisurate etc. Tutte questioni importanti ed anche urgenti ma che, da sole, rischiano di rappresentare posizioni riduttive se non le collochiamo in una prospettiva più generale di ridefinizione del quadro delle politiche sanitarie”. “Il sistema sanitario attuale è l’espressione della progressiva azione di disattivazione operata nel corso degli anni dei principi fondanti la legge di riforma sanitaria, la 833/78, che appunto spostava il sistema sanitario sul territorio. La tendenza alla privatizzazione e le diseguaglianze stanno tutte dentro quelle leggi (dal DL 502/92 alla riforma del titolo V della Costituzione) e nelle varie finanziarie che hanno sempre più indebolito la dimensione pubblica e unitaria del sistema sanitario nazionale, sacrificando ancor di più il Mezzogiorno - aggiunge Vecchio -. Credo che dobbiamo chiedere e pretendere, per questi motivi, contro la privatizzazione, la riduzione della spesa sanitaria etc. una inversione di tendenza e cioè più diritto alla salute, più territorio e socio-sanitario. “La scarsa diffusione dei sistemi territoriali sanitari e socio-sanitari orientati alla tutela della salute, intesa come ‘il benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia’ (Dichiarazione di Alma Ata) e solo in secondo luogo, ma con uguale rigore, alla prevenzione e intercettazione precoce delle patologie, fino alle cure primarie, domiciliari e al ricovero, ha determinato una diffusione pervasiva del sistema ospedaliero e ambulatoriale, che ha occupato in modo improprio il territorio, distorcendo la stessa mission e la funzionalità del servizio ospedaliero. Ad esempio, ritengo, che verso l’epidemia di Covid un sistema territoriale diffuso di servizi e una epidemiologia di comunità avrebbe potuto mettere in atto in modo precoce le diverse strategie di intervento attivate tardivamente e governare in modo sostanzialmente più efficace l’evento epidemiologico. Analogo discorso per le patologie ambientali”. E continua: “Vorrei anche porre una questione importante. La giusta lotta alla privatizzazione non può però confondere il privato profit che lucra sulla salute con il privato sociale non profit, quello delle cooperative sociali e del terzo settore in generale, che ha contribuito in molte aree e realtà del nostro paese ad ampliare il sistema pubblico territoriale e socio-sanitario, attraverso una integrazione ‘cooperativa’ che non ha sostituito le funzioni pubbliche, ma le ha ampliate in una prospettiva di pubblico-sociale. Una logica tesa e a istituire modelli di servizi territoriali in grado di garantire il diritto alla salute in modo compiuto (le realtà più avanzate della Salute mentale, delle Dipendenze in primis etc.). Ritengo, per questi motivi, che la parola privato sociale dovrebbe essere usata sempre meno, per l’ambiguità che contiene, a favore del termine Terzo Settore e Cooperazione Sociale”. In conclusione, sottolineo che le recenti grandi e importanti manifestazioni indette dalla Cgil con la partecipazione di un ampio numero di associazioni della società civile, hanno posto con forza, l’esigenza non più rinviabile di attivare tutte le necessarie azioni politiche per garantire il diritto costituzionale alla salute, sempre più calpestato - conclude Vecchio -. Tale rivendicazione penso che debba contenere e rilanciare alla luce delle nuove esigenze del tempo presente, i temi storici dei movimenti italiani per la salute (posti dal movimento che dalla deistituzionalizzazione dei manicomi ha rivendicato la Salute Mentale, dalla critica radicale alla medicalizzazione del corpo delle donne posta dai movimenti femministi verso la Tutela della Salute delle Donne, dalla rivendicazione di Tutela della Salute dei lavoratori in un ambiente di lavoro appunto salutare, alla Tutela della Salute delle Persone che Usano Droghe in alternativa alla patologizzazione dei comportamenti etc.) della centralità della Tutela della Salute dei cittadini e degli abitanti attraverso il potenziamento del territorio e del socio-sanitario, delle cure primarie e di prossimità, e la restituzione all’ospedale e all’emergenza della sua funzione ordinaria ed equilibrata all’interno del sistema sanitario complessivo così riposizionato”. Migranti. Il primo Centro per minori non accompagnati: “Hanno bisogno di aiuto e fiducia” di Massimiliano Peggio La Stampa, 16 dicembre 2023 “Sì, qui ero sulla barca in mezzo al mare. Io non avevo paura, le donne sì. Ma non c’erano onde grosse. Eravamo 400 persone. Dalla Libia a Lampedusa. Ho pagato 4 mila euro”. Mohamed mostra un video sul suo telefonino. “Questo sono io con i miei amici”, dice. Quando è arrivato in Italia ha spedito il filmato ai genitori, in Egitto. “Li sento tutti i giorni”. Lui come Lamia, Alagie e gli altri ragazzi hanno quasi tutti 16 anni. Ieri mattina hanno lasciato il centro di accoglienza per adulti di Castello di Annone, in provincia di Asti, e sono stati trasferiti a pochi chilometri di distanza, a Castagnole, in una casetta bianca tra le colline del Monferrato. Sempre nella provincia astigiana. All’arrivo stringono mani e osservano curiosi. Non sanno di essere dei pionieri dell’accoglienza, al di là di decreti sull’immigrazione e date di nascita. Il loro nuovo rifugio, tra le terre patrimonio Unesco, è il primo centro italiano dedicato esclusivamente a migranti minori non accompagnati. Sono in otto. Uno arriva dalla Guinea, quattro dal Gambia, tre dall’Egitto. Tutti arrivati via mare. Dalla Libia o dalla Tunisia. “Due giorni di viaggio”. Qualcuno è stato anche portato in salvo dalla Guardia Costiera. Lamin dice di essere salito sul barcone senza sborsare un centesimo. “Hanno detto che ero molto piccolo e così mi hanno fatto partire lo stesso”. Anche lui mostra fotografie scattate in Tunisia. Seduto su un muretto in attesa della partenza o mentre mangia una baguette. Poi pigiato su un’imbarcazione di legno, con un bel sorrido facendosi un selfie. Il suo viaggio dall’Africa è iniziato più di un anno fa, quando aveva meno di 14 anni. “Vorrei andare a scuola”. Per imparare che cosa? “A fare il cuoco”. Alagie invece racconta di aver preso il mare un giorno d’agosto, nel 2022. Partito dal Gambia, ha attraversato il Senegal, e da lì poi ha proseguito fino alla costa. Racconta che suo papà è un Imam, e che lo ha spronato ad andare via per raggiungere l’Europa. “Sulla barca eravamo in 56. Non avevamo da mangiare, solo qualche bottiglia d’acqua, o succo di frutta”. Alla fine del suo pellegrinaggio, si è ritrovato in Italia. “Mi piace stare qui, vorrei imparare a parlare l’italiano bene. Vorrei trovare un lavoro. E anche studiare, certo”. Mentre raccontano frammenti di ricordi, si guardano attorno e ridono. Cercando il consenso di Arthur Yousuf, origini irachene, uno degli educatori del centro, veterano della Croce Rossa che da una decina di anni assiste i migranti. “Io e miei colleghi vorremmo aiutare questi ragazzi a diventare liberi. Liberi di vivere una vita”, dice. Lui traduce e spiega le loro storie. Sarà uno dei due educatori sempre presenti in questa casa gestita dalla cooperativa Fenice. E se questo progetto pilota ha preso corpo, lo si deve soprattutto al prefetto di Asti, Claudio Ventrice, che ha scommesso sul territorio, all’apparenza ostico. “I monferrini hanno la tendenza a essere diffidenti, poi però si rendono disponibili. Sanno essere generosi” spiega Francesco Marengo, sindaco di questo paesino, più noto per le vigne e per il vino Ruché. “Certo, quando si è diffusa la notizia dell’apertura della struttura, qualcuno ha storto il naso. Anche noi amministratori siamo rimasti un po’ perplessi. Ma adesso che la casa è pronta e abbiamo conosciuto gli educatori, abbiamo capito l’importanza del progetto. Il primo in Italia. Non è cosa da poco”. I ragazzi seguiranno corsi di lingua, faranno attività educative. E potranno anche giocare a calcio o a basket. Il Comune si sta organizzando per mettere a disposizione gli impianti sportivi. E visto che i residenti sono per lo più anziani e vogliono essere rassicurati, il prefetto ha chiesto ai carabinieri di intensificare i controlli. “Discreti, perché sono bravi ragazzi, hanno bisogno di aiuto e di fiducia” ha detto ieri, ispezionando di persona la struttura nel giorno di esordio. Nel rifugio ci sono letti a castello, più bagni, ambienti pieni di luce, una stanza per la tv e lo svago, un ampio terrazzo con una bandiera italiana infilata alla ringhiera. E una grande cucina con il menu della settimana appeso alla parete. Per uscire dovranno indossare una sorta di divisa. Una tuta blu e gialla. “Gli educatori - spiega Stefano Rigoli, responsabile della cooperativa - li accompagneranno sempre. Non resteranno mai da soli. A tutti è stato anche distribuito un piumino. Qui, su queste colline, fa freddo d’inverno”. All’una in punto tutti vengono invitati a sedere attorno al tavolo della cucina, per il pranzo. “I pasti - aggiunge Rigoli - sono preparati da una ditta della zona. E visto che i ragazzi sono tutti musulmani, ci fornisce cibi preparati nel pieno rispetto del credo religioso. Insomma, siamo un piccolo ristorante”. Qualcuno però esita sbirciando nelle vaschette fumanti, guardandosi attorno con aria interrogativa. “Non preoccupatevi, non c’è maiale - interviene rassicurante Arthur parlando un po’ inglese e un po’ arabo - È tutto cibo per musulmani. Mangiate tranquilli. Buon appetito”. Medio Oriente. Diarrea, epatite, fame: nella Striscia le malattie uccideranno come le bombe di Michele Giorgio Il Manifesto, 16 dicembre 2023 L’allarme dell’Oms. I più colpiti sono i bambini, che sono malnutriti e privi di acqua pulita per il latte artificiale. Dal 29 novembre al 10 dicembre, i casi di diarrea nei bambini della Striscia di Gaza sotto i cinque anni sono aumentati del 66% e del 55% nel resto della popolazione. Migliaia i minori che soffrono di disidratazione per la scarsità di acqua potabile. E dopo oltre due mesi di guerra, in condizioni di vita a dir poco precarie, aumentano i casi di epatite A. Non lascia dubbi sui pericoli che incombono sulla salute dei civili palestinesi il quadro della situazione fatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dai medici a Gaza. I numeri peraltro sono sottostimati per il collasso del sistema sanitario causato dalla guerra: 21 dei 36 ospedali della Striscia sono chiusi, 11 sono parzialmente funzionanti e quattro possono offrire solo servizi minimi. In parole povere, per i sopravvissuti alle bombe israeliane le malattie potrebbero rivelarsi un killer altrettanto letale. La mancanza di cibo, acqua pulita e di un tetto ha indebolito le difese di centinaia di migliaia di persone ora esposte alle epidemie. Negli ultimi giorni vento e pioggia hanno strappato tante tende montate a Rafah, sul confine con l’Egitto. Gli allagamenti costringono gli sfollati a trascorrere le ore fredde della notte sulla sabbia bagnata. Marie-Aure Perreaut, coordinatrice a Gaza dei servizi d’emergenza di Medici senza Frontiere, avverte che sono in aumento le infezioni respiratorie e quelle della pelle. “Temo che si diffonderà la dissenteria in tutta Gaza e purtroppo né il ministero della Sanità né le organizzazioni umanitarie saranno in grado di rispondere in modo adeguato”. La dissenteria e la diarrea grave, spiegano gli esperti, potrebbero uccidere tanti bambini quanti ne hanno uccisi finora i bombardamenti israeliani. Un’epidemia diffusa di diarrea potrebbe verificarsi già nelle prossime settimane, a meno che non vengano lasciati entrare a Gaza ogni giorno centinaia di camion di aiuti umanitari e fornita acqua pulita ai civili palestinesi. I medici dell’ospedale Abu Yousef al-Najjar di Rafah riferiscono che sono centinaia le persone vittime di infezioni e malattie trasmissibili a causa delle condizioni in cui vivono nei rifugi sovraffollati. “I bambini bevono acqua che di fatto non è potabile. Non c’è frutta, né verdura, registriamo una carenza di vitamine e anemia da malnutrizione”, spiega il dottor Nasser Al Farra. Soffrono anche i neonati per la scarsità di acqua pulita da mescolare al latte artificiale. L’impossibilità di accedere a cibo sufficiente causa il deperimento che a sua volta rende più vulnerabili a molte malattie. Il Programma alimentare mondiale lunedì ha detto che l’83% delle persone che si sono trasferite nel sud di Gaza non mangiano abbastanza. Durante la tregua a fine novembre, circa 200 camion di aiuti al giorno sono entrati a Gaza, ma da allora il numero è sceso a 100 e l’offensiva israeliana impedisce la distribuzione in tutti i distretti meridionali mentre al nord e a Gaza city, dove vivono ancora oltre 200mila palestinesi, le consegne di generi prima necessità sono occasionali e largamente insufficienti. Per evitare le epidemie gli ospedali e i centri sanitari ancora operativi dovrebbero curare le persone per queste malattie ma sono sopraffatti dal continuo arrivo di feriti dai bombardamenti aerei e dal fuoco dell’artiglieria. In queste condizioni rischiano la vita circa duemila malati oncologici che non possono più curarsi. Tra questi ci sono decine di bambini. Prima potevano andare al reparto di oncologia pediatrica aperto dall’ong Pcrf nell’ospedale Rantisi di Gaza city che il mese scorso è stato evacuato su ordine dell’esercito israeliano. Ora quei bambini sono abbandonati al loro destino tra la disperazione dei genitori. Stati Uniti. Dei delitti e delle rime di Giovanna Branca Il Manifesto, 16 dicembre 2023 Ad Atlanta, Georgia, rischia l’ergastolo Young Thug: la procura si serve dei testi delle sue canzoni per “dimostrare” che il rapper sarebbe a capo di una gang criminale. “I never killed anybody but I got something to do with that body/ Ready for war like I’m Russia/ I get all types of cash - I’m a general”. (Non ho mai ucciso nessuno ma ho qualcosa a che fare con quel cadavere/ Pronto alla Guerra come fossi la Russia/ Faccio soldi di tutti i tipi - sono un generale). Il testo di Anybody di Young Thug (insieme a Nicki Minaj) non ha niente di troppo sconvolgente letto all’interno del genere a cui appartiene, tranne forse la qualità lungimirante della battuta sulla Russia. Ma la canzone del 2018 del rapper di Atlanta è fra quelle su cui punta il dito la procura di Fulton County, Georgia, nel processo che si è aperto il 27 novembre contro Young Thug (al secolo Jeffery Lamar Williams) e altri 28 membri della sua etichetta musicale, YSL - Young Stoner Life Records - fra cui l’amico, collaboratore e rapper lui stesso Gunna (Sergio Kitchens). Un vero maxiprocesso in stile antimafia: le incriminazioni contro Williams e i suoi coimputati sono state infatti portate ai sensi dello statuto noto come Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), emanato negli anni ‘70 proprio per combattere le associazioni di stampo mafioso. La teoria della procura è che YSL sia in realtà una gang criminale - Young Slime Life - affiliata a quella nazionale dei “celebri” Bloods, e che la sua faida con una gang rivale, YFL, abbia riversato negli ultimi anni su Atlanta una serie interminabile di crimini violenti. Il più grave: l’omicidio di Donovan Thomas, figura legata alla scena rap della capitale della Georgia e anche al gruppo YFL, nel 2015. In base al Rico, non tutti gli imputati devono aver “cospirato” per compiere i crimini più gravi, basta aver in qualche modo partecipato al perseguimento delle attività criminali - così come basta dimostrare che colui che è accusato di essere al vertice del gruppo, Young Thug, fosse appunto alla guida della gang che le ha commesse, e non che le abbia personalmente compiute o ordinate tutte. Lo statuto favorisce inoltre il patteggiamento dei pesci piccoli, “inverando” un altro topos del rap: la figura dello snitch (se si cerca in inglese “Ha Gunna” nella barra di Google, l’autocomplete suggerirà per primo il risultato: “fatto la spia su Young Thug?”). È come “arrotolare un tappeto”, ha spiegato al New York Times l’ex procuratore della Georgia Chris Timmons: “Dal basso verso l’alto”. Se l’impianto accusatorio e il nome della procuratrice distrettuale che ha incriminato Young Thug e la YSL - Fani Willis - suonano familiari è perché in questo momento in Georgia è in corso un processo analogo, fondato sul Rico e condotto dalla medesima procura: quello contro Donald Trump, Rudy Giuliani, Sydney Powell, Mark Meadows e il resto della “criminal enterprise” che nel 2020 ha cercato di ribaltare il risultato delle elezioni nello stato. Anche se nel caso del processo contro la cospirazione antidemocratica di Trump probabilmente non si verificheranno episodi in cui qualcuno cerca di introdurre della droga in tribunale, o in cui i procedimenti vengono sospesi a causa dall’accoltellamento di un imputato in carcere - è successo il 12 dicembre a Shannon Stillwell - alcuni commentatori americani leggono in controluce nel processo a Young Thug molto di ciò che potrebbe verificarsi in quello contro l’ex presidente degli Stati uniti. Non solo il caos di ricorsi, già cominciati - ad esempio per vedere stralciata la propria posizione dal processo principale - ma anche e soprattutto l’impiego nella difesa delle garanzie del primo emendamento. Nel caso di Trump per quanto riguarda i tweet dell’ex presidente con cui Willis intende dimostrare l’intenzionalità del piano golpista. Nel caso di Jeffery Williams, la difesa sostiene l’inammissibilità del fatto che un’espressione artistica - le canzoni - possa essere impiegata come prova di un’attività criminale. “Un consiglio legale: - ha detto Willis durante una conferenza stampa - non confessate dei crimini in un testo rap se non volete che vengano usati. O perlomeno fatelo fuori dalla mia contea”. Un appello degli avvocati della difesa è stato rigettato dal giudice che presiede il processo: le canzoni - una dozzina - potranno essere usate dall’accusa per “dimostrare” che Young Thug e gli altri imputati sono in effetti parte di una gang criminale. Non è la prima volta: nel 2012, fra i tanti casi, un testo di Lil’Boosie era stato usato nel processo per omicidio al rapper (poi assolto) e in quello del 2018 a New York contro i Nine Trey Gangsters sedeva sul banco degli imputati anche il musicista Tekashi 6x9ine, che ha pericolosamente rivendicato la sovrapponibilità di testi e effettive attività criminali, per poi collaborare con la pubblica accusa. Né è un fenomeno limitato agli Stati uniti: in Nigeria nel 2019 sono stati arrestati Naira Marley e Zlatan per il brano Am I a Yahoo Boy, in cui cantano sostanzialmente di fare truffe su internet. “I rapper sono cantastorie, creatori di interi mondi popolati da personaggi complessi che possono recitare la parte dell’eroe come del cattivo. Ma più di ogni altra forma d’arte, i testi rap stanno venendo essenzialmente impiegati come confessioni in un tentativo di criminalizzare l’arte e la creatività nera”, si legge in un appello - Protect Black Art - firmato da decine di musicisti e accademici statunitensi, e che si scaglia contro la strumentalizzazione, “nei tribunali di tutta l’America”, dell’espressione artistica, proprio a partire dal processo a Young Thug. La California in questo senso è all’avanguardia: nel settembre 2022 il governatore Gavin Newsom ha firmato una legge - The Decriminalizing Artistic Expression Act - che impedisce di usare i testi delle canzoni rap come prove in tribunale. Una legge simile è in attesa della firma della governatrice Kathy Hochul nello stato di New York, sponsorizzata da nomi come Jay Z e Meek Mill. Nel Congresso degli Stati uniti - a luglio 2022, a ridosso dell’arresto di Young Thug - è stata introdotta la proposta di legge Rap Act (Restoring Artistic Protection Act), con il medesimo scopo di decriminalizzare i testi hip hop. A sponsorizzare la legge i deputati democratici Hank Johnson (Georgia) e Jamaal Bowman (New York). “Il rap è una forma d’arte. È espressione, è letteratura, è poesia, ma al suo cuore è libertà d’espressione”, ha detto Bowman a Politico. “I rapper sono i giornalisti delle loro comunità”. “Che un genere venga preso di mira in questo modo - ha aggiunto - è una questione di giustizia razziale”. Young Thug è in custodia cautelare da maggio 2022 - il suo terzo album, Business is Business, è uscito quest’anno mentre lui era in prigione - solo la selezione della giuria è durata quasi un anno e il processo ha una durata prevista di 5-9 mesi. Fra i suoi oltre 10 capi d’accusa non rientra l’omicidio di Thomas, che secondo la procura Young Thug avrebbe solo facilitato, ma fra possesso di armi, droga ecc. il rapper rischia fino a 120 anni di carcere. Nato a Jonesboro South, zona povera di Atlanta, decimo di undici figli, Young Thug ha un impeccabile pedigree da “gangster rapper” in una scena musicale dove, come spiega il critico musicale Joe Coscarelli - autore di Atlanta: The Rap Capital - l’autenticità è la moneta più preziosa: “L’autenticità, un concetto da sempre scivoloso ma fondativo dell’hip hop, ha assunto un significato ancora più importante nell’era di internet. In posti come Atlanta è un punto di forza cruciale nella variante dell’hip hop nota come trap, costruita a partire dal gangster rap e incentrata sul commercio di droga”. Ma Young Thug è considerato anche un innovatore “psichedelico” del genere, specialmente del suo distintivo tratto ipermachista: nella copertina del mixtape del 2016 Jeffery indossa un lungo abito femminile a balze - anche se più tardi rapperà ironicamente che gli serviva per nascondere lo “stick”, slang per fucile d’assalto. Ironica, forse involontariamente, anche la scelta dei suoi avvocati di sostenere che Thug sia l’acronimo di Truly Humble Under God - sinceramente umile di fronte al signore - e già i suoi fan su Reddit lo reclamano come il titolo del suo prossimo album. Più concreta l’affermazione del suo team legale per cui l’uso probatorio dei testi costituisca una forma di diffamazione per instillare un pregiudizio nella giuria: “Ne verrà avvelenata”. Drew Findling, avvocato che nel 2015 aveva rappresentato un altro rapper di Atlanta, Offset, ha dichiarato a Vulture che l’accusa di far parte di una gang, e l’uso di Rico, non siano in fondo che “la più recente manifestazione del razzismo sistemico del sistema penale”. Iran. “Nessuna prigione rinchiuderà mai la mia voce. Lotto per Mahsa e Armita, il velo è sottomissione” di Greta Privitera Corriere della Sera, 16 dicembre 2023 Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, detenuta in Iran, nel terribile carcere di Evin: “Non vedo i miei figli da 8 anni, è il dolore più atroce. Ma combatterò sempre. Mi sono salvata solo grazie alla mia fede nella libertà per ogni essere umano”. L’email arriva a sorpresa, a sei giorni dalla consegna del premio Nobel per la pace. Al municipio di Oslo c’erano i figli gemelli Ali e Kiana, 17 anni, e una sedia vuota, a raccontare la sua assenza. Mohammadi, 51 anni, dal 2021 in carcere a Teheran, è stata arrestata 13 volte e condannata a 31 anni e 154 frustate. L’ingegnera, vicepresidente del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, attivista e soprattutto simbolo della lotta iraniana alla dittatura, risponde per iscritto da una cella microscopica che condivide con altre quattro compagne, nel braccio femminile di Evin. Sulla parete, in alto, una piccola finestra da cui vede le amate montagne, accenno lontano di libertà. “I prigionieri hanno diversi modi per comunicare con l’esterno ma preferiamo non andare nel dettaglio”, dice il marito e attivista Taghi Rahmani, che non sente la voce della moglie da due anni. “Narges raramente fa interviste, ma quando riesce è molto felice di raccontare la rivoluzione iraniana. Però, ogni messaggio che fa uscire dal carcere ha un prezzo”. Come paga questo mettersi di traverso con il corpo e con le parole? “Su di me - dice Mohammadi - aprono procedimenti su procedimenti: ne ho accumulati sei. Per due di questi sono stata condannata ad altri 27 mesi di prigione e quattro di pulizia delle strade, sono in attesa di un altro verdetto”. Che cosa vuol dire per una madre, per un genitore, non vedere i propri figli da otto anni? “Stare lontano da un figlio è il dolore più atroce che si possa immaginare. Il primo arresto è avvenuto quando Ali e Kiana avevano 3 anni e 5 mesi. Sono stata in isolamento, in un reparto di massima sicurezza. Non c’erano telefonate, né visite, non sapevo nulla di come stavano i miei bambini, ero tormentata. Ogni volta che penso a quel periodo, non posso credere di essere sopravvissuta a così tanta pena. Poi è andata anche peggio”. Cioè? “La seconda volta che mi hanno arrestata e messa in isolamento, Kiana e Ali avevano 5 anni e Taghi era scappato a Parigi. In cella non facevo che pensare alla solitudine, all’impotenza dei miei figli, così piccoli, così soli: era insopportabile. Mi sono salvata solo grazie alla mia fede nella libertà per ogni essere umano. Così la sofferenza non diminuisce ma trova un senso. Non posso lamentarmi”. Ora i suoi figli hanno 17 anni e sono andati a Oslo a ritirare il Premio al suo posto. Che cosa significa per lei questo Nobel? “Il messaggio che ho mandato e che Ali e Kiana hanno letto durante la cerimonia iniziava con lo slogan “Donna, Vita, Libertà”, in onore della rivoluzione del popolo iraniano. Per me il Nobel è una dichiarazione di sostegno globale al movimento progressista d’Iran. È per l’Iran che si ribella”. Ma anche un riconoscimento al suo coraggio d’attivista che ha dedicato la vita al sogno di un Paese libero entrando e uscendo dal carcere... “L’ultima volta che sono uscita di prigione era il 2020. Ho subito provato ad andare a Parigi dove vivono i miei figli e mio marito, ma mi è stato proibito di lasciare il Paese. Sono stata libera per un anno, poi mi hanno processata di nuovo e condannata. Per la quarta volta mi hanno messo in isolamento. Non mi hanno mai interrogata, né ho visto un avvocato. Sono stata condannata a otto anni e tre mesi e 74 frustate, quelli che sto scontando”. A Evin? “Prima a Qarchak, un carcere femminile. Un mese dopo ho avuto un infarto, mi hanno concesso di andare in ospedale dove ho subito un intervento. Dopo sei mesi sono stata trasferita nel reparto femminile della prigione di Evin, a Teheran”. Un mese fa, dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute, ha iniziato uno sciopero della fame. Le hanno negato il permesso di uscire dal carcere per una visita importante perché lei si è rifiutata di indossare l’hijab. Piuttosto che il velo, la morte? “L’hijab obbligatorio non è un dovere religioso o un modello culturale, né, come dice il regime, il modo per preservare la dignità e la sicurezza delle donne. L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci. È uno dei fondamenti della teocrazia autoritaria e io lo combatto con tutta me stessa. L’uccisione di Mahsa-Jina Amini e di centinaia di manifestanti nelle strade, l’uccisione di Armita Garawand per me sono e saranno per sempre un dolore che mi è entrato in gola. Non indossare il velo nemmeno per una visita medica necessaria è la mia protesta e la mia forma di resistenza contro l’oppressore: non farò mai un passo indietro”. In passato, ha denunciato la violenza sulle donne e gli stupri nelle carceri. Che cosa succede nella prigione più famigerata d’Iran? “La violenza sulle donne e soprattutto sulle manifestanti è costante, non solo qui. Sono stata testimone dei corpi contusi, spezzati e feriti delle detenute. Gli attacchi contro le prigioniere sono uno degli strumenti di repressione che il regime ha più usato nell’ultimo anno, sebbene sia sempre stata una pratica diffusa della Repubblica islamica. Io e le mie compagne abbiamo conosciuto l’isolamento e la massima sicurezza, tante sono le storie che abbiamo ascoltato di aggressioni sessuali. Poi c’è il livello superiore: le impiccagioni”. Nell’ultimo anno il regime ha impiccato centinaia di persone. Otto manifestanti... “Le esecuzioni sono una delle gravi violazioni dei diritti umani. Le autorità fanno un’altra cosa terrificante di cui si parla meno: chiudono chi ha manifestato nei centri psichiatrici, la brutalità di quello che fanno dentro è sconvolgente. Ho protestato in carcere anche per loro”. Le sue lotte trovano sostegno in carcere? “Oggi, tra le donne detenute, vedo più unità, empatia e motivazione alla lotta. Noi prigioniere politiche veniamo da storie e formazioni diverse, ma tutte abbiamo lo stesso obiettivo: porre fine al dominio della Repubblica islamica, e per questo “lavoriamo” insieme. Tra di noi ci sono donne di 70 anni che rispettiamo come madri. E sei ragazze che hanno meno di 25 anni che amiamo come figlie. Siamo famiglia”. Come vive le sue giornate? “Studio molto, parlo con le amiche, organizzo celebrazioni, faccio esercizio e svolgo attività quotidiane che mi fanno sentire come se la vita continuasse. Continuiamo la lotta da qui con scioperi della fame, sit-in, opponendoci al velo. Le mura della prigione non impediranno alla mia voce di raggiungere il mondo”. Per che cosa lotta? “Per la realizzazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza. Noi iraniani vogliamo una società civile forte e indipendente. La democrazia non esiste senza il rispetto dei diritti umani e quindi dei diritti delle donne”. Qual è la forza del movimento “Donna, vita e libertà”? “È un movimento rivoluzionario nato dall’iniziativa delle donne che poi ha visto la partecipazione degli uomini e di varie classi e gruppi della società - studenti, giovani, insegnanti, lavoratori. Questa caratteristica ha consentito la diffusione capillare della disobbedienza civile, nonostante la dura repressione nelle strade. Credo che “Donne, Vita, Libertà” abbia notevolmente accelerato il processo di democratizzazione del Paese. Ha portato cambiamenti irreversibili. Io sono molto fiduciosa sul futuro dell’Iran”. Che cosa si aspetta dalla comunità internazionale? “È importante che il mondo veda e riconosca la nostra lotta e i cambiamenti nella società iraniana. Mi aspetto che i governi stranieri e l’opinione pubblica globale garantiscano i diritti umani e il processo di democrazia in Iran”. Arabia Saudita. Il lato oscuro del regime: un giornalista massacrato e 20 anni di cella ai dissidenti di Guido Olimpio Corriere della Sera, 16 dicembre 2023 Chi contesta il sistema finisce subito nel mirino del principe. Che alle accuse risponde: “è la legge” in una monarchia assoluta. Vale per Vladimir Putin, vale per gli ayatollah iraniani, vale per la Siria di Assad, vale per Mohammed bin Salman: non solo è ingiusto ma è anche pericoloso fare concessioni in nome della ragion di Stato. Gli interessi nazionali vanno tutelati, ampliati, rafforzati. Viviamo in una realtà ad alta concorrenza, non è un mondo di fiabe, impensabile troncare alla radice i rapporti con regimi o personalità sgradite. Tuttavia, devono esserci garanzie, limiti, valvole di sicurezza in un’arena dove non sono poche le ambiguità. E nel caso saudita non possiamo non partire dal 2 ottobre 2018, una data vicina che però sembra ad alcuni lontana. Quel giorno Jamal Khashoggi, giornalista saudita, voce del dissenso verso l’attuale leadership ma con sponde nel regno, residente negli Stati Uniti, è attirato con una scusa burocratica nel consolato di Istanbul, in Turchia. Deve sistemare i documenti, è il gancio usato dai suoi interlocutori. Le telecamere di sicurezza ne tracciano le ultime mosse nella città del Bosforo, registrano il suo ingresso nell’edificio. Jamal non è mai più riapparso, svanito, inghiottito da un’operazione segreta. La ricostruzione più accreditata racconta di un’aggressione all’interno della sede diplomatica, probabilmente un tentativo di narcotizzarlo per rapirlo. Manovra finita in tragedia. Oppure un’azione che doveva concludersi con la sua eliminazione. Del suo corpo non resterà traccia, solo voci con versioni brutali dell’epilogo: fatto a pezzi da un medico esperto di autopsie, sepolto da qualche parte, bruciato. Una missione eseguita da un team dei servizi in collaborazione con alcuni uomini della cerchia del principe Mohammed bin Salman. L’ordine era di neutralizzarlo a conclusione di una lunga campagna di minacce, pressioni, moniti affinché l’oppositore tornasse in patria ad affrontare il suo destino. Si è a lungo discusso sul livello di responsabilità dei vertici, sono riemersi gli scenari consueti in questi casi di iniziative sfuggite di mano, di esecutori più realisti del re, che si spingono oltre le disposizioni e ritengono di non avere limiti. Ma sono distinzioni investigative che non cambiano la sostanza, non alleggeriscono le responsabilità di chi è in cima alla piramide del potere. La Turchia - I turchi, infuriati in pubblico, hanno indagato e promesso di far luce, hanno evocato ritorsioni e indossato i panni dei paladini. Sdegno alla fine cosmetico. Furbescamente Erdogan il Sultano ha alzato i toni, passato notizie truci sul delitto ai media, però ha trattato sottobanco con il regno. Ha visto l’occasione per ottenere un risarcimento organizzando un vero bazar sulla salma - introvabile - di Khashoggi. Ed ha incassato investimenti massicci da parte dei sauditi. Un accordo con la scusa che sarebbe stato il regno a fare giustizia. E, sul piano formale, a Riad lo hanno fatto. Quasi un anno dopo un tribunale saudita ha condannato alla pena capitale cinque accusati, per altri tre solo lunghe pene detentive, assolto l’ex numero della sicurezza, non toccate figure chiave che hanno partecipato all’agguato. In seguito, le sentenze capitali sono state commutate in 20 anni di prigione. Caso chiuso per loro. Un verdetto di comodo, una scorciatoia per voltare pagine offrendo una sentenza alla platea globale. Sempre che all’estero avessero grande attenzione per un delitto atroce. Il principe è apparso sorridente al fianco del leader del Cremlino (altrettanto disteso), ha continuato ad avere contatti a 360 gradi, ha incontrato Joe Biden nel 2022, ha proseguito la sua danza. Salman, dopo aver definito il delitto un errore, ha assicurato che tutto sarebbe cambiato in nome dei grandi progetti di riforma del Paese. Piani che prevedono sviluppi in ogni campo e che si rivolgono anche agli investitori stranieri. Il seguito del dramma Khashoggi, però, ha raccontato altro. La repressione mirata nei confronti di chi dissente non è diminuita. Il Washington Post, nell’anniversario della morte di Jamal, ha descritto un elenco di episodi con misure severe nei confronti di donne e uomini finiti nel mirino per aver osato contestare il sistema. Non terroristi, militanti armati, sabotatori, bensì individui che hanno espresso semplici opinioni. I giudici hanno usato la mano pesante, alcuni staranno in cella per oltre vent’anni, un altro potrebbe salire sul patibolo. Scarse le reazioni all’estero. La crisi economica, la necessità di reperire risorse energetiche, l’esigenza di avere relazioni ad ampio spettro, un quadro globale instabile hanno spinto tutti i governi a tenere conto di alcuni parametri. È impossibile o quasi chiudere completamente i canali di contatto con sistemi che violano i principi elementari. Si dice di farlo, poi però affari e necessità portano a chiudere un occhio o entrambi. Se lasci un vuoto sarà un tuo concorrente a riempirlo, ingolosito da nuovi contratti trasformati in esche sostanziose da Riad, consapevole di debolezze e desideri. La sua posizione geografica, i pozzi petroliferi, le ricchezze me aumentano la forza contrattuale. Per questo i sauditi - non sono gli unici - giocano costantemente su più tavoli. La partnership con l’Ovest è solida, acquistano di tutto e di più, sono difesi da nostri apparati. Tuttavia, sono veloci nell’avvicinarsi, per ragioni tattiche e su questioni specifiche, ai rivali dell’Occidente, a cominciare dalla Russia del neo-zar e dai cinesi, certamente indifferenti se il regno soffoca il dissenso. Anzi, dimostrano comprensione, distinguo, persino assoluzione guadagnando spazi di manovra. Possiamo chiedere a Salman garanzie, prendere per buone quelle che vengono offerte, ma non avremo mai la sicurezza di un impegno solenne. Neppure se accompagnato da un documento con il sigillo reale o in carta bollata. Sono regimi con meccanismi particolari, dove le istituzioni sono modellate a seconda dei voleri del “sovrano”. Proprio Salman, ad una domanda specifica su una condanna durissima nei confronti di un contestatore, ha risposto in modo semplice: è la nostra legge. Russia. Navalny trasferito in una colonia penale fuori dalla Regione di Vladimir ansa.it, 16 dicembre 2023 Navalny è stato condannato a 19 anni di carcere ad agosto. Stava già scontando 11 anni e mezzo in una struttura di massima sicurezza. Le autorità carcerarie russe confermano che Alexei Navalny non si trova più nella prigione della regione di Vladimir, dove era detenuto, dopo che da giorni i suoi legali hanno denunciato la “scomparsa” dell’oppositore, sostenendo di non sapere dove sia finito. La portavoce di Navalny, Kira Yarmish, ha riferito di aver ricevuto conferma del trasferimento, che sarebbe avvenuto l’11 dicembre, ma non si sa dove. I legali dell’oppositore condannato a 19 di carcere in una colonia penale non hanno contatti con Navalny dal 6 dicembre scorso. Navalny è stato portato in un altro carcere fuori dalla regione di Vladimir come previsto dalla condanna per estremismo pronunciata dal Tribunale della città di Mosca lo scorso 4 agosto, recita un documento del Tribunale della regione, citato dal sito di notizie indipendente Sotavision. “Notizia del nuovo sito in cui è stato trasferito sarà data entro i termini previsti dalla legge”, si precisa. La legge in Russia prevede che notizia del trasferimento di un detenuto sia data a legali e familiari entro dieci giorni dal suo arrivo nella nuova destinazione. Il viaggio può durare anche oltre un mese, avviene in treno, e per tappe. Da qui il nome di ‘etap’. Una udienza di un altro caso ancora per Navalny è slittata a lunedì o “a quando sarà confermato dove si troverà”, precisa il documento. Il trasferimento potrebbe essere iniziato lunedì scorso, ha ipotizzato la portavoce del dissidente, Kira Yarmish. Ma è dallo scorso sei dicembre che i suoi avvocati non sono riusciti a incontrare il loro assistito. Navalny, ex avvocato salito alla ribalta opponendosi all’élite del presidente Vladimir Putin e accusando una vasta corruzione, è stato condannato ad agosto ad altri 19 anni di carcere oltre agli 11 anni e mezzo che stava già scontando. Navalny era tornato volontariamente in Russia nel 2021 dalla Germania, dove era stato curato per quello che test di laboratorio avevano dimostrato essere un tentativo di avvelenarlo con un agente nervino in Siberia. Aveva sostenuto di essere stato avvelenato in Siberia nell’agosto 2020, ma il Cremlino aveva sempre negato ogni responsabilità sostenendo che non ci fossero prove che fosse stato avvelenato con un agente nervino.