“Più lavoro e formazione per la recidiva zero” di Giacomo Losi Il Dubbio, 14 dicembre 2023 “Noi teniamo in carcere 60mila persone. La nostra Costituzione parla della funzione riabilitativa della detenzione ma questo non avviene. Lo Stato investe risorse, non riabilita e il risultato è che quando queste persone escono, cadono in grandissima percentuale negli stessi errori del passato, se non in errori più pesanti. È la recidiva. Il bilancio tra costi pubblici della detenzione e benefici è drammaticamente svantaggioso. Si potrebbe dire che è un grande investimento per la criminalità”. Lo afferma il presidente del Cnel, Renato Brunetta, nel suo intervento al convegno “Tecnologia solidale”, in corso a Villa Lubin e promosso dalla Fondazione Pensiero Solido, presieduta da Antonio Palmieri. “Nelle carceri italiane bisogna invertire la tendenza, cercando di non far perdere tutti, come accade oggi. Si può fare ma bisogna fare sistema. Abbiamo un potenziale enorme di offerta di servizi ma non abbiamo le strutture per fruire di questa offerta. Serve dunque ragionare in termini di rete, per fare formazione per i detenuti per tutti e 190 gli istituti e non solo per alcuni, per offrire lavoro”. “Il Cnel - ha proseguito - ha cominciato a chiedere a tutti gli attori, a mondi diversi come quello delle imprese, del volontariato, ai sindacati, cosa facessero per le carceri, per fare in modo che non ci sia nessuna chiusura rispetto alla domanda. Si può fare quasi tutto con la legislazione vigente, senza alibi. Dai dati sulla recidiva dei detenuti che hanno fatto formazione in carcere emerge che il risultato di tutto questo è la recidiva tendente a zero. E questo deve essere il nostro obiettivo: recidiva zero. Se ci riusciamo - ha concluso - abbiamo fatto una cosa buona per il Paese”. La questione morale si chiama cinismo di Piero Sansonetti L’Unità, 14 dicembre 2023 Chi ha ascoltato le risposte che l’ex magistrato Piercamillo Davigo ha fornito al suo intervistatore l’altra sera, a proposito degli imputati suicidi (anzi: degli indiziati suicidi), immagino che sia rimasto sconvolto. Penso che anche un grande numero di persone che sono attratte dalle idee del giustizialismo siano rimaste raggelate dalla inaudita volgarità della risposta dell’ex Pm. Ho pudore persino a trascrivere quella risposta, incredibile, devo farlo solo perché sennò non possiamo ragionare. La domanda era: ma lei ha provato dispiacere quando i suoi indiziati si suicidavano? E lui ha risposto testualmente così: “Certo, se un indiziato decide di suicidarsi lo perdi come fonte di informazione”. A me non era mai capitato di ascoltare una dichiarazione così cinica, offerta con voce ed espressione calma e con grande convinzione. Mai nella vita. Naturalmente questa nuova sortita del dottor Davigo, che è stato membro del Csm, Pm, giudice di Cassazione, capo della magistratura associata, dunque non è un personaggio irrilevante, ci spinge a riflessioni serie sullo stato e il livello culturale della magistratura. Tra qualche riga torno su questo argomento. Prima vorrei cambiare per un momento discorso E parlare della campagna avviata dalla “Verità” - seguita da altri giornali di destra - contro i Vescovi, il papa, il Pd e le Ong impegnate nel salvare i naufraghi, nel Mediterraneo. È iniziata da una quindicina di giorni questa campagna. La “Verità” l’ha promossa ad argomento centrale e le ha dedicato credo per quasi due settimane il titolo di apertura a tutta pagina del giornale. Altri giornali di destra sono stati un po’ più sobri, qualcuno - dignitosamente - l’ha persino ignorata. Vediamo solo la giornata di ieri. Dalla Libia giungono notizie e testimonianze sulle torture e gli stupri che le guardie libiche realizzano sui prigionieri che hanno catturato mentre tentavano di raggiungere da profughi l’Italia. Talvolta li hanno catturati usando le motovedette fornite proprio dal governo italiano (non solo e non tanto dall’attuale governo di destra, ma dai governi precedenti). Tuttavia i giornali di destra non si sono occupati di questo, e hanno invece pubblicato illegalmente alcune chat tra esponenti della sinistra e i volontari della Ong Mediterranea di nessun interesse giudiziario e persino di scarso interesse sul piano del pettegolezzo. Per quale motivo hanno pubblicato queste chat, violando la legge, e che in parte riguardano anche alcuni parlamentari e dunque il grado dell’illegalità è ancora maggiore? Per dare al lettore l’impressione che Luca Casarini e i suoi compagni di avventura tramassero. Qual era la trama? Beh, il lettore attento, che non si ferma al titolo - ma è un lettore raro - si accorge che si tramava per trovare il modo migliore per raggiungere il numero più alto possibile di naufraghi, impedendo in questo modo il numero più alto di morti. Non solo non esisteva nessun reato in questa vicenda (tranne i reati di chi ha fornito le chat ai giornalisti e i reati dei giornalisti che le hanno pubblicate) ma ciò che i giornali di destra contestano a Mediterranea è di aver tentato di salvare dall’affogamento moltissime persone. Qual è il passaggio logico? Se li vai a cercare, e li trovi - con l’aiuto dei parlamentari del Pd, o della guardia costiera o di chiunque altro - e poi li porti in Italia, di fatto stai commettendo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E invece le persone oneste cosa fanno? Li lasciano annegare. Per la verità la campagna contro le Ong e contro il Vaticano che le finanzia (in modo del tutto aperto, dichiarato, tracciato e rivendicato) ogni tanto sbanda. A Casarini per esempio è stato anche rimproverato di avere salvato dall’affogamento solo 400 persone. Dicono che siano poche. A me, per la verità, risulta che “Mediterranea” ne ha salvate parecchie di più. Ma fossero anche 400? Mi sono chiesto: ma io in vita mia quante persone ho salvato? E tristemente mi sono risposto: nessuna. Chissà quante ne ha salvate Belpietro. Capisco la domanda che potete farmi: che c’entrano le dichiarazioni di Davigo con la campagna contro i naufraghi di Belpietro? C’è un punto che unifica: il cinismo. E scusatemi se un po’ mi allargo: io ho la netta sensazione che il cinismo stia dilagando in politica e nel mondo dei mass media. In modo impressionante, perché non è più coperto da nessun tipo di ipocrisia. Sono saltati i pudori, i limiti, il “corretto”. Non c’è nessun freno a sostenere che i suicidi dei detenuti o degli indiziati siano un fatto naturale e controproducente solo perché bruciano informazioni. O a sostenere che salvare i profughi sia una ignominia. La politica diventa così. Così il marketing giornalistico. Nella convinzione che ormai l’opinione pubblica è travolta e corrotta da anni di giustizialismo sfrenato. Non attribuisco a Giorgia Meloni la colpa di questo degrado della civiltà. Le attribuisco la colpa di non muovere un dito per contrastarlo. P.S. Davigo era uno dei personaggi più in vista ai tempi di Mani pulite. Vi rendete conto dello spessore di chi in quegli anni rase al suolo la politica italians? Secondo voi dov’è la vera questione morale: in una tangente presa per finanziare il partito o nella mentalità di una persona che considera il suicidio semplicemente un impiccio imprevisto per il proprio lavoro? Mi auguro che in queste ore i colleghi di Davigo prendano le distanze. La versione di Davigo sui suicidi del 1992-1993: “Si persero fonti...” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 dicembre 2023 L’ex pm: “Le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono”. Nel 2022 si sono uccise in carcere 85 persone, di cui 32 in attesa di primo giudizio. Piercamillo Davigo, ospite del podcast di Fedez, Muschio Selvaggio, parlando della stagione di Mani Pulite, alla domanda del conduttore su come si fosse sentito quando alcuni indagati si tolsero la vita ha risposto: “Purtroppo, per quanto sia crudo quel che sto dicendo, in questo mestiere capita che gli imputati si suicidino”. L’ex magistrato del Pool poi ha aggiunto: “Lo so che è una cosa spiacevole quella che sto per dire, ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono”. Al termine, quando gli viene chiesto se gli fosse dispiaciuto quando qualcuno dei suoi indagati, ad esempio Raul Gardini, si tolse la vita, l’ex pm ha replicato: “Ma certo che dispiace” però “prima di tutto, se uno decide di suicidarsi lo perdi come possibile fonte di informazioni”. Insomma per Davigo nessuno scandalo, nessuna meraviglia se le persone investite da una inchiesta giudiziaria si tolgono la vita. Il problema semmai è che il pubblico ministero perde una fonte di informazioni. Il resto diviene superfluo: la gogna mediatica, l’arresto, le misure cautelari, la vita pubblica e privata distrutta, la presunzione di innocenza ridotta a brandelli. Quasi quasi per Davigo se lo sono cercato il suicidio, visto che erano colpevoli dal suo punto di vista, aspetto che però mai fu chiarito considerato che non ci fu il processo al morto. E comunque nulla giustificherebbe un atto simile. Ma quanti furono i suicidi durante Tangentopoli? Se ne contano 41 tra politici e imprenditori. Come raccontò l’ex deputato Nando Dalla Chiesa a Blu Notte: “Ci furono decine di suicidi durante il biennio di Tangentopoli. Io feci anche uno studio in Parlamento. Credo che sia l’unico studio scientifico disponibile su quella vicenda. Il risultato è che i suicidi furono prodotti non tanto dalla detenzione in carcere, perché quasi tutti si uccisero fuori dal carcere, e molti anche dopo essere stati prosciolti. Era il clima dell’opinione pubblica che era insopportabile per chi avesse avuto comunque il marchio dell’indagine giudiziaria. Quindi, questo più che rinviare all’azione di magistrati, rinvia secondo me all’incapacità che in quel momento ebbero i giornali e l’opinione pubblica di mantenere un senso delle proporzioni”. Ma chi è che costruì un cordone ombelicale tra il Palazzo di Giustizia milanese e la stampa per creare un movimento di indignazione nella cittadinanza? La Procura di Milano. Il primo a togliersi la vita è stato Franco Franchi, socialista, dirigente di una USL di Milano, che il 23 maggio 1992 infila nella sua auto un tubo di gomma collegato a quello di scappamento, accende il motore e si siede al posto di guida. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi vi sarebbe rientrato. Il 2 settembre del 1992, si era sparato un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia Sergio Moroni, deputato socialista. L’uomo scrisse una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parlò di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiutò di essere definito ladro e contestò di non aver mai preso una lira concludendo: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto”. Il 20 luglio 1993 si uccideva in cella, dov’era rinchiuso da quattro mesi, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni. Nelle sue lettere esprimeva il senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto, nonostante si fosse dichiarato più volte estraneo alle tangenti. Tre giorni dopo con un colpo di rivoltella metteva fine alla sua vita Raul Gardini: non era ancora stato arrestato ma sapeva che i pm di Milano l’avevano nel mirino. Il 25 febbraio si tolse la vita Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38. Volendo abbandonare quella stagione, avvicinarci ai giorni nostri e tentare una analisi scientifica del fenomeno, è interessante leggere il report Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari realizzato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e pubblicato il 5 gennaio 2023. Nel 2022, negli istituti penitenziari sono decedute 85 detenuti per suicidio. In 76 casi (89,4%) è avvenuto per impiccamento, in 4 per inalazione di gas; in 3 per lesioni alle vene. In 2 casi il dato non è stato riportato. La posizione giuridica delle 85 persone era la seguente: 39 erano state giudicate in via definitiva e condannate e 5 avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 32 persone (38,1 %) erano in attesa di primo giudizio, 7 erano appellanti e 2 ricorrenti. Delle 42 persone condannate e con posizione “mista con definitivo”, 38 avevano una pena residua fino a 3 anni e 5 di esse avrebbero completato la pena entro l’anno in corso; altre 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni, mentre 1 soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Risulta che 50 persone, pari al 59,5%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 10 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Guardando ai dati degli ultimi 10 anni, si sono verificati 589 suicidi, di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni, di cui 210 in attesa di primo giudizio. “Il dato relativo alle persone in attesa di primo giudizio rappresenta indubbiamente un campanello d’allarme. Difatti, esso indica come - soprattutto per chi è sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere - tale posizione sia correlata a un rischio maggiore di suicidio rispetto al condannato definivo”, evidenzia il report. Eppure al 30 novembre 2023, secondo i dati del Ministero della Giustizia, in carcere ci sono 9486 reclusi in attesa di primo giudizio e 6.343 condannati non definitivi. E si ripropone, soprattutto con l’aumento del sovraffollamento, la questione dell’abuso della custodia cautelare. La “giustizia come azienda” e i (veri) numeri di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 dicembre 2023 Si fanno spesso paragoni impropri, ma c’è una qualche azienda che funzioni con un terzo, o solo metà, o addirittura un decimo del personale? La “consolle” del magistrato per “implementare” le “best practices” volte ad abbattere il “disposition time” che in rapporto alla “baseline”, meglio se a “budget” ridotto, attraverso le “directory” della nuova “app” centri la “mission” verso gli “stakeholders”: spopola la moda per la quale gli uffici giudiziari dovrebbero essere gestiti come aziende e il Csm negli incarichi direttivi dovrebbe selezionare manager a tutto gas di produttività. Ma c’è una qualche azienda al mondo che funzioni con un terzo, o solo metà, o addirittura un decimo del personale? Ad esempio i giudici di pace onorari, tra i più vicini alla vita del cittadino visto che ne è da poco stata ampliata la competenza sulle cause fino a 10.000 euro per i beni mobili e addirittura fino a 25.000 euro per incidenti d’auto, a Milano sono 28 su un organico di 180, a Bologna 9 su 55, Monza è quasi champagne con “solo” 22 mancanti su 33, e via così. Ancor più difficili da liquidare come “i soliti” piagnistei - tanto più ora che il software ministeriale per digitalizzare il penale dall’1 gennaio 2024 ha fallito il collaudo come una Formula 1 rientrata ai box col motore arrosto già nel giro di ricognizione - sono non solo le situazioni segnalate negli ultimi giorni dai procuratori di Roma e Milano, ma anche l’asciutta pagina inviata al ministro Nordio dai 26 presidenti di Corte d’Appello: per far presente non solo che la scopertura dei cancellieri è del 30% con punte oltre il 50%, ma anche che “tra gli addetti all’Ufficio per il Processo” (cuore teorico dello sforzo per gli obiettivi Pnrr) “un continuo stillicidio di abbandoni per posti più appetibili” porta “al 50% le originarie assegnazioni. Siamo molto preoccupati, anche perché nella legge di stabilità non v’è alcuna norma che riguardi la Giustizia: la situazione rischia di precipitare in tempi molto ristretti, altrimenti non ci saremmo indotti a interpellarLa”. Come si dice, nello slang aziendalista-amatriciano, “game over”? Minori senza giustizia: in bilico le 110mila cause pendenti di Luciano Moia Avvenire, 14 dicembre 2023 Con la riorganizzazione dei tribunali i processi rischiano di non chiudersi mai. “Urgente rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia: non ha la possibilità di essere realizzata”. In Italia la sorte di quasi 110mila minori è appesa al giudizio di un tribunale che nessuno sa quando potrà arrivare. Si chiamano “procedimenti pendenti”, ma non si tratta di scartoffie inutili. A Milano ce ne sono 13mila, a Bologna 10mila, a Roma 8mila, a Firenze 5mila, a Napoli altrettanto. Perfino a Bolzano ci sono 760 pratiche che non riescono ad essere evase. Ma dietro ogni fascicolo c’è il volto triste di un ragazzo o di un bambino. Magari quel piccolo attende di sapere se potrà lasciare la struttura di accoglienza in cui da troppo tempo è rinchiuso per essere accolto da una famiglia adottiva. Magari è stato allontanato da una famiglia che lo maltrattava ed è in attesa di scoprire se i suoi genitori potranno continuare ad avere nei suoi confronti quella “responsabilità genitoriale” determinante per il suo futuro. Magari è un minore straniero non accompagnato che dopo infinite peripezie, deserto, barcone, trafficanti e chissà cosa d’altro, sperava di trovare da noi una sorte migliore rispetto a quella lasciata nel suo poverissimo villaggio africano. Perché allora, di fronte a queste emergenze esistenziali, tanto più drammatiche vista l’età dei protagonisti, i magistrati minorili non prendono in tutta fretta le relative decisioni? Facile pensare che siano persone insensibili e indifferenti verso i bambini, ma è vero esattamente il contrario. Il lavoro va a rilento perché in tutti i 29 tribunali minorili italiani mancano decine e decine di giudici, circa un terzo in meno rispetto all’organico stabilito. Va a rilento perché la digitalizzazione delle pratiche, arrivata solo il 30 giugno scorso, è stata costruita con criteri non ideali per la giustizia minorile e nessuno ha pensato di coordinare il sistema informatico minorile con quello della giustizia ordinaria e dei giudici tutelari. Vedere contemporaneamente il fascicolo di uno stesso minore resta un obiettivo impossibile. Va a rilento, infine, perché ogni decisione che riguarda un minore è percorso delicatissimo. Non basta applicare la legge, occorre capire e prevedere quale conseguenza avrà quella decisione sulla vita di quel piccolo. E qui la giurisprudenza viene integrata dalle scienze umane, psicologia, pedagogia, neuropsichiatria infantile. Sono i giudici “onorari” che affiancano i magistrati e forniscono loro una serie di informazioni importantissime per arrivare a una valutazione quanto più possibile equilibrata e davvero a misura di bambino. Un sistema complesso, certamente, ma che, pur con tutte le lentezze e le carenze legate una burocrazia giudiziaria con tante lacune, ha retto per decenni la situazione, tanto da essere indicato a livello europeo come un modello da imitare. Entro il 2024 tutto verrà cancellato per far posto al disegno di una riforma - quella che istituisce i nuovi tribunali per la famiglia e per la persona - che non smette di far discutere. Peggio, che non ha alcuna possibilità di essere “concretamente realizzata”, come è stato sottolineato nei giorni scorsi dall’assemblea nazionale dei magistrati minorili (Aimmf). Una sentenza che sembra senza possibilità di appello perché fondata sui dati concreti e osservazioni ragionevoli. Tanto che la stessa responsabile della riforma, l’allora ministro della giustizia Marta Cartabia, di fronte al dossier presentatole un anno e mezzo fa da tutti i 29 presidenti dei tribunali per i minorenni e dai 29 procuratori minorili, aveva riconosciuto la fondatezza degli appunti ma aveva allo stresso tempo confessato l’impossibilità politica di arrestare un progetto già votato e inserito nel Pnrr. Ma cosa prevede la riforma? All’assemblea Aimmf l’ha rispiegato in sintesi la presidente Cristina Maggia per decretarne - come detto - l’impossibile attuazione. Come è possibile, per una riforma a costo zero, trovare il denaro necessario per istituire ex novo 140 sedi circondariali in pochi mesi? Si tratta proprio di reperire 140 nuovi edifici, “dal momento che non è per nulla percorribile la strada, forse immaginata ma impraticabile, dell’utilizzo per le sezioni circondariali degli spazi presso i tribunali ordinari, specie laddove la competenza in materia familiare delle sezioni non siano esclusiva. Né appare possibile - ha fatto notare ancora Maggia, che è presidente del tribunale per i minorenni di Brescia, dopo esserlo stato a Genova - collocare la sezione circondariale nella sede distrettuale in ragione della modestia degli spazi occupati al momento dai tribunali per i minorenni”. Le sezioni distrettuali, secondo l’impianto della riforma, saranno istituite nelle sedi degli attuali tribunali ma, come già evidenziato, cambieranno le funzioni. Quindi, nelle 29 sezioni distrettuali si continuerà a trattare, con la presenza di giudici onorari, i processi penali minorili, le procedure tese all’accertamento dello stato di abbandono, la ricerca delle origini delle persone adottate, la valutazione delle coppie per l’adozione. Mentre nelle 140 sezioni circondariali ci sarà un giudice monocratico non specializzato che dovrà valutare, senza il contributo dei giudici onorari, casi di grande complessità come quelli relativi alla sospensione della responsabilità genitoriale, gli allontanamenti dei minori dalla famiglia di origine per maltrattamenti, incuria o abusi, la materia degli affidi familiari, i provvedimenti cosiddetti indifferibili, da prendere cioè con urgenza nell’interesse del minore perché qualsiasi ritardo, per esempio la convocazione delle parti, potrebbe pregiudicarne la sicurezza. Non solo, toccherà sempre al giudice monocratico tutta la materia delicatissima dei minori stranieri non accompagnati. Facile immaginare, di fronte alla complessità di questa ripartizione, un problema di personale, ben più gravoso rispetto all’attuale. “In base alle norme approvate - ha spiegato ancora Cristina Maggia - il pochissimo personale di cancelleria oggi presente nei tribunali per i minorenni, alla istituzione del nuovo tribunale potrà scegliere se restare o farsi trasferire altrove, così potranno fare anche i giudici delle attuali sezioni famiglia, mentre i giudici minorili, ovunque pochi, resteranno al loro posto”. E cosa succederà ai magistrati attualmente impegnati nelle procure minorili? Resteranno al loro posto ma, oltre a tutti i compiti che già assolvono, si dovranno occupare di tutte le vicende relative a separazioni e divorzi. Una mole di lavoro insostenibile per gli attuali organici delle procure. Ma oltre al problema degli edifici e degli organici, che Maggia ha definito come “imponenti criticità di difficile se non impossibile soluzione da parte del ministero”, rimane forse il nodo più complesso, quella della volontà da parte dei magistrati di impegnarsi in una riforma da loro sempre osteggiata. Come è possibile pensare che per l’organizzazione ex novo di un modello operativo si spendano proprio coloro che non lo condividono e che non sono mai stati consultati prima dell’approvazione della legge? Quindi, cosa succederà? “Si prevede una fuga dei magistrati dalle sezioni circondariali devastate da una mole di lavoro emotivamente molto pesante - ha ipotizzato Cristina Maggia - senza il conforto del collegio e dei giudici onorari. Saranno interessati a queste sezioni solo colleghi molto giovani, con poca esperienza, animati da una finalità di avvicinamento ai luoghi di origine, e assisteremo ad un pesante turn over che non giova in materie così specializzate”. Insomma, alle gravi difficoltà che già pesano sull’attuale sistema, con tutti i ritardi e le carenze già segnalate, andranno ad aggiungersi quelle di una riforma tutt’altro che esemplare - almeno secondo l’opinione degli addetti ai lavori - che non ha saputo fare i conti con la realtà, con l’impossibilità di reperire nuove risorse economiche e la situazione sociale. Per esempio, le tante lacune presenti nel sistema dei servizi sociali, determinanti per la segnalazione e l’accompagnamento dei minori, come ha mostrato il caso Bibbiano, non verranno assolutamente affrontate. Tutto continuerà come adesso. Quindi? “Si prevedono anni di grande confusione - ha concluso la presidente dei magistrati minorili - che andranno a scapito soprattutto di quei minori che, già invisibili nell’infanzia, poi inizieranno da adolescenti ad agire la loro rabbia verso il mondo degli adulti che li ha resi oggetto di pensieri e percorsi non autenticamente loro dedicati, nonostante le tante e roboanti”. Da qui l’ultimo, drammatico appello alla politica. È urgente “un significativo rinvio dell’entrata in vigore di questa parte della riforma con l’acquisizione in un tempo congruo dei dati necessari e un pensiero anche organizzativo adeguato”. In caso contrario il destino sembra tracciato e parla di un imminente “tracollo della tutela dei minori in Italia”. La riforma Cartabia, per quanto riguarda la fine dei Tribunali per i minorenni e l’istituzione delle nuove sezioni distrettuali (29) e circondariali (140) del Tribunale unico delle persone, dei minorenni e della famiglia, dovrà entrare in vigore entro l’ottobre del prossimo anno. Nel frattempo sono già entrate in vigore parti importanti, come per esempio, il 2 giugno 2022, la modifica del contestato articolo 403 del Codice civile che permetteva di allontanare un minore dalla famiglia di origine, decisione che è ancora possibile ma solo se “i minori si trovano in condizioni di abbandono materiale o morale”; oppure se “si trovano esposti nell’ambiente familiare a grave pregiudizio o grave pericolo per la loro incolumità psicofisica”. Adesso si sono tempi più stringenti e una procedura in tre fasi: amministrativa, giudiziale e collegiale. Tutta la riforma poggia su due pilastri: le regole improntate al principio di razionalizzazione e miglior efficienza, e l’aspetto dell’ordinamento, con l’istituzione di un tribunale unico, al fine di garantire unitarietà di giurisdizione. Positivo l’obiettivo di unificare i riti quando vengono coinvolti i membri della famiglia (per esempio grave conflittualità tra genitori in fase di divorzio e abusi sui figli), ma molto critica - come evidenziato da più parti - la decisione di far ricadere tutto sulle spalle di un solo giudice. “Ora dati veri sulla corruzione”, sì dell’Onu alla proposta Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 14 dicembre 2023 Il guardasigilli: addio alle classifiche che registrano solo la percezione dei cittadini L’esperto della delegazione italiana Tartaglia Polcini: ci lavoravamo da anni. Misurare la corruzione. Senza effetti distorsivi, cioè paradossali, al punto che Paesi come l’Italia, impegnati e attrezzatissimi nel contrasto del malaffare, proprio per questo scivolano in fondo alle classifiche internazionali. Con conseguenze gravi sulla capacità di attrarre investimenti. Ecco, l’obiettivo di Carlo Nordio alla decima Conferenza anticorruzione dell’Onu (“Cosp 10”), in corso da martedì ad Atlanta, potrebbe essere sintetizzato come sopra. Ed è un traguardo che il governo di Roma vede finalmente a portata di mano, dopo anni di sforzi per uscire dalla logica fuorviante di Transparency, la più nota fra le agenzie che stilano ranking ispirati alla percezione dei cittadini. Due giorni fa il guardasigilli italiano ha registrato una convergenza ampia, tra gli Stati aderenti alla Convenzione delle Nazioni unite contro la corruzione, sul nuovo corso da intraprendere: basta indici “percettivi”, che si impennano proprio nei Paesi dove il contrasto è più intenso e suscitano così, tra i cittadini intervistati da Transparency, l’impressione di un contesto pubblico particolarmente “infetto”. D’ora in poi saranno promossi e incoraggiati gli indicatori “giurimetrici”, a cominciare dalla valorizzazione, in positivo, dell’intensità nell’azione penale. Il tutto in una prospettiva meno ambigua e più costruttiva: capire quali sono gli strumenti normativi, culturali e politici migliori per spazzar via le pratiche illecite dalle amministrazioni pubbliche e, in generale, da un sistema- Paese. Davvero l’obiettivo è vicino: martedì Nordio lo ha spiegato nel proprio intervento al “side event”, cioè il tavolo specificamente dedicato al tema “Misurare la corruzione per attivare risposte e valutarne l’impatto”. Un focus a cui hanno preso parte i rappresentanti di diversi Paesi e la direttrice esecutiva dell’Unodc (Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine), l’egiziana Ghada Waly. Il ministro della Giustizia italiano ha annunciato che già nelle prossime ore - la Conferenza di Atlanta si chiuderà domani - la task force dell’Unodc illustrerà il proprio “Statistical framework”, cioè la ricerca avviata per individuare strumenti nuovi nella misurazione delle attività illecite. “Una guida eccellente”, ha detto Nordio, “per raggiungere una maggiore attendibilità e utilità” nell’elaborazione dei dati in questo campo. E appunto, non si tratterà più di “stilare classifiche degli Stati o comparare i livelli di corruzione tra Paesi”, ma di “acquisire una conoscenza migliore e affidabile e una comprensione, basata sull’evidenza, dei fenomeni corruttivi e delle relative tendenze”. Si tratta di un approdo pazientemente costruito dal governo di Roma già a partire dagli anni scorsi, e in particolare dalla Conferenza anticorruzione tenuta dall’Onu a Abu Dhabi nel 2019 quando, ha ricordato sempre Nordio, “l’Italia presentò una risoluzione che mirava a promuovere lo sviluppo” di indicatori oggettivi. Si trattò di un “primo passo avanti”: l’Italia invitò l’Unodc a considerare piuttosto “la risposta della giustizia penale ai reati di tipo corruttivo”. Quella linea tracciata negli Emirati arriva a compimento nella Conferenza di Atlanta. Un successo “politico” dietro cui c’è anche l’instancabile lavoro di ricerca preparato da un magistrato e studioso del fenomeno come Giovanni Tartaglia Polcini, consigliere giuridico alla Farnesina che Nordio ha voluto con sé nella delegazione italiana all’evento Onu di questi giorni. “Intanto va rilevato con soddisfazione il sempre più esplicito apprezzamento riscosso, a livello globale, da istituti giuridici di matrice italiana”, spiega, interpellato dal Dubbio, Tartaglia Polcini. “È il caso degli strumenti per contrastare il saccheggio di beni culturali (questione a cui è stato riservato, nell’ambito della Conferenza di Atlanta, un altro evento specifico che ha visto la partecipazione di Nordio, ndr), del contrasto patrimoniale al crimine organizzato, attuato per esempio con le confische, o degli incroci fra organizzazioni mafiose e pratiche corruttive”. È in questo quadro che ora si fa strada anche la critica “ontologica” avanzata dall’Italia rispetto ai metodi fin qui adottati, nel misurare la corruzione, da agenzie come Transparency. Calcoli basati, appunto, “sulla mera percezione diffusa tra i cittadini, con conseguenze però concrete, e gravi, sull’immagine di alcuni Paesi”. E dell’Italia in particolare: è il “Paradosso di Trocadero”, concetto sul quale Tartaglia Polcini insiste, nelle proprie riflessioni, da anni, e che, come ricordato più volte su queste pagine, ha trovato ascolto innanzitutto presso l’Eurispes, l’istituto di ricerca del quale Tartaglia Polcini è tuttora consulente. Il consigliere della Farnesina e il presidente di Eurispes Gian Maria Fara si sono trovati a lungo in un’assoluta e coraggiosa solitudine ad additare quella che il magistrato e studioso definisce “la verità rovesciata per cui se un sistema, come la giustizia italiana, contrasta con maggiore vigore il malaffare, si produce inevitabilmente un più netto riflesso percettivo nella società. E se poi le classifiche sulla corruzione si basano solo su questo aspetto percettivo, cioè sulle semplici interviste, è chiaro che l’Italia appare più infestata di corrotti di quanto non si dica per Stati in cui la magistratura è assoggetta al potere esecutivo e non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale”. Nella catena di paradossi trova posto anche la sfiducia nei confronti delle istituzioni, che la maggiore intensità delle iniziative giudiziarie diffonde tra i cittadini, fino a renderli sempre più convinti di vivere nel regno dell’illegale. Un circolo vizioso sul quale gli Stati aderenti alla Convenzione Onu contro la corruzione si sono confrontati, sempre martedì, anche in un tavolo tecnico che lo stesso Tartaglia Polcini ha coordinato. “Vedremo se nelle prossime ore le risultanze del framework dell’Unodc porteranno ad approvare anche una nuova risoluzione, che consolidi il cambio di passo nelle misurazioni della corruzione. Di sicuro”, nota con soddisfazione Tartaglia Polcini, “il ministro Nordio e il governo italiano sono riusciti ad aprire una strada che difficilmente potrà essere abbandonata”. Mille giorni di promesse di Luigi Manconi La Repubblica, 14 dicembre 2023 Il nostro connazionale Chico Forti detenuto in Florida dovrebbe poter finire di scontare la sua pena qui. Tra qualche giorno saranno trascorsi giusto tre anni da quando un ministro della Repubblica (Luigi Di Maio) annunciava che un nostro connazionale detenuto in Florida (Chico Forti) sarebbe ritornato presto in Italia. Da allora, da quel 22 dicembre del 2020, sono passati appunto 1086 giorni e Forti è tuttora recluso in una cella del Dade Correctional Institution di Florida City. La sua storia è nota: Enrico “Chico” Forti è nato nel 1959 a Trento. Tra le tante attività della sua vita si trovano i successi sportivi nel windsurf e il lavoro come videomaker e produttore televisivo. Grazie alla partecipazione a un programma di Canale 5 condotto da Mike Bongiorno vince una somma di denaro sufficiente a garantirgli una nuova esistenza negli Stati Uniti. Lì si sposa e mette al mondo tre figli. Nel 1998 tutto precipita e Forti viene arrestato e accusato dell’omicidio dell’australiano Dale Pike. Le indagini e il processo presentano significative irregolarità e violazioni delle garanzie dell’imputato e si concludono con la condanna definitiva all’ergastolo. Oggi importanti settori dell’opinione pubblica e dei media sollevano dubbi sulla reale colpevolezza di Forti. Ma l’ipotesi di un suo “ritorno in Italia”, presentato come una certezza dall’allora ministro Di Maio, si affida ad altro. Ovvero a quanto previsto dalla convenzione di Strasburgo del 1983, che consente a una persona condannata in uno Stato diverso da quello di appartenenza di scontare la pena nel proprio Paese. La cosa solleva qualche perplessità negli Stati Uniti, dal momento che la pena alla quale è stato condannato Forti è una forma di ergastolo senza benefici, mentre in Italia - tranne che nei casi di ergastolo ostativo - il detenuto potrebbe accedere alla liberazione anticipata, oltre che a permessi premio. Tuttavia le iniziative assunte dai governi italiani e, in particolare, dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia avevano rivelato un atteggiamento non completamente ostile da parte del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Le resistenze maggiori sembravano provenire piuttosto dal governatore della Florida Ron DeSantis, interessato alla competizione per le primarie presidenziali tra i Repubblicani e preoccupato che un gesto di clemenza nei confronti di Forti potesse alienargli le simpatie degli elettori conservatori. Questo ultimo elemento oggi dovrebbe pesare assai meno in quanto DeSantis non sembra poter concorrere con qualche chance alle primarie repubblicane, ma la situazione resta totalmente bloccata. E indecifrabile. Non si hanno risposte certe dagli Stati Uniti e anche un’azione di lobbying realizzata in quel paese da A Buon Diritto onlus non è stata in grado di ottenere informazioni certe e tantomeno garanzie su un esito positivo della vicenda. E il silenzio sembra ancora più vischioso in Italia. Un anno fa la premier Giorgia Meloni telefonò a Gianni Forti, zio di Chico, per assicurare il suo interessamento, ma dopo dodici mesi tutto continua a tacere. E i tentativi fatti in parlamento e fuori per avere qualche informazione su un eventuale “dossier Forti” sono rimasti senza risposta. Si avvicina il ventitreesimo Natale in carcere per questo nostro connazionale: non si chiede per lui alcun privilegio, bensì il semplice ricorso a un diritto previsto da una convenzione sottoscritta dagli Stati Uniti e dall’Italia. E la possibilità per Forti di scontare la pena nel paese di cui è cittadino. Ci sono, come si è detto, complicazioni di natura giuridica derivanti da un diverso regime detentivo previsto nell’uno e nell’altro paese, ma in passato questa difficoltà è stata superata. Si tratta di affrontarla ora con pazienza e tenacia, ma tenendo conto che il tempo di un uomo, detenuto da quasi un quarto di secolo, ha un senso, una scansione e un ritmo totalmente differenti - e infinitamente più gravosi - da quelli di chi si trovi in libertà. Siamo di fronte all’ennesimo caso esemplare: battersi affinché Forti possa espiare la sua pena in Italia ha un valore che nasce innanzitutto dalla sua individuale esperienza umana e da una lunga detenzione già scontata. Ma ha anche un significato più ampio: l’idea, cioè, che la certezza della pena non comporti necessariamente la sua rigidità e fissità e che, allo stesso tempo, possa prevedere un atto di clemenza, ovvero la possibilità di “adattarsi” ai processi di cambiamento e trasformazione della persona. Ricordate la “rieducazione del condannato”? Sardegna. “Liberi”, al via il programma di inserimento per gli ex detenuti ansa.it, 14 dicembre 2023 Lavoro, Inserimento, Bilancio di competenze, Esperienza, Riscatto sociale, Inclusione. È il progetto dell’Assessorato regionale del Lavoro e dell’Aspal realizzato in collaborazione con i Servizi sociali della Giustizia per aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società attraverso l’offerta di percorsi integrati multi-professionali di inserimento sociale e lavorativo. L’avviso, giunto alla seconda edizione, è pubblicato sul portale Sardegna Lavoro. Nei prossimi due anni in quattro diverse scadenze le imprese sociali, le cooperative sociali, i loro consorzi e le associazioni di promozione sociale, potranno presentare nuovi progetti per un importo massimo di 161 mila euro a progetto. I progetti integrati, destinati a persone maggiorenni sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria - o che abbiano terminato la misura restrittiva da non più di 12 mesi - con l’obiettivo di aumentare l’inclusione attiva e ridurre quindi il rischio di povertà ed esclusione sociale, hanno riguardato nella scorsa edizione circa 60 persone. L’avviso Liberi è finanziato con le risorse del POR Sardegna FSE+ 2021-2027 al servizio della dignità “per il sostegno a titolo del Fondo sociale europeo Plus nell’ambito dell’obiettivo” Investimenti a favore dell’occupazione e della crescita - Priorità 3 “Inclusione e lotta alla povertà” - Obiettivo specifico ESO4.8. “Incentivare l’inclusione attiva, per promuovere le pari opportunità, la non discriminazione e la partecipazione attiva, e migliorare l’occupabilità, in particolare dei gruppi svantaggiati”. Verona. “Il suicidio di Oussama Sadek si poteva evitare” di Enrico Giardini L’Arena di Verona, 14 dicembre 2023 Una cinquantina di detenuti della sezione quinta corpo tre della Casa circondariale veronese hanno scritto al Tribunale di sorveglianza chiedendo “un intervento incisivo per fare la massima chiarezza”. Tre suicidi in meno di un mese sono la prova di un eccessivo disagio all’interno del carcere di Montorio. Un disagio che il Comune di Verona intende indagare con un tavolo di approfondimento convocato per il mese prossimo. Ma anche il Ministero della Giustizia è stato sollecitato, con un’interrogazione da parte del deputato veronese Flavio Tosi in cui è contenuta la richiesta di azioni concrete per evitare che simili tragedie possano ripetersi. Tragedie come quella di Mortaza Farhady, Giovanni Polin o di Oussama Sadek, i tre uomini che si sono tolti la vita nel carcere di Verona il 10 novembre, il 20 novembre e l’8 dicembre scorsi. Tragedie che hanno avuto lo stesso esito, ma che sono uniche. E in certi casi anche sospette. Come quella di Oussama Sadek, che ha spinto una cinquantina di detenuti della casa circondariale di Montorio a scrivere al tribunale di sorveglianza di Verona. “Riteniamo doveroso e rispettoso della memoria del deceduto che venga fatta piena chiarezza sull’accaduto, trattandosi di una persona rispettosa, che era amata e benvoluta da tutte le persone della nostra sezione in modo unanime”, hanno scritto i detenuti della sezione quinta corpo tre del carcere veronese. Oussama Sadek si è suicidato intorno alle 16 dell’8 dicembre scorso mentre si trovava in isolamento. “Lamentava un grave disagio psicologico, fortemente aumentato da alcune settimane, e lo aveva posto all’attenzione del corpo penitenziario di turno, che a sua volta lo aveva segnalato ai responsabili sanitari della casa circondariale, i quali evidentemente non sono intervenuti nei tempi e nei modi necessari - hanno scritto i compagni di sezione del 30enne - Vi erano già stati precedenti tentativi di suicidio, ma era sempre stato salvato in tempo da noi detenuti della sezione e dalle guardie. In quest’ultima infausta occasione, invece, era solo ed era stato “gettato” in una disperazione ancora maggiore tramite la reclusione nella sezione di isolamento, su ordine proprio del responsabile sanitario psichiatrico al quale per altro era stata sconsigliata tale ipotesi in quanto era preferibile che rimanesse nella sua abituale cella dove poteva essere guardato a vista dai detenuti”. Da quanto appreso dai detenuti che hanno scritto al tribunale di sorveglianza, Oussama Sadek sarebbe stato posto in isolamento per via di una certa aggressività che l’uomo avrebbe mostrato. “Ma a noi questo risulta alquanto improbabile”, hanno scritto i firmatari della lettera, spiegando che Sadek “non ha mai tenuto comportamenti violenti con noi ed anzi si è sempre comportato in modo corretto e rispettoso, ed immaginiamo che questo sia facilmente verificabile in quanto senz’altro non ha mai avuto rapporti negativi. Noi stessi detenuti senza titoli medici specialistici ci rendevamo palesemente conto del forte disagio emotivo del nostro defunto compagno che andava solo trattato e compreso diversamente”. Per questo i compagni di sezione del 30enne morto venerdì scorso hanno chiesto “un intervento incisivo da parte dell’autorità giudiziaria per fare la massima chiarezza, evitando di “bollare” questo ennesimo suicidio solo come un momento di debolezza e sconforto imprevedibile. Quanto accaduto era prevedibilissimo e si poteva evitare”. E per comprendere come evitare nuovi suicidi a Montorio, il Comune di Verona ha convocato per gennaio 2024 un tavolo di lavoro in cui si cercherà di capire bisogni e urgenze della casa circondariale così da trovare soluzioni idonee. Al tavolo sono stati invitati il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, la direttrice della casa circondariale di Montorio Francesca Gioieni e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale don Carlo Vinco. Per il Comune ci saranno gli assessori alle politiche sociali Luisa Ceni, alla sicurezza Stefania Zivelonghi e al terzo settore Italo Sandrini. Verona. “Resti alta l’attenzione sui detenuti”: il Comune coordina un tavolo di lavoro di Enrico Giardini L’Arena di Verona, 14 dicembre 2023 E Tosi, di Forza Italia, interroga il ministro della Giustizia Nordio: “Quali azioni previste per evitare altre tragedie?”. È convocato per gennaio il tavolo di lavoro voluto dall’Amministrazione comunale con focus sul carcere. Alla luce dei recenti casi di detenuti suicidi, si cercherà di capire bisogni e urgenze della casa circondariale al fine di trovare soluzioni idonee. Una realtà “su cui l’Amministrazione ha posto da sempre particolare attenzione”, dice una nota. “I detenuti sono persone per le quali deve rimanere sempre alta l’attenzione perché non si perdano occasioni di recupero dal punto di vista umano e sociale”. Al tavolo ci saranno il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, la direttrice della casa circondariale Francesca Gioieni, e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale don Carlo Vinco. Per il Comune gli assessori alle Politiche sociali Luisa Ceni, alla Sicurezza Stefania Zivelonghi e al Terzo settore Italo Sandrini. L’interrogazione - Intanto Flavio Tosi, deputato di Forza Italia, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio a seguito dei tre suicidi in un mese di detenuti alla casa circondariale di Montorio: il 10 novembre Mortaza Farhady, il 20 novembre Giovanni Polin e l’8 dicembre Oussama Sadek. Ricordando in una nota che “la Costituzione prevede che le carceri, oltre alla giusta funzione repressiva, hanno anche lo scopo di recuperare alla comunità i reclusi”, e sottolineando “il gravoso ed encomiabile impegno profuso dalla Polizia Penitenziaria”, Tosi chiede al ministro “quali azioni intende intraprendere per cercare di evitare il ripetersi di ulteriori simili tragedie. Ministero e dirigenti degli istituti penitenziari”, spiega, “già oggi si adoperano per migliorare la condizione di vita dei detenuti e ciò ha effetti positivi sul clima di convivenza in carcere. Forse però occorre uno sforzo ulteriore in questa direzione”. Verona. Pietro Maso a disposizione dei detenuti: “Troppi suicidi, voglio aiutare” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 14 dicembre 2023 Assassinò i genitori, ha scontato la pena per intero. Ora inizia a collaborare con un’associazione attiva nel penitenziario scaligero. Una lettera sincera, senza filtri, in cui chiede di mettersi a disposizione dell’associazione Sbarre di Zucchero, da un anno e mezzo in prima linea a tutela di reclusi ed ex reclusi, nata proprio per arginare l’escalation di suicidi dopo il tragico gesto nel carcere veronese di Montorio di Donatella Hodo, appena 27enne, nell’agosto del 2022: “Sono Pietro Maso, sicuramente sapete chi sono...”. A 19 anni, “macchiandomi del più terribile dei crimini, sono entrato nella tomba insieme a mamma e a papà”: così, si raccontava Maso nel libro di Raffaella Regoli “Il male sono io”. Il 17 aprile del 1991, a Montecchia di Crosara nel Veronese, lui a volto scoperto con tre amici vestiti da carnevale, aspettò i genitori Antonio e Rosa per colpirli con un tubo di ferro, fino a massacrarli: “Hanno scritto di me, di noi, che abbiamo ucciso per fare la bella vita. Noi volevamo entrare nella vita. E invece, macchiandomi del più terribile dei crimini, a 19 anni sono entrato nella tomba insieme a mamma e a papà”. Per lui 22 anni di reclusione e 5 in semilibertà - Questo, usando le sue parole, era il Pietro di 32 anni e mezzo fa: vestito alla moda, aria spregiudicata, sguardo spavaldo, Maso da allora ha pagato il barbaro accanimento e l’inaudita ferocia costati la vita ai genitori con 22 anni di reclusione e altri 5 in semilibertà: “Oggi mi sento forte davvero per la prima volta, perché sono me stesso - si descrisse poi il veronese di Montecchia di Crosara nel 2017, in un’intervista a cuore aperto con il compianto Maurizio Costanzo -. Sono pentito di quello che ho fatto e sono qui per ricostruire la mia vita, questa è la mia rinascita. Penso che i miei genitori mi accompagneranno a essere veramente la persona di oggi”. Consigliere di una onlus - E allora eccolo, il Pietro Maso del 2023: un uomo “del tutto nuovo” che, giunto all’età di 52 anni, avendo pagato tutto ciò che doveva alla Giustizia, rimane “colpito dalle notizie sui recenti suicidi in carcere” e decide di farsi avanti mettendosi a disposizione e, soprattutto, mettendoci la faccia. “Impegno, tempo, dedizione, esperienza”: questo, il materiale umano e personale con cui il Pietro di oggi, quello che dopo l’uscita dal carcere nel 2013 si è trovato “muri altissimi e porte chiuse in faccia” tanto da ricadere nel tunnel e negli sbagli del passato per almeno due volte, abita nel comune scaligero di Pescantina dove ricopre il ruolo di consigliere nella onlus La Pietra Scartata. Insieme alla presidente Gavina, all’avvocato Alessio, al tesoriere Tiziano, con la loro onlus aiutano i detenuti in semilibertà a reinserirsi nel tessuto lavorativo e sociale. Cercano di mettere a disposizione un “cuscinetto” per chi esce dalla cella e vuole reintegrarsi: un aiuto concreto su cui invece, all’epoca, non poté contare Maso, che ha comunque “voluto restare se stesso, senza cambiare cognome, senza fuggire dall’Italia, senza farsi una plastica facciale”. “Vorrei farvi conoscere il Pietro di oggi” - Lo racconta lui stesso a Sbarre di Zucchero: “Conoscete la mia storia dato che ho occupato le prime pagine dei quotidiani. Ho saputo della vostra esistenza per caso, leggendo una notizia apparsa sul mio telefono poco tempo fa, dopo l’ennesimo suicidio nel carcere di Verona - si mette in “gioco” Maso - Avrei piacere di conoscervi di persona, dato che siete tra le poche persone che vedono nel detenuto un essere umano, e vorrei farvi conoscere il Pietro di oggi, risultato di un lungo cammino di penitenza e conversione che mi ha insegnato a trasformare il male fatto in passato in bene a favore di quelli, che come me, hanno calpestato la loro dignità e quella delle loro famiglie. Avendo scontato 22 anni di carcere e 5 anni in semilibertà, mi ritengo abbastanza competente sulle dinamiche, gli abusi, i soprusi, le umiliazioni che un detenuto deve affrontare, nonostante l’articolo 27 comma 3 della Costituzione Italiana citi testualmente: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Personalmente - si apre Maso - avrei qualcosa da dire, che potrebbe essere utile a voi e alle persone che state aiutando, ma c’è molta strada da fare per i direttori, i garanti dei detenuti, gli educatori e le guardie”. Il 21 dicembre, intervistato da Carmelo Sardo del Tg5, il “nuovo” Maso debutterà in diretta streaming sui canali social di Sbarre di Zucchero. “Un uomo rinato”. Trento. Morte della detenuta a Spini, l’inchiesta deve chiarire se è stato suicidio di Leonardo Pontalti L’Adige, 14 dicembre 2023 Il dramma della 37enne bolzanina: la Procura sta indagando per fare piena luce sull’accaduto. Interrogazione dei consiglieri Pd anche sulle tempistiche dei soccorsi. Si riaccende intanto l’attenzione sulle situazioni di disagio in cella: nel 2023 quattro i tentativi di gesto estremo. La Procura della Repubblica sta indagando sulla morte della trentasettenne bolzanina deceduta dopo aver tentato di impiccarsi in carcere a Spini, ma in attesa degli eventuali sviluppi giudiziari il caso - la donna era spirata al Santa Chiara lo scorso 5 dicembre, dopo essere stata ritrovata tre giorni prima nei locali docce della sezione femminile del carcere di Spini, con dei lacci di scarpe attorno al collo - riaccende l’attenzione sul disagio nella struttura detentiva del capoluogo. A parlare sono i numeri: solo nel 2023, prima del dramma della trentasettenne, a Spini sono stati contati 57 episodi di autolesionismo e 4 tentativi di suicidio. Nel 2022 i casi di autolesionismo erano stati 75, e nel 2021 90 con sette tentativi di suicidio solo fra aprile e ottobre. Nel 2018 era stato proprio un caso di suicidio per impiccagione a risultare tra le cause scatenanti dei disordini in carcere e - risalendo ancora nel tempo, tra il 2013 e il 2017 i suicidi erano stati 5. La questione rappresenta dunque una costante. E non può essere affrontata soltanto considerando le comprensibili difficoltà che umanamente si trova ad affrontare chi è in carcere. Anzi, questo dev’essere un elemento tenuto in considerazione proprio per prevenire eventuali gesti: “Resta purtroppo sempre una variante di imperscrutabilità che non è in molti casi gestibile, ma occorre continuare a fare di più affinché fatti come questo non accadano”, ha spiegato la garante per i detenuti Antonia Menghini. Sul caso della trentasettenne i consiglieri provinciali del Pd Mariachiara Franzoia e Andrea de Bertolini hanno presentato un’interrogazione, spiegando come “la donna, per quanto acquisito da fonti attendibili”, versasse “da molto tempo in uno stato di profonda prostrazione psichica che ne aveva condizionato finanche il suo comportamento intramurario. Più volte aveva espresso di poter esser trasferita presso altra struttura penitenziaria in ragione di una incompatibilità ambientale maturatasi progressivamente nei confronti di altre detenute. Non è dato conoscere come la detenuta sia entrata in possesso dei lacci di scarpe che le hanno permesso di porre in essere il proposito suicidario. Posto che, di tale dotazione, detenuti e detenute non hanno disponibilità proprio per ragioni di sicurezza (anche correlata all’evitamento di eventi simili). A fronte di ciò, chiediamo all’assessore alla salute, politiche sociali e cooperazione, dal punto di vista generale, se ed in che termini, in quale modo sia stata data esecuzione al Piano prevenzione suicidi all’interno della Casa Circondariale di Trento. E sul caso specifico chiediamo che l’assessore possa riferire circa modalità e orari del soccorso prestato presso la Casa Circondariale e modalità ed orari del successivo trasporto d’urgenza con accesso all’ospedale di Trento”. L’ipotesi del suicidio era stata ritenuta l’unica credibile fino all’altro ieri, quando i familiari della donna hanno attivato l’autorità giudiziaria dopo essersi rivolti all’avvocato altoatesino Nicola Nettis affinché venga fatta piena luce sull’accaduto. Da parte loro ritengono inspiegabile l’ipotesi dell’atto volontario: la trentasettenne, che stava scontando una pena per reati contro il patrimonio, dopo un paio d’anni in cella avrebbe a breve potuto chiedere l’accesso a una misura alternativa, che con ogni probabilità le sarebbe stata concessa. Il pubblico ministero Antonella Nazzaro ha dunque aperto un fascicolo sulla base del modello 45, ovvero il registro degli atti non costituenti notizia di reato. Un primo passo obbligato per poter effettuare tutti gli accertamenti necessari per comprendere se, invece, i fatti possano essere riconducibili ad una notizia di reato. Bari. “Avevo paura di morire, si temeva un’evasione di massa” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 14 dicembre 2023 Al processo per torture nel carcere gente ammette il pestaggio e chiede scusa. Si è chiusa oggi la fase istruttoria del processo per i fatti del 27 aprile 2022 di cui fu vittima un detenuto con problemi psichiatrici. Dal 20 dicembre via alla fase requisitoria. “Avevo paura di morire, in carcere non si capiva niente in quei momenti, temevamo che i detenuti potessero approfittare dell’incendio per tentare un’evasione di massa”: giustifica così l’assistente della polizia penitenziaria Raffaele Finestrone il gesto compiuto la notte del 27 aprile 2022 nei confronti di un detenuto 43enne con problemi psichiatrici. Un calcio mentre era trattenuto a terra da altri agenti, prima di essere trascinato verso l’infermeria. Finestrone è uno degli imputati del processo per il presunto pestaggio e davanti ai giudici ha chiesto scusa: “Ho avuto una reazione maldestra, lo so, non c’è stato un motivo, non volevo fargli male ma avevo paura, rabbia frustrazione per quello che stava succedendo”. I fatti li ha ripercorsi proprio il poliziotto, sollecitato dalle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa: dalle richieste del detenuto 43enne di essere ospedalizzato, all’incendio appiccato nella sua cella, le azioni per portarlo fuori e poi la necessità di fare uscire tutti gli altri detenuti dalla sezione piena di fumo e fuliggine. “Avevamo paura di non riuscire a spegnere il fuoco - ha detto Finestrone - che i detenuti ci prendessero in ostaggio, loro erano 150 e noi otto. Bisogna vivere queste situazioni sulla propria pelle per capire cosa significano”. E di “paura” ha parlato anche l’infermiere Massimo Fortunato, imputato insieme a due colleghe per avere assistito al pestaggio senza denunciarlo: “Non ci ho capito nulla, volevo solo che arrivasse la fine del turno per tornare a casa”. L’operatore sanitario ha fatto presente che il lavoro in carcere gli ha sempre creato molta ansia e che aveva fatto ripetute domande di trasferimento, perché non riusciva a reggere la pesantezza della situazione nell’istituto. Al termine dell’udienza il presidente del collegio, Antonio Diella, ha dichiarato chiusa la fase istruttoria del processo. Il prossimo 20 dicembre inizieranno le requisitorie dei pm, il procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e la sostituta Carla Spagnuolo. Alghero. Carmelo Piras nominato Garante comunale dei detenuti algherolive.it, 14 dicembre 2023 Finalmente anche l’istituto penitenziario Algherese ha un proprio “Garante dei detenuti” nella seduta consiliare di ieri senza distinzione di maggioranza e minoranza l’aula ha votato e nominato Carmelo Piras Garante dei detenuti della struttura algherese che fino a ieri era l’unica struttura sarda a non avere un Garante. Da oggi gli ospiti nella struttura algherese avranno una tutela maggiore che li potrà aiutare nel periodo di permanenza nel carcere per espiare la pena detentiva e per avere un aiuto e un supporto in un periodo certamente non facile e complicato della loro esistenza, un supporto che li aiuti e li prepari quando a fine pena ritorneranno nel mondo “esterno”, ecco perché dell’importanza della figura nominata e del ruolo che può e deve svolgere. Facciamo gli auguri di buon lavoro al nostro concittadino certi che dara’ un grosso contributo al riscatto sociale ed umano di chi in questo momento si trova all’interno del penitenziario. Chiude così la nota del Gruppo consiliare PD, Mimmo Pirisi. Cosenza. L’insegnante di informatica che aiuta i detenuti a inserirsi nel mondo del lavoro Corriere della Calabria, 14 dicembre 2023 La storia di Lorenzo Lento, presa a modello tra i dieci “Generatori di cambiamento” nel 2023. In un quarto di secolo ha formato - e in un certo senso salvato - oltre 1.000 detenuti. “Studenti” preferisce semplicemente definirli Lorenzo Lento. Origini in provincia di Cosenza, 64 anni, da giovane lascia la Calabria e studia nelle scuole serali per poi appassionarsi di informatica e aprire la prima Academy nel carcere di Bollate, nel 2000. In questi quasi 25 anni ha da un lato favorito l’inserimento nel mondo del lavoro di decine di detenuti, dall’altro fatto precipitare la percentuale di recidiva: “Più di mille studenti sono passati dalle mie classi e nessuno ha fatto ritorno in carcere - ha raccontato Lento a IT ItalianTech, l’hub del gruppo Gedi dedicato al mondo dell’innovazione, che ha inserito la sua storia tra le 10 dei “Generatori di cambiamento” non solo italiani -. Li accompagniamo, non li lasciamo soli al loro destino”. Dopo l’istituto penitenziario lombardo, una volta passato in forze alla Cisco Academy Lento ha istituito corsi di formazione in tutta Italia: dal carcere di Castrovillari a quello di Cagliari, e ancora Secondigliano, Monza e Torino. Il 2023 è stato l’anno di Rebibbia. “La professionalità prescinde dai reati commessi” ama ripetere, e le competenze in informatica e cybersicurezza hanno aperto le porte a decine di suoi studenti. Lento racconta anche di quando nella cooperativa sociale di tipo B fondata nel 2012 assunse un ex terrorista di estrema sinistra e un ex picchiatore di estrema destra, caso esemplare di riscatto che - al netto delle condanne - non ha impedito carriere lavorative fino Oltreoceano. E’ come se grazie al lavoro passassero dall’altro lato della barricata, dalla illegalità alla legalità, se si pensa a profili come quello di un altro ex detenuto che dopo la formazione con Lorenzo ha trovato un lavoro nella videosorveglianza. Negli anni grazie alla sua attività ha formato anche detenuti divenuti a loro volta formatori, così come agenti e poliziotti, impiegati nei video-colloqui con cui si sono messi in rete 55 istituti penitenziari in tutta Italia. Non solo: uno degli ultimi progetti di Lento per Cisco ha coinvolto le carceri di Turchia, Grecia, Spagna, Belgio e Germania, il tema era la stampa in 3D. Taranto. Il panettone è prodotto dai detenuti: “Non solo un dolce di Natale ma una speranza per il domani” di Mariateresa Totaro La Repubblica, 14 dicembre 2023 Allestito un laboratorio di produzione artigiane dolce e salata: “I detenuti hanno imparato l’arte della pasticceria e della panetteria, una grande opportunità una volta fuori da qui”. Si chiama “Fieri Potest”, che significa “si può fare”, ed è il primo panettone artigianale prodotto in carcere. Il progetto è nato nella casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, dove è stato inaugurato un laboratorio professionale di produzione artigiane dolce e salata. Il progetto, realizzato dalla cooperativa sociale Noi e Voi che gestisce il laboratorio, ha coinvolto tre detenuti. “Due di loro - racconta Donato Gigante, uno dei volontari - hanno frequentato l’istituto alberghiero proprio durante la detenzione e quindi si è trattato della prosecuzione di un percorso. Il terzo lavorava in una panetteria e ha approfondito ulteriormente le sue conoscenze in materia. Ma nel 2024 abbiamo l’obiettivo di inserire altre persone”. I tre detenuti, in nove mesi, hanno imparato l’arte della pasticceria e della panetteria e quest’anno, per la prima volta, hanno realizzato il principe dei lievitati: il panettone. Ogni giorno producono biscotti, dolci, friselle, focacce, crackers, croissant e a breve anche taralli e grissini. “I prodotti - spiega Donato Gigante - vengono venduti all’interno dell’istituto in base al fabbisogno, ma presto saranno commercializzati anche all’esterno. Questa iniziativa rappresenta una grande opportunità per queste persone che, una volta fuori di qui, avranno tra le mani un mestiere. È la loro seconda occasione, un mezzo reale e concreto per cambiare vita”. Il laboratorio di pasticceria è stato allestito con macchinari professionali, acquistati con i fondi del Piano di Rigenerazione Sociale per l’Area di Crisi del Comune di Taranto, risultato di un lungo percorso che ha coinvolto i Commissari Straordinari dell’ex stabilimento Ilva e i comuni limitrofi di Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte. I fondi sono serviti a fornire al laboratorio attrezzature essenziali come forni, frigoriferi, impastatrici. La gestione invece è stata affidata alla cooperativa. “Come cooperativa eravamo già presenti dal 2019 con un laboratorio all’interno della casa circondariale. La direzione ci ha chiesto di occuparci della sua gestione e così, in 9 mesi abbiamo assunto 3 detenuti e un maestro pasticcere che giornalmente va in istituto per formare i ragazzi e organizzare il lavoro”. Inizialmente il laboratorio era stato pensato per realizzare solo grandi lievitati quali panettone e colombe, poi però si è deciso di ampliare la produzione. “Anche in passato abbiamo realizzato molti progetti, lavorando ad esempio aziende per aziende che fanno catering per eventi o per progetti realizzati con la fondazione Barilla”. La Cooperativa Noi e Voi è nata nel 2015 dall’omonima associazione di volontariato penitenziario che esiste da circa trent’anni. Si occupa di inserimento lavorativo di persone che fanno parte delle cosiddette categorie svantaggiate, come appunto i detenuti. Oltre al laboratorio allestito nell’istituto penitenziario “Carmelo Magli”, la cooperativa gestisce anche il ristorante Articolo 21 sempre a Taranto e tante altre attività all’interno e all’esterno del carcere, a cui possono accedere persone che scontano la pena con misure alternative. “I risultati sono molto interessanti e ci fanno ben sperare per il futuro. Il panettone artigianale, che è buonissimo, sta andando a ruba e molte realtà della grande distribuzione si stanno avvicinando a noi per poter vendere questo prodotto, segno che stiamo andando nella giusta direzione. L’anno prossimo coinvolgeremo sicuramente altri detenuti ma soprattutto stiamo lavorando alla realizzazione di un altro laboratorio per aumentare la produzione destinata all’esterno del carcere”. Ferrara. Il carcere sbarca a teatro di Francesco Franchella Il Resto del Carlino, 14 dicembre 2023 Oggi al Ridotto del Comunale “Chi sbaglia impara”, incontro rivolto alle scuole. Oggi, martedì 19 e mercoledì 20 dicembre il Festival Trasparenze di Teatro Carcere approda a Ferrara. A raccogliere il testimone, Teatro Nucleo, che propone diversi ed interessanti eventi. Si comincia oggi alle 9.30 al Ridotto del Comunale di Ferrara, con ‘Chi sbaglia impara. Il teatro come elemento connettivo tra Scuola e Carcere’, convegno a cura del Teatro Nucleo, rivolta agli Istituti Superiori. Il convegno intende essere un momento in cui stimolare una riflessione attorno all’importante funzione che il teatro e l’arte in genere svolgono nel complesso processo di costruire ponti tra il carcere e la società civile, individuando nella relazione tra scuola e carcere un paradigma significativo di tale processo. Sempre oggi, nella Casa Circondariale Satta di Ferrara, si terrà lo spettacolo ‘Piccola Orchestra Pasolini’ del Teatro Nucleo. Lo spettacolo, di ritorno dalla tournée in Italia e all’estero, verrà presentato nel pomeriggio per la sola popolazione detenuta. Martedì 19 e in replica mercoledì 20, alle 20, sempre alla Casa Circondariale Satta (via Arginone, 327), va in scena ‘Fegato’. Lo spettacolo di Teatro Nucleo, che vede protagonisti gli attori detenuti della Casa Circondariale della città estense, nasce analizzando la figura del titano Prometeo attraverso l’operetta morale che Leopardi iniziò a scrivere nel 1824, ‘La scommessa di Prometeo’. Al Teatro Nucleo venerdì 22 dicembre è affidata la chiusura della terza edizione di Trasparenze di Teatro Carcere, che alle 20, al Teatro Julio Cortazar di Pontelagoscuro presenta Agnus Dei, spettacolo con gli attori detenuti della Casa Circondariale di Ferrara (drammaturgia e regia di Marco Luciano, in collaborazione con Horacio Czertok), liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci. La terza edizione del Festival Trasparenze di Teatro Carcere è un percorso iniziato il 13 novembre e che prosegue fino al 23 dicembre di quest’anno, con gli spettacoli del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, formato delle compagnie che operano con progetti teatrali nelle carceri della regione Emilia-Romagna. Torino. Opera Barolo, un anno per spiegare il carcere di Mauro Gentile vocetempo.it, 14 dicembre 2023 L’Arcivescovo Repole nel 160° anniversario dalla morte della marchesa Giulia di Barolo ha annunciato un ciclo di sei incontri, dal 19 gennaio al 13 dicembre 2024, dedicati alle tematiche del carcere. “Un luogo bello e simbolico, in cui si vive quotidianamente l’esperienza della fragilità umana”. Così, martedì 12 dicembre, in occasione del tradizionale scambio di auguri natalizi dell’Opera Barolo, l’Arcivescovo Roberto Repole ha parlato del Distretto Sociale Barolo, l’odierna cittadella della solidarietà in Borgo Dora, tra via Cigna e via Cottolengo, di cui quest’anno si sono celebrati i 200 anni dalla costituzione del suo primo nucleo, il Rifugio. Una “casa di accoglienza” nata per volontà della marchesa Giulia nel 1823 allo scopo di ospitare le donne che, una volta scontata la pena, lasciavano il carcere per tornare libere in una società, quella della Torino ottocentesca (ma che ha molte similitudini con la Torino di oggi) dove da ex detenute e senza alcun aiuto, reinserirsi per vivere una vita onesta e dignitosa risultava un’impresa ardua, se non impossibile. “Questo è un luogo”, ha evidenziato Repole, “dove la fragilità umana non si incontra soltanto nella forma delle necessità materiali immediate ed evidenti, ma anche nel bisogno di un senso da dare all’esistenza o del ritrovare una bellezza della vita a dispetto dell’individualismo imperante, che è una grandissima fragilità e una enorme povertà. E qui, al Distretto Sociale, le fragilità - si incontrano e si riconoscono in un qualcosa di fondamentale del nostro umano, cioè che tutti abbiamo bisogno della cura degli altri per vivere e che siamo tutti capaci di offrire un po’ di cura per sostenere i nostri fratelli più fragili”. Il programma delle iniziative promosse nel corso del 2023 per celebrare il Bicentenario del Distretto “Oltre 50 che hanno contribuito a far conoscere la storia, anzi le tante storie di bene, solidarietà, amicizia e anche dolore nate vissute dentro queste mura” come ha ricordato Anna Maria Poggi, consigliera dell’Opera Barolo con delega al Distretto Sociale, “si chiude con la mostra ‘Giulia & Tancredi Falletti di Barolo collezionisti’, allestita alla Galleria Sabauda e aperta fino al prossimo 7 aprile, ma, con nuovi appuntamenti, la proposta di iniziative culturali e di carattere sociale dell’Opera Barolo prosegue già a partire dalle prime settimane del 2024”. L’Arcivescovo ha annunciato un ciclo di incontri organizzati a Palazzo Barolo e dedicati alle tematiche del carcere, a cui la Marchesa dedicò la sua vita: sei appuntamenti, in calendario dal 19 gennaio al 13 dicembre 2024, in cui con chi a vario titolo opera nelle carceri cittadine (“Lorusso e Cutugno” e il minorile “Ferrante Aporti”) si parlerà delle condizioni di vita dei detenuti e di chi lavora nei luoghi di reclusione, di iniziative culturali, attività educative e formative dentro e fuori gli istituti di pena torinesi. E di giustizia riparativa, alternative alla reclusione per scontare le condanne e delle luci e le ombre del sistema carcerario nel nostro Paese e di come i santi sociali torinesi si sono spesi per il riscatto dei reclusi. “Un’ottima occasione per approfondire la conoscenza, riflettere e discutere sui problemi dei penitenziari, su possibili soluzioni, sui percorsi e le opportunità di reinserimento sociale da mettere in campo per i ristretti. Un’iniziativa” ha sottolineato il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, in linea con lo spirito propositivo, l’impegno concreto e l’opera della marchesa Giulia a favore delle persone recluse”. Ad aprire il ciclo di conferenze, intitolato “Perché loro e non io? (Papa Francesco). Perché loro sono dentro e io fuori? (Giulia di Barolo)” promosso dall’Opera Barolo in collaborazione con il settimanale diocesano “La Voce e Il Tempo”, venerdì 19 gennaio alle 17 (il giorno della morte della Marchesa Giulia di Barolo, di cui nel 2024 ricorre il 160° anniversario) l’incontro sul tema “A scuola in carcere” con la presentazione del libro, della giornalista Marina Lomunno e del Francescano che opera con i collaboratori di giustizia Giuseppe Giunti, “E-mail a una professoressa” Come la scuola può battere le mafie” (ed. Effatà). “A Natale” ha ricordato la vicesindaca Michela Favaro, portando gli auguri della Città di Torino “in un periodo in cui si accendono tante luci, ne abbiamo una che da 200 anni illumina le vite di tante e tanti torinesi, un vero punto di riferimento: l’Opera Barolo”. Trento. Carcere e “InFondo speranza” al centro della Giornata diocesana della carità diocesitn.it, 14 dicembre 2023 A Spini di Gardolo Messa di Natale con don Lauro. Si celebra domenica prossima, 17 dicembre, terza domenica d’Avvento, la tradizionale Giornata diocesana della Carità. Si tratta di un’opportunità offerta alle comunità, per “stimolare - precisa don Mauro Leonardelli, delegato dell’Area Testimonianza - un’ulteriore riflessione ‘creativa’ sull’ambito caritativo, che spesso rischia di essere delegato a qualcuno senza diventare parte fondante della pastorale e della vita comunitaria stessa”. La Giornata avrà anche un obiettivo solidale concreto. Le offerte raccolte andranno infatti a sostenere in particolare due progetti coordinati dalla Caritas Diocesana: l’aiuto al mondo del carcere e a tutte le realtà di accompagnamento e reinserimento dei detenuti e il fondo diocesano di solidarietà “InFondo Speranza” che in questi anni, a partire dall’emergenza Covid, sta aiutando molte famiglie a far fronte alle difficoltà economiche. Eventuali offerte possono essere versate sul c/c bancario con seguente Iban: IT41G 0359901800000000081237 intestato ad Arcidiocesi di Trento - Caritas Diocesana, precisando nella causale il progetto sostenuto o indicando genericamente “Giornata della Carità”. Proprio domenica 17, nella Casa Circondariale di Spini di Gardolo (foto), l’arcivescovo Lauro incontrerà i detenuti e il personale e presiederà la S. Messa in occasione del Natale. Il tema dei poveri e dell’azione caritativa della Chiesa è al centro dell’ultima Lettera alla comunità di monsignor Tisi “Lievito e sale” (giugno scorso) ed è stato rilanciato anche dal Cammino sinodale che ha scelto come uno dei suoi “cantieri” proprio il tema delle fragilità. Milano. “Ora d’acqua”, il canottaggio torna a San Vittore di Sabrina Commis La Gazzetta dello Sport, 14 dicembre 2023 Dopo tre anni di sospensione a causa della pandemia, il progetto “Ora d’acqua”, iniziativa storica della Fondazione Candido Cannavò per lo Sport, è ripartito. Nei giorni scorsi, infatti, sono ricominciati i corsi di canottaggio indoor o “canottaggio a secco” per i detenuti all’interno del carcere di San Vittore, con lezioni a cura degli istruttori federali della storica Canottieri Milano. Lo sport come stimolo, incentivo, per qualcuno anche ora di libertà. Il progetto “Vogliamo far conoscere i principi del canottaggio attraverso l’insegnamento della pratica, sulle attrezzature utilizzate per l’allenamento al chiuso, i remoergometri - spiega Francesco Stoppa, istruttore della Canottieri e anima del progetto -. I corsi permettono di scoprire questo sport con grande tradizione in Italia, di fare sessioni di preparazione atletica diverse, originali, ma complete e intense. E non solo: ci si conosce con tecnici e atleti giovani, ma pronti al confronto e allo scambio di idee, valori e passioni. Tutto questo si può svolgere in un semplice spazio. Un remo ergometro all’interno di un istituto penitenziario sarà compito dei tecnici della Canottieri coinvolgere e motivare i partecipanti anche grazie a immagini, racconti, simulazioni di gara. Il canottaggio indoor non è una cosa finta, ma una specialità di questo sport, con un proprio circuito di gare a livello regionale, nazionale e internazionale”. Lo sport diventa supporto. “Quando mi hanno proposto di riprendere le lezioni di canottaggio a secco ho valutato la positività dell’iniziativa - spiega Giacinto Siciliano, direttore dell’istituto penitenziario milanese -. San Vittore ospita tanti ragazzi, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, in spazi purtroppo abbastanza limitati; le attività sportive sono una delle leve su cui lavorare. “Ora d’acqua” si va ad aggiungere agli altri progetti, che riguardano palestre, basket, calcio. Un’attività sportiva come il canottaggio, per giovani pieni di energia, è fondamentale. Lo sport implica regole, sacrificio, rispetto di sé, del compagno, del team in cui si lavora: è una forma diversa di rieducazione. E il canottaggio è un mezzo forte e potente per veicolare messaggi educativi. La finalità non è solo tenerli impegnati un’ora all’interno dell’istituto, ma dargli un obiettivo, farli lavorare non solo al presente. Potrebbe essere un’opportunità futura, un’apertura in prospettiva”. Prossimo obiettivo di Canottieri Milano e Fondazione Cannavò? Riportare prima possibile il progetto nel carcere minorile Beccaria, sempre nel capoluogo lombardo, magari già all’inizio del prossimo anno. Si sta lavorando affinché si realizzi in tempi brevi. Brindisi. Natale solidale, parte la raccolta giochi da donare ai figli dei detenuti brindisioggi.it, 14 dicembre 2023 Progetto Nazionale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie. Sabato 16 dicembre, Movimenti Laboratorio Urbano in via Felice Carena (quartiere Sant’Elia di Brindisi) sarà aperto alla comunità per una “staffetta” solidale di raccolta giochi da donare ai figli dei detenuti della Casa Circondariale di Brindisi. L’iniziativa, promossa da Bambinisenzasbarre Onlus nell’ambito del progetto nazionale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie - Applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, è coordinata da Eridano Cooperativa Sociale, implement partner per il territorio di Brindisi e cogestore dello “Spazio Giallo”, un luogo dedicato ai bambini all’interno dello stesso carcere nel quale vengono accolti da operatori qualificati prima dell’incontro con il genitore detenuto intercettandone i bisogni o il disagio del distacco. L’idea dello Spazio Giallo nasce nel 2007 dall’esperienza di Bambinisenzasbarre nel carcere di San Vittore; oggi fa parte di un Sistema di Accoglienza che è diventato modello e si è esteso su tutto il territorio nazionale diventando punto di riferimento per la cura delle relazioni familiari in detenzione con al centro i diritti del bambino. La struttura brindisina Movimenti Laboratorio Urbano resterà aperta dalle ore 12:30 alle ore 17:30 di sabato 16 dicembre; nell’arco della giornata sono previsti laboratori creativi e musicali a tema natalizio. Ai partecipanti verrà offerta una merenda preparata dalla Banda dell’Ortica, progetto della Cooperativa Eridano di inserimento lavorativo di persone con disabilità e provenienti da percorsi di esecuzione penale. La comunità brindisina è quindi invitata a raggiungere il laboratorio urbano Movimenti per portare giochi, nuovi o in ottimo stato di conservazione, o semplicemente per condividere delle idee per regalare ai bambini un Natale diverso, sereno e, per quanto possibile, felice. Le toghe in gioco, tra storia, politica e dinamiche social di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 14 dicembre 2023 Le analisi contenute nei volumi di Gian Carlo Caselli (Laterza) e Enzo Ciconte (Rubbettino). Il “ruolo suppletivo” svolto dalla magistratura, culminato in Tangentopoli e nelle inchieste di mafia, ha sollevato interrogativi e perplessità sull’operato dei togati. Quanto deve essere il terzo potere indipendente dal potere politico e indifferente alle dinamiche sociali? Quanto, viceversa, ne deve tenere conto? Due libri, pubblicati di recente, rappresentano un percorso di riflessione attorno a questi due temi. Enzo Ciconte, nel suo “Diego Tajani a Palermo” (1868-1875), (Rubbettino, pp. 130, euro 18), ci racconta la vicenda del procuratore insediato negli anni immediatamente postunitari nella capitale siciliana. Tajani vorrebbe combattere la criminalità organizzata. Capisce che la mafia non esisterebbe senza la classe dirigente siciliana, e viceversa. Riscontra l’esistenza di una conflittualità tra le classi dirigenti siciliane, all’interno delle quali la mafia svolge quel ruolo di mediazione che gli garantisce una rendita di posizione. Il rovescio della medaglia consiste nel controllo del territorio attraverso i mafiosi, che garantiscono un sapiente governo della criminalità di strada, assicurando ai funzionari dello Stato che stanno al gioco quel quantum di retate e arresti necessari ad assicurarsi il consenso pubblico e la benevolenza dei vertici del potere statale. Intanto, le carceri palermitane, traboccano di detenuti in attesa di giudizio o di imputati assolti, trattenuti perché manca l’ordine di scarcerazione della questura. Giuseppe Albanese, questore di Palermo negli anni di Tajani, fratello di due deputati, il gioco lo conosce benissimo, e, addirittura, scopre sconcertato il procuratore, lo promuove. Si accredita presso l’opinione pubblica dell’utilizzo del pugno di ferro ai danni di chi possiede poche risorse, mentre assume posizioni accomodanti coi mafiosi. La goccia che fa traboccare il vaso è l’omicidio del mafioso Termini. Il pubblico ministero che indaga sul caso si rivolge a Tajani, raccontandogli di avere ricevuto una visita del questore, il quale lo invita a desistere dalle indagini, facendogli capire di essere coinvolto in qualche misura nella pianificazione dell’omicidio. Il procuratore indaga, fino ad arrivare ad emettere un mandato di cattura nei confronti di Albanese. Ma deve fare i conti con due elementi che gli si ritorceranno conto: innanzitutto, i testimoni ritrattano, riducendo le prove a qualche elemento indiziario; in secondo luogo, i veti incrociati del mondo politico e delle sezioni accomodanti dell’opinione pubblica siciliana più remissiva, hanno gioco facile in un quadro istituzionale in cui la magistratura è dipendente dal potere esecutivo. Ne consegue che Tajani viene trasferito e il mandato di cattura contro Albanese viene revocato. C’è dunque bisogno di una magistratura indipendente? Gian Carlo Caselli, nella sua autobiografia Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita), (Laterza, pp.130, euro 16), ne è fermamente convinto. È grazie all’indipendenza garantitale dalla Costituzione che la magistratura può operare con quell’etica della responsabilità che le consente di ottenere “risultati socialmente utili”. Da questo momento, l’ex magistrato, propone al lettore la disamina di una serie di casi che lo hanno visto protagonista, sia come inquirente che come membro del Csm, in quota Magistratura Democratica, che, partendo dall’inquinamento ambientale, sconfinano nel terrorismo e nella mafia. Caselli sembra avere pochi dubbi rispetto all’operato della magistratura, lanciandosi in un’equazione tra terrorismo e criminalità organizzata, che estende anche al movimento No-Tav. Ne esce fuori una difesa acritica del suo operato e di quello, più in generale, della sua categoria professionale. Nessun dubbio sul rischio di deriva autoritaria che può derivare da una concezione etica e da un’eccessiva indipendenza della magistratura, che spesso si traduce in arresti indiscriminati, teoremi infondati, criminalizzazioni di interi gruppi sociali e movimenti politici. A leggere i due libri, viene da propendere per una magistratura che sia allo stesso tempo indipendente e che non persegua risultati socialmente utili. Anche perché, se ci domandiamo come è cambiata l’Italia con le inchieste giudiziarie, un leggero pessimismo ci travolge. Migranti. Accordo Italia-Albania, sì di Bruxelles ma Tirana rimanda a gennaio di Carlo Lania e Giansandro Merli Il Manifesto, 14 dicembre 2023 Ok dalla Commissione al patto sui migranti. La Corte costituzionale albanese si mette di traverso. La ratifica parlamentare era prevista oggi. Adesso è sospesa fino a sentenza. Un via libera e una sospensione temporanea. Nel giro di una manciata di minuti Palazzo Chigi incassa due pareri contrapposti - uno dall’Unione europea e uno da Tirana - sul controverso accordo Italia-Albania sui migranti. Per primo arriva quello della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen che, rompendo un silenzio durato più di un mese, benedice il patto definendolo “in linea con il diritto comunitario”. Non passa mezz’ora che dalla Corte costituzionale albanese arriva un giudizio di segno opposto: ratifica sospesa fino alla sentenza di merito, con l’udienza convocata il 18 gennaio prossimo alle 10 di mattina. Giorgia Meloni, ieri sera impegnata a Bruxelles in un vertice sui Balcani al quale partecipa anche il premier albanese Edi Rama, legge le parole di von der Leyen come un riconoscimento alla politica di esternalizzazione delle frontiere messa in campo dall’Italia. L’accordo, è scritto nella lettera inviata dalla presidente della Commissione ai leader europei in vista del vertice di oggi, “rappresenta un segnale forte e molto positivo”, un “esempio di pensiero fuori dagli schemi, basato su un’equa condivisione delle responsabilità con i Paesi terzi in linea con gli obblighi previsti dal diritto dell’Ue e internazionale”. Un endorsement buono per Roma, ma valido adesso anche per altri Stati che vorranno seguirne l’esempio. Come la Germania del cancelliere Olaf Scholz, che non ha mai nascosto di guardare con interesse al patto siglato con Tirana. Va detto che il via libera di Bruxelles era nell’aria. Nelle scorse settimane aperture all’accordo erano arrivate prima dalla commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson, poi dal collega all’Allargamento Oliver Varhelyi. Senza escludere la presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola. Oltre le dichiarazioni, però, la strada dell’implementazione dell’accordo resta irta di insidie legali, economiche e logistiche. A cui da ieri se ne aggiunge una in più che viene dall’altro lato dell’Adriatico: la Corte costituzionale albanese esaminerà i due ricorsi contro l’intesa presentati da una trentina di deputati dell’opposizione. Significa che non sono infondati e non presentano irregolarità formali. La decisione nel merito, però, arriverà soltanto a gennaio. Attraverso le azioni legali l’opposizione sostiene che il protocollo Rama-Meloni violi la Costituzione albanese e diversi trattati internazionali che il paese ha sottoscritto. Il governo guidato dal premier socialista aveva spinto per fissare la ratifica il prima possibile, provando a sfruttare l’inazione della Corte. Il parlamento avrebbe dovuto votarla oggi, ma dopo la comunicazione della presidente del massimo tribunale Holta Zacaj la procedura resterà bloccata fino alla sentenza. Sul fronte italiano Meloni tenta di celare il timore che muoia sul nascere un progetto su cui ha scommesso tantissimo e in prima persona, facendo storcere il naso agli altri leader della maggioranza e al ministro dell’Interno. Palazzo Chigi si trincera dietro un “no comment”, sostenendo però di non nutrire particolari preoccupazioni. La notizia esplode sui siti a metà pomeriggio, ma fino a sera l’unico a esporsi è il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia): “Non è una bocciatura ma una sospensione. Le procedure sono state rispettate”. E aggiunge: “ci viene il dubbio che il ricorso dei parlamentari di sinistra alla Corte sia del tutto strumentale”, forse tratto in inganno dal nome della prima forza di opposizione albanese che si chiama Partito democratico ma ha un orientamento politico di destra. Tanto che a guidarla c’è l’ex primo ministro Sali Berisha. “Da Meloni pessima figura internazionale”, dichiara l’eurodeputato Francesco Majorino del Pd (quello italiano) che ricorda i numerosi i problemi giuridici ed economici dell’accordo invitando il governo a “cancellarlo”. Di “incompetenza e inadeguatezza” dell’esecutivo parla Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana. All’attacco anche l’omologo di +Europa Riccardo Magi: “Spero che questo segni l’inizio della fine di questo obbrobrio giuridico e umanitario. È un primo ostacolo, altri ne arriveranno”. Migranti. Cpr di via Corelli a Milano, i pm sequestrano d’urgenza la società di gestione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 dicembre 2023 Un mese fa la Prefettura le aveva rinnovato il contratto per tutto il 2024. La proroga dell’appalto il 13 novembre, emersa solo dopo l’inchiesta del 1° dicembre, rischiava di rendere inutile la richiesta che la procura aveva fatto al gip di interdire La Martinina srl nei futuri rapporti con la Pubblica amministrazione. La società La Martinina srl di Pontecagnano (Salerno) è la società che - secondo l’indagine della Procura di Milano affiorata l’1°dicembre con una ispezione a sorpresa videoregistrata e poi con una richiesta al gip di una udienza giovedì per interdirla per “frode in pubbliche forniture” dallo stipulare in futuro contratti con la Pubblica amministrazione - nel 2022 aveva vinto l’appalto da 4,4 milioni di euro assicurando alla Prefettura che per 12 mesi avrebbe gestito il Cpr-Centro permanenza rimpatri di via Corelli con tutta una serie di servizi agli stranieri trattenuti (assistenza legale, mediatori linguistici, sanità, pulizie, cibo) poi in realtà o falsificati in alcune prestazioni, o non assicurati nella quantità e qualità pattuite nell’appalto. Ma ora si viene a sapere che la Prefettura di Milano un mese fa, il 13 novembre, prendendo per buone le medesime condizioni contrattuali, aveva già rinnovato per l’intero 2024 il contratto (che si credeva scaduto il 31 ottobre 2023) con La Martinina srl del gestore Alessandro Forlenza e dell’amministratrice madre Consiglia Caruso. La circostanza non è stata indicata nelle comunicazioni rivolte ai mezzi di informazione dalla Prefettura sia l’1 dicembre (all’emergere dell’indagine) sia nei giorni successivi, quando invece aveva rivendicato “il costante e approfondito monitoraggio esercitato dall’ufficio territoriale del governo”, e accreditato che “spesse volte fossero state verificate irregolarità e comminate sanzioni”. Rappresentazione che sembrerebbe stridere con il rinnovo del contratto per il 2024. Al momento è invece impossibile capire se l’esistenza del rinnovo fosse stata almeno comunicata dalla Prefettura alla Procura nell’incontro del 4 dicembre tra il neo insediato prefetto proveniente da Perugia, Claudio Sgaraglia, il suo staff e il procuratore Marcello Viola, l’aggiunto Tiziana Siciliano e i pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari: i quali sino all’ispezione a sorpresa nel Cpr (1 dicembre) erano rimasti “palombari” senza acquisire alcun atto ufficiale né in Prefettura né nella Martinina srl, solo l’1 dicembre uscendo a chiedere l’esibizione di tutte le carte d’appalto. Di certa, tuttavia, c’è la conseguenza e cioè quello che altrettanto a sorpresa è accaduto mercoledì sera: la GdF, su ordine dei due pm, ha eseguito il sequestro preventivo d’urgenza (volto a impedire la prosecuzione dei reati) del ramo d’azienda della società La Martinina srl che gestisce il Cpr. La ragione è a questo punto evidente: anche l’eventuale accoglimento (nell’udienza in programma giovedì) da parte del gip della richiesta di interdire la società dallo stipulare nuovi contratti con la Pubblica Amministrazione (formulata dalla Procura l’1 dicembre 2023 quando ancora non sapeva del rinnovo il 13 novembre del contratto da parte della Prefettura fino al 31 dicembre 2024) sarebbe del tutto inutile, perché la società (che secondo la Procura amministra il Cpr violando le condizioni dell’appalto) resterebbe comunque a gestire il Cpr per tutto il 2024 in forza di un contratto già esistente in quanto già rinnovato dalla Prefettura. Quasi mezzo miliardo di bambini nel mondo vive in zone di guerra di Luca Liverani Avvenire, 14 dicembre 2023 Sono 468 milioni i minori in aree di conflitto, uno ogni sei. Il rapporto di Save the Children “Stop the war on children” e il sito web sulle violazioni. Numeri in crescita nel 2023 per Gaza e Sudan. Un bambino su sei nel 2022 viveva in una zona di guerra, per un totale di 468 milioni di minorenni. Moltissime le vittime di gravi violazioni: 27.638 casi accertati, in media 76 al giorno, un numero aumentato del 13%. Traumi destinati spesso a lasciare profonde tracce nello sviluppo psichico degli adulti di domani. È un quadro allarmante quello che emerge dal rapporto Stop the war on children, pubblicato oggi da Save the Children. Ampia e terribile la lista degli abusi di cui sono vittime i più innocenti tra i civili innocenti: uccisioni e mutilazioni, rapimenti, stupri e violenze sessuali, reclutamento ed utilizzo in forze e gruppi armati, attacchi a scuole e ospedali e diniego di accesso umanitario. Secondo l’ong il numero di queste gravi violazioni su minori ha raggiunto nel 2022 il livello più alto dal 2005, anno in cui sono iniziate le rilevazioni. Grandi numeri, ma che rappresentano solo una piccola parte del totale, poiché alcuni abusi non vengono denunciati, mentre altri - commessi nel 2022 - sono ancora in fase di verifica. In particolare sono stati 8.647 i bambini uccisi o mutilati, in crescita rispetto agli 8.113 del 2021. Il Paese con più minori uccisi o mutilati, secondo il rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite, è stata l’Ucraina (1.386), mentre già nel 2022 nei Territori palestinesi occupati 1.134 bambini sono stati uccisi o hanno subito mutilazioni, in particolare nella Striscia di Gaza. Una cifra destinata a salire vertiginosamente nel 2023. La seconda grave violazione per numero di casi registrati è stata il reclutamento e l’utilizzo dei minori nei conflitti: 7.610 gli episodi verificati nel 2022, in crescita del 20% rispetto al 2021. Sul nuovo sito web, lanciato oggi da Save the Children, è possibile mappare queste violazioni sia per luogo, che per tipo e data, con l’obiettivo di rendere per la prima volta disponibili al pubblico dati combinati che mostrino una fotografia esaustiva dei trend rilevati. Sempre nel 2022, circa 468 milioni di bambine e bambini - uno su sei - vivevano in zone di conflitto (con un aumento del 2,8% rispetto all’anno precedente). L’Africa è l’area col maggior numero assoluto di minori in contesti di guerra, mentre il Medio Oriente - già prima del conflitto in corso a Gaza - registrava la proporzione più elevata, pari a un bambino su tre. Secondo l’analisi di Save the Children sulla base di diversi indicatori, è la Repubblica Democratica del Congo il paese peggiore in cui potesse vivere un minore nel 2022 a causa della guerra, seguito dal Mali e dal Myanmar. Ad essi si aggiungono, in ordine alfabetico altri paesi che ricoprono le prime dieci posizioni, quali: Afghanistan, Burkina Faso, Nigeria, Somalia, Siria, Ucraina e Yemen. E i bambini continuano a essere colpiti anche nei luoghi in cui dovrebbero sentirsi maggiormente al sicuro. Il numero di attacchi a scuole e ospedali è infatti aumentato del 74% in un anno, da 1.323 nel 2021 a 2.308 nel 2022. Dati tragici - sottolinea l’Organizzazione - ma destinati a salire nel 2023 a causa dei continui bombardamenti a Gaza e del conflitto in Sudan, che ha causato la più grave crisi di bambini sfollati al mondo. “È un momento terribile per essere un bambino in guerra”, dichiara Inger Ashing, Direttrice Generale di Save the Children International: “Le leggi globali che erano state istituite per proteggere i bambini dalle violenze peggiori che potevano essere commesse contro di loro - dice - si stanno sgretolando. Gli attuali trend testimoniano che si sta andando nella direzione sbagliata”. E aggiunge: “Ci aspettiamo che il 2023 non sia migliore, anzi, potremmo raggiungere nuovi tristi record. La crisi umanitaria in Sudan - la più grave crisi di sfollamento sulla terra per i bambini - ha visto uccisioni, orribili violenze sessuali, torture e mutilazioni di minori a livelli che non si vedevano da tempo. Stiamo assistendo al dramma dei bambini a Gaza, costretti a sopportare il peso di un conflitto in cui oltre un milione di giovani vite sono in pericolo. Gli ospedali sono diventati campi di battaglia e le forniture di cibo e acqua sono state interrotte. È necessario un cessate il fuoco definitivo, ora, immediatamente, per fermare le loro sofferenze”. I bambini consultati per il rapporto chiedono che i decisori garantiscano protezione a tutti i loro coetanei in aree di conflitto. E farlo non è semplice perché, come attesta una dichiarazione del Consiglio dei bambini palestinesi di Gaza, “Quando un razzo cade dal cielo, non fa differenza tra un sasso e un albero, e tra un bambino e un giovane”. “Questi casi accertati rappresentano probabilmente solo la punta dell’iceberg. Ogni bambino che cresce in contesti di guerra potrebbe essere a rischio. Le nostre stime per il 2022 indicano che un bambino su sei vive a meno di 50 km di distanza da almeno un conflitto. La comunità internazionale deve esercitare tutto il suo potere per fare pressione sulle parti affinché rispettino il diritto internazionale e proteggano i bambini”, commenta Gudrun Østby, Professore di ricerca presso il Peace Research Institute di Oslo, che ha collaborato allo studio. Qui il rapporto “Stop the War on Children: Let Children live in Peace”. Medio Oriente. Con il mondo contro, Israele non arretra né a Gaza né a Jenin di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 dicembre 2023 Pioggia, bombe e fame: la Striscia “è un inferno”. Tel Aviv: continueremo anche da soli. Scuola dell’Unrwa fatta esplodere dall’esercito. Al Jazeera: sfollati giustiziati nel nord. Nella città cisgiordana bulldozer, raid e arresti casa per casa, detenuti i direttori del Freedom Theatre. Quando martedì sera l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato la risoluzione non vincolante sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, erano passati sette giorni dall’iniziativa del segretario generale Guterres (l’attivazione dell’articolo 99 della Carta Onu) e poche ore dall’avvertimento del presidente statunitense Joe Biden all’alleato di ferro - molto poco amato - Benyamin Netanyahu: “(Israele) inizia a perdere il sostegno internazionale a causa dei bombardamenti indiscriminati”. Biden lo sapeva già come sarebbe finita: quel sostegno, già debole, è crollato. A favore hanno votato 153 Stati, tra cui alleati indiscutibili di Washington, dall’Australia al Giappone alle neo-atlantiste Svezia e Finlandia. Ventitré astenuti e dieci contrari. Al Palazzo di Vetro è stata resa plastica la distanza siderale tra l’approccio statunitense e israeliano e quello del mondo. A votare per proseguire la devastazione di Gaza, “inferno in terra” nelle parole di svariate agenzie Onu, dieci paesi che rappresentano appena il 5% della popolazione mondiale: Usa, Israele, Austria, Repubblica ceca, Guatemala, Liberia, Micronesia, Nauru, Papua Nuova Guinea e Paraguay. Il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen ha reagito sprezzante: “Continueremo la guerra ad Hamas con o senza sostegno internazionale”. Più preoccupata è la Casa bianca che invia a Tel Aviv il consigliere alla Sicurezza nazionale Jake Sullivan (arriva oggi). Ad attenderlo il peso di numeri sempre più terrificanti: 18.608 uccisi accertati a Gaza in 68 giorni di offensiva, 1,9 milioni di sfollati (l’85% della popolazione), 51mila feriti. Fanno il paio con immagini che raccontano la disperazione dei palestinesi: a Gaza piove, le tende si allagano, le persone con i piedi nel fango provano a liberarle con i secchi, le strade sono inondate per il blocco dei sistemi di drenaggio dovuto alla mancanza di carburante. Da Jabaliya, il campo profughi raso al suolo dalle bombe, arrivano le immagini di un ragazzino con l’acqua alle ginocchia, sotto la pioggia incessante, in braccio il corpo senza vita di un bambino. E ancora, le immagini di una scuola dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) a Beit Hanoun, nel nord di Gaza fatta saltare in aria con l’esplosivo dall’esercito israeliano: si vede l’esplosione e il fumo nero che avvolge un luogo che era stato trasformato in rifugio da centinaia di sfollati, si sentono sullo sfondo le grida di giubilo dei soldati. O le immagini pubblicate da al Jazeera di un’altra scuola, la Shadia Abu Ghazala di al-Faluja a nord: dentro un’aula sono ammassati dei corpi senza vita, uccisi da colpi di arma da fuoco, “stile esecuzione” dicono dei testimoni alle telecamere e raccontano di spari indiscriminati contro gli sfollati. Il video mostra i danni alla scuola, aule bruciate, banchi e sedie distrutti. Tra le vittime, morte per colpi sparati da distanza ravvicinata, ci sono anche donne e bambini, secondo le immagini della tv qatariota. Non ci è possibile verificare la veridicità dell’accusa. E mentre le bombe continuano a cadere (quasi 300 gli uccisi nelle ultime 24 ore), continuano anche i combattimenti: ieri per l’esercito israeliano è stato il giorno peggiore, con nove militari uccisi dai miliziani di Hamas a Shajaiya. Sono oltre 110 i soldati morti a Gaza (secondo i dati ufficiali), di cui il 20% - riporta lo stesso esercito - colpiti da fuoco amico. In tale contesto, le dichiarazioni delle organizzazioni internazionali finiscono spazzate via, ogni giorno più terribili, nel tentativo di superare l’assuefazione delle opinioni pubbliche mondiali. Per Gaza parlano di apocalissi, di distruzione peggiore di quella di Dresda nella seconda guerra mondiale, di catastrofe. È questo il termine utilizzato da una ventina di organizzazioni israeliane (da B’Tselem a Breaking the Silence, da Rabbis for Human Rights a Yesh Din) nella lettera aperta a Biden pubblicata ieri perché costringa Israele a porre fine all’offensiva. Ci sperano poco i palestinesi: in un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (svolto in Cisgiordania e a Gaza) metà degli intervistati ritiene che l’attacco non finirà prima di qualche settimana. Dicono anche altro: in Cisgiordania il sostegno ad Hamas, al 12% a settembre, è oggi al 44%. E se a settembre il 50% degli abitanti dei Territori occupati riteneva la lotta armata l’unico mezzo per la liberazione, oggi la percentuale sale al 63%, con un picco del 68% in Cisgiordania. Che nel silenzio continua a essere l’altro campo di battaglia, l’altra faccia dell’offensiva israeliana. Sotto forma e intensità diverse ma comunque distruttive. Ieri ne è stata di nuovo teatro Jenin con una campagna di arresti di massa, casa per casa: 400 le abitazioni invase e perquisite, oltre cento arrestati e otto uccisi. E di nuovo bulldozer che, come nelle più recenti operazioni israeliane, hanno divelto le strade e distrutto edifici nel campo profughi. Le forze israeliane hanno circondato l’ospedale di Jenin, alle porte del campo, e bloccato le ambulanze: per ore gli è stato impedito di raggiungere i feriti. Tra i detenuti ci sono anche membri del Freedom Theatre, fiore all’occhiello culturale e sociale del campo: il direttore generale Mustafa Sheta e quello artistico Ahmed Tobasi, a cui è stato arrestato anche un fratello. “Non sappiamo dove siano - dice il teatro - Le ultime parole che abbiamo sentito da Ahmed sono state: (i soldati) stanno andando di casa in casa, prendono tutti”. Medici uccisi e arrestati, la sanità nel mirino - Sono almeno 296 i medici palestinesi uccisi a Gaza dal 7 ottobre, secondo il ministero della sanità della Striscia. A questi si aggiungono 134 membri dell’agenzia delle Nazioni unite Unrwa, 32 della protezione civile e uno dell’Organizzazione mondiale della sanità. Secondo l’ong Medical Aid for Palestinians, in oltre due mesi di offensiva israeliana, le strutture mediche di Gaza hanno subito almeno 200 attacchi. Di diverso tipo: bombardamenti su ospedali e ambulanze, chiusura delle cliniche Unrwa, accerchiamento e spari sugli ospedali. Sono almeno 70 i medici arrestati dai soldati israeliani e detenuti in luoghi sconosciuti.