La riscoperta della vita dopo 28 anni di "pena di morte nascosta" di Nino Di Girgenti* Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2023 La vita al di fuori delle mura l’avevo solo immaginata, sognata, desiderata. Viverla però è un’altra storia. È una quotidianità fatta di tutte quelle altre cose che il carcere ti toglie ed è incredibilmente complicata e fantasmagorica a detta di un bimbo. Una quotidianità che inizia alle luci dell’alba e dal carcere mi porta a Casaltone di Sorbolo, 12 km di vita inseguiti sui pedali della mia bici, col sole, la nebbia, il freddo, la pioggia, il gelo. Non ho paura degli eventi della Natura ed ho anche imparato a non aver paura delle persone. Ho conosciuto anche quelle nei miei viaggi verso Casaltone, persone che mi hanno consigliato, dato il buon giorno, mandato a fare in culo. Nei primi giorni dei miei viaggi un agente di polizia mi ha consigliato di percorrere la pista ciclabile, un buon consiglio per viaggiare sicuro. Una visione diversa della “divisa”, la mia, un insegnamento appreso per dire che oltre la divisa c’è sempre un’umanità e che nulla deve essere dato per scontato, nemmeno il pregiudizio. Già, un nuovo vocabolo da inserire nella mia agenda: “Umanità”, insieme a “pista ciclabile” e “pregiudizio”. Si parte! Adesso posso percorrerla, la pista ciclabile, pedalando e osservando il panorama che mi accompagnerà da oggi in avanti. Ad ogni alba e ad ogni tramonto nel mio viso si allarga un bagliore vivo che va oltre la felicità. Alzo spesso gli occhi al cielo durante il giorno, mi piace sentire addosso il calore del sole, vederne la gamma di colori dal rosso al giallo all’arancio, ai colori infiniti che il cielo mi offre. Che meraviglia il sole che splende. Mi sento più forte del freddo e della nebbia, della terra ghiacciata e dura. Mi sento libero. Uscire con le mie gambe mi ha dato una sensazione indescrivibile, quasi disumana. Giuseppe e Giada dovevano accompagnarmi quella mattina di settembre per presentarmi ai titolari dell’azienda dove avrei lavorato. Già, dove avrei lavorato. Fino a qualche giorno fa ero rinchiuso all’interno di una sezione carceraria di alta sicurezza e oggi sono qui davanti alla fermata del bus in attesa che vengano a prendermi e intanto osservo le macchine che mi passano davanti, ignaro di quale auto si tratti, sembrano tutte uguali. Una delle cose che ho smarrito in carcere è la capacità di riconoscere in che modo il mondo è cambiato anche attraverso le auto. Sembrano diverse anche le persone, diverso è anche il modo in cui camminano, in cui comunicano. Come facciano a digitare lo smartphone senza guardare dove mettano i piedi è un mistero. Per me è rassicurante che nessuno mi osservi. Forse qualcuno avrà pensato che sono un carcerato, ma penso che a nessuno importi di chi sono o che cosa ci faccio lì. Arriva l’auto che mi porterà a Casaltone. I miei accompagnatori mi spiegano tutto con cura di dettagli. La loro voce è cordiale come i loro gesti. Giuseppe lo conosco da una vita e so che la mia felicità è da lui condivisa. Giada invece la conosco da qualche anno, lei è una bellissima creatura, e il lavoro che fa sembra esserle cucito addosso. Dopo qualche minuto giungiamo alla mia nuova destinazione. A Casaltone mi aspettano Emma e Chiara, conoscerò anche Monica, Sanà e Anna. È un bel posto per lavorarci. Una piccola azienda, ma ben organizzata. Scruto con lo sguardo tutto intorno, più tardi farò un giro. Sono tutte donne quelle che vi lavorano e già questo è confortante; sono donne tutte di un pezzo, indipendenti e qualificate. Osservandole sto imparando molto da loro, sto imparando ad amministrare la cordialità e la gentilezza, Emma e Chiara in questo sono uniche e non solo perché sanno fare bene il loro lavoro, questa è una sensibilità innata, puoi costruirtela attraverso l’impegno sociale, ma certe cose vengono da dentro. “Cordialità” e “accoglienza” questi altri due vocaboli che ho scritto nella mia agenda. Quel primo giorno di lavoro ho saputo che il soprannome che mi avevano affibbiato era il Messia, perché mi attendevano da tanto e non arrivavo mai. “È tutta colpa del traffico” avrebbe detto Paolo Bonacelli nel film “Jonny Stecchino”. Il Messia è arrivato, adesso tra i miei compagni di lavoro da oggi in poi ci saranno queste magnifiche donne e anche vanghe, zappe e trapiantatori. Qui ho imparato altri termini nuovi: ho imparato da Anna che “diserbare” vuol dire estirpare le erbacce con le mani. La mia idea di diserbo era diversa. Ho anche una divisa di lavoro. Degli abiti di color grigio con lo stemma del cigno verde. Questo da oggi è il mio nuovo clan, per usare un termine tanto di moda negli scout. Ho anche la pausa pranzo. Pensandoci bene non ho mai avuto una pausa pranzo e non ricordo sia mai entrata nel mio dizionario linguistico. Però ho voluto sperimentare il senso della parola “pausa”. Non faccio nulla di straordinario, mi godo solo qualche minuto di assoluta libertà in un angolo libero dell’azienda. È un modo, che ho sperimentato qui, di fermarmi per pensare, per riempirmi gli occhi di tutto quello che mi circonda, un modo per concedermi uno spazio solo per me e per fare qualcosa della quale sentivo un estremo bisogno, in realtà è un privilegio tutt’altro che ordinario. Pochi minuti ogni giorno almeno, per consumare un panino, è un’iniezione intramuscolare e me la sono imposta come salvavita. Che sia un tramonto, un disco, o un ghiacciolo al limone, importa poco. Quel che conta è che ci sia. Così tutto ritorna, se non meraviglioso, almeno sopportabile. Poi ho sperimentato il piacere di condividere il pasto con le mie collaboratrici. Sembriamo un gruppo di amici di vecchia data per l’ultimo scorcio di estate, in una bella cascina emiliana affacciata sulla bassa. Il ritmo è dolce: la mattina trascorsa a lavoro, alla pausa caffè qualche biscotto per rendere meno amara la giornata, conversazione, la tavola sotto il porticato un pasto veloce e infine un buon ritorno al lavoro. Quelle cose, sapete, che fanno impazzire chi vive in città. Nei giorni che scorrono velocemente ci piovono dal cielo almeno un paio di idee, non ve le dico, sono da brevettare! Non è detto che se ne farà qualcosa. Poco importa. A quanto pare le buone idee arrivano dalla pienezza della vita e dalle relazioni. Per avere buone idee si deve vivere, e sembra facile. Vivere, per un essere umano, è dividere il pane con qualcun altro. Per dividere il pane si deve essere commensali. E ci si deve volere bene. Ho anche conosciuto, grazie a Emma e Chiara, la disabilità, non la mia, ma quella di 10 meravigliosi ragazzi e ragazze del progetto “Nontiscordardime”. Ho sempre cercato di venire a patti con il dolore, il mio e quello altrui, qui ho trovato altro, sono entrato in empatia con loro ed ho scoperto che c’è molto altro nella vita su cui riflettere. L’incontro con loro mi ha fatto riconsiderare la mia identità, il significato della sincerità, il linguaggio, la decisione morale. Ho scoperto attraverso questa incredibile esperienza che non è possibile una cultura senza altruismo. Ripenso spesso ai miei ventotto anni e mezzo di reclusione, non per nostalgia di quei giorni. Ciò che mi viene in mente è il fatto che la verità in quegli anni era legata al silenzio, alla riflessione, alla pratica della scrittura. Il discorso era una pallida e improvvisata imitazione della conversazione. Adesso mi piacerebbe vivere in modo diverso. Mi piacerebbe conquistare un tipo di libertà più completa di quella che ho attualmente, mi piacerebbe vivere cose semplici in grado di cambiare tutto, di cambiare me stesso. In tutto questo tempo di prigionia ho assimilato profondamente molte cose, talmente tante che sono quasi diventate parti integranti di me. Adesso voglio solo lasciarmi alle spalle le influenze inutili del carcere e individuare delle alternative. Mi piacerebbe osservare e cambiare completamente le mie sensazioni, come se mi tirassero via tutto il sangue e ne mettessero dell’altro al suo posto. E vorrei continuare ad ammirare tutte quelle cose che sono estranee ai miei gusti, perché ho semplicemente bisogno di nuova linfa, di nuovo nutrimento, di nuove aspirazioni. E perché mi piace ciò che non mi somiglia, mi piace imparare quel che è diverso da me o che non conosco. La vita, ho imparato, ha sempre qualcosa da darti. Octavio Paz, scriveva: “In una poesia l’essere e il desiderio di essere vengono a patti per un istante, come il frutto e le labbra”. “Essere” e “desiderio”, altri due vocaboli da inserire nel mio dizionario. Il linguaggio è meraviglioso perché ci offre termini positivi o negativi per descrivere le stesse cose. Penso per esempio che sono stato innamorato raramente, ma ogni volta che mi è successo è stato qualcosa di duraturo, che poi si è concluso – nella maggior parte dei casi - con un disastro. Quando dico di essere stato innamorato, intendo dire che ho vissuto insieme a una persona: abbiamo abitato insieme, siamo stati amanti, abbiamo condiviso tante esperienze. Ho sempre amato vivere vite diverse e continuare ad avere la libertà di crescere, di cambiare e di andarmene se ne avevo voglia. Per questo dico che a un certo punto è necessario scegliere tra Vita e Progetto quando puoi farlo, quando non ti è concesso, invece, scegli ciò che è meglio per te e non é detto che la scelta che fai sia quella giusta. La vita ci insegna che ci sono sempre persone che cadono, si ritrovano su una china e poi cominciano a scivolare. Bisogna stare con i piedi per terra, perché la vita è molto complicata. E bisogna crearsi un proprio spazio, pieno di ascolto e di affetti. Io l’ho sempre avuto. La mia famiglia è stato il mio spazio vitale. Se sono giunto qui è anche grazie alla loro forza, al loro coraggio, alla loro resistenza. Non è stato facile per loro, ne sono consapevole. Ventotto anni di carcere li hanno vissuti anche loro, in modo diverso ma la loro vita è stata complicata. Oggi li sento molto più sereni. La loro presenza è viva, è visibile, è presenza. Non riesco ad immaginare una vita senza di loro. Non è semplice essere capaci di amare con tranquillità, di sperare senza autoinganno, di agire con coraggio, di assolvere a compiti ardui con limitate risorse di energia. Ma ci provo, ogni giorno della mia vita. E mi piace il silenzio trasparente attraverso cui l’altro mi può vedere. *Redazione di Ristretti Orizzonti Parma Aumentano i suicidi in carcere: 67 decessi da inizio anno lapresse.it, 15 dicembre 2023 Il numero dei suicidi in carcere in Italia continua ad aumentare. Da inizio anno al 10 dicembre, sono morti 67 detenuti, di cui 46 per impiccamento. Il dato è stato reso noto dal rapporto “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, che ha censito tutte le morti avvenute in prigione nel corso dell’anno. La situazione è particolarmente grave nelle carceri di Roma e Milano, dove si sono registrati rispettivamente 4 e 3 suicidi. In questi due istituti, i detenuti si sono tolti la vita impiccandosi, soffocandosi con piccole bombole di gas o bruciandosi. Altre carceri in cui si sono verificati più di un suicidio sono Terni (3), Taranto (3), la sezione femminile di Torino (3), Milano Opera (3), Verona (3), Pescara (3) e Venezia (3). In alcuni casi, i detenuti si sono lasciati morire facendo lo sciopero della fame. È accaduto ad Augusta, dove due detenuti si sono tolti la vita dopo 40 giorni di digiuno. Il rapporto di Ristretti Orizzonti denuncia la grave situazione di sofferenza che si vive nelle carceri italiane. I detenuti sono spesso sottoposti a condizioni di sovraffollamento, degrado e isolamento, che possono portare a gravi problemi psicologici e a gesti estremi. L’associazione chiede alle istituzioni di intervenire urgentemente per migliorare le condizioni di vita in carcere e prevenire i suicidi. “Ho scelto di usare il tempo in carcere per cambiarmi” di Francesca Barra L’Espresso, 15 dicembre 2023 “La mia libertà ha finalmente una data precisa. Per me coinciderà, dopo vent’anni di detenzione, con il riacquisire la normalità e magari formare una famiglia”. A parlare è Davide Mesfun, di origini napoletane. L’ho conosciuto in regime di semilibertà, mentre cucinava per me e per i ragazzi dell’Associazione Kayros di don Claudio Burgio a Milano. È imponente quando si avvicina e in naturale apertura con gli estranei: ha voglia di condividere, ha fame di vita, di cinema, di arte. Fin da quando era minorenne è entrato e uscito dal carcere. In quegli anni non esisteva nemmeno lo smartphone e durante le sue prime dodici ore di permesso ha scoperto un mondo diversissimo, quasi come fosse risucchiato in un film di fantascienza: “Tutti con le teste abbassate verso quella scatolina”. Il mondo si era evoluto, in carcere c’era un altro ritmo. Oggi è uno chef, un attore e un regista teatrale, ma nel passato ha accumulato diversi reati: rapine, spaccio, riciclaggio. “Sono stato salvato dal teatro, perché mi ha ripulito, mi ha permesso di sfogarmi, di prendermi meno sul serio, di recuperare il me ragazzino appassionato, sportivo. Quando dalla strada si vedono le mura di un carcere si pensa che i detenuti abbiano molto spazio a disposizione. Invece viviamo in un corridoio, in cattività, in una cella con altre persone che parlano sempre delle stesse cose: pene, incontri con famigliari, avvocati. Viviamo la condizione del gambero: sembra che vada avanti, ma cammina all’indietro. Incontrare persone che vengono da fuori è salvifico: ti nutri di esperienze che in carcere non farai mai più e quel contatto ti rende migliore, ti fa vedere te stesso in modo diverso”. “Quando passi mezza vita in carcere, sai che nessuno ti riconoscerà quando ti rivedrà. Ecco perché c’è una recidiva così alta: se esci e non sei più nessuno per la società, nessuno ti offre una seconda possibilità, se non chi è uscito già prima di te ed è tornato a delinquere. Un altro aspetto brutale è l’assenza di intimità e sentimenti. Ho sei ore di colloqui al mese: se sommi le ore, sono più o meno due giorni in totale in un anno”. “Ho lasciato mia sorella quando aveva 17 anni, l’ho ritrovata durante un colloquio in carcere a trentasette. Non ci sono specchi in cella, ho capito quanto mi fossi trasformato anche io solo guardando lei”. “Forse ci sarà qualcuno che mi dirà che non lo merito l’amore per tutto ciò che ho causato, ma sono una persona diversa grazie al modo in cui ho scelto di spendere il mio tempo in carcere. Ho studiato cucina quando ero ragazzo e qui cucinavo anche duemila pasti al giorno. E ho fatto teatro. Ho iniziato a dirigere spettacoli, ad avere una compagnia tutta mia, a scrivere, a esibirmi fuori dal carcere, anche grazie al professore Alberto Giasanti dell’Università degli Studi Milano-Bicocca che ha creduto nel mio lavoro, ad aiutare i ragazzi che somigliano a me da giovane, quando ho scelto la strada sbagliata”. Un giorno Davide è andato a pulire le celle nel carcere minorile “Cesare Beccaria” e si è paralizzato: stava pulendo la sua cella. L’ha capito perché ha riconosciuto il paesaggio che guardava ogni giorno quand’era rinchiuso lì da ragazzino Oggi che ha finalmente trovato la sua finestra senza sbarre ha deciso di mostrarla a chi pensa di non meritare niente di più e niente di meglio. Patrizio Gonnella: “Il ddl sicurezza criminalizza dissenso e umanità” di Giampiero Cazzato patriaindipendente.it, 15 dicembre 2023 Parla il presidente dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: “Garantirà solo i ricchi che si proteggono dagli altri, si potrà perseguire chi, come i giovani ambientalisti di Ultima generazione, fanno protesta sociale. Palazzo Chigi solletica l’emotività delle persone, ma nei fatti il cittadino comune vittima di un delitto violento sarà meno protetto di chi veste una divisa; il disegno di legge, inoltre, prevede norme simbolo dal brutto sapore etnico razzista. Con Anpi e altre associazioni va praticata un’advocacy politica”. Patrizio Gonnella dal 2005 è presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. In questi 18 anni ha visto da parte del sistema politico - anche quando ha governato la sinistra - scarsa attenzione alla realtà carceraria. Qualche go, moltissimi stop verrebbe da dire. Ma ora che la destra si è insediata a palazzo Chigi, Gonnella registra un pericoloso salto all’indietro: pulsioni autoritarie e populismo d’accatto sono la cifra del governo targato Giorgia Meloni. L’idea punitiva e repressiva di cui la destra è portatrice travalica i confini delle carceri, investe con forza la società. Ne sono un esempio macroscopico i diversi pacchetti sicurezza licenziati dall’esecutivo. L’ultimo ddl poche settimane fa: un insieme di norme, strombazzate come risolutive, che da una parte colpiscono i reati minori commessi da immigrati e rom e, dall’altra, hanno l’obiettivo di criminalizzare il conflitto sociale. Non cercate in questo ddl fascistoide che ripiomba il Paese nel codice Rocco, norme che puniscano l’abuso d’ufficio, la corruzione e la concussione, questi sì reati che avvelenano davvero il Paese e lo rendono insicuro. Semplicemente non ci sono. Questo è un disegno di legge contro i poveri cristi. Gonnella che differenza c’è tra sicurezza e securitario? Il disegno di legge del governo - di cui la presidente del Consiglio si è detta “orgogliosa” - cosa c’entra con la sicurezza? Per la mostruosità giuridica partorita da palazzo Chigi non credi che il termine più esatto sarebbe “pacchetto paura” o “pacchetto razzismo”? Tra “sicurezza” e “securitario” c’è una differenza notevole. Sicurezza è qualcosa che ha a che fare anche con la libertà, nel senso che ciascuno di noi non potrà mai usufruire appieno delle proprie libertà se non facendolo in sicurezza. Quindi una nozione che ha a che fare con le libertà di tutti, con la libertà reciproca. La sicurezza, così come l’abbiamo conosciuta ed è costituzionalmente declinata, non è necessariamente da intendersi come qualcosa che ha a che fare con le misure di polizia ma è sicurezza sociale, è sicurezza profonda, è sicurezza di vita, è sicurezza sul lavoro… Ecco, noi dobbiamo imparare a tornare al passato e a ri-declinare la sicurezza in senso ampio, plurale e democratico. Il securitarismo invece? È una declinazione molto semplice e molto pericolosa: vuole rassicurare attraverso misure pensate per l’ordine pubblico. Diventa in questo modo solo la sicurezza dei ricchi che si proteggono dagli altri. L’ultimo “pacchetto sicurezza” del governo segue a tante altre misure che hanno a che fare con la questione migranti. Ogni due mesi un provvedimento! Sembra una strategia diretta a capitalizzare il consenso, perché si tratta delle misure che hanno a che fare con l’emotività delle persone e quindi si cerca in questo modo di costruire quella democrazia di tipo consensuale che poco ha a che fare con la storia nobile della nostra democrazia costituzionale. Paura e razzismo, soprattutto, e anche ingiustizia sociale. Perché le misure del disegno di legge che andrà in discussione in Parlamento includono la criminalizzazione dei comportamenti sociali e del dissenso. Si pensi, ma è solo un esempio, ai blocchi stradali e ai ragazzi di “Ultima generazione” che in questo modo vedono completamente trasformata in azione penale quella che è una loro protesta sociale. Per non parlare poi delle misure penali dirette ad aumentare il numero di anni di carcere per chi commette reati contro le forze di polizia. Siamo ai classici due pesi e due misure: il cittadino comune che subisce un delitto violento sarà protetto meno rispetto a chi è invece veste una divisa. Nel ddl vi sono anche misure tendenti a impedire alle donne rom che aspettano un bambino di poter portare avanti la gravidanza fuori dal carcere, in regime controllato... La norma che prevede che le donne in stato di gravidanza siano non necessariamente fuori quando aspettano un bambino ma che contempla, invece, il loro potenziale ingresso in luoghi carcerari come sono le “custodie attenuate” è un precetto vessatorio pensato per una decina di donne rom. È una norma manifesto, una norma simbolo che ha un brutto sapore di tipo etnico razzista. L’introduzione del nuovo reato di rivolta carceraria farebbe inorridire Cesare Beccaria, il padre Dei delitti e delle pene, pamphlet che oltre due secoli e mezzo dopo la pubblicazione resta, purtroppo, in Italia di drammatica attualità. Il nuovo reato di rivolta carceraria che punisce fino a 8 anni di carcere non solo chi protesta con violenza ma anche chi pratica la resistenza passiva, e quindi in modo non violento, ci fa piombare nuovamente al carcere dell’obbedienza, dove i detenuti dovevano passeggiare rasente il muro e parlare a voce bassa ed era loro vietato porre domande o fare reclami collettivi. Abbiamo bisogno da questo punto di vista di qualcuno che ricordi al governo che la modernità penitenziaria è altro e non si costruisce certo attraverso un ordine repressivo ma con una vita comunitaria spiegata alle persone. Tutti gli studiosi di pedagogia potrebbero essere buoni testimoni di questo modello. Il carcere immaginato dalla destra che siede a palazzo Chigi smette di essere il luogo della possibile rieducazione del condannato, diventa un italianissimo arcipelago gulag. Se è tragicamente vero che per anni in carcere non è entrata la Costituzione e l’idea che la pena dovesse essere rieducativa è rimasta spesso lettera morta, con l’introduzione del reato di rivolta carceraria non si farebbe di più e di peggio, tornando alle norme dell’Italia fascista? Sì. Nonostante la nostra Carta costituzionale in modo inequivoco affermi che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, purtroppo in realtà questo è un po’ un mito che stenta a trovare forma e ultimamente - anche per pressione da parte delle organizzazioni sindacali di polizia, quelle autonome in particolare - stiamo osservando retromarce rispetto a un modello punitivo moderno e al tentativo di innovare il sistema penitenziario e di aprirlo al territorio. C’è un mantra “chiudere, chiudere, chiudere”. È ovviamente un mantra incostituzionale perché la funzione educativa della pena non si persegue tenendo un detenuto 20-22 ore chiuso in celle sovraffollate. Siamo oggi a 60.000 detenuti, circa 10.000 in più rispetto ai posti letto regolamentari e tutto questo è incompatibile con quella nobile funzione di reintegrazione sociale che la pena dovrebbe avere grazie alla intuizione dei nostri costituenti. Cosa diventeranno le carceri se questo pacchetto dovesse essere approvato così come è stato scritto? E quanto si riempiranno di poveri o di dissenzienti? Le carceri sono già piene di disgraziati. Non sappiamo se si riempiranno anche di dissenzienti. Chi sono i disgraziati? In primo luogo i tossicodipendenti: un quarto dei detenuti oggi è tossicodipendente. Seguono gli immigrati che hanno fallito nel percorso di integrazione per cause non sempre da loro dipendenti. Circa un terzo della popolazione detenuta è migrante. E poi persone con problemi psichiatrici, non necessariamente con malattia ma con disagio psichiatrico. C’è un consumo stratosferico di psicofarmaci all’interno delle carceri italiane, abusi tendenti sostanzialmente a gestire farmacologicamente la fatica di sopportare il carcere sovraffollato. E infine ci sono i poveri: andiamo in un carcere metropolitano, a Roma, Milano, Bari, Bologna e troveremo la marginalità sociale incarcerata. Questo è il fallimento nella nostra società, il fallimento del welfare. E il carcere non può essere l’ultima frontiera del welfare perché non può fare e non riuscirà mai a fare nelle condizioni in cui versa quello che il fuori non è riuscito a fare prima. Il pacchetto sicurezza affastella insieme i reati più diversi senza nessuna logica apparente. L’unico elemento che tiene assieme il tutto è da una parte il marketing politico su “legge e ordine”, che combacia con la triade “dio, patria e famiglia”, dall’altra la repressione generalizzata, l’idea di affermare de facto uno stato di polizia. Quali sono, a tuo avviso, i punti che presentano il più altro profilo di incostituzionalità? Molti punti presentano profili dubbi di legittimità costituzionale, per esempio, come dicevo, la norma intorno alla rivolta penitenziaria, perché si va a criminalizzare la mera disobbedienza e soprattutto con un trattamento penale indifferenziato nonostante la offensività palesemente differente dei comportamenti del detenuto disobbediente. Un conto è reagire con la violenza, un conto con la resistenza passiva: metterle sullo stesso piano viola sicuramente quei principi di ragionevolezza che la Corte costituzionale ha più volte messo in campo. Ma a violare quei principi di proporzionalità e di ragionevolezza sono anche le norme che introducono illeciti penali e aumenti di pene per i blocchi stradali. Vorrei richiamare l’attenzione su un punto: proteggere fino in fondo la libertà di manifestazione del pensiero, anche nelle forme che a volte sono per noi più fastidiose, più antipatiche, è una grande conquista della democrazia contemporanea che noi dobbiamo assolutamente preservare. Ecco perché in questo momento occorre che vi sia da parte delle forze politiche, di maggioranza e opposizione, consapevolezza che non si può strattonare la legge penale fino al punto da renderla così stridente con quello che è il buon senso costituzionale. Forse è un paragone azzardato, ma non credi che il Salvini che precetta i lavoratori e attacca frontalmente il diritto di sciopero fa il paio col pugno di ferro contro i blocchi stradali, o l’occupazione delle case? Non è avventato dire che tutte le misure che si stanno prendendo contro coloro che protestano per i loro diritti sono misure che vogliono criminalizzare quella forma di dissenso organizzato che storicamente noi proteggiamo attraverso il diritto di sciopero e il diritto di manifestazione sindacale. Occorre reagire. Come? Intanto andando a spiegare nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, fra la gente, che noi dobbiamo proteggerle queste nostre libertà, anche quelle che possono un poco dar fastidio agli altri, perché da questo dipende la tenuta democratica del Paese. L’Anpi ha fatto proprio l’appello dei garanti delle persone private della libertà affinché il Parlamento modifichi strutturalmente il “pacchetto sicurezza”. Mission impossible, visti i rapporti di forza alla Camera e al Senato? Il governo gode di una maggioranza granitica e ha numeri così alti da rendere impossibile uno stravolgimento delle posizioni in campo. Ma il punto critico è anche un altro e riguarda il campo del centrosinistra. Ricordo che i pacchetti sicurezza hanno un’origine antica e non è solo un’origine di destra. È accaduto nel passato e accade ancora. Quando è stato approvato il decreto Caivano che ha fortemente inciso negativamente sulla carcerazione dei minori, aumentando la possibilità che vadano a finire dietro le sbarre - misura antipedagogica e antimoderna che costruirà carriere recidivanti - ci sono stati partiti dell’opposizione che si sono astenuti. Non tutti hanno votato contro: il Pd ha votato contro, Sinistra italiana-Verdi hanno votato contro ma gli altri si sono astenuti. E questo non va bene. Che fare allora? Penso che oggi l’Anpi, Antigone, i garanti, dobbiamo tutti insieme fare un immenso lavoro educativo sulle nuove generazioni, un’advocacy politica insomma, per costruire una politica sociale ed economica nuova che contrasti e sconfigga le incrostazioni autoritarie e liberticide che rischiano di soffocare il Paese. Frontiere legali superate: prima messa alla prova all’estero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2023 Per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, una giovane irlandese imputata in Italia ha svolto la messa alla prova nel suo Paese d’origine. Questo evento senza precedenti è il risultato di una decisione pionieristica presa dal gip di Modena, su richiesta dell’avvocata Giulia Galvani. l’innovazione apre nuovi orizzonti per gli imputati che, pur essendo sotto processo in Italia, risiedono in paesi comunitari. Il caso coinvolge una cittadina irlandese nata nel 2002, imputata per aver guidato un monopattino in stato di ebbrezza durante il progetto Erasmus in Italia. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova è stata avanzata durante le indagini preliminari per consentire alla giovane di completare i lavori di pubblica utilità prima della fine del progetto Erasmus. Tuttavia, a causa dei tempi lunghi per l’elaborazione del programma trattamentale da parte dell’Ente di esecuzione penale esterna, l’udienza è stata rinviata al rientro della ragazza in Irlanda. La difesa ha cercato una soluzione che permettesse alla studentessa, iscritta all’ultimo anno di giurisprudenza, di svolgere la messa alla prova nel suo paese di origine. Nonostante le complessità burocratiche e l’ipotesi iniziale della fattibilità del progetto oltre confine, l’Uepe ha comunicato che era necessario un intervento giudiziario e il riconoscimento da parte dello Stato estero. Il gip di Modena ha concesso numerosi rinvii, valutando la fattibilità del progetto anche in uno Stato estero, alla luce della Decisione Quadro Gai 2008/ 947 del Consiglio dell’Unione Europea. Ricordiamo che quest’ultimo è del novembre 2008 e si propone di promuovere la riabilitazione sociale delle persone condannate, migliorare la protezione delle vittime e del pubblico in generale, nonché facilitare l’applicazione di misure di sospensione condizionale e sanzioni socialmente utili per gli autori di reati che non risiedono nello Stato di condanna. Ma ritorniamo al caso specifico. Con una decisione coraggiosa, visto il valido progetto che includeva il percorso di studi e il lavoro di pubblica utilità presso l’Irish Red Cross, avendo la ragazza già risarcito il danno cagionato in sede di incidente, il gip ha ammesso la messa alla prova in un diverso Stato dell’Unione Europea. A seguito dell’intervento dell’Ufficio di Cooperazione Internazionale e del positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, nonché degli adempimenti prescritti e connessi, il gip ha dichiarato, con una sentenza emessa nei giorni scorsi, estinto il reato per esito positivo della messa alla prova. L’avvocata Galvani ha commentato a Il Dubbio: “Nonostante le complesse procedure burocratiche, questo è un grande passo avanti per la cooperazione giudiziaria tra gli Stati Membri dell’Unione Europea, al fine di garantire una piena fruizione di strumenti giudiziari omogenei o compatibili”. La sua osservazione sottolinea l’importanza di questo progresso nell’armonizzazione delle pratiche giudiziarie tra nazioni, contribuendo a creare un sistema più coeso e adattabile alle sfide transnazionali. Questo caso costituisce un esempio tangibile di come il diritto e la giustizia possano evolversi per rispondere alle esigenze di una società sempre più interconnessa. La possibilità di svolgere la messa alla prova in un paese diverso da quello del reato offre una prospettiva nuova e promettente per la cooperazione legale transnazionale nell’Unione Europea, aprendo la strada a una maggiore armonizzazione delle pratiche giudiziarie. Giustizia, è stallo. Slitta ancora l’approdo in Aula della prescrizione di Valentina Stella Il Dubbio, 15 dicembre 2023 Riforme in stand by: di separazione delle carriere si parlerà (forse) nel 2024. Se non vogliamo drammatizzare troppo usando il termine “paralizzata”, bisogna comunque ammettere che la giustizia è in freezer al momento: questa la sintesi guardando a cosa sta accadendo alle riforme in cantiere tra Montecitorio e Palazzo Madama. La notizia forse più importante è che slittano per la seconda volta i decreti attuativi sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. E che Forza Italia potrebbe mettere in difficoltà il Governo appoggiando un emendamento di Azione sulla presunzione di innocenza. Ma andiamo con ordine. Appurato ormai che di separazione delle carriere si tornerà forse a parlare in primavera, anche tutto il resto è in stand by e prima di Natale molto probabilmente nessun provvedimento vedrà la luce di una approvazione almeno in un ramo del Parlamento. Ieri sarebbe dovuta arrivare nell’Aula della Camera la riforma della prescrizione. Ma è tutto rimandato: l’aula di Montecitorio infatti ha concluso l’esame del dl Fisco ieri mattina e ha avviato l’esame del ddl Delega Ue, come stabilito dalla conferenza dei capigruppo. I lavori dell’assemblea si sono interrotti alle 14, per consentire ai deputati di Fratelli d’Italia di partecipare all’edizione 2023 di Atreju. Nulla da fare quindi per il tema caldo della giustizia, che era al quinto posto nell’ordine del giorno. Il ritorno alla prescrizione sostanziale, con l’abolizione della improcedibilità, aveva trovato a fine ottobre l’accordo di tutte le forze di maggioranza. Tuttavia a bloccare l’ultimo passaggio, ossia le dichiarazioni di voto e la votazione finale, è arrivata una missiva, sottoscritta da tutti i ventisei Presidenti delle Corti Appello, indirizzata al ministro della Giustizia e ai presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato, con la quale si richiede la necessaria formulazione di una norma transitoria. Fonti parlamentari di Forza Italia ci dicono che al momento di norma transitoria “non se ne è proprio parlato e penso che non sarà argomento da trattare”. Il che significa che “la riforma va avanti senza intoppi. Speriamo che ci sia lo spazio prima di Natale per l’approvazione”. Dunque gli azzurri non arretrano di un millimetro dinanzi invece all’eventuale tentennamento del Guardasigilli, pronto forse a raccogliere l’ennesimo “grido di dolore” della magistratura. In realtà l’auspicio potrebbe essere annullato dal timing per l’approvazione della legge di bilancio che congela tutto il resto: ieri il Governo ha proposto di portarla in aula al Senato il 21 dicembre con la fiducia, per poi procedere alla votazione finale il 22. La decisione, comunicata durante una riunione in commissione Bilancio con i capigruppo, farebbe sì che per la Camera si vada a dopo Natale. Tuttavia non c’è ancora un accordo con le opposizioni. In stallo al momento anche i due schemi di decreto legislativo concernenti il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili e la riforma ordinamentale della magistratura. I due provvedimenti, approvati in Cdm lo scorso 27 novembre, sono in attesa della bollinatura e non sono stati ancora trasmessi alle commissioni giustizia di Camera e Senato che avranno trenta giorni per esaminarli. La delega, inizialmente, sarebbe dovuta essere esercitata entro il 21 giugno 2023 ma poi con un emendamento al decreto legge sul Pnrr, il ministero della Giustizia si è preso altri sei mesi di tempo per la redazione dei decreti delegati. Stando però così le cose, in attesa che Camera e Senato diano i loro pareri entro trenta giorni da quando ricevono i decreti, slitterà ancora il termine. Come ci spiegano fonti ministeriali “è vero che la scadenza sarebbe il 31 dicembre ma esiste un meccanismo per cui si può slittare di altri novanta giorni se si tarda a mandare alle Camere. Praticamente, siccome i testi arrivano sicuramente tardi in Parlamento, il termine slitta”. Scaduti in Senato anche i termini per la presentazione degli emendamenti al ddl “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”, in pratica la riforma Nordio su abuso d’ufficio, traffico di influenze, intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento, contraddittorio, collegialità e misure cautelari, inappellabilità delle sentenze di assoluzione. La discussione per il momento resta congelata. Se ne riparlerà - sperano nella Commissione giustizia - appena dopo le feste quando bisognerà confrontarsi con il corposo fascicolo degli emendamenti: centocinque pagine. Da registrare infine che un emendamento di Azione alla legge di delegazione europea che si voterà mercoledì prossimo rischia di creare problemi alla maggioranza. Forza Italia in Aula ha già dichiarato che, nonostante il parere contrario del governo, voterà a favore. Il parlamentare Enrico Costa ha chiesto che venga recepita tutta la direttiva riguardo la presunzione d’innocenza e che venga vietata, in particolar modo, la divulgazione letterale dell’ordinanza di custodia cautelare “finché non siano concluse le indagini preliminari”. Per il partito azzurro è intervenuto nell’emiciclo il capogruppo di FI in commissione Giustizia, Calderone, ad annunciare il semaforo verde dei forzisti. “È un principio di civiltà giuridica”, ha detto anche Pittalis. Azione potrebbe chiedere che l’emendamento venga votato a scrutinio segreto, e anche tra i leghisti e gli esponenti di Fratelli d’Italia si registrano aperture sul tema. “Io - ha dichiarato Costa - ho fatto delle sollecitazioni continue al ministro Nordio. Non è un fulmine a ciel sereno”. Rapporto tra politica e magistratura, dal populismo penale al populismo politico di Marzia Amaranto Il Riformista, 15 dicembre 2023 Calamandrei scriveva: “Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”. Se sollevassimo il velo nascosto dietro la democrazia scorgeremo sbalorditi le catene verticali del potere talora invisibili e segrete, questo è il riassunto di quanto la vicenda del rapporto politica - magistratura appaia nell’ultimo decennio. Ebbene il fatto che un magistrato non possa rivestire incarichi politici mentre svolge le funzioni di potere giudiziario e? intuitivo, sicuramente stupisce che a tutt’oggi non sia previsto dalla legge in modo esplicito. È pensiero diffuso che tra le cause principali della perdita di credibilità della giustizia vi sia l’impronta politicizzata di giudici e pubblici ministeri, così come è noto ai più che la magistratura italiana, al pari di quella europea, abbia una solida tradizione associativa e una pluralità di correnti, basate sulle diverse concezioni del ruolo della magistratura e delle politiche della giustizia, con contrapposte idee. Sicuramente l’indipendenza e l’autonomia tra il potere giudiziario e quello politico raffigurano il caposaldo necessario dello Stato costituzionale, purtuttavia proprio negli ultimi anni, si è assistito ad un continuo conflitto tra i poteri dello Stato e la crescente incidenza delle indagini giudiziarie sull’andamento della politica. Sosteneva il giudice Giovanni Falcone che la magistratura non dovesse farsi ammaliare troppo spesso dalle lusinghe del potere politico, ed in effetti questa affermazione descrive alla perfezione le difficoltà del rapporto che vive la magistratura e la politica, basti pensare alle vicende giudiziarie, alle inchieste e alle accuse reciproche dei due poteri, partendo dalle vicende giudiziarie di tanti dei nostri politici. La disputa vede da un lato la politica spesso perseguitata dalla magistratura per via dell’appartenenza a quello o quell’altro partito, con idee piuttosto diverse tra loro; dall’altro indagini e inchieste che rappresentano l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale come previsto all’art. 112 Cost. Per il giurista ed ex presidente della Corte costituzionale Zagrebelsky, il principio di unità del diritto secondo le necessità dello Stato costituzionale, ci ha guidato a comprendere l’importanza della funzione giurisdizionale, riconoscendo pertanto nei giudici gli attuali “padroni del diritto” in tutte le sue dimensioni, di legge, di diritti e di giustizia. Sicché quella attuale è la stagione del controllo dei giudici - che forniscono una voce alla Costituzione - sul legislatore. Ma all’inizio del nostro percorso costituzionale, il padrone del diritto era il legislatore e vi era il tradizionale rapporto di “subordinazione” giudiziaria alla volontà legislativa. Purtuttavia la dottrina giuridica ha pochi dubbi sul punto, riconoscendo che l’espansione delle competenze del potere giudiziario, abbia riguardato altresì la sfera del penale. In effetti la questione penale ricopre un ruolo sempre più centrale nei nostri sistemi politici. Non è affatto un fenomeno nuovo, quello dell’uso demagogico del diritto penale, diretto ad alimentare e riverberare effetti sul consenso elettorale, mediante politiche e misure illiberali tanto inefficaci, circa la prevenzione della criminalità, quanto fautrici di un sistema penale disuguale e fortemente lesivo di diritti fondamentali. Un altro dettaglio di non poco conto è la tendenza giustizialista dell’opinione pubblica. Le garanzie proprie di un sistema di diritto, non fanno parte né della cultura di massa e né del senso comune, al contrario gli imputati, secondo l’opinione pubblica non si presumono innocenti, bensì colpevoli. Il garantismo non fa parte della coscienza comune, che necessita purtroppo di capri espiatori. Per non dimenticare poi la funzionalità del populismo penale al populismo politico, con la tendenza a identificare i nemici e declinazione in diritto penale del nemico. Il bisogno di legittimazione attraverso più nemici, interni ed esterni, persino identificati con i precedenti Governi e nemici nelle opposizioni. È chiaro che gli indagati e gli imputati, si scoprono come i nemici ideali perfetti, per la spettacolarizzazione della giustizia e la messa in scena della gogna mediatica. La giustizia usata come “mezzo” di una guerra contro il male unita all’emergenza quotidiana, che ahimè non forniscono alcuna risposta a gran parte dei problemi della politica. Resta certo quanto affermato da Piero Calamandrei: “Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”. Ebbene attraverso interpretazioni creatrici giustificate dalla necessita? di adeguarsi al dettato costituzionale, non solo le regole basilari del processo penale ma sin anche le fattispecie criminali, sono state plasmate e riscritte rispetto alla volontà espressa dal legislatore. Appare dunque chiaro che un progetto di riforma della giustizia, deve evitare che gli scandali diventino un pretesto per forgiare un’istituzione giudiziaria partigiana, oltre ad avere il coraggio di superare i radicati pregiudizi degli ultimi anni. Un progetto di riforma che possa legittimamente mettere in discussione anche quei corollari che l’esperienza storica attuale ha ridotto a mera forma. I sovranisti insofferenti al potere giudiziario di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 15 dicembre 2023 “The British people should decide who gets to come to this country - not criminal gangs or foreign courts” (“Il popolo britannico deve poter decidere chi può venire in questo Paese, non le bande criminali o i tribunali stranieri”). Così il primo ministro britannico Rishi Sunak, commentando con un tweet il passaggio parlamentare che consente di proseguire la procedura di approvazione del “Safety of Rwanda Bill”. Si tratta della legge che dovrebbe superare la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, che ha applicato i principi della Convenzione europea dei diritti umani citando la giurisprudenza della Corte europea e ha quindi ritenuto il Ruanda Paese non sicuro; ciò ai fini del trasferimento di migranti irregolari giunti dalla Francia attraverso la Manica. Si tratta di una nuova legge, che impone a tutte le autorità, tribunali compresi, di considerare il Ruanda Paese sicuro, sospende alcune parti del “Human Right Act” del 1998 e rimette al Governo la decisione di dare esecuzione o di rifiutare le decisioni della Corte europea dei diritti umani nei suoi provvedimenti urgenti (come la sospensione delle espulsioni verso paesi non sicuri dal punto di vista del rispetto della Convenzione europea dei diritti umani). Sollevato dal timore di non riuscire a superare una tappa nell’iter parlamentare, per le tensioni interne alla maggioranza, ove una parte del partito Conservatore ritiene quella legislazione incompatibile con gli obblighi internazionali del Regno Unito e l’altra all’opposto propone di nuovo l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione, il primo ministro ha commentato il provvisorio successo scrivendo che sugli immigrati irregolari deciderà il popolo britannico, non le bande criminali, né le Corti straniere. Si tratta della Corte europea dei diritti umani (di cui è componente anche un giudice britannico), organo del Consiglio d’Europa, istituzione europea fondata su un atto firmato a Londra il 5 maggio 1949, con il forte appoggio di Churchill, per curare la protezione dei diritti fondamentali delle persone. Recentemente, per le sistematiche violazioni e l’aggressione alla Ucraina la Russia ne è stata espulsa. Nel Regno Unito la voglia di uscirne è endemica: già Theresa May lo proponeva, quando era ministra dell’interno, prima della Brexit dall’Unione europea. Non tanto i contenuti, ma la natura sopranazionale della Convenzione e della Corte che ne assicura l’osservanza, sono insopportabili per la Destra nazionalista. Così Sunak, in crisi secondo i sondaggi elettorali, indica la Corte europea come nemica della sovranità popolare (e quindi del Governo che ne è espressione elettorale). Si riferisce alla Corte europea, ma in effetti come già in passato nel Regno Unito il bersaglio sono i giudici interni -questa volta addirittura la Corte suprema - che applicano nel diritto interno i contenuti della Convenzione europea, secondo quanto prevede lo Human Right Act. Ancora in materia di immigranti, il rifiuto di dare esecuzione ad una decisione (urgente e provvisoria) della Corte europea, che ha sospeso un’espulsione verso la Russia, ha portato il governo francese a ignorare gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza al sistema della Convenzione. Non è la prima volta. Anche l’Italia lo ha fatto anni orsono con una espulsione in Tunisia (all’epoca del presidente Ben Ali), ordinata dal ministro Maroni non ostante l’ordine di sospensione venuto dalla Corte europea. Ma quel che qui interessa è che l’espulsione disposta dal ministro dell’Interno Darmanin è stata annullata dal Consiglio di Stato, che ha ordinato di riportare in Francia la persona nel frattempo espulsa. Sarà forse impossibile, ma importa il principio che è stato affermato, secondo quanto è proprio dello Stato di diritto in Europa. In Italia è ancora nella memoria di tutti la vicenda della decisione della giudice del tribunale di Catania sul trattenimento di certi migranti nei Cpr (Centri di Permanenza per i Rimpatri). Lo sguaiato attacco personale alla giudice da parte di esponenti governativi è stato in un secondo tempo sostituito da un ben educato, ma equivoco, invito alla magistratura a “leale collaborazione” con il Governo. C’è un filo che lega le tre storie, di cui le politiche migratorie sono il sostrato politico dal forte impatto sull’opinione pubblica e sulle fortune o sfortune elettorali dei governi e dei partiti. Si tratta della insofferenza dei governi verso il potere giudiziario, quando questo svolge il suo ruolo di protezione dei diritti individuali: quei diritti e quelle libertà individuali che gli Stati d’Europa hanno riconosciuto essere sopranazionali, espressione in Europa della loro natura universale. I giudici -europei e nazionali- sono istituiti per assicurare che Convenzioni e Trattati non siano solo parole di cui bearsi al momento della firma, ma presidi reali garantiti alle persone individuali. Con la conseguenza, come è stato ricordato recentemente, che talora il senso delle decisioni e sentenze dei giudici hanno effetto antimaggioritario, contrario cioè agli orientamenti dei governi e della maggioranza parlamentare che li sostiene. La tensione e contrapposizione tra poteri dello Stato, pur fisiologica quando è necessario, non è un fattore positivo. La materia delle migrazioni, anche sotto questo profilo, si dimostra piena di aspetti pericolosi di cui occorre tener conto. Essi non riguardano solo l’Italia, né l’Italia in modo particolare. Il tema ha la capacità di sollevare forti reazioni emotive, effetto di slogan grossolani in funzione elettoralistica. La resistenza alla strumentalizzazione politica dovrebbe accompagnarsi alla ricerca delle radici del presente stato di cose, in ordine alla gravità del problema democratico che coinvolge lo Stato di diritto e la separazione dei poteri che ne è una componente. Il fenomeno migratorio ha due aspetti difficilmente componibili senza contrasto. Da un lato i movimenti di popolazioni sono un fenomeno di cui le dimensioni, i numeri, gli effetti sulla convivenza tra gruppi diversi nello stesso territorio presentano un fondamentale connotato collettivo: infatti si parla di “migranti” in generale. Quando poi - magari per una fotografia o un racconto personale- siamo costretti a considerare la tragedia personale che continuamente si ripete, ecco che violentemente viene in luce l’altro aspetto del fenomeno. I grandi numeri sono la somma di numeri singoli. E qui i numeri singoli sono singole persone: bambini, donne, uomini. Ciascuno è titolare di diritti, non solo come effetto di umanità e civiltà in rapporto alle persone, ma anche di diritti in senso giuridico. Sono diritti riconosciuti - per quel che ci riguarda - a livello europeo, come caratteristica distintiva di una particolare cultura e civiltà. Sottostante alla difficile convivenza tra governi e giudici c’è il diverso oggetto del ruolo e della legittimazione di ciascuno di essi: i governi contrastano il fenomeno collettivo, i giudici proteggono i diritti delle persone. A rischio è un tratto essenziale della nostra concezione della democrazia. Le toghe scaricano Davigo: “Parole contrarie alla Carta” di Angela Stella L’Unità, 15 dicembre 2023 L’Anm e le correnti di destra e sinistra prendono le distanze dalle parole dell’ex pm nel podcast con Fedez: “Affermazioni in contrasto con la Costituzione”. Magistratura compatta contro le dichiarazioni dell’ex toga di Mani Pulite Piercamillo Davigo in merito ai suicidi di indagati e detenuti. Ospite del podcast di Fedez, parlando della stagione di Tangentopoli, alla domanda del conduttore su come si fosse sentito quando alcuni indagati si tolsero la vita ha risposto: “Purtroppo, per quanto sia crudo quel che sto dicendo, in questo mestiere capita che gli imputati si suicidino”. L’ex magistrato del Pool poi aveva aggiunto: “Lo so che è una cosa spiacevole quella che sto per dire, ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono”. Al termine, quando gli viene chiesto se gli fosse dispiaciuto quando qualcuno dei suoi indagati, ad esempio Raul Gardini, si tolse la vita, l’ex pm ha replicato: “Ma certo che dispiace” però “prima di tutto, se uno decide di suicidarsi lo perdi come possibile fonte di informazioni”. Abbiamo raccolto il commento di Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Anm: “L’ex collega Davigo parla a titolo personale e le sue opinioni non possono essere confuse con le idee della magistratura italiana. La magistratura e l’ANM hanno con piena convinzione radicata l’idea della centralità dei valori della persona, della vita umana sia nell’accertamento penale che durante l’esecuzione della pena. Per noi il suicidio in carcere rappresenta un dramma collettivo, che non ci può lasciare indifferenti, interroga tutti, a partire da noi magistrati. Quindi prendo le distanze dalla prospettiva di Davigo. Quello che ha detto Davigo è a noi estraneo e preciso che non è la posizione della magistratura italiana che è fortemente convinta della centralità dei valori della persona, perché crediamo nella Costituzione che tutela la vita e la dignità umana. Si figuri se la magistratura può accettare la compressione di questi valori assoluti”. Guardando ai dati degli ultimi 10 anni, si sono verificati 589 suicidi, di cui 210 in attesa di primo giudizio. Al 30 novembre 2023, secondo i dati del Ministero della Giustizia, in carcere ci sono 9486 reclusi in attesa di primo giudizio e 6.343 condannati non definitivi. Questo dovrebbe interrogare sull’uso della custodia cautelare: “la custodia cautelare è una disciplina di stretta interpretazione - sostiene ancora il vertice dell’Anm - non riesco a ragionare in termini di eccessività o meno perché bisognerebbe avere a disposizione molti altri dati, anche sulle posizioni singole dei detenuti. Comunque c’è piena consapevolezza che la misura cautelare va utilizzata come extrema ratio: per questo i processi si stanno accelerando, questo è quello che posso dire dati statistici alla mano. Lo sforzo per una abbreviazione dei tempi di giudizio c’è. Dopo di che è chiaro che la pena va scontata dopo e le misure cautelari non rispondono a questo tipo di finalità. Devono essere contenute”. Anche per Maria Rosaria Savaglio, Segretario nazionale Unicost, “le dichiarazioni di Davigo sul tema dei suicidi in carcere sono da intendersi come rilasciate a titolo personale e non possono essere riferite alla collettività dei magistrati. Ogni suicidio in carcere è una sconfitta per lo Stato e i dati sono allarmanti, richiedono una riflessione seria e l’adozione di misure di contrasto. La questione non si può liquidare certo con una battuta”. Sulla stessa scia, Giovanni Zaccaro, Segretario di AreaDg: “I suicidi sono sempre un dramma, se avvengono in carcere sono una vergogna nazionale”. Idem Andrea Natale, dell’esecutivo di Magistratura Democratica: “trovo davvero molto gravi le parole di Davigo, sotto diversi profili. Anzitutto, viene in rilievo un profilo umano: colpisce la difficoltà a vedere il dramma che investe la persona che decide di togliersi la vita. Le trovo poi gravi sotto un altro profilo: dire che il suicidio è un danno per le indagini, ‘perché si perde una fonte di informazioni’ è un’affermazione che, forse volendo sembrare arguta, si pone in contraddizione con elementari principi di cultura giuridica e con il principio personalistico chiaramente scritto nella nostra Costituzione. La persona umana non è semplice ‘mezzo’; la persona umana è, kantianamente, fine in sé. Se è tollerabile per l’ordinamento che si privi qualcuno della libertà personale, ciò deve avvenire per tutelare esigenze cautelari o per eseguire una pena (che deve essere volta al reinserimento sociale, oltre che alla retribuzione); non per usare quella persona come strumento volto ad altri fini (ossia come fonte di informazioni per le indagini). Le dichiarazioni di Davigo sembrano dire l’esatto contrario e alimentano la sfiducia verso la giurisdizione. Battuta arguta? O pessimi risultati di una battuta che non fa ridere? Ascoltando Davigo mi ha colpito anche un’altra cosa. Ha affermato che ‘purtroppo la mortalità nelle carceri per suicidio è più alta che fuori dalle carceri’. Un’affermazione tragicamente vera, come dimostrano alcuni studi statistici. Di fronte ad un dato simile, gli attori istituzionali non possono limitarsi a prendere atto del dato statistico, accettandolo come una tragica fatalità. Io credo che sia responsabilità delle istituzioni (anche di quelle giudiziarie) cercare di incidere su quei fattori che, statisticamente, rendono più probabile che una persona decida di togliersi la vita”. Bocciatura anche da parte di Angelo Piraino, Segretario di Magistratura Indipendente: “Un anziano e autorevole magistrato che ho incontrato agli inizi della mia carriera mi insegnò che per fare bene questo mestiere bisognava prima aver sperimentato per sei mesi il lavoro dell’avvocato e per un paio settimane il carcere, per comprendere appieno le conseguenze delle nostre decisioni. Mi riconosco in questo modello di magistrato, non in quello rappresentato dal dr. Davigo, e come me penso la quasi totalità dei magistrati italiani”. “Sulle intercettazioni ai politici, la Consulta ha tradito la Carta” di Simona Musco Il Dubbio, 15 dicembre 2023 La rivelazione dell’ex giudice costituzionale Zanon: “La sentenza dilaniò la Corte”. La sentenza della Corte costituzionale sul caso Cosimo Ferri fu pronunciata “rovesciando” la Costituzione per evitare di sconfessare la Cassazione e la sezione disciplinare del Csm sulla famigerata notte dell’Hotel Champagne. A fare la clamorosa rivelazione è Nicolò Zanon, che ha svestito i panni del giudice costituzionale da circa un mese. E che racconta, per averla vissuta, la spaccatura della Consulta, in una camera di consiglio che di fatto schiacciò i principi costituzionali in nome di una logica corporativa. Una scelta che suscitò l’indignazione del relatore, Franco Modugno, che si rifiutò di sovvertire i principi costituzionali e di scrivere una sentenza diametralmente opposta a quella redatta, poco prima, nel caso che riguardava Matteo Renzi. Zanon ha svelato il retroscena mercoledì sera, a Milano, nel corso della presentazione del libro “La gogna. Hotel Champagne la notte della giustizia italiana”, di Alessandro Barbano. Un libro che racconta quella stagione terribile per la magistratura, che servì, di fatto, a cambiare le dinamiche di potere all’interno del Csm, grazie ad un trojan inoculato nel telefono di Luca Palamara, che carpì le trattative delle correnti attorno nomina del nuovo procuratore di Roma. Quella sera, come noto, c’erano anche due parlamentari, tra i quali Cosimo Maria Ferri, magistrato in aspettativa per via del suo mandato parlamentare, che per quelle captazioni è finito davanti alla sezione disciplinare del Csm. Ma la Camera, lo scorso anno, aveva negato l’utilizzo delle conversazioni, in quanto acquisite in violazione dell’articolo 68 della Costituzione. Una violazione consapevole, secondo i deputati, tanto da spingere l’allora deputato Andrea Delmastro, di FdI, a parlare di un “regolamento di conti interno alla magistratura”. Dalla lettura degli atti era emerso con chiarezza che sin da febbraio - e quindi ben prima della cena all’Hotel Champagne, che risale al 9 maggio 2019 - gli inquirenti fossero a conoscenza della possibilità di imbattersi in Ferri, il cui nome compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente il 9 maggio. E la sua identificazione avviene almeno a partire dal 12 marzo 2019. Da qui il dubbio legittimo che Ferri, pur mai indagato, fosse un bersaglio delle indagini. Inoltre, aveva evidenziato la giunta per le autorizzazioni, gli investigatori avevano contezza che si sarebbe svolto l’incontro all’Hotel Champagne e che vi avrebbero partecipato non uno, ma ben due deputati, “ma non hanno avuto cura di interrompere un’attività investigativa che non poteva essere effettuata con quelle modalità”. Dopo il no della Camera, il Csm decise di sollevare il conflitto di attribuzioni, facendo finire la vicenda davanti alla Consulta. Che diede ragione a Palazzo dei Marescialli, rispedendo la questione alla Camera, dove poche settimane fa i deputati hanno ribadito il loro niet. La sentenza della Consulta aveva fatto esultare la schiera dei “giustizialisti”, preallertati da un articolo di Repubblica che dava per scontata una pronuncia favorevole a Ferri. Ma oggi Zanon offre un punto di vista completamente diverso. “Nel non detto di quella motivazione, e a noi fece inviperire questa cosa - spiega -, c’è (e fu un argomento speso): non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se diamo ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione, quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata all’Hotel Champagne, finissero in nulla”. Ed “è per tabulas che il relatore di quella sentenza era originariamente il professor Franco Modugno, grande vecchio maestro del diritto costituzionale, insospettabile di interessi se non quelli della scienza - continua Zanon -, il quale di fronte alla scelta dalla maggioranza del collegio si rifiuta di scrivere una sentenza cui sostanzialmente si rovescia quello che la Costituzione dice in tema di intercettazioni”. Parole esplosive, che rappresentano il culmine del ragionamento di Zanon. Che non manca di andare più a fondo: quelle intercettazioni, nate per scovare una corruzione poi mai esistita, “a poco a poco diventano un modo per approfondire” i rapporti fra Unicost e MI e le “dinamiche interne addirittura al pluralismo della magistratura come si sviluppa all’interno del Consiglio superiore”. Ovviamente con la convinzione “che queste dinamiche sono viziate in radice da interessi opachi. Però questa opacità non si capisce bene in termini penali davvero da che cosa sia dovuta”. La sentenza della Consulta, dunque, avrebbe rovesciato ciò che la Costituzione dice in tema di intercettazioni: “Sostanzialmente si va a dire “basta evitare di iscrivere il parlamentare sul registro degli indagati anche se di fatto lui è al centro dell’indagine per poterlo intercettare” - continua Zanon -, perché i fatti che noi avevamo visto negli atti dimostravano con ogni evidenza che la direzione delle indagini era Cosimo Ferri e i suoi rapporti con Palamara”. E quindi “la Carta finisce, come dice Barbano, sotto i tacchi”. La vicenda, secondo l’ex giudice, sarebbe indicativa di “alcuni raccordi, equilibri tra poteri dello Stato”. Parole forti, la cui portata sembra chiara a Zanon, che però precisa: “Adesso queste cose è anche giusto dirle, d’altra parte c’è un palese dissenso che emerge per tabulas dal fatto che il relatore si è rifiutato di stendere una motivazione che andava esattamente in senso contrario a quella che aveva appena scritto sul caso Renzi. Punto”. “Segrete fino al processo le ordinanze di custodia cautelare”. Intesa Azione-Forza Italia di Liana Milella La Repubblica, 15 dicembre 2023 Alla Camera, nella legge di delegazione europea, un emendamento di Costa, responsabile Giustizia di Azione trova la sponda degli azzurri. Nordio cerca di trattare. E ci risiamo. Enrico Costa, il mago degli emendamenti sulla giustizia, mette in trappola il “topo” Carlo Nordio. Pianifica da tempo l’attacco. E al Guardasigilli l’aveva pure preannunciato il 7 settembre quando era andato a trovarlo in via Arenula assieme a Carlo Calenda. E mentre i due si sfidavano sulle citazioni di Churchill, lui aveva già annunciato tre attacchi, che poi via via ha materializzato in Parlamento, sulla prescrizione, sul fascicolo del magistrato e adesso sulle ordinanze di custodia cautelare vietate alla stampa addirittura fino al processo. Il buio totale sull’informazione giudiziaria. Tant’è. Costa è fatto così. Avant’ieri se l’è presa con Piercamillo Davigo per via della battuta sugli imputati suicidi, “spiace perdere una fonte” dice la toga ormai in pensione, e giù lui durissimo “questo signore è stato pm, giudice in Cassazione, presidente dell’Anm e consigliere del Csm”. Ieri ha cominciato a scatenare l’inferno in aula alla Camera con uno dei suoi pestiferi emendamenti. L’uomo è abile, alle spalle un’esperienza parlamentare ormai ventennale, i trucchi procedurali li conosce tutti, e mangiarsi un ministro del tutto inesperto del Transatlantico è un gioco da ragazzi. Pianifica l’operazione con abilità. La mette in atto. Si discute la legge di delegazione europea. E lui presenta un emendamento - che è là, nell’elenco, da ormai due settimane, ma via Arenula dorme sonni tranquilli e non se ne avvede - che contiene una bomba. Almeno per la stampa ancora libera. Anche se minacciata pure dalle microspie libere nei cellulari. Ecco il testo. “Modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei principi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della medesima, il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva del Parlamento europeo e del consiglio del 9 marzo 2016 sulla presunzione di innocenza”. Quell’articolo 114 vieta “la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare fatte eccezione per l’ordinanza”. Un’indicazione, quest’ultima, voluta dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando nella legge sulle intercettazioni, entrata in vigore il 30 dicembre del 2019 con la firma del suo successore Alfonso Bonafede. Si trattava di una “conquista” per la stampa italiana, sulla quale adesso Costa chiede di fare marcia indietro. Una manovra che va di pari passo con il divieto di Nordio di vietare la pubblicazione delle intercettazioni. Ovviamente nessuno, in via Arenula, si dev’essere reso conto dell’emendamento. Su cui Costa chiede pure il voto segreto, perché sa bene che ampi settori della maggioranza, a partire da Forza Italia, ma anche singoli esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia, nonché degli ex amici di Italia viva, sono assolutamente favorevoli a rendere segreta l’ordinanza di custodia. Via Arenula arriva in aula impreparata, non è la prima volta, la scena si ripete spesso. Freneticamente dal gabinetto di Nordio chiedono a Costa la disponibilità a riformulare l’emendamento, ma lui risponde seccamente di no. Sa che, se l’emendamento andrà al voto con scrutinio segreto, lui avrà la meglio. Incassa dopo qualche minuto la piena solidarietà di Forza Italia. Parla Tommaso Calderone, il capogruppo in commissione Giustizia, che definisce la norma “di primaria importanza” e aggiunge che il suo gruppo la voterà perché “così si potrà ristabilire lo stato di diritto ed evitare che chi sia raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare venga sbattuto in prima pagina”. Il disegno e chiaro, mettere il bavaglio alla stampa. Calderone chiude il suo intervento con queste parole: “Forza Italia voterà sicuramente a favore”. Per fortuna di Nordio l’aula ha i minuti contati. La votazione viene rinviata alla prossima settimana. Ma sul tavolo c’è una grana enorme. Che Costa affronta con la sfiducia miei confronti di Nordio per ben tre ragioni. Il suo intervento sulla prescrizione, che di fatto ha bloccato il voto in aula con il testo già pronto, incerto sull’ipotesi se inserire una norma transitoria, in un balletto tra il sì e il no con il suo vice ministro Francesco Paolo Sisto, che è chiaramente contrario alla richiesta dei presidenti delle Corti di Appello, ben 26 magistrati su 26, che, come Repubblica ha reso noto, hanno espressamente chiesto al ministro di inserire una norma per evitare la catastrofe degli uffici. Ma non c’è solo questo dietro gli attacchi di Costa a via Arenula. C’è l’arrabbiatura sull’abuso d’ufficio, in quanto l’abolizione del reato poteva già essere legge se fossero andati avanti i disegni di legge alla Camera, mentre Nordio li ha bloccati e ha inserito la cancellazione della norma nel suo unico provvedimento, e per giunta lo ha voluto mandare al Senato, dove il testo è impantanato ormai da agosto. Nella fine di quello che sembrava un idillio tra Costa e Nordio, definito inizialmente dal responsabile Giustizia di Azione un ottimo magistrato e quindi un ottimo ministro, c’è lo scontro sul “fascicolo del magistrato”. Lo propose Costa durante il ministero di Cartabia, lo ottenne, in quel fascicolo doveva essere valutata anche la gestione dei processi dei giudici, gli insuccessi dei pubblici ministeri, mentre adesso c’è soltanto una sorta di valutazione a campione, frutto, secondo Costa, della commissione istituita da Nordio al ministero in cui ci sono 18 giudici su 24 componenti. Presieduta ovviamente da un magistrato, quel Claudio Galoppi che è stato al Csm, nonché consigliere giuridico dell’attuale ministra delle Riforme Elisabetta Casellati. Siamo dunque all’ennesimo scontro sulla giustizia. Ma soprattutto alla vigilia di uno scontro in parlamento, con il rischio che la maggioranza si spacchi e passi l’emendamento di Costa che nega la libertà di stampa. Processare gli assolti in primo grado non è una buona idea. E neanche la giustizia emotiva di Maurizio Crippa Il Foglio, 15 dicembre 2023 Quel concetto che, quando non eravamo barbari, si chiamava giustizia sostanziale - la possibilità di prescindere dalla norma giuridica per adeguarsi con maggiore aderenza al valore etico che la giustizia deve difendere - nello scadimento barbarico dei nostri anni è divenuto un sostanziale populismo penale, in cui l’emozione (non sempre ben riposta) ha la meglio sul resto. Il caso di Alex Pompa (anzi Cotoia, avendo cambiato il cognome), il giovane che nel 2020 a Collegno uccise il padre violento e che fu assolto in primo grado, ma ora è stato condannato in appello (6 anni, 2 mesi e 20 giorni) illumina un pericoloso pattinaggio concettuale. E invita a due considerazioni. Era legittima difesa e lo avevano assolto!, hanno strillato i giornali, schierandosi contro l’ingiustizia sostanziale della condanna. Non è esattamente così, ma questa è la seconda considerazione. La prima e più generale: invece di indignarvi per la condanna in appello di una persona giudicata prima innocente, dovreste riflettere sul perché questa prassi - che, tanto per dire, priva ora Cotoia di due gradi per difendersi - sia possibile. Come sostengono i giuristi liberali, a fil di logica una sentenza di innocenza, formulata “oltre ogni ragionevole dubbio”, non può essere ribaltata se non cancellando quel “ragionevole dubbio” in precedenza riconosciuto. La legge Pecorella nel 2006 provò a introdurre il divieto (per il pubblico ministero) di impugnare le sentenze di assoluzione. Ma la Consulta la bocciò per una questione più di metodo che, appunto, di sostanza. Ma dell’assurdità di ri-processare un innocente si continua a discutere. Com’è che gli indignados si svegliano solo quando il caso ha una rilevanza emotiva e mediatica? Secondo aspetto: il pm del primo grado si disse “costretto a chiedere 14 anni di carcere”, in base alla legge. Ma la Corte d’Assise scelse l’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”, cosa persino diversa dalla legittima difesa. Ora, come nel caso del gioielliere Mario Roggero condannato per l’uccisione di due rapinatori poiché non si trattò di legittima difesa (il pendolo dell’indignazione quella volta era correttamente pro giudici) anche in questo caso è apparso impossibile, per i giudici, applicare quel principio. Il giovane uccise il padre con 34 coltellate, usando coltelli diversi, in un tempo che eccede l’imminente del pericolo. La sentenza, mite, non deriva dall’idea che “in fondo aveva ragione”, come detto malamente; sono state considerate tre attenuanti, tra cui la semi-infermità mentale, la provocazione (indubbia, del padre) e le generiche. Proclamare i colpevoli, o in questo caso gli innocenti, a furor di popolo e di stampa, non è una grande idea. Forse Cotoia non doveva essere processato di nuovo. Ma i tutori del diritto, dov’erano? Campania. Nelle carceri di Carinola e di Fuorni mancano acqua calda e riscaldamento di Andrea Aversa L’Unità, 15 dicembre 2023 Non si contano più le battiture nelle carceri di Fuorni (a Salerno) e di Carinola (in provincia di Caserta). I detenuti di entrambi i penitenziari da giorni protestano per la mancanza di acqua calda e riscaldamento nell’intera struttura carceraria. Tazze contro le sbarre delle celle, porta di metallo esterna contro il muro. È il modo utilizzato dai reclusi per manifestare il loro dissenso nei confronti di una situazione disumana e degradante. D’estate, i detenuti sono vittima del caldo asfissiante, d’inverno del freddo. La maggior parte dei penitenziari italiani non sono adeguati nel garantire la giusta vivibilità in nessun periodo dell’anno. Tante le segnalazioni pervenute alla nostra redazione. Moltissime le voci dei parenti dei detenuti raccolte dai volontari dell’associazione Sbarre di Zucchero. E se a Carinola l’emergenza è scoppiata da circa una settimana nel carcere di Fuorni a Salerno, il disagio andrebbe avanti addirittura da oltre tre mesi. “Oltre il problema del sovraffollamento, alcuni detenuti sarebbero a regime chiuso nel padiglione femminile perché pare non ci siano posti disponibili. Quasi inesistenti le attività educatrici, non parliamo proprio della situazione sanitaria. Un detenuto sarebbe svenuto e sarebbe stato portato per tre piani in braccio, perché l’ascensore non funzionava. In questo carcere sono rinchiuse dalle 6 alle 7 persone in celle buone per 4”, questa è stata una delle segnalazioni. Secondo quanto appreso da l’Unità, i detenuti sarebbero costretti a riscaldare l’acqua, versandola nelle pentole e mettendo queste ultime sui fornelli disponibili. Poi, per lavarsi, la verserebbero nei secchi. È in questo modo che un essere umano, in Italia nel 2023, fa la doccia in un penitenziario. Per concludere, giusto qualche numero: a Fuorni, rispetto ai 395 detenuti previsti, ce ne sono 510 (115 detenuti in più). Per quanto riguarda gli agenti della Polizia Penitenziaria, dovrebbero essercene 243, ce ne sono 224 (fonte, Ministero della Giustizia). Tuttavia, grazie all’intervento del Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello, sarebbero stati finanziati dei lavori per cercare di rimediare al danno. Verona. Il cappellano del carcere: “3 suicidi in un mese, vivono al limite della sopportazione” di Lorenzo Drigo ilsussidiario.net, 15 dicembre 2023 Nel carcere di Verona scoppia l’allarme per i suicidi: sono stati tre in un mese. Il cappellano della struttura parla di condizioni, per i detenuti, al limite della sopportazione umana. Il carcere di Verona, come purtroppo gli altri 191 in tutta Italia, sta attraversando una condizione critica, che ha già portato al terzo suicidio in appena un mese. A togliersi la vita, infatti, è stato il 30enne Saiddiki Oussama, l’8 dicembre, preceduto dal 34enne Giovanni Polin e dal 30enne Mortaza Farhady, mentre ad agosto si è tolto la vita il 40enne Cristian Mizzon. Una situazione, insomma, tragica, che rappresenta un solo esempio in tutta Italia, in cui si sono registrati nell’ultimo anno 67 suicidi. Il carcere di Verona, peraltro, ospita 531 detenuti, a fronte di 335 posti effettivi, tra i quali Filippo Turetta, Benno Neumair e Massimo Zen. Il cappellano del carcere di Verona: “Manca personale ed assistenza” - Parlando della (quasi) epidemia di suicidi nel carcere di Verona, il cappellano Fra Paolo Crivelli sulle pagine di Avvenire ha sottolineato che nelle mura carcerarie i detenuti vivono “al limite della sopportazione umana”. Questa sarebbe la ragione dei numerosi decessi, legati anche “all’alto tasso di disagio psichico”. Non a caso, infatti, tutti e quattro i detenuti che si sono tolti la vita da agosto ad oggi soffrivano di problemi psichiatrici, di tossicodipendenza o, in alcuni casi, anche di entrambe. Dal carcere di Verona, peraltro, il cappellano porta il grido di aiuti dei detenuti, che da settimane lamentano il fatto che “sono tutti concentrati sull’assassino di Giulia Cecchettin e nessuno si occupa più” di loro, mentre “a lui riservano un trattamento di riguardo”. Guardie per le quali, però, il cappellano ci tiene a spezzare una lancia in loro favore, spiegando che “sono in pochi, sempre sotto pressione e sopportano turni massacranti”. Similmente, spiega il cappellano parlando del carcere di Verona, i detenuti “non hanno mai uno spazio di intimità, sono costretti a coabitare anche in tre in una cella minuscola e la comunicazione tra loro è difficile”. Similmente, nella struttura “c’è un solo psichiatra che fa servizio per 18 ore a settimana”, mentre “il reparto riservato a chi viene sottoposto a trattamenti intensivi dispone di soli 5 posti, e gli operatori, psicologi e criminologi, sono 4 per 50 ore mensili”. Una situazione, insomma, a dir poco tragica, tra sovraffollamento e mancanza di personale competente. Trento. Donna suicida in carcere: la famiglia vuole chiarezza, la procura dispone l’autopsia di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 15 dicembre 2023 L’avvocato Nettis: “Perplessità della famiglia sulle circostanze del decesso”. Sarà l’autopsia a chiarire le cause che hanno portato alla morte di una bolzanina di 37 anni, detenuta nella sezione femminile del carcere di Trento e trovata in fin di vita nel vano docce il 2 dicembre, con un laccio per le scarpe attorno al collo. La donna, bolzanina, è morta tre giorni dopo all’ospedale. La Procura, che sul caso ha aperto un fascicolo d’indagine, ha disposto che venga eseguito l’esame sul corpo, come chiedevano anche i familiari. Sarà l’autopsia a chiarire le cause che hanno portato alla morte di una bolzanina di 37 anni, detenuta nella sezione femminile del carcere di Trento e trovata in fin di vita nel vano docce il 2 dicembre, con un laccio per le scarpe attorno al collo. La donna, bolzanina, è morta tre giorni dopo all’ospedale. La Procura di Trento, che sul caso ha aperto un fascicolo d’indagine, ha infatti disposto che venga eseguito l’esame sul corpo: oggi sono in programma sia il conferimento dell’incarico al perito, sia l’esecuzione dell’esame stesso, all’ospedale Santa Chiara dove al momento si trova il corpo della donna. Per i familiari della donna, potrebbero arrivare già oggi le prime risposte alle domande che li tormentano da giorni. Non credono, infatti, all’ipotesi che al momento sembrerebbe essere la più accreditata, ossia quella del suicidio. Sul caso, la Procura ha aperto un fascicolo d’indagine, al momento senza nomi iscritti nel registro. Per far luce su quanto accaduto, e per capire se, nel frattempo, gli inquirenti abbiano già raccolto qualche elemento utile, la mamma e lo zio della vittima hanno dato incarico all’avvocato bolzanino Nicola Nettis. “I familiari - aveva sottolineato già negli scorsi giorni - non avanzano ipotesi di alcun tipo e nemmeno lanciano accuse. Ma, a loro avviso, le circostanze in cui la donna sarebbe morta presenterebbero delle perplessità”. Sulla scorta delle quali il legale, nei giorni scorsi, ha presentato un’istanza alla Procura di Trento, per chiedere chiarimenti su queste presunte anomalie. “Anzitutto - spiega - sul laccio per le scarpe con il quale si sarebbe impiccata: un oggetto che non avrebbe dovuto essere ammesso all’interno dell’istituto penitenziario. Poi, sulla modalità in cui sarebbe avvenuta la morte: con la corporatura e il peso della donna, di circa 80 chili, viene da chiedersi se un laccio possa aver retto a una sollecitazione simile. Non da ultimo, sulla scelta, drammatica, che sarebbe arrivata a pochi mesi da quando avrebbe potuto lasciare il carcere”. Sì perché la trentasettenne, in carcere da un paio d’anni, in seguito a una condanna per reati contro il patrimonio, tra circa sei mesi avrebbe potuto chiedere (e con ogni probabilità anche ottenere, secondo Nettis) l’accesso a una misura alternativa fuori. Senza contare il fatto che, per lo meno in presenza dei familiari, non avrebbe mai manifestato segnali che potessero indurli a pensare che fosse intenzionata a compiere un gesto estremo. La loro speranza, adesso, è che almeno dall’esame autoptico arrivino delle risposte che possano aiutarli a comprendere cosa sia accaduto. Brescia. Doni ai detenuti, ma il regalo più bello sarebbe “poter fare una telefonata al giorno” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 15 dicembre 2023 Gli ospiti di Verziano e del Nerio Fischione riceveranno biglietti di auguri scritti dai bambini delle scuole dell’infanzia di Brescia e cesti natalizi. “Ti auguro di trascorrere un buon Natale. Speriamo che il prossimo sia migliore” oppure “Tanti auguri a te! Per favore non buttare il mio biglietto”. Sono alcuni dei messaggi di auguri realizzati dai bambini delle scuole dell’infanzia di Brescia per i detenuti che accompagnano, spesso con un disegno, i pacchi donati da 21 realtà che anche quest’anno in occasione delle feste natalizie hanno offerto ai detenuti un pacco con beni di prima necessità quali pasta, riso, biscotti, latte, caffè, tè e cioccolata. Di fronte alla richiesta che quel messaggio non venga buttato, non pare ci sia nulla da temere: “Conservo ancora il mio biglietto perché per me è stato importante” rassicura un ex detenuto, spiegando quanto sia fondamentale per chi è privato della libertà personale anche solo un piccolo gesto di vicinanza e solidarietà. L’iniziativa, nata 6 anni fa per volontà della Garante delle persone private di libertà del Comune di Brescia Luisa Ravagnani, permetterà quest’anno di confezionare 500 cesti da dividere tra i detenuti del Nerio Fischione e Verziano. Al dire il vero potrebbero bastarne meno di 300 se solo venisse rispettata la capienza nei due istituti ma, come ricordano le statistiche, i 185 posti regolamentari del Nero Fischione diventano in realtà 376, più del doppio consentito, mentre a Verziano ci sono 116 detenuti rispetto ai 107 previsti. È il sovraffollamento, cronico problema che a Brescia registra numeri ancora più drammatici rispetto alla media nazionale e regionale. Ma cosa vorrebbero portasse in regalo il Natale ai detenuti, oltre ovviamente alla libertà, uno sconto di pena o anche solo più spazio? “Senza ombra di dubbio la possibilità di telefonare” risponde Ravagnani, ricordando come terminata l’emergenza Covid sia venuto meno anche quel pacchetto di correttivi che erano volti a migliorare le condizioni detentive offrendo la possibilità di chiamare i familiari tutti i giorni. Adesso si è tornati ad applicare il regime che garantisce una sola chiamata a settimana per chi non ha figli minori oppure non ottiene concessioni per motivi urgenti e gravi. “A nulla sono serviti gli appelli per mantenere la chiamata quotidiana, nonostante non vi siano evidenze che tale strumento abbia creato situazioni di rischio per la sicurezza, anzi, aveva contribuito al benessere psicologico dei detenuti” prosegue la Garante, che ricorda anche come nel nuovo “pacchetto sicurezza” il numero di telefonate sia stato elevato da 4 a 6 al mese e quindi si domanda “come mai, se un’esigenza di maggior connessione è stata ritenuta degna di considerazione, non vi sia stata la possibilità di renderla quotidiana?”. La risposta la dà lei stessa: “semplicemente, si aggiunge alla lista delle prassi puramente punitive che caratterizzano da tempo il mondo dell’amministrazione penitenziaria”. Peccato dirlo, ma pare sia l’unica risposta logica. Bologna. Il carcere per le donne è peggiore perché “costruito per gli uomini” di Paola Laghi settesere.it, 15 dicembre 2023 Quando pensiamo alle carceri in Italia ci viene in mente sempre un istituto maschile, mai femminile. Su un totale di 56.319 detenuti (dati aggiornati al 28 febbraio 2023) le donne sono 2425. A Torino le donne carcerate sono 78 di cui 3 nell’ultimo anno si sono tolte la vita. Donatella, 27 anni, colpevole di alcuni reati minori, da mesi chiedeva la possibilità di vedere suo figlio di 4 anni, autistico, richiesta che nessuno ha ascoltato. Il suo è un caso emblematico di un problema che persiste da anni nelle carceri, infatti secondo Federico Amico, presidente della Commissione assembleare per la parità e per i diritti delle persone, “le donne detenute vivono in un contesto che non riconosce i bisogni e le singolarità, in quanto costruito in base a istanze maschili”. Delle quasi 2.500 donne carcerate in Italia, 153 sono in Emilia Romagna, in una delle cinque sezioni femminili presenti nelle carceri della regione: Bologna (78 donne), Forlì (17), Modena (32), Piacenza (16) e Reggio Emilia (10). Anna Rita di Marco è attiva in Avoc, Associazione volontari carcere, alla casa circondariale bolognese della Dozza, dove riferisce la scarsa presenza di neuropsichiatri e psicologi, al punto che non tutti i detenuti riescono ad accedere con regolarità ai colloqui terapeutici, che spesso si limitano a uno al mese, soprattutto a causa di lungaggini burocratiche. Nel penitenziario bolognese la sezione femminile si articola in due bracci: in uno vi sono le detenute in attesa di giudizio, mentre nel secondo quelle che hanno una pena da scontare. Il carcere presenta anche un reparto psichiatrico e uno dedicato alla maternità. Pochissime donne decidono di tenere con sé il proprio figlio, la maggior parte preferisce affidarlo alla famiglia d’origine ma, quando non hanno questa possibilità, lo tengono con sé in un ambiente adeguato per la crescita del bambino, che Avoc è riuscita ad allestire all’interno della struttura. Le madri generalmente vengono avviate a forme di pena alternative, o presso case famiglia o negli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri). In altri casi, se la pena lo permette, madre e figlio vengono accolti in istituti religiosi. Un altro aspetto di cui l’associazione si occupa è la gestione della comunicazione tra famiglia e detenuto: due volte all’anno viene organizzata la festa della famiglia, durante la quale è possibile incontrarsi. Oltre alle chiamate telefoniche, dal periodo pandemico, sono state introdotte anche videochiamate. Avoc, infine, opera nell’ambito della reintroduzione in società dei detenuti, grazie ad alcuni alloggi dove gli ex carcerati, ancora sprovvisti di una sistemazione, possono abitare. Ricominciare significa trovare anche un’occupazione tra persone libere. I detenuti iniziano a darsi da fare già in carcere in attività di diverso tipo e Avoc si interfaccia con lo sportello comunale del lavoro, per favorire il loro reinserimento nella società civile. Per le donne propone attività prevalentemente di cucito, per fare acquisire una manualità da impiegare poi nel laboratorio di sartoria Gomito a Gomito, collocato all’interno della casa circondariale e gestito dalla cooperativa Siamo Qua, che conta su soci volontari e lavoratori stipendiati. Sono possibili anche mansioni legate alle pulizie, alla cucina, alla distribuzione del vitto e degli acquisti personali, alla gestione del magazzino, retribuite dal carcere, a cui le detenute possono accedere a turno. Al momento gli uomini hanno maggiori possibilità di reinserimento perché, nonostante la loro condizione giuridica, possono apprendere più mestieri e svolgere lavori come l’operaio metalmeccanico, l’imbianchino, l’elettricista e il falegname. Ivrea (To). Consiglio comunale in carcere, il presidente Spitale: “Siamo qui per ascoltare” di Massimo Sardo La Sentinella del Canavese, 15 dicembre 2023 Il discorso introduttivo del presidente del consiglio comunale Luca Spitale al consiglio comunale convocato in carcere fortemente voluto dalla giunta guidata da Matteo Chiantore: “Un’assise di importante valore simbolico”. I consiglieri Andrea Cantoni, candidato sindaco del centro destra, e Gabriele Garino di Fratelli d’Italia però non hanno partecipa all’assemblea, in polemica con la decisione. Hanno scritto nel loro comunicato: “Quando ci è stato detto abbiamo quasi fatto fatica a crederci: una seduta dell’assise civica dentro la casa circondariale? Che le priorità di questa Amministrazione di Sinistra fossero discutibili era evidente, ma mai avremmo pensato che avrebbero usato il nostro Consiglio Comunale per i loro scopi propagandistici. Perché di questo si tratta, senza ombra di dubbio. Va da sé che il naturale luogo per lo svolgimento delle sedute sarebbe il municipio e, come da Regolamento, l’aula dedicata. Sebbene sia prevista la possibilità di organizzare sedute straordinarie “sui luoghi ove si verifichino particolari situazioni, esigenze, ed avvenimenti che richiedano l’impegno e la solidarietà generale della comunità” (art. 65). Con quale criterio è stata presa la decisione di farlo in carcere e non in ospedale, in un quartiere o in una piazza qualsiasi? Questa è la politica, ossia decidere in base a ciò in cui si crede o, altrimenti, in base a ciò che ha il maggior ritorno in termini di consensi. La propaganda arcobalenata colpisce ancora e pretenderebbe di trascinare i Consiglieri Comunali in carcere per incensare qualche politico e chissà chi altro. Noi non ci stiamo. Non è disinteresse alla situazione della casa circondariale di Ivrea, ovviamente, né tanto meno per gli agenti della Polizia Penitenziaria, per chi vi lavora ad altro titolo e per chi vi è detenuto. Le situazioni serie, però, vanno affrontate con serietà e trasparenza e non ci sembra che un “Consiglio” con scaletta ferrea, invitati scelti da non si sa bene chi e tempistiche irrisorie, possa essere lo strumento per risolvere una simile situazione. Si sarebbe potuto istituire una commissione ad hoc e procedere con le audizioni di tutti i soggetti che operano nel settore, per dare una risposta istituzionale a un problema che non può che essere istituzionale. Invece si è preferito fare la passerella. Che se la godano”. Catanzaro. La direttrice: “Grazie a una pasticceria i detenuti vivono uno spazio di normalità” di Lara Esposito* Corriere del Mezzogiorno, 15 dicembre 2023 Nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro realizzato il laboratorio “Dolce Lavoro”: il progetto dell’associazione “Amici con il cuore” è sostenuto da Fondazione Con il Sud. “Grazie alla nostra pasticceria i detenuti vivono uno spazio che sa di normalità”. Patrizia Delfino, direttrice del carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro sintetizza così il valore di “Dolce Lavoro”, il primo laboratorio in Calabria ad avere come sede di svolgimento un carcere: progetto nato proprio dalla passione di alcuni detenuti per la pasticceria. All’interno del più grande istituto penitenziario della regione, è stato infatti ricavato un laboratorio di pasticceria in uno spazio appositamente ristrutturato, grazie al sostegno di Fondazione Con il Sud, probabilmente il primo a livello nazionale ad avere come destinatari anche detenuti condannati “a fine pena mai”. Con il progetto realizzato dall’associazione “Amici con il Cuore” assieme a diversi partner, tra cui l’impresa sociale “Promidea”, l’associazione “Liberamente”, l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna, e la Casa Circondariale stessa, si punta a realizzare una cooperativa sociale di tipo B per la produzione di prodotti dolciari e da forno all’interno dell’Istituto di pena. Per farlo, è stato avviato un percorso di formazione, sia teorico che pratico, al termine del quale, con il superamento degli esami, i detenuti hanno acquisito la qualifica necessaria a diventare a tutti gli effetti tirocinanti nel settore della pasticceria. E nonostante le pause determinate dalla pandemia e dai lavori di ristrutturazione del laboratorio adibito a pasticceria, i lavori proseguono alacremente dal giorno dell’inaugurazione, il 23 febbraio 2023, senza aver mai conosciuto sosta. Gli aspiranti pasticceri si sono ritrovati ad accogliere, da parte della popolazione carceraria, richieste di dolci della migliore tradizione calabrese, e di gelati e semifreddi nel periodo estivo. Ora, in vista del Natale, la loro attenzione è rivolta ai panettoni e ai biscotti delle feste, in attesa che venga presto attivata la piattaforma e-commerce per la vendita anche online dei prodotti da forno e dolciari, che possa vederli protagonisti in qualità di soci lavoratori della cooperativa “Mani in libertà”, costituita per dar loro un futuro socio-lavorativo dopo la conclusione del progetto, prevista per dicembre. *Ha collaborato Benedetta Garofalo, responsabile comunicazione progetto “Dolce Lavoro” Torino. Incontro sul tema “Carcere minorile contemporaneo, le nuove sfide” cr.piemonte.it, 15 dicembre 2023 “Dei 45 ragazzi attualmente ospiti del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, 23 sono nell’Istituto per provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Genova, 16 per provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Torino. Sono 33 quelli nati all’estero, provenienti in prevalenza da Egitto, Tunisia e Senegal, e non si tratta solo di minori stranieri non accompagnati ma anche di minori residenti in Piemonte e in Liguria con le proprie famiglie”. Sono alcuni dei dati forniti dalla procuratrice del Tribunale dei minorenni di Torino Emma Avezzù in apertura del secondo incontro sul tema “Il carcere minorile contemporaneo: continuiamo a parlarne” svoltosi al Circolo dei lettori di Torino e organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte attraverso gli uffici dei Garanti regionali per l’infanzia e dei detenuti. “Fin dai tempi di don Cafasso e di don Bosco - ha sottolineato il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, che ha moderato l’incontro - il carcere minorile ha rappresentato una cartina al tornasole della società contemporanea ed è chiamato ad affrontare in anticipo buona parte delle sfide cui l’intera società è chiamata a far fronte. Anche oggi, come ieri, è necessario che le istituzioni e i soggetti interessati abbiano il coraggio e i mezzi necessari per sperimentare soluzioni innovative”. La Garante regionale per l’infanzia Ylenia Serra ha evidenziato “l’importanza di non considerare il carcere minorile come luogo a sé stante, chiuso e staccato dal resto della società” e ha messo in luce “il ruolo di prevenzione svolto dai tutori volontari di minori stranieri non accompagnati, che rappresentano un punto di riferimento per i minori ospiti delle comunità, giunti in Italia e chiamati a inserirsi nel modo meno traumatico possibile in una realtà per loro estranea”. La Garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo ha messo in evidenza come “la spinta sempre più forte al consumo e al possesso di beni e accessori firmati, non di rado uniti alla dipendenza da sostanze e psicofarmaci, renda i minori sempre più fragili dietro un’apparente maschera di autonomia e di sicurezza”. Il direttore del Centro giustizia minorile di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Antonio Pappalardo ha fatto presente che “molte delle difficoltà odierne sono legate al progressivo smantellamento della rete dei servizi e del welfare, incluse le comunità di accoglienza, che rende più complicato il lavoro sul territorio”. L’assessore regionale alle Pari opportunità Chiara Caucino ha invece elencato le numerose iniziative messe in campo dalla Regione “per prevenire il disagio nelle famiglie: dal sostegno a quelle con figli con funzioni intellettive limitate (Fil) all’apertura di sportelli d’ascolto alla stipula di protocolli per la giustizia riparativa”. Domenico Peila, responsabile della Scuola territoriale della Camera penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta Chiusano ha ricordato che “seppur circondato da un mare magnum di difficoltà, il carcere può essere propedeutico al cambiamento. In un’epoca in cui gli oratori e gli altri luoghi d’incontro hanno perso attrattività, esso può rappresentare un’alternativa al vuoto esistenziale delle periferie”. L’assessore comunale alle Politiche per la sicurezza con delega ai sistemi penitenziari Gianna Pentenero - infine - ha evidenziato “la necessità di creare luoghi in cui i minori si sentano accolti e accompagnati, luoghi ‘umanizzati’ in cui non si badi solo all’efficientamento energetico ma alla creazione di spazi accoglienti, in cui sia bello stare, crescere e confrontarsi”. Ai lavori ha preso parte, tra gli altri, la consigliera Sara Zambaia. A gennaio sarà calendarizzato un nuovo incontro. La Spezia. Cuochi detenuti si sfidano ai fornelli. Il riscatto sociale passa dalla cucina La Nazione, 15 dicembre 2023 Domani la seconda edizione di “Giudizi gourmet” organizzato dalla Camera penale a Villa Andreino di La Spezia. Avvicinare le istituzioni alla realtà carceraria in modo leggero ma allo stesso tempo vero e autentico, attraverso una sfida giocosa che però è anche riscatto sociale. Queste le basi del progetto “Giudizi gourmet - rieduchiamo i palati” organizzato all’interno del carcere di Villa Andreino dal consiglio direttivo della Camera Penale della Spezia - presieduta dall’avvocato Fabio Sommovigo - in collaborazione con la Casa circondariale della Spezia. Dopo il riuscitissimo esordio dello scorso anno, domani a pranzo ecco la seconda edizione di un’iniziativa partita dall’avvocato Raffaella Nardone, vicepresidente della Camera penale e responsabile del distretto di Genova dell’Osservatorio carcere dell’unione delle camere penali italiane. Due gruppi di cuochi detenuti si sfideranno in una gara culinaria, aiutati e supervisionati durante la sfida da due chef professionisti, Silvia Cardelli del Ristorante “Osteria della Corte” situato alla Spezia, ed Emiliano Borghesi, chef del Ristorante “Bontà Nascoste” di Lerici. L’iniziativa vede protagonisti i detenuti addetti stabilmente all’attività di cucina della casa circondariale diretta da Maria Cristina Bigi, i quali ogni giorno cucinano per le centinaia di ospiti della struttura carceraria spezzina. Il pranzo si terrà a partire dalle 12.30: per poter partecipare è stato previsto dall’organizzazione il versamento di una somma ad offerta - a partire da un minimo di 35 euro -. Il ricavato, decurtato dei costi per la realizzazione del pranzo, sarà poi interamente devoluto ai fondi per l’istituzione di laboratori rieducativi all’interno del penitenziario. All’iniziativa sono stati inviati politici, giudici, pubblici ministeri e, ovviamente, gli avvocati spezzini. Lo scorso anno l’iniziativa fu un successo, con la sfida che si risolse in una vittoria pari merito. Roma. Teatro, i detenuti di Rebibbia protagonisti di “Coraggio senza confini. Voci oltre il buio” omatoday.it, 15 dicembre 2023 I nove allievi di uno specifico corso di teatro all’interno della Casa circondariale hanno partecipato alla rappresentazione teatrale tratta dal libro di Kerry Kennedy. In occasione del 75esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nove detenuti del carcere di Rebibbia sono stati coinvolti nello spettacolo teatrale “Coraggio senza confini - Voci oltre il buio”. La rappresentazione è stata organizzata dall’associazione Robert F. Kennedy Human Rights Italia, presieduta da Stefano Lucchini ed è andata in scena nel Teatro Casa Circondariale Roma Rebibbia N.C, “Raffaele Cinotti”. Nell’opera interpretata dal libro Speak Truth to Power” scritto da Kerry Kennedy, l’autrice racconta storie di uomini e donne testimoni di violenze e sopraffazioni ma che hanno trovato il coraggio di reagire e di raccontarle. Nello spettacolo l’essere umano è rappresentato come una incarnazione mitica che con le sue parole ricorda costantemente contro cosa lottano i difensori. All’inizio della commedia egli viene subito individuato come un personaggio pericoloso, nel senso che è in grado di far del male anche fisicamente, un’entità che è sempre in agguato all’interno dello Stato e della Società ed è pronta a passare all’azione, ma, visto che i difensori stessi dimostrano di non lasciarsi fermare dalle intimidazioni, l’Uomo diventa qualcosa di più perverso e dilagante e in un certo senso più familiare sia per coloro che stanno sulla scena sia per chi li guarda: diventa quel genere di energia di cui sono fatte l’apatia e l’indifferenza, ossia i peggiori nemici nella lotta per un mondo migliore. Il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ha assistito allo spettacolo ha dichiarato: “Cultura e lavoro in carcere non sono un premio per i detenuti, ma un investimento in sicurezza per il Paese. Fare rieducazione oggi significa avere meno spaccio, furti e rapine domani. Il sistema dell’esecuzione penale presenta tre gravi criticità: suicidi, aggressioni e un consistente tasso di recidiva. Il Ministero della Giustizia è impegnato per risolverle. Contare sulla collaborazione di soggetti come la Fondazione Kennedy, che ringrazio, agevola un compito fondamentale quanto gravoso”. “La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo è stata una grande conquista che è doveroso ricordare ma soprattutto applicare. È per questo che siamo particolarmente orgogliosi, in un anniversario così importante, di aver promosso uno spettacolo davvero unico realizzato grazie all’impegno appassionato di persone che, attraverso il teatro, trovano una via per il proprio riscatto - ha affermato Stefano Lucchini, Presidente dell’Associazione Robert F. Kennedy Human Rights Italia - Lo spettacolo messo in scena a Rebibbia è una bellissima dimostrazione dell’importanza della sinergia tra istituzioni e Terzo Settore che porta molto spesso a risultati straordinari. Un ringraziamento particolare alla direttrice Santoro che abbiamo premiato per le straordinarie attività condotte all’interno della casa circondariale di Rebibbia”. Hanno assistito alla rappresentazione anche Federico Moro, Segretario Generale Robert F. Kennedy Human Rights Italia; Rosella Santoro Direttrice della Casa Circondariale di Rebibbia, Carolina Rocha Barreto, Human Rights Education Specialist dell’Associazione Robert F. Kennedy Human Rights Italia. Napoli. Il rilancio di Caivano che parte dalla scuola di Chiara Sgreccia L’Espresso, 15 dicembre 2023 “Il futuro dei giovani non dipende solo da loro. Ma anche dalle possibilità che gli offriamo”. Il quartiere, dopo i fatti di cronaca di questa estate, è diventato il simbolo del disagio nel Paese. Ma ripartire si può. Come dimostra l’iniziativa lanciata da Scudieri e Cotarella. “Sono tanti quelli che vanno a Caivano solo per parlare. Noi no. Noi da gennaio daremo vita a un programma concreto per il futuro del territorio”. Così Dominga Cotarella, ceo dell’azienda vinicola Famiglia Cotarella e presidente dell’omonima Fondazione, ha introdotto il progetto di formazione per gli studenti del comune della città metropolitana di Napoli, ideato insieme alla famiglia Scudieri, fondatori del Gruppo Adler, tra i più importanti produttori italiani del settore automotive. Al quartiere Parco Verde di Caivano, diventato il luogo simbolo di disagio giovanile in Italia e della scarsa attenzione che le amministrazioni centrali hanno dato ai territori periferici nel corso degli anni, le due famiglie si preparano a costruire percorsi specialistici di alta formazione nell’ambito dell’innovazione tecnologica e dell’ospitalità, “perché il futuro dei giovani non dipende solo da loro. Dipende anche dalle possibilità che gli vengono offerte. La figura del mentore, del professore, ad esempio, può fare la differenza”, spiega Cotarella: “La prima volta che ho visitato Caivano per me è stata un’esperienza molto forte, quando sono tornata a casa ho pensato che fosse indispensabile non restare ferma. Per me essere un buon imprenditore significa avere la capacità di realizzare attività che siano strumento concreto per la tutela del territorio. Così l’intesa con Achille (Scudieri, ceo di Obicà, Presidente Fondazione Scudieri ndr) è stata immediata”. Come hanno spiegato dal Teatrino di Corte di Palazzo Reale di Napoli, le Fondazioni Cotarella e Scudieri realizzeranno percorsi di orientamento al lavoro e stage per gli studenti dell’Istituto superiore Francesco Morano di Caivano. Metteranno a disposizione della scuola professionisti nei campi dell’elettronica, della programmazione Plc e della meccanica, dal lato Scudieri. E della ristorazione e dell’ospitalità, grazie alle competenze di Cotarella. Esperti di settore, abituati a stare sul campo, che entreranno a scuola, faranno lezione, parleranno con allievi delle classi quarte e quinte, vicini all’ingresso nel mondo del lavoro. Con l’obiettivo di generare occasioni di approfondimento e confronto e di offrire conoscenze che potrebbero essere d’ispirazione. “Per gli studenti in uscita dall’Istituto nel 2024, che rispetteranno i criteri stabiliti, saranno elargite anche cinque borse di studio”, conclude Cotarella. All’evento di presentazione del progetto, moderato dalla giornalista Valentina Bisti, hanno partecipato anche il magistrato Catello Maresca, il presidente di Sport e Salute Marco Mezzaroma, che sta già operando per la riqualificazione di Caivano attraverso la ristrutturazione del centro sportivo Delphinia, e la preside dell’Istituto Superiore Francesco Morano, Eugenia Carfora: “In passato avevo già provato a chiedere aiuto alle Istituzioni. I rappresentanti dello Stato venivano, mi facevano i complimenti per il mio impegno. Il giorno dopo la loro visita, però, tornavo a sentirmi sola. Questa volta è diverso, sento di essere riuscita a innescare il processo. Ma l’attenzione deve restare alta: non credo alle “cattedrali nel deserto” e le novità sono sempre molto belle fin quando sono nuove. L’obiettivo deve essere, invece, quello di creare il senso di responsabilità: far capire che le cose pubbliche sono di tutti e, quindi, è compito di tutti - anche nostro - averne cura”. “Chi li ascolterà?”, inchiesta sull’Ipm di Milano finalista della XII edizione del Premio Morrione di Selena Frasson e Claudio Rosa rainews.it, 15 dicembre 2023 L’inchiesta sulla riabilitazione sociale nelle carceri minorili ha inoltre vinto il Premio Libera Giovani 2023. Il 7 agosto 2022, approfittando del cambio turno del personale penitenziario, tre giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano, sorprendono nel sonno il loro compagno di cella e lo sottopongono a reiterate violenze sessuali e torture: abusi perpetratisi per ben due ore senza che nessuno se ne accorgesse. Pochi mesi dopo, il giorno di Natale, sette ragazzi scavalcano la recinzione ed evadono: nel carcere si scatena la rivolta. Il Beccaria non è più l’IMP modello che era stato in passato: lo segnala il rapporto “Ragazzi dentro”, diffuso dall’associazione Antigone nel 2022. Le ristrutturazioni in corso da 16 anni hanno determinato la chiusura di un’intera ala dell’istituto, incluso il reparto femminile; le zone restanti sono sovraffollate; manca un direttore stabile; gli educatori sono pochi; i servizi sociali fanno fatica a rispondere ai bisogni dei detenuti in carico. Chi si occupa di giustizia minorile lavorando a fianco dei ragazzi avverte che è necessario rivedere l’intervento educativo e mettere in discussione la logica punitiva. Delle violenze subite e agite parlano i ragazzi che esprimono la loro sofferenza, se solo si è disposti ad ascoltare. È proprio attraverso questi racconti che otteniamo i primi indizi per risalire la filiera della riabilitazione sociale nelle carceri minorili che mostra più di una falla strutturale. L’inchiesta e? stata realizzata da Selena Frasson e Claudio Rosa grazie al sostegno dell’associazione Amici di Roberto Morrione nell’ambito della dodicesima edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo under 30. Ha contribuito al lavoro Giuseppe Naselli, per la realizzazione delle illustrazioni. Bando Premio Morrione 2024 e PRM Academy. L’associazione Amici di Roberto Morrione ha aperto due bandi riservati agli under 30: uno per la 13ma edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo (scadenza per l’invio dei progetti di inchiesta: 21 gennaio 2024) e uno per la PRM Academy (scadenza per l’invio delle candidature: 21 febbraio 2024). Non dimenticare Giulia Cecchettin, e le parole di suo padre Gino. Una lezione d’amore di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 15 dicembre 2023 Ci siamo scossi con quell’invito, di Elena Cecchettin, a “bruciare tutto”, abbiamo continuato a riflettere sotto la pioggia di Gibran. Gino Cecchettin dice “Anch’io ti amo tanto”. La frase arriva quasi alla fine del suo saluto alla figlia Giulia, in chiesa, a Padova, il 5 dicembre. Nel testo scritto del discorso, così come è stato poi diffuso dai giornali e sui social, prima di quel suo “anch’io” c’è un punto e prima ancora un altro pensiero - il ringraziamento per la tenerezza dei 22 anni vissuti insieme. Dice “anch’io”, quindi, non in riferimento a qualcosa che è stato appena espresso. No, lo mette lì, in mezzo, come se sentisse risuonare la voce di Giulia che gli dice “ti amo, papà”. E lui volesse risponderle ancora, e ancora. Forse erano parole che la ragazza gli ripeteva, al mattino prima di uscire per andare a scuola e dopo all’università. Oppure la sera, al momento di augurarsi buona notte. Le giovani della Generazione Z lo fanno: fanno scoccare quei “ti amo” ai genitori mentre noi avremmo osato al massimo avventurarci in un “ti voglio bene”, di solito più a nostro agio nei sentimenti inespressi, convinti e convinte, padri e madri un tempo figli e figlie, che tanto l’amore si intuisca, si capisca, sia negli atti. Anzi, non era Cesare Pavese a sostenere ne Il mestiere di vivere che i sentimenti inespressi - o meno espressi - durano più a lungo? Questa famiglia, i Cecchettin, restano tra noi, dopo la grandine nera che si è abbattuta su di loro e su un Paese intero, l’Italia, che per una volta è sembrato non voler correre subito al riparo. Restano tra noi con la loro capacità di amarsi e di trovare le parole per dirlo. E poi, in una torsione di generosità infinita per la quale non li ringrazieremo mai abbastanza, si girano verso chi sta guardando - chi sta ascoltando - e continuano a dare voce a sentimenti, valori, aspirazioni. Lo sanno fare e lo fanno, parlano, ci parlano. “Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. Che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace”. Voglio sperare, quindi spero, so ancora sperare, qui, adesso, domani. Forse - invece di dividerci in fazioni lungo la crepa di patriarcato sì/no, tanto sappiamo benissimo dove dovremmo appianare il terreno tra uomini e donne - potremmo accogliere e propagare la loro umanità. Così semplice, e straordinaria. Capace di affrontare la tempesta più devastante senza confinarsi nella rabbia, capace di mettersi già in posizione per imparare a muovere quei passi di danza sotto l’acqua che secondo Gibran ci guidano attraverso l’esistenza. Avevamo cominciato a scuoterci con quella chiamata a “bruciare tutto”, ripresa da Cristina Torres Cáceres, poeta e attivista peruviana, abbiamo continuato a riflettere nella pioggia invocata dal Profeta del libanese-americano Khalil Gibran. Giulia, Elena, Davide, Gino hanno dimostrato quanto e come si può amare. Scegliendo il silenzio, rompendolo con il rumore. Dicendosi “ti amo” e “anch’io ti amo”, con coraggio, non importa se quelle poche sillabe sembrano a volte i chiodi di una scalata lenta, infinita. La loro tragedia è diventata un patrimonio da custodire. Il corpo giovane di Giulia una promessa affinché non succeda che l’amore venga confuso con il possesso, la vicinanza con il dominio, la possibilità di colpire - perché sei armato, più grosso di scheletro e muscoli, perché ti senti legittimato dalla Storia - con l’autorizzazione a farlo pure tu, ancora una volta, una in più. Il costo della solitudine, la parola che la politica ignora di Santino Gaudio* Il Domani, 15 dicembre 2023 In queste settimane le nostre città e i nostri borghi sono illuminati dalle luci natalizie. Tutto questo in un tempo che vede due guerre pesare sul futuro del mondo e nel nostro paese un dibattito aperto sulla prossima legge finanziaria. Un solo vocabolo non compare nelle ore dei talk show politici: solitudine. Può sembrare una parola distante dalla realtà internazionale, economica e sociale che stiamo affrontando ma, non lo è. L’ultimo report della Joint Research Centre della Commissione Europea, pubblicato sui dati del 2022, ci parla di un’Europa dove almeno un cittadino su dieci soffre di solitudine e i dati Italiani sono tra i peggiori con oltre l’11% della popolazione in percepita solitudine. Condizione che colpisce maggiormente la parte più fragile della nostra società: giovani ed anziani. Definizioni e letteratura - Cosa si intende per solitudine e perché parlarne? In termini scientifici la solitudine è una esperienza personale spiacevole che si presenta quando le relazioni sono quantitativamente o qualitativamente vissute come insufficienti (Perlman e Peplau, 1981). Soffrire di solitudine aumenta il rischio di mortalità, che diviene comparabile alla popolazione di fumatori e obesi, aumentando il rischio di disturbi cardiovascolari, ipertensione, ictus, diabete e demenza (Joint Research Centre - Commissione Europea, 2023). L’associazione tra solitudine e salute è primariamente dovuta a uno stile di vita meno sano, una peggiore qualità del sonno e uno stress maggiore, che determinano una disregolazione dei sistemi neuroendocrino e immunitario. In particolare, la solitudine è fortemente correlata al benessere emotivo con un aumentato rischio di sviluppare depressione, disturbi d’ansia e suicidalità. Inoltre, la solitudine nei giovani è un predittore importante della salute fisica e mentale nell’età adulta (Goosby et al., Sociological Inquiry, 2013). Cosa fanno gli altri paesi per il fenomeno? Il primo paese ad affrontarlo in modo sistematico è stato il Regno Unito che nel 2018, ben prima della pandemia, ha istituito il Ministero della Solitudine e messo in atto politiche di contrasto. A seguire l’esempio inglese è stato il Giappone, funestato dall’aumento dei suicidi e dal fenomeno giovanile degli hikikomori (i giovani che si isolano, rinchiudendosi nelle loro stanze). È di alcuni mesi fa la dichiarazione degli Stati Uniti di una epidemia di solitudine, per bocca del Surgeon general of the United States, il dottor Vivek Murthy. Anche l’Unione europea, con il progetto sopra citato, il Monitoring Loneliness in Europe, sta cercando di affrontare questa emergenza. Di interesse sono anche i costi del fenomeno solitudine. Nel regno Unito il Department for digital, culture, media and sport ha pubblicato nel 2020 il Loneliness monetisation report, un lavoro che valuta il costo economico della solitudine. Il rapporto evidenzia come in termini di benessere, salute e produttività sul lavoro possa arrivare alle 9.900 sterline all’anno per ogni persona che soffre di solitudine severa. La politica - Cosa possono fare le istituzioni? Sempre il Joint Research Centre della Commissione Europea, partendo dai dati presenti in letteratura, evidenzia come diversi interventi a basso costo possano essere messi in campo per contrastare il fenomeno solitudine negli anziani. Gli aiuti partono dai trattamenti psicologici, come la gruppo-terapia della reminiscenza, la terapia del sorriso o i programmi per la riduzione dello stress basati sulla meditazione, ai supporti educazionali e sociali, come l’utilizzo di social network e l’inserimento in attività di socializzazione. Ad oggi, invece, sono pochi gli strumenti validati per combattere la solitudine nei giovani. Tuttavia, lo sforzo di ricercatori e istituzioni internazionali per trovare soluzioni al fenomeno resta forte. Mentre tutti questi dati sono a disposizione di quanti vogliono provare a comprendere il fenomeno solitudine ed i suoi costi individuali e sociali, la politica italiana pare del tutto disinteressata al fenomeno. Quello che dovremmo augurarci è che almeno uno dei leader di maggioranza o opposizione pronunci la parola solitudine e porti questo tema nel dibattito politico. Non solo per intervenire su una condizione che può colpire gli individui più fragili della nostra società ma, anche perché è un buon investimento. Considerato che Il Pil appare come l’unico riferimento imperante. *Psichiatra Migranti. Bocciato l’accordo Italia-Albania, la fine ingloriosa del nostro stato di diritto di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2023 Ci hanno pensato i giudici albanesi a porre un freno, almeno per ora, all’accordo Meloni-Rama sui migranti. Chi lo avrebbe mai detto che questa sarebbe stata la fine ingloriosa del nostro malmesso stato di diritto: farsi mettere sotto giudizio dalla Corte di un Paese dalla democrazia giovanissima. Qualche settimana fa, tra un decreto legge e l’altro sempre in tema di sicurezza e migranti, il governo italiano aveva sbandierato l’accordo con il governo presieduto da Edi Rama per gestire in Albania il trattenimento forzato di alcune migliaia di migranti che l’Italia, per evitare l’approdo nelle nostre coste, avrebbe lì dirottato. Che fosse un accordo vago e pericoloso lo hanno scritto a chiare lettere esperti, giudici, avvocati. Decine le domande senza risposta che studiosi, giuristi e attivisti avevano posto. Come assicurare il diritto di difesa? Chi è il giudice competente per ciò che accade nei centri albanesi? Cosa accade dopo la fine del periodo di detenzione coatta? I ministri coinvolti hanno difeso l’accordo parlando di extraterritorialità. È stato evocato il lavoro a distanza da parte di giudici e avvocati italiani, così riducendo all’osso quel che resta dell’habeas corpus per gli immigrati detenuti senza aver commesso alcun reato. Va ricordato infatti che stiamo parlando di persone imprigionate contro la loro volontà solo perché hanno migrato irregolarmente verso il nostro paese. Esponenti di governo hanno affermato cose fra loro contraddittorie a proposito dei numeri complessivi dei migranti da esportare in Albania come fossero merce, dei costi milionari dei centri da realizzare, dei tempi di trattenimento forzato, delle modalità di approvazione dell’accordo in Italia. Si voleva evitare che esso passasse dal Parlamento, anche per anestetizzare ogni forma di controllo o supervisione giurisdizionale italiana o europea. Ci ha pensato per ora la Corte Costituzionale albanese a sospendere la trattativa, che nel paese delle aquile era già arrivata a essere discussa in sede parlamentare. Una sospensione che è giunta dopo che l’opposizione albanese, sia evocando ragioni nazionaliste che per motivi legati al rispetto del diritto internazionale, si era rivolta ai giudici costituzionali. Il piano di esportazione di qualche migliaio di persone, trattate in modo disumano, per qualche mese si è dunque fermato. Se la discussione parlamentare dovesse andare avanti anche in Italia, immagino che ci sarà un giudice che obietterà sulla compatibilità di un simile accordo con il nostro stato di diritto. Non possiamo vendere persone all’estero come se fossero oggetti, privandole al tempo stesso di ogni diritto legale. Nel frattempo la Procura di Milano ha posto sotto sequestro il Cpr di via Corelli, a Milano, per le condizioni di vita disumane al suo interno. Il Centro di Permanenza per il Rimpatrio era gestito da una società privata. Gli immigrati, in Italia e fuori, sono fonte immorale di lucro. Su ciò è esemplare il lavoro di indagine portato avanti da Cild (Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili) e scaturito nel rapporto che denuncia “L’affare Cpr”. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Migranti. Il Consiglio d’Europa boccia l’Italia: accordi con Albania e Tunisia da rivedere di Emanuele Bonini La Stampa, 15 dicembre 2023 Richiamo anche su donne, giornalisti e comunità Lgbti. Chiesti correttivi normativi. Migranti, donne, giornalisti, comunità Lgbti. L’Italia dei diritti “degli altri” non c’è, o c’è poco, a riprova di un deterioramento dello Stato di diritto che induce il Consiglio d’Europa a richiamare il Paese all’ordine e invertire la rotta. L’organismo internazionale per la promozione dei diritti e lo stato di diritto è dell’idea che il Paese “dovrebbe migliorare la legislazione” in tutti questi campi, considerati carenti. L’obiettivo è quello di “sostenere meglio”i diritti di uomini e donne, professionisti, cittadini e richiedenti asilo. Segno che qualcosa, e più di qualcosa, non va e che il Belpaese per qualcuno bello non è. Per quanto riguarda l’immigrazione, la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovi?, esorta le autorità italiane a garantire “un’adeguata” capacità di ricerca e salvataggio in mare e chiede “l’abrogazione” della legislazione e delle politiche che ostacolano le operazioni di ricerca e salvataggio delle organizzazioni non governative (Ong). Una bocciatura netta del governo Meloni e del “decreto flussi” messo a punto della maggioranza. Ma è tutta la politica di gestione dei flussi a essere rimessa in discussione dall’organismo di Strasburgo. “Le attività di cooperazione che direttamente o indirettamente conducono a rimpatri in Libia devono essere sospesi”, bacchetta il Consiglio d’Europa. Il motivo? Le “gravi e sistematiche violazioni” dei diritti umani che si registrano nel Paese del nordafrica. E a proposito di nordafrica, anche il protocollo d’intesa con la Tunisia andrebbe riconsiderato e reso “subordinato alla tutela globale dei diritti umani”. Motivo per cui “nessun rimpatrio dovrebbe avvenire senza un’adeguata valutazione individuale”. Critiche anche sull’accordo che l’Italia ha raggiunto con l’Albania sempre in materia di gestione dei flussi migratori, e già oggetto di obiezioni della corte costituzionale albanese, che ha sospeso la ratifica parlamentare per i dubbi in merito al rispetto dei diritti umani. Il Consiglio d’Europa, a distanza di poche ore, conferma una volta di più la “mancanza di adeguate garanzie in materia di diritti umani nel Memorandum d’intesa concluso con l’Albania”. Più che cercare di sistemare i richiedenti asilo altrove, le autorità italiane dovrebbero “dare priorità al miglioramento dei sistemi nazionali di asilo e accoglienza”. L’Italia è oggetto di critiche anche per la questione di genere. Si riconoscono i “progressi compiuti” in termini di parità uomo-donna e nel contrasto alla violenza contro le donne, ma permane “un netto contrasto” tra il quadro giuridico e le disuguaglianze, la discriminazione e la violenza affrontate dalle donne e dalle ragazze. Vuol dire che c’è ancora del lavoro da fare, soprattutto da un punto di vista culturale e di educazione. C’è da sradicare sessismo e stereotipi di genere da una parte, mentre dell’altra parte, in parallelo, vanno migliorati i servizi di sostegno per le vittime della violenza di genere. Non solo. Si rende necessaria una riforma della giustizia, attraverso una modifica del diritto penale che fonda i reati di violenza sessuale, compreso lo stupro, sulla nozione di libero consenso, e contrasti la cosiddetta vittimizzazione secondaria, vale a dire l’accanimento post-violenza. Male anche l’eccesso di obiezione e obiettori di coscienza. In Italia occorre “garantire alle donne e alle ragazze il libero accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, comprese le cure per l’aborto e la contraccezione”. Non finisce qui. Il deterioramento palese e palesato dello stato di diritto in Italia si ravvede anche nell’attività di stampa. a commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa è dell’idea che i giornalisti siano vittime di troppe denunce facili, e per questo raccomanda “la depenalizzazione della diffamazione”. C’è la questione dei diritti degli omosessuali, talmente poco rispettati che da Strasburgo giunge la richiesta di per la creazione di una “istituzione nazionale per i diritti umani e l’ampliamento della legislazione contro la discriminazione, i crimini generati dall’odio e l’incitamento all’odio per coprire i diritti delle persone Lgbti”. Migranti. Nuovi dubbi e costi maggiori per l’intesa Italia-Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 dicembre 2023 Il giorno dopo la notizia che la Corte costituzionale albanese ha messo in standby l’intesa Meloni-Rama, l’udienza sarà il 18 gennaio ma i giudici avranno tempo per decidere fino al 6 marzo, le forze politiche della maggioranza vanno in ordine sparso. Si moltiplicano gli interventi di Fratelli d’Italia, mentre tace la Lega. Segno che la scommessa è tutta meloniana e probabilmente a Salvini non dispiacerebbe naufragasse prima di partire, a pochi mesi da elezioni europee in cui sul tema immigrazione si gioca una sfida tutta interna al governo. Per Forza Italia parla soltanto il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, preso tra due fuochi: per il suo ruolo avrebbe dovuto essere a conoscenza del lavoro sotto traccia della premier, ma probabilmente ne ha avuto contezza a giochi fatti. “Una questione di tipo giuridico, che si risolverà in tempi abbastanza rapidi. Non sono preoccupato”, taglia corto Tajani. A sostegno della “tranquillità” espressa dal governo italiano il ministro degli Interni albanese Taulant Balla, secondo il quale “il governo albanese ha il diritto di negoziare tali accordi per conto della repubblica d’Albania. L’accordo è basato sulla Costituzione”. Intanto, però, nuovi dubbi sul fronte italiano dell’intesa sono espressi dalle toghe progressiste della corrente Area. “Coloro che, per un destino inesorabile, finiranno nei centri di detenzione dell’Albania saranno esposti, oltre alla privazione della libertà personale, anche al rischio concreto di violazione di diritti fondamentali riconosciuti da tutte le Carte dei diritti fondamentali, delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa, dell’Ue e non ultima dalla nostra Costituzione che certamente resterà a vigilare su queste persone anche fuori dal territorio nazionale”, affermano Coordinamento nazionale e Gruppo immigrazione di Area. “Le procedure previste nell’accordo sembrano assolutamente impraticabili”, afferma invece Cristopher Hein, professore di Diritto e politiche di migrazione e asilo dell’università Luiss di Roma. Secondo il docente il protocollo solleva grandi perplessità giuridiche, soprattutto delle normative italiana e Ue, e logistiche. “Operare distinzioni in base alla minore età, alla nazionalità, all’appartenenza a un gruppo vulnerabile, alla nazionalità o alla provenienza da Stati di origine si sicuri. Tutto questo si può fare in alto mare, facendo poi rotta verso un porto albanese?”, afferma. Ieri L’Espresso ha poi rivelato un documento la relazione tecnica sul progetto curata dalla ragioneria generale dello Stato. Dal documento si evincono le condizioni disastrose in cui si trovano le strutture che dovranno essere trasformate in hotspot, centro di trattenimento e Cpr. Tradotto: serviranno molti più soldi di quanto dichiara il governo. La scorsa settimana Tajani aveva ribadito che costerà meno di 200 milioni. Secondo la ricostruzione del settimanale in cinque anni ne serviranno oltre 300, in linea con i numeri anticipati dal manifesto lo scorso 2 dicembre dopo la visione di un altro documento riservato. Quando i numeri non coincidono è perché continuano a essere ritoccati al rialzo. Per il governo non è un buon auspicio. I costi e le follie dell’accordo tra Italia e Albania sui migranti: ecco il documento di Carlo Tecce L’Espresso, 15 dicembre 2023 Fogne da costruire, elettricità da allacciare, aree da disboscare. E poi milioni per il personale, per i servizi, per i viaggi. I numeri della relazione tecnica della Ragioneria dello Stato, che l’Espresso ha consultato in anteprima, mostrano l’assurdità economica, oltre che umana, del patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama. Per scoprire cosa c’è davvero dentro il patto, chiamato protocollo d’intesa, fra la presidente italiana Giorgia Meloni e il collega albanese Edi Rama per spedire in Albania una manciata di migranti, 700 in partenza e 3.000 a regime, bisogna leggere la relazione tecnica firmata da Biagio Mazzotta, il capo della Ragioneria Generale dello Stato. È un documento complesso firmato ieri sera dopo un’altrettanta complessa analisi dei costi. Non il denaro, non le bizzarrie, non la politica, ma le condizioni di questi luoghi selvaggi e remoti di Albania sono il primo tema: “L’intera zona non è dotata di fogna pubblica. Per lo scarico delle acque nere è necessario realizzare un serbatoio di accumulo di idonea capacità da svuotare periodicamente con autospurgo o, in alternativa, è necessario realizzare un depuratore”. Questo è il sito portuale di Shengjin, 70 km a nord di Tirana, che deve comprendere l’ufficio di sanità marittima e di frontiera. È la porta di accesso per l’Italia in territorio straniero, e non europeo, per i migranti salvati in mare, non donne, non bambini, non fragili, uomini però. “L’area è allacciabile alla rete elettrica pubblica a media tensione tramite cavi aerei. Poiché sono frequenti i casi di blackout - si apprende dal documento - è necessario dotare l’area di gruppi elettrogeni per alimentare l’illuminazione esterna e di gruppi di continuità per computer e server. È fornito di acqua potabile estratta da pozzo artesiano con pompa sommersa. La portata e la pressione dell’acqua potabile non sono sufficienti per alimentare l’intero centro. Occorre prevedere serbatoi di accumulo con autoclave. L’intera area non è urbanizzata, è necessario procedere a opere di sbancamento con taglio di alberi e arbusti con rimozione di radici, ceppaie e simili, demolizione dei ruderi esistenti e livellamento, oltre alla realizzazione di pavimentazione e viabilità, sia di accesso all’area che interna alla stessa”. Questo è Gjader, una ex base militare, qui è previsto il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di 70.000 metri quadri, qui devono soggiornare per un tempo indefinito i migranti identificati a Shengjin. Neppure qui ci sono le fogne. I dieci Cpr su suolo italiano sono costati 52 milioni di euro in quattro anni, trasformare Shengjin e soprattutto Gjader in enclave italiane ne costa almeno cinque volte tanto per i prossimi cinque anni. Il protocollo sottoscritto da Italia e Albania vale 230 milioni di euro. In più ci sono altri 75 milioni per esportare e collegare il sistema giudiziario italiano con l’Albania. Il conto totale è ben oltre i 300 milioni. Questi i dettagli. Soltanto per allestire il Cpr di Gjader servono 28 milioni. E altri 31 milioni per la gestione di Shendjin e del medesimo Gjader: “Euro 4.400.700 per l’anno 2024, euro 6.556.200 annui per ciascuno degli anni 2025 e 2028”, annota il ministero del Tesoro. La voce di spesa più cospicua - sopra i 100 milioni di euro - riguarda l’essenza del protocollo, cioè che un pezzo di Italia venga delocalizzato in Albania: “Il paragrafo 3 prevede che i migranti possano entrare nel territorio albanese al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana e che le autorità italiane debbano trasferirli al di fuori del territorio albanese nel caso in cui venga meno il titolo della permanenza nelle strutture. La disposizione comporta maggiori esigenze in termini di mezzi e di equipaggiamenti del Dipartimento di pubblica sicurezza, come di seguito quantificati: motorizzazione euro 6,4 milioni per l’anno 2024; equipaggiamento e casermaggio: euro 300.000 per l’anno 2024; telematica: euro 1,5 milioni per l’anno 2024 (conto corrente) e 900.000 annui per l’anno 2024 (conto capitale); noli di navi: euro 15 milioni per l’anno 2024 ed euro 20 milioni per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028”. Inoltre utilizzare in Albania personale dei ministeri Interno, Giustizia, Salute, fra viaggi, diarie, vitto e alloggio, richiede fondi per altri 57,7 milioni di euro. Il disegno di legge, approvato la scorsa settimana in Consiglio dei ministri, ratifica il protocollo ed esplicita la parte “giustizia” (altri “oneri” per circa 75 milioni). Qualche esempio. “L’istituzione di nuove sezioni della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma per far fronte alle nuove domande di protezione internazionale derivanti dall’attuazione del Protocollo. Per tali finalità sono previsti i seguenti maggiori oneri: servizio di interpretariato 1 milione per l’anno 2024 e 1,5 milioni annui per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028 (parte corrente); gettoni di presenza: 1 milione per l’anno 2024 e 1,5 milioni annui per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028 (parte corrente); costi di gestione dei nuovi collegi: 570.000 euro per l’anno 2024 e 850.000 euro annui per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028 (parte corrente)”. Moltiplicato per cinque anni, fa 18 milioni. E ancora. “Si evidenzia la quantificazione in via prudenziale relativa alla spesa complessiva per le trasferte (spese di soggiorno e di viaggio) dei soggetti coinvolti nelle procedure di convalida e di ricorso (avvocati e interpreti) nell’ambito del patrocinio a spese dello Stato che risulta pari 2.160.000 per ciascuna procedura, per un totale di euro 4.320.000 all’anno”. Moltiplicato per cinque anni, fa 19,4 milioni di euro. Si potrebbe continuare per pagine e pagine - e il prossimo numero dell’Espresso avrà un intero servizio dedicato al patto con l’Albania e ai suoi svariati lati oscuri - ma è già abbastanza per definire economicamente dubbia e umanamente peggio questa iniziativa del governo Meloni. Tant’è che pure la Corte costituzionale albanese s’è presa tre mesi per esaminare i ricorsi delle opposizioni. Quanto ne bastano pochi, di minuti, per trasecolare dinanzi alla relazione tecnica della Ragioneria Generale dello Stato. I baby profughi abbandonati di Eleonora Camilli La Stampa, 15 dicembre 2023 Le testimonianze dei migranti minorenni nel report dell’Unicef sulle strutture emergenziali. “Nemmeno un vestito di ricambio, non ci permettono di chiamare le nostre famiglie a casa”. Le scarpe rovinate e aperte, la maglia troppo leggera per il periodo autunnale, lo sguardo perso nel vuoto e una domanda ricorrente: “Quando ci trasferiscono da qui?”. A. ha sedici anni, è originario della Guinea. Ha lasciato il suo paese che era poco più che un bambino e solo dopo un viaggio durato tre anni è riuscito ad arrivare qui, via mare. Ha ancora indosso gli indumenti che gli hanno dato dopo lo sbarco a Lampedusa. Seduto a terra all’ interno dell’hotspot di Taranto lamenta di non riuscire a poter contattare la famiglia rimasta a casa. Insieme ai suoi compagni, tutti minori soli, è costretto spesso a scavalcare le cancellate del centro, percorrere la statale e arrivare al paese più vicino per trovare un posto dove connettersi a Internet. “Qui le giornate proseguono tutte uguali, senza nulla da fare” dice un ragazzo del Gambia, partito per l’Europa con l’obiettivo di costruirsi un futuro migliore. Vorrebbe studiare ma in questo luogo sospeso è difficile: la presenza dei docenti esterni non è garantita e la mancanza di connessione alla rete impedisce ogni altra attività didattica extra. L’attesa è snervante, dicono tutti, c’è chi resta in hotspot anche per mesi. Da luoghi temporanei per la primissima accoglienza, questi centri stanno diventando delle strutture limbo dove i minori migranti con più di sedici anni restano per tempi anche molto lunghi, “senza l’accesso ai servizi indispensabili per favorire la protezione dei ragazzi e delle ragazze”. A fotografare la situazione è un monitoraggio compiuto dall’Unicef nei luoghi di frontiera e nelle strutture emergenziali di Sicilia, Calabria e Puglia. Il report racconta come, dal decreto Cutro fino all’ultimo dl minori (133/2023), il cosiddetto Cutro2, ci sia stata una lenta erosione delle tutele previste proprio per i migranti minorenni. A cominciare dalle disposizioni che hanno permesso che i ragazzi dai 16 ai 18 anni fossero ospitati temporaneamente nelle strutture con gli adulti. “Proprio perché nate per scopi diversi dall’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, i centri per adulti non sono calibrati sui loro bisogni. Le condizioni di promiscuità e l’accoglienza negli stessi spazi di gruppi di diversa età e genere, a causa del sovraffollamento, possono comportare importanti rischi, inclusa la violenza di genere” scrive Unicef ricordando che queste strutture versano spesso in condizioni igienico-sanitarie piuttosto carenti, con rischi anche per la salute delle persone presenti. È il caso del vecchio plesso scolastico ad Ardore o i siti di Stilo, Siderno e Portigliola, che nei momenti di intensificazione degli arrivi possono essere adibiti a centri di accoglienza temporanea. L’organizzazione invita per questo a “riportare i diritti dell’infanzia al centro delle politiche di gestione dei flussi migratori”. Tra i centri di accoglienza visitati anche il Cara di Isola Capo Rizzuto, nel crotonese, dove solo una settimana fa un provvedimento urgente della Corte di Strasburgo ha disposto il trasferimento di un minore migrante. Qui gli operatori dell’organizzazione hanno raccolto la voce di altri ragazzi: raccontano di poter uscire raramente e solo in gruppo, quando c’è un accompagnatore disponibile. Alcuni hanno iniziato le lezioni di italiano ma non un vero percorso di inclusione. “L’approccio di risposta emergenziale adottato rischia di trasformarsi in un’emergenza dei diritti dei minori, spesso minati da trasferimenti non tempestivi e dalla mancanza di attivazione dei servizi necessari”. In tutto sono seimila i minori assistiti dall’organizzazione sul totale dei 17mila minori non accompagnati arrivati in Italia dall’inizio dell’anno. Sono 320 invece i casi di grave vulnerabilità registrati in soli quattro mesi e assistiti nei vari progetti attivi anche nel nord Italia. Tra questi c’è Mohamed, 10 anni, arrivato in Italia via mare con la mamma dalla Tunisia. Lo scopo del viaggio era quello di assicurare al bambino con una rara sindrome degenerativa una speranza di vita. Per lui l’unica speranza di sopravvivenza è un trapianto di midollo osseo. Sbarcato in Sicilia è stato subito visitato. Oggi è in cura in una struttura ospedaliera del nord Italia. La madre e il fratello sono ospitati in una struttura di seconda accoglienza. Migranti. Cpr di via Corelli, l’ispezione a sorpresa della Finanza il primo dicembre di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 dicembre 2023 “Nessun medico e un solo infermiere”. La ditta “La Martinina” aveva vinto l’appalto da 4,4 milioni della Prefettura per la gestione del centro, ma non garantiva gran parte dei servizi. Quando il primo dicembre Guardia di Finanza e Procura di Milano si sono presentate nel Cpr-Centro permanenza rimpatri di via Corelli per una ispezione a sorpresa che raffrontasse la realtà di un giorno qualunque con i racconti e i video dei testi ascoltati in segreto nelle settimane precedenti, hanno trovato “presente un singolo infermiere” anziché la prevista turnazione di nove su 24 ore; “e nonostante specifica richiesta nessuno dei medici della struttura” (in teoria tre su 6 ore al giorno) “si è presentato in mattinata e primo pomeriggio. Pur prevista la presenza di uno psicologo, non è stato possibile incontrarlo o contattarlo. Non era presente alcun mediatore culturale, dopo alcuni minuti si è presentata una delle dipendenti del gestore che si stava occupando di altre mansioni ed è di madrelingua araba”, e quasi tutti gli stranieri “lamentano non aver avuto accesso adeguato all’informazione legale”. La relazione dell’ausiliario dei pm, lo specialista di medicina detentiva Nicola Cocco, sottotitola quello che agli atti si vede nella videoregistrazione dell’ispezione: e cioè il fatto che la società La Martinina srl non garantisse affatto molti dei servizi che a fine 2022 aveva assicurato per aggiudicarsi l’appalto della Prefettura di Milano da 4,4 milioni per la gestione del centro sino al 31 dicembre 2023, appalto rinnovato lo scorso 13 novembre dalla Prefettura alle medesime condizioni contrattuali anche per tutto il 2024 (mercoledì sera è scattato il sequestro preventivo d’urgenza). “Il rubinetto dell’infermeria non dispensava acqua calda, non c’era un frigo per la conservazione dei farmaci salva-vita, e viene riferito che allo scopo è usato il mini-frigo nell’ufficio del Direttore”, osserva Cocco, che “dall’analisi delle schede di terapia” constata “un utilizzo di psicofarmaci in circa il 60% delle persone”, prescritti per lo più con “un ruolo sedativo e non specificamente terapeutico”. Le camerate sono dotate di “brande fornite dei soli materassi di gommapiuma che appaiono sporchi e malandati, con coperture sottilissime di simil-carta che si disfano al tatto. Docce e toilette alla turca sono sporche, in uno dei locali la finestra è rotta e la temperatura è fredda, chi usufruisce dei servizi non ha privacy perché l’unico riparo è costituito da teli di plastica spessa”. Il cibo, con data di scadenza giusta di quel giorno, è recapitato in monoporzioni di plastica non deteriorate e non contaminate, “di quantità accettabili” pur se “di qualità che all’assaggio risulta scadente”, ma “la pulizia dei contenitori di trasporto (responsabilità del catering) lasciava a desiderare”, e per tenere caldi i pasti viene usato un riscaldatore elettrico in “un magazzino in cui sono conservati materassi ed effetti personali dei detenuti, non garantendo alcuno standard di pulizia per gli alimentari”. Contrariamente al capitolato d’appalto non c’erano attività culturali, religiosi o ricreative, che i pm avevano già scoperto essere state fatte figurare dalla società alla Prefettura tramite false convenzioni con ignare associazioni. Un’unica “dotazione” c’è: ma è “un pallone in cortile”. Migranti. Nell’inferno del Cpr di Milano è mancato il controllo della prefettura di Nicola Datena Il Manifesto, 15 dicembre 2023 Il Centro di permanenza per i rimpatri di Milano ha riaperto nel settembre 2020 e da allora è stato assegnato a tre diverse società. A controllare che gli enti gestori dei Cpr eseguano correttamente e completamente il contratto di appalto sono le prefetture. Nel caso della Martinina srl che gestiva il centro di via Corelli a Milano fino al sequestro dei magistrati, la gara è stata aggiudicata a un prezzo di 42.18 euro al giorno per ogni trattenuto, oltre a 132,60 euro per il kit vestiario. In totale sono stati stimati costi per oltre quattro milioni di euro. Dalle indagini della procura di Milano emerge non solo che la Martinina non ha correttamente fornito i servizi previsti dall’appalto, arrivando a distribuire cibo scaduto e privando di servizi medici e igienici le persone costrette rimanere per molti mesi nel centro di via Corelli, ma anche che ha partecipato alla gara di appalto falsificando protocolli e accordi necessari alla gestione della struttura e alla fornitura dei servizi proposti nell’offerta tecnica. I servizi non c’erano e non avrebbero potuto mai esserci. In questo contesto la prefettura di Milano, nonostante le numerose denunce e segnalazioni da parte di diverse associazioni e anche dopo l’ispezione effettuata il 2 dicembre dalla Guardia di Finanza, ha dichiarato di aver sempre svolto ispezioni e monitoraggi approfonditi e applicato anche sanzioni. Non solo, alla scadenza del contratto di appalto, la prefettura ha scelto di non indire una nuova gara ma di rinnovare la gestione della Martinina per un altro anno. Le condizioni orribili che stanno venendo fuori dalle indagini sul Cpr milanese, però, non sono isolate. Rappresentano un dato di sistema per questi centri di detenzione amministrativa dei migranti. I Cpr sono strutture pubbliche dove le persone vengono trattenute in attesa che le autorità italiane organizzino il rimpatrio verso il paese di origine. Non si sa se o quando esso verrà effettivamente eseguito, intanto però si è costretti ad attendere in condizione di detenzione, di privazione della libertà personale. Tutti questi luoghi sono gestiti da enti privati che, attraverso una gara di appalto indetta dalla prefettura, si aggiudicano la gestione della vita delle persone. La gara di appalto si basa sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, questo significa che chi offre un prezzo minore vince la gestione del centro per dodici mesi. Con tale sistema, in sostanza, l’ente gestore aumenta il suo margine di guadagno se riesce a minimizzare le spese di gestione e quindi le spese per il cibo, le medicine e il cibo da distribuire alle persone detenute. Perciò quanto avvenuto a Milano non è un’eccezione. Da sempre le persone detenute nei diversi Cpr denunciano con tutte le modalità possibili l’assenza totale di servizi, le condizioni disumane, la sistematica violazione dei diritti umani. I gesti di autolesionismo, le rivolte, gli incendi e le proteste sono all’ordine del giorno in tutti i centri di detenzione, non sono gesti di disperazione ma richieste di aiuto, riconoscimento, dignità. Lo testimoniano i tanti video che in questi anni sono venuti fuori da questi luoghi di segregazione. Le indagini della procura di Milano si basano su fatti noti alle cronache, pubblici da molto tempo e che accomunano tutti i centri di permanenza per il rimpatrio. Non tanto per le contraddizioni di una gestione privata della detenzione o per l’assenza dei controlli, ma perché una privazione della libertà personale senza un reato è un’eccezione ai principi fondamentali di uno stato di diritto e una rinuncia agli stessi. La detenzione amministrativa però, in linea con le politiche europee e con le ultime riforme del governo Meloni, da eccezione è diventata lo strumento ordinario di gestione dei flussi migratori. I termini massimi di detenzione sono stati prolungati fino a 18 mesi e adesso grazie all’accordo con l’Albania si sta tentando persino di portare i centri all’estero. Nonostante questo modello abbia già fallito in patria. Migranti. “Buonasera, voglio morire”: in questa frase tutto l’orrore del Cpr di Milano di Roberto Maggioni Il Manifesto, 15 dicembre 2023 Le testimonianze nell’ordinanza di sequestro. La prefettura “non poteva non sapere”. L’ente gestore era stato prorogato, nonostante le irregolarità comprovate. Ora che il segreto di Pulcinella è noto a tutti bisognerà spiegare perché le istituzioni che erano a conoscenza delle condizioni di vita disumane all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di via Corelli non sono intervenute per tempo. A partire dalla Prefettura di Milano che supervisiona la gestione del centro per il Viminale. Dagli atti dell’inchiesta della procura meneghina che ha portato mercoledì sera al sequestro del ramo d’azienda della Martinina Srl, che gestisce la struttura di via Corelli, emerge che il 13 novembre scorso la prefettura le aveva rinnovato il contratto per tutto il 2024. Eppure sapevano che la situazione era critica. Era stata la stessa prefettura, a poche ore dalla diffusione della notizia dell’inchiesta della procura il primo dicembre, a dire che “erano emerse criticità gestionali nell’ambito della [sua] costante e approfondita attività di monitoraggio”, perciò “aveva avviato a carico dell’ente gestore un procedimento amministrativo per la contestazione di talune condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali”. Il procedimento si era concluso con una maxi sanzione, ma allora perché il contratto è stato rinnovato per un altro anno? “Non siamo stupiti che il rinnovo fosse già stato previsto, ma siamo preoccupati” dice Riccardo Tromba, presidente del Naga, l’associazione che insieme alla rete Mai Più Lager - No Ai Cpr ha scritto i dossier che hanno portato all’apertura dell’indagine della magistratura. “La prefettura conosceva da tempo le condizioni formali e materiali di gestione del Cpr e questo non le ha impedito di autorizzare il rinnovo come se nulla fosse”, aggiunge. L’avvocata della rete No ai Cpr Teresa Florio, che ha partecipato alle ispezioni fatte dall’associazione con l’ex senatore Gregorio De Falco, racconta che “ogni volta che siamo entrati tra il 2021 e il 2023 avevamo sempre come interlocutore un funzionario della prefettura al quale abbiamo esposto tutti i problemi. Abbiamo fatto circa 68 segnalazioni. Loro nel centro hanno un ufficio in pianta stabile”. L’avvocato Eugenio Losco, che collabora con il Naga, si aspetta un allargamento dell’inchiesta: “mi sembra strano che non vi siano indagini anche su responsabilità quantomeno omissive o di controllo, che spetterebbero alla Prefettura”. Anche l’Asgi, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, si è interessata negli anni al Cpr di via Corelli. “Una domanda sorge spontanea: chi controlla i controllori?” si chiedeva l’associazione in un report inviato all’Autorità Nazionale Anticorruzione a novembre 2023. Ma sono le testimonianze degli ex operatori che hanno lavorato nel centro, raccolte dai pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, a descrivere con precisione l’inferno del Cpr. “Sinteticamente posso dire che era un vero e proprio lager, neanche i cani sono trattati così nei canili”, racconta un’ex operatrice della Martinina. “In primo luogo vi è un largo uso di psicofarmaci dati come fossero caramelle e ad alti dosaggi. Durante l’estate poteva capitare che il sapone, pur presente, non veniva dato ai trattenuti, per cui in pratica le docce non venivano fatte. Gli veniva impedito di parlare con gli avvocati. Il cibo molto spesso era scaduto, avariato”. Racconta ancora: “Ricordo una volta che, poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato”. Racconta un altro ex operatore: “Vorrei far presente che nell’ambulatorio mancava tutto, non c’erano bende, disinfettanti, guanti, dispositivi di protezione individuale, strumentario per dare punti in caso di ferite. Nel Cpr vi era un cartello che diceva di non chiamare l’autoambulanza per vicende inferiori al codice giallo”. Allegate alle carte dell’inchiesta ci sono anche le foto (alcune le mostriamo in questa pagina) e i video girati dai migranti nel centro, oltre alle chat con gli attivisti. Una lunga sequenza di pavimenti sporchi di sangue, bagni otturati, persone che dormono in stanze sporche, cibo con vermi bianchi, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo. Il 2 novembre 2022 agli attivisti arriva uno scatto. C’è la bocca di un ragazzo con le labbra cucite con il filo di ferro, sopra un messaggio: “buonasera, io voglio morire”.