Suicidi in cella, siamo a quota 66 nel silenzio delle istituzioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2023 Nel carcere di Verona-Montorio tre detenuti si sono tolti la vita in meno di un mese. A Viterbo l’esperienza dello staff multidisciplinare per affrontare le situazioni a rischio. Negli ultimi mesi le carceri italiane hanno vissuto un’epidemia di suicidi, con ben 66 detenuti che si sono tolti la vita. Il picco più drammatico è stato registrato nel carcere di Montorio, Verona, con tre decessi autoinflitti in meno di un mese, come denunciato dall’associazione “Sbarre di Zucchero”. L’ultimo episodio quello di un giovane marocchino di nome Oussama Saidiki, proveniente dalla quinta sezione, che si è impiccato nella sua cella di isolamento. La notizia giunge a poche ore dalla morte di un altro detenuto avvenuta nell’ospedale di San Vittore a Milano, che ha commesso il gesto mortale durante la diretta della Prima della Scala di Milano, creando un ulteriore allarme sulla condizione delle carceri. Come ha reso noto l’associazione “Sbarre di Zucchero”, Oussama, al quale rimanevano solo tre mesi alla fine della sua pena dopo circa tre anni di detenzione, aveva manifestato segni evidenti di disagio psichico in passato. Il suo stato d’animo era già stato evidenziato da alcuni gesti estremi, come l’ingestione di vetri e l’incendio della sua stessa cella. Tuttavia, la situazione sembra essere sfuggita di mano nel pomeriggio di ieri quando, durante un colloquio con uno psichiatra, Oussama si è agitato al punto da diventare aggressivo. Questo ha portato alla decisione di isolare il detenuto anziché riportarlo nella quinta sezione, ed è proprio in isolamento che ha compiuto l’atto estremo di togliersi la vita. La vicenda di Oussama Saidiki segue a breve distanza i casi di Farhady Mortaza e Giovanni Polin, avvenuti rispettivamente il 10 e il 20 novembre nello stesso carcere. Questi eventi sconvolgenti mettono in evidenza la crescente emergenza legata ai suicidi nelle carceri italiane, sollevando domande e preoccupazioni sul trattamento dei detenuti e sulle condizioni all’interno delle istituzioni penitenziarie. Ciò che unisce queste storie drammatiche è il silenzio apparentemente insopportabile da parte delle autorità. Nonostante le tragedie si susseguano, le istituzioni sono inerti, senza risposte chiare o azioni concrete volte a prevenire ulteriori episodi di questo genere. Il silenzio da parte delle istituzioni è oggetto di domanda da parte di “Sbarre di Zucchero”: perché questo silenzio? I familiari delle vittime, insieme alla società civile, ora esigono risposte immediate. In un momento già delicato, come il freddo ponte dell’Immacolata, è imperativo affrontare questa emergenza senza ulteriori indugi. La situazione richiede un’attenzione urgente e misure concrete per garantire la sicurezza e il benessere dei detenuti nelle carceri. Il silenzio non può più essere tollerato, e la trasparenza e la responsabilità devono diventare le basi su cui costruire un sistema carcerario più umano e attento alle esigenze psicologiche dei detenuti. L’ennesima morte di un detenuto deve essere un grido d’allarme che spinge le autorità a una riflessione profonda e a un’azione immediata per prevenire ulteriori tragedie simili in futuro. Affrontare il tema dei suicidi in carcere richiede una delicata analisi dei molteplici aspetti che coinvolgono questa drammatica realtà. Il suicidio di un individuo privato della libertà rappresenta un fallimento evidente della funzione punitiva dello Stato. Da un lato, dimostra l’incapacità dell’autorità statale di preservare la vita di coloro che sono sotto la sua custodia, rivelando una contraddizione nel perseguimento del suo ruolo punitivo. Quando lo Stato non riesce a prevenire la morte di un condannato, si verifica una profonda delegittimazione del suo monopolio sull’uso della forza legittima, poiché non riesce a bilanciare la necessità di punizione con la tutela del corpo e della salute del reo. D’altro canto, la morte di un detenuto mette in luce un aspetto “tipico” della realtà carceraria, che si discosta notevolmente dall’idealizzazione della pena immateriale proposta dagli illuministi. Questo evento crudele e tangibile evidenzia come la prigione sia lontana dall’essere un luogo in cui si realizza un tipo di punizione che agisce esclusivamente sullo spirito umano. I suicidi in carcere dovrebbero creare scalpore e indignazione, e le storie raccolte da associazioni, volontari, avvocati e familiari confermano spesso che il gesto estremo rappresenta la conclusione tragica di vicende personali complesse, giungendo al punto di rottura durante la detenzione. Un esempio di come prevenire il più possibile i suicidi provenga dal recente documento approvato congiuntamente dal Commissario straordinario della Asl di Viterbo, Egisto Bianconi, dalla direttrice della Casa circondariale di Viterbo, Annamaria Dello Preite, e dal Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Il piano, un aggiornamento di quello del 2018, è il risultato di un impegno congiunto delle istituzioni operanti nel territorio carcerario, che comprende il Tavolo paritetico permanente per la tutela della salute delle persone detenute. Il tavolo, composto da rappresentanti di diverse istituzioni e professionisti, si incontra regolarmente per monitorare e attuare il piano, focalizzandosi sugli obiettivi prefissati e sull’analisi degli indicatori di processo e di esito. Il piano identifica una serie di fattori di rischio all’interno del carcere, tra cui il sistema di regole restrittive, il sovraffollamento, la carenza di personale, le limitate opportunità lavorative e occupazionali e la deprivazione affettiva e sessuale. Tuttavia, ciò che emerge con forza è la necessità di un approccio interdisciplinare che coinvolga una vasta gamma di professionisti, compresi polizia penitenziaria, personale sanitario, psicologi, funzionari giuridici pedagogici, assistenti sociali, collaboratori del Garante, volontari e altre figure che operano nel contesto penitenziario. Un punto chiave del piano è la creazione di uno staff multidisciplinare incaricato di affrontare le situazioni a rischio. Questo staff si compone di tutte le figure coinvolte nella gestione del programma di prevenzione e si riunisce regolarmente per discutere i casi di rischio e valutare le necessità individuali dei detenuti. Si tratta di un forum in cui diverse professionalità e competenze convergono per analizzare congiuntamente le situazioni critiche e sviluppare strategie di intervento coordinate e mirate. Lo staff multidisciplinare si occupa di valutare le situazioni a rischio, elaborando programmi individualizzati di presa in carico congiunta, integrati, quando necessario, con il Progetto individuale di salute. L’intervento di prevenzione e gestione del rischio è articolato in quattro fasi, che includono l’accoglienza e lo screening, la determinazione dello stato di rischio, gli interventi mirati e la rivalutazione del rischio per l’intera popolazione detenuta. In conclusione, il piano si presenta come un’importante iniziativa che, attraverso lo staff multidisciplinare, mira a creare un ambiente più sicuro e a fornire supporto efficace per i detenuti vulnerabili, riducendo il rischio di condotte suicidarie e autolesive all’interno della Casa circondariale di Viterbo. Un approccio completo e coordinato, che dovrebbe essere esteso in tutto il territorio nazionale. Ma rischia di essere un palliativo se non si punta a varare misure deflattive (il sovraffollamento sta raggiungendo numeri vicini a quando scattò la famosa sentenza Torreggiani), evitando inasprimenti delle pene come sta facendo attualmente il governo. L’allarme dei penalisti: “Altri 3 detenuti suicidi, ma il Governo vuole più carcere” di Angela Stella L’Unità, 12 dicembre 2023 In pochi giorni impiccagioni a Parma, S. Vittore e Verona. Petrelli (Ucpi): “Fallimento delle politiche carcerocentriche”. Gonnella (Antigone) “Serve un modello penitenziario nuovo, aperto”. Tre suicidi per impiccagione si sono tragicamente susseguiti in questi ultimi giorni nella Casa di reclusione di Parma, nella Casa Circondariale di Milano San Vittore e in quella di Verona-Montorio, portando a sessantasei il numero complessivo delle persone che si sono tolte la vita in carcere in questo ultimo anno. Lo ricorda in una nota la giunta dell’Unione delle Camere Penali italiane. “La terribile sequenza di suicidi di detenuti che si sono tragicamente verificati in questi ultimi giorni - ci dice il presidente del’Ucpi Francesco Petrelli - costituisce non solo un richiamo alla responsabilità delle istituzioni e del Governo, ma anche una denuncia del fallimento delle politiche carcerocentriche. È per questo che occorre chiedere al Governo, al Ministro della Giustizia Nordio, ed alla politica tutta, una radicale inversione delle politiche relative alla fase dell’esecuzione della pena nella luce dei principi costituzionali posti a tutela della integrità e della dignità del detenuto. Dobbiamo tutti denunciare la truffa delle etichette che si cela dietro le politiche populiste, autoritarie e repressive, che caratterizzano anche il pacchetto sicurezza, in quanto, diversamente da come si vuol far credere, la risposta carceraria, che aumenta sovraffollamento, disagio, mancanza di strumenti trattamentali e, dunque, recidiva, non corrisponde affatto ad un incremento della sicurezza dei cittadini”. Secondo i penalisti italiani “quando è in conto la vita di persone affidate alle cure dello Stato nessuno mai dovrebbe essere lasciato morire, in nessun modo e in nessun caso. E invece questo terribile conteggio si allunga inesorabilmente, travalicando le inutili cesure degli anni, nell’indifferenza dei governi che hanno sempre guardato e guardano al carcere con cinica distanza, spesso utilizzandolo come improbabile emblema della sicurezza collettiva o vantandone comunque la salvifica funzione di discarica sociale”. Anziché porre rimedio “a tale incivile e perdurante scandalo con urgenti e concrete politiche d’intervento - prosegue la Giunta nel comunicato - si sono al contrario viste elaborare normative che incidono sulla realtà del carcere con strumenti repressivi, autoritari ed intimidativi, introducendo nuove fattispecie di reato ostative alla concessione di misure alternative alla detenzione e criminalizzando ogni manifestazione anche non violenta di disagio proveniente dai detenuti, marchiando così il carcere nel segno della pura afflittività anziché farne il luogo del recupero, favorendo l’espansione degli strumenti trattamentali e la conseguente più ampia e sollecita fruizione di tutte le misure volte alla risocializzazione”. La Giunta non può pertanto che accogliere l’appello delle Camere Penali di Roma, di Santa Maria Capua Vetere e di Perugia, facendo proprie le istanze di cui alle relative delibere di astensione, impegnandosi a contrastare con iniziative di ambito nazionale ogni normativa che sia volta, in violazione dei principi della nostra Costituzione, alla sostituzione delle finalità rieducative delle pene con strumenti di tipo repressivo. Sulla stessa linea d’onda di Petrelli, il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella: “Abbiamo superato i 60 mila detenuti. Ci stiamo avvicinando al numero dei suicidi del 2022 quando ci fu il massimo storico. Questo è segno del dissesto del nostro sistema penale penitenziario, perché ovviamente non è così che si costruisce sicurezza. Così si negano i diritti, così si nega quella funzione della pena che è in Costituzione. E allora la risposta non è un pacchetto sicurezza ogni due mesi. Pensiamo poi alle quattordici nuove norme penali e inasprimenti di pene già previste che andranno ulteriormente ad incidere in maniera negativa sulla vita dentro le carceri. Non è ‘chiudere, chiudere, chiuderè la soluzione ma costruire un modello penitenziario nuovo, aperto. Quindi è assolutamente ragionevole che le Camere Penali pongano il problema nella sua drammaticità. È un tema che ci deve interrogare tutti perché la sicurezza non può essere solo una strategia di consenso elettorale”. La storia del giovane D.C., che in sette anni di reclusione ha già “girato” 31 carceri di Vito Daniele Cimiotta* L’Unità, 12 dicembre 2023 Ha 21 anni, è nato a Bari, e ha fatto il suo primo ingresso in un penitenziario nel 2016. Da quando è detenuto non lo è mai stato in una struttura pugliese. Questa è la vicenda di D. C., detenuto definitivo dal 2016, con fine pena settembre 2024. Una storia di detenzione, forse come tante, ma che più di altre, probabilmente, merita di essere raccontata. D. viene tratto in arresto nel 2016 a seguito di ordine di carcerazione e successivo cumulo di pene. D. all’epoca aveva appena compiuto 21 anni e da quel preciso momento, ha girato “gira” trentuno carceri italiane. Trentuno Istituti di pena, in sette anni di detenzione. Nessuno di questi nella sua Regione di origine, la Puglia, perché il giovane è di Bari. Pensate che dal 2016 non vede, se non in video call, alcuno dei suoi parenti, genitori compresi. Una storia che potrebbe sembrare banale ma che sicuramente non lo è. La particolarità, oltre che negli innumerevoli trasferimenti, sta nel fatto che nessuno di questi trentuno carceri è ubicato nella regione di origine del detenuto. Eppure all’articolo 42, co. 2 O.P., sancisce che: “Nel disporre i trasferimenti i soggetti sono comunque destinati agli istituti più vicini alla loro dimora o a quella della loro famiglia ovvero al loro centro di riferimento sociale, da individuarsi tenuto conto delle ragioni di studio, di formazione, di lavoro o salute”. D. non è stato mai trasferito in Puglia, ha provato a chiedere il riavvicinamento, ma mai nulla gli è stato concesso. È stato detenuto dalla Lombardia alla Sicilia, ma sempre lontano dai propri affetti più cari. D. è stato letteralmente sradicato dal contesto familiare ed umano in cui viveva. Eppure, solo teoricamente, le persone che entrano in carcere dalla libertà, in un primo momento dovrebbero essere destinate all’istituto più vicino al locus commissi delicti, poi, successivamente, il detenuto deve essere trasferito in un istituto che sia il più possibile vicino al luogo di residenza suo o dei suoi cari. Tutto ciò non è avvenuto per D. e non avviene, purtroppo, nella prassi penitenziaria, con inevitabile sofferenza sia per i ristretti, sia per i loro cari. D. di carceri ne ha girati trentuno, non ha mai avuto il tempo nemmeno di affezionarsi ai compagni di cella. Carceri: i problemi per il recupero e il reinserimento dei detenuti - La problematica dell’allontanamento dai propri nuclei familiari, infatti, non riguarda soltanto i detenuti in prima persona, ma investe le famiglie stesse, che subiscono la separazione. Questo compromette spesso il percorso risocializzante delle persone ristrette, le quali, senza una valida prospettiva di rientro nel proprio contesto sociale e senza il supporto costante delle persone care, difficilmente potranno riuscire ad intraprendere con successo i percorsi trattamentali o comunque a reinserirsi in società. Il carcere italiano non reinserisce, non rieduca, anzi sradica. *Avvocato penalista Psichiatria e giustizia. Il trattamento dei pazienti autori di reato Adnkronos, 12 dicembre 2023 “Serve una riforma strutturale delle misure di prevenzione, cura e custodia”. L’appello della Società italiana di Psichiatria: revisionare la legge 81/2014 e aprire un dialogo con la magistratura per meglio gestire le risorse e indirizzare i provvedimenti. I pazienti autori di reato in carico ai Dipartimenti di Salute mentale (DSM) a livello nazionale si stima siano oltre 6.500, i posti in R.E.M.S sono circa 650, i pazienti con misure di sicurezza detentive sono meno del 10% di quelli con misure di sicurezza non detentive. Numeri per difetto, secondo gli esperti, se si considerano tutti i provvisori e quelli assegnati R.E.M.S. in attesa che si liberino i posti nelle stesse. Negli ultimi anni si è assistito, dall’entrata in vigore della Legge 81/2014, con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G.) e la nascita delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (R.E.M.S.), ad un progressivo coinvolgimento della psichiatria “territoriale” nella presa in cura dei pazienti psichiatrici autori di reato. Questo ha creato un’enorme difficoltà e ha reso necessario un piano formativo all’interno dei Centri di salute mentale. In questo contesto, si inserisce il Centro per la Profilazione ed Analisi Criminologica (Ce.P.A.C.), progetto unico in Italia, voluto dalla Regione Veneto che basa la propria operatività su protocolli e strumenti validati, con l’obiettivo di garantire la necessaria appropriatezza tecnica. Se ne è parlato nel corso dell’evento organizzato da Motore Sanità dal titolo “Psichiatria e Giustizia al servizio della società”, presso la Sala San Domenico della Scuola Grande San Marco, con il patrocinio di Regione Veneto e Società Italiana di Psichiatria e la sponsorizzazione di Centro per la Profilazione ed Analisi Criminologica (Ce.P.A.C.). “Nel nostro Paese abbiamo bisogno di fare sinergia con le nostre regioni, gli enti locali, il sistema sanitario e con la giustizia perché il tema dell’esecuzione della pena è un tema complesso e non può essere risolto solo da una parte” ha dichiarato Andrea Ostellari, Sottosegretario del Ministero della Giustizia. “Ciò che avviene all’interno delle carceri, ciò che registriamo in termini di numeri di aggressioni e di violenze può essere risolto e può anche avere una ricaduta positiva per la costruzione della cultura delle nostre comunità. Il soggetto recuperato, curato, rieducato con il lavoro, la formazione e una vera analisi del suo comportamento è dimostrato che non ricommette più reato quando esce dal carcere: accade nel 98% dei casi. Questa è la strada per costruire un futuro migliore”. La Società italiana di Psichiatria (SIP) lancia l’allarme: “La situazione di difficoltà in cui vertono i Dipartimenti di salute mentale ormai da molti anni a causa delle ridotte risorse investite e del personale sempre minore ha reso la situazione al limite del gestibile - ha dichiarato Emi Bondi, Presidente SIP (Società Italiana di Psichiatria -. I pazienti autori di reato rappresentano oggi il 30% dei pazienti che occupano i posti letto degli SPDC e il 30% dei pazienti che occupano i posti in comunità, con una difficoltà a gestire e a poter seguire le persone che non hanno questo provvedimento. La Legge 81 sta mostrando tutti i limiti della sua costituzione, mancano percorsi adeguati che siano in grado effettivamente di rispondere alle esigenze di bisogno di salute mentale ed è necessario rivedere anche il numero degli accessi dei pazienti che hanno la misura di sicurezza ai quali viene dato l’infermità di mente. È importante dunque revisionare la legge ma anche soprattutto aprire un dialogo con la magistratura per meglio gestire le risorse e indirizzare anche i provvedimenti. Le risorse per la psichiatria sono scarse - ha sottolineato la presidente - mancano i medici, i posti letto, non ci possiamo permettere dei ricoveri di mesi di pazienti con misure di sicurezza nei reparti perché non ci sono dei percorsi alternativi”. Tommaso Maniscalco, Direttore DSM AULSS 7 Pedemontana, Membro del Tavolo Tecnico Ministeriale Felice ha aggiunto: “La legge 81 ha delle falle perché ci sono molti pazienti, più di 700 in lista di attesa, che non trovano posto nelle R.E.M.S. Per questo è importante garantire l’appropriatezza di internamento per evitare che i posti delle R.E.M.S. siano saturati da pazienti che non hanno necessità di misura detentiva. Il rapporto con la magistratura in termini di corresponsabilità, collaborazione e formazione è fondamentale e deve essere incentivato in tutte le regioni. Il Ce.P.A.C.si inserisce perfettamente in questo contesto perché l’obiettivo è quello di garantire maggiore appropriatezza di internamento”. Il progetto pilota del Veneto: caratteristiche e finalità Il Ce.P.A.C. nasce come proposta del tavolo tecnico interistituzionale per la gestione del paziente sottoposto a misure di sicurezza istituito con Decreto del Direttore dell’Area Sanita? e Sociale n. 103 del 5 settembre 2018, che ha ritenuto opportuna “Attivazione di una struttura sanitaria sperimentale residenziale idonea per l’applicazione della liberta? vigilata “residenziale” (art. 228 cp), ovvero per gli arresti domiciliari in luogo di cura (art. 284 cpp) per pazienti psichiatrici autori di reato, finalizzata a garantire, laddove necessario, un adeguato approfondimento giuridico-forense per supportare le decisioni della magistratura competente”. Le finalità del Ce.P.A.C, istituita con DGRV 210/2020, è attuare il principio dell’accoglienza in R.E.M.S. come extrema ratio in attuazione della legge 81/2014, attraverso un percorso residenziale di profilazione e analisi criminologica. Come spiega Emanuele Toniolo, Direttore CePAC, “si tratta di una struttura sanitaria che si colloca all’interno della rete sanitaria per pazienti psichiatrici autori di reato, può svolgere una funzione di snodo fra i Dipartimenti di Salute Mentale che hanno in carico la persona e la REMS; il percorso di profilazione del soggetto, finalizzato alla valutazione del grado di pericolosità sociale, dovrà procedere d’intesa con il DSM al fine di verificare la possibilità di percorsi alternativi territoriali alla misura di sicurezza detentiva, comunque idonei a conciliare i bisogni di cura della persona e le esigenze di sicurezza della collettività. Il CEPAC è un progetto sperimentale con valenza nazionale che operando per rendere maggiormente appropriato l’inserimento in REMS, può contribuire ad affrontare il problema delle liste d’attesa collaborando con i Punti Unici Regionali (PUR) previsti dal Documento della Conferenza Stato Regioni del 30 novembre 2022”. Enrico Zanalda, Direttore DSM ASL Torino 3 e dell’AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano (To) ritiene molto utile il progetto Ce.P.A.C. perché affronta il problema degli assegnati provvisori. “Sovente nella fase di cognizione i Pubblici Ministeri si trovano a dover individuare velocemente dove poter inserire pazienti che non possono più rimanere in carcere ma che non sono adatti ad una soluzione non contenitiva. Avere una struttura come il Ce.P.A.C. dove i pazienti possono essere studiati, sono in sicurezza ma non vi possono restare oltre sei mesi è di aiuto in tutte queste situazioni critiche. Ritengo che individuare situazioni articolate differenti per i vari momenti del percorso giudiziario e con differenti livelli di sicurezza possa essere una soluzione percorribile nelle varie regioni. A delle risposte regionali come le REMS possono essere affiancate delle risposte per macroarea sulla base dello studio delle attuali criticità proponendo soluzioni come, ad esempio, alcune strutture a più alta sicurezza (maggior rapporto operatori/ricoverati) per quei pazienti considerati difficili anche nelle R.E.M.S.”. Rolando Paterniti, Criminologo dell’Università degli Studi di Firenze e Membro Tavolo Nazionale di Sanità e Giustizia ha portato all’attenzione l’esperienza toscana in cui è stata effettuata una formazione specifica psichiatrico forense finalizzata all’individuazione di Referenti Forensi per ogni Servizio Psichiatrico, allo scopo di facilitare i rapporti e trovare un linguaggio comune tra la Magistratura, i periti e la psichiatria. “Da un’attenta analisi degli eventi e dal confronto con colleghi - ha spiegato Paterniti - è emersa la necessità di una proposta di modifica dell’attuale sistema nazionale italiano per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nasce l’esigenza di individuare luoghi distinti dalle attuali R.E.M.S., con prevalente competenza sanitaria e prevalente competenza giudiziaria. Nasce, inoltre, la necessità, a monte, di una valutazione psichiatrico forense che risulti adeguata ed appropriata sul piano tecnico e clinico per poter formulare un progetto di cura individualizzato”. Separazione delle carriere per giudici terzi e imparziali di Filippo Rossi Italia Oggi, 12 dicembre 2023 “Lavoriamo a riforme che possano riavvicinare i cittadini alla giustizia. Una di queste è sicuramente la separazione delle carriere che dia l’idea di un giudice terzo e imparziale, equidistante tra accusa e difesa. Ma la riforma vera è quella dell’aumento del numero dei magistrati. Abbiamo un magistrato ogni 11.500 cittadini, in Germania il rapporto è di 1 ogni 5500. Su questo bisogna necessariamente intervenire. L’Ufficio per il processo si è rivelato una scelta efficace. Oggi contiamo su seimila addetti che rimarranno fino al 2026. È stato bandito un nuovo concorso per 4200 unità che ci auguriamo di poter stabilizzare se le risorse economiche lo consentiranno. Questi provvedimenti hanno comportato un’accelerazione dei tempi del processo penale del 29% e dei processi civili del 19%. Siamo sulla buona strada per centrare gli obiettivi che l’Europa ci chiede”. Queste le parole del viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto al Cnpr Forum “L’Italia che verrà: uno sguardo sul futuro del nostro Paese”, promosso dalla Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili, presieduta da Luigi Pagliuca, dedicato all’evento nazionale “Insieme per il Domani”. “La giustizia rappresenta un servizio estremamente importante per il rilancio e la crescita del nostro Paese per il suo buon funzionamento - ha osservato Tommaso Miele, presidente aggiunto della Corte dei conti - c’è bisogno di riforme strutturali, di regole chiare e certe, ma anche di una magistratura autorevole, terza, imparziale, equilibrata, al di sopra delle parti. Oggi è più che mai necessario che si ristabiliscano i ruoli che la Costituzione assegna a ciascun organo e a ciascuna istituzione e ognuno rispetti i limiti del proprio ruolo”. Di semplificazione delle sentenze ha parlato Fulvio Baldi, sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione: “Una giustizia che funzioni mette in condizione l’imprenditore di poter sapere prima a cosa andrà incontro, consentendogli di decidere che percorso intraprendere. In Italia abbiamo 9.500 magistrati operanti, a cui si aggiungono 4.500 magistrati onorari. Il problema, quindi, non è il numero ma il fatto che le sentenze andrebbero semplificate. Un magistrato che scrive un ‘trattato’ e spreca giorni che non possono essere facilmente recuperati. Abbiamo la Cassazione assediata, con circa 60mila processi penali e 30/40mila civili all’anno e le contravvenzioni occupano lo stesso tempo di un processo che analizza tematiche delicate. Serve un cambio di mentalità”. La giustizia è al centro del rilancio dell’Italia secondo Paola Severino, presidente della Scuola nazionale della pa: “Il tema del rapporto tra diritto ed economia, tra giustizia ed economia, tra buon funzionamento della giustizia e crescita del Paese deve essere posto al centro. Se non c’è certezza del diritto l’economia si desertifica. Negli ultimi quattro o cinque governi tutti i ministri della giustizia hanno affrontato il tema partendo da questo obiettivo. Nel diritto civile il timore che una controversia possa durare anni toglie qualsiasi buona volontà alle aziende a investire nel Paese”. Gino Cecchettin, quando la ragione ribalta il circo giustizialista di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 dicembre 2023 La lezione del padre di Giulia, che invece di invocare vendetta cerca le cause dei femminicidi. Tra i tanti meriti che dovremmo riconoscere a Gino Cecchettin c’è l’aver ribaltato completamente la narrazione mediatica sui parenti delle vittime di morte violenta che, nel circo dell’informazione italiana si tramuta spesso in un truculento horror. Le telecamere, i microfoni, i taccuini hanno provato a rimestare nel torbido, cercando gli osceni dettagli dello strazio di un genitore che ha perduto la figlia ventenne, e probabilmente si aspettavano una reazione scomposta, un moto violento, se non di odio di aperta ostilità nei confronti dell’assassino della figlia Giulia. Siamo abituati così, da troppo tempo; ogni volta che un fatto di cronaca nera diventa un caso nazionale ci costruiamo attorno un show morboso e giustizialista. Gino Cecchettin nelle sue toccanti apparizioni in tv ci ha invece spiegato che la rabbia e l’umanissimo sentimento di vendetta non sono un coefficiente universale per misurare il grado di dolore e di sofferenza delle persone, lasciando a bocca asciutta chi sperava di cavalcare l’ennesima tragedia e dar via libera ai bassi istinti. Non si è lasciato sopraffare dalla disperazione e dall’angoscia a cui avrebbe diritto ma si è affidato alla ragione per comprendere le cause che hanno portato sua figlia a morire accoltellata per mano di un ragazzo che non accettava di essere lasciato. Come tante altre donne, in Italia e nel resto del pianeta. “Mi sono astratto dal dolore per capire dove avessi sbagliato e per cercare di dare un aiuto a chi ancora ha la possibilità di salvarsi, Il problema è la donna vista come proprietà. Parliamo ancora della “mia donna” che sembra un’espressione innocua, ma non è così”, ha detto domenica, ospite della trasmissione Che tempo che fa. Un intervento toccante che mostra la presa di coscienza di un uomo nel momento più cupo della sua vita, un uomo che è stato capace di mettere da parte l’odio e di ragionare sulla violenza subita dalle donne nella nostra società e sui suoi fondamenti culturali. Non è importante disquisire e stabilire se si tratti di “patriarcato” o di “semplice” maschilismo, non è una disputa nominalista, conta illuminare i meccanismi del possesso, che si annidano nella vita di tutti i giorni, nella normalità dei rapporti di coppia e nell’incapacità per molti uomini di accettare un rifiuto. Anche che proviene da famiglie insospettabili e “moderne”, come quella di Filippo Turetta. Giulio Cecchettin era l’ultima persona al mondo da cui si poteva pretendere uno sguardo così lucido e illuminato sulla piaga dei femminicidi. Che sia stato proprio lui a rovesciare la retorica della vendetta e a spegnere il nutrito coro delle tricoteuses nostrane è una bellissima lezione per tutti. Anche e soprattutto per quelle migliaia di hater che da giorni lo insultano sui social network e che non meritano nessun commento. Stragi senza giustizia, ma la verità esiste ed è tutta negli archivi di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 dicembre 2023 Piazza Fontana: 1969-2023. La bomba di Milano aprì il decennio più nero della Repubblica: le responsabilità di neofascisti e pezzi di Stato sono ormai storia. Bettin e Dianese a caccia dei “gelidi mostri”, Tobagi punta agli intrecci della politica. Per trovare una verità sepolta dai decenni bisogna mettersi a riguardare la storia minuto per minuto. È un lavoro che richiede pazienza e poi non è affatto detto che produca risultati tangibili, perché se è vero che in guerra la prima vittima è proprio la verità, dove una guerra non è mai stata dichiarata a morire subito è quasi sempre la memoria. E purtroppo l’esattezza delle risposte dipende sempre dalla domanda da cui si decide di partire. Per esempio: il decennio che corre tra la strage di piazza Fontana, avvenuta 54 anni fa esatti, e quella della stazione di Bologna è stato un decennio di guerra? Si dirà che sono successe tante cose, che non c’è stato solo il sangue, non c’è stata solo la violenza, non ci sono state solo le bombe, le trame e le congiure. C’è stato anche il coraggioso tentativo di trasformare l’Italia in un paese civile: lo statuto dei lavoratori, l’aborto, il divorzio, l’obiezione di coscienza, la chiusura dei manicomi. Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese parlano di “verità d’insieme”, forse l’unica possibile a distanza di tanto tempo dai fatti. La tigre e i gelidi mostri, da poco uscito per Feltrinelli, è un tentativo di portare un po’ di luce nelle tenebre della Repubblica: la tigre è il cambiamento che irrompe in società (e spaventa i reazionari) e il resto del titolo è un riferimento a Nietzsche, secondo il quale “Stato si chiama il più gelido dei mostri”, perché in fondo il sangue delle stragi è per lo più nelle mani di uomini dello Stato, non pezzi deviati come si usa dire, ma funzionari, agenti, dirigenti, nomi noti e importanti, tendenzialmente stimati in società. E il percorso arriva fino a oggi: la destra italiana appare distante dalle tendenze eversive del passato - anche se certi dettagli ricorrono: Meloni ha festeggiato la sua vittoria elettorale del 2022 all’hotel Parco dei Principi di Roma, dove nel 1965 andò in scena il battesimo della cosiddetta “destra rivoluzionaria” - e ha pure imparato bene a gestire la tigre, imponendo le sue parole e i suoi temi a tutta l’opinione pubblica. Basti pensare al racconto del fenomeno delle migrazioni, tra invasioni immaginarie, fortezze da proteggere e identità per cui combattere. Ricetta che funziona benissimo in un paese che non c’è più e che infatti adesso si fa chiamare nazione. E lo Stato? È ancora gelido, anche se non ha più bisogno di apparire mostruoso. EPPURE è proprio da un uomo dello Stato che Bettin e Dianese partono per cavalcare la tigre e svelare il volto dei gelidi mostri: il sostituto procuratore Mario Amato, ucciso dai Nar a Roma nel 1980 e prima ancora lasciato solo, senza scorta, a indagare sulle trame dei reduci di Salò che si misero al servizio dell’impero del bene quando il mondo venne diviso in due e il confine - di ferro - era a casa nostra, dove la lealtà ha sempre un suo doppio e dipende dall’incrocio delle varie strategie. Fino a che punto è lecito fare del male nel nome del bene? Una domanda che contiene in sé tutta l’inquietudine per le sorti di un paese sempre sotto tutela, mai considerato davvero maggiorenne. Le stragi italiane, dunque, furono stragi politiche: “Non solo ai sensi del codice penale, ma anche su un piano storico”, spiegano gli autori. Dalla prima parte di questa frase, cioè dai mille lunghissimi processi spesso finiti in assoluzioni generalizzate o verità scritte in piccolo nelle tardive sentenze di Cassazione, che Benedetta Tobagi fa partire il suo Segreti e lacune. Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo (Einaudi). Forte di un’immersione totale nei documenti declassificati dei servizi e nelle carte giudiziarie, la storica compone un affresco molto politico del decennio stragista. E i fili che collegano i fatti non sono tanto nel dibattito pubblico dell’epoca - in ogni caso molto più evoluto di quello attuale - quanto nel retrobottega della Repubblica: i rapporti spesso conflittuali tra magistrati, gli scontri interni all’intelligence, le manovre di sottogoverno. E cose note. Talmente risapute che nessuno le ha mai studiate davvero: la P2, suggerisce Tobagi, alla quale abbiamo addebitato di tutto e che è stata davvero un enorme centro di potere occulto. E però curiosamente nessuno ha mai affrontato il tema da un punto di vista accademico. C’è un anno fondamentale in tutta questa storia: il 1977, quando i servizi segreti vennero riformati (sdoppiati, in parte democratizzati) e le istituzioni cominciarono a cambiare. Difficile da dire se in meglio o in peggio, ma un’idea ce l’abbiamo tutti, ed è quella del paese che cambia maschera in continuazione, assecondando le circostanze. E c’è una conclusione (anche se i libri non finiscono mai, al più si abbandonano): la metà degli anni ‘90, quando l’Italia ha preso atto della fine della guerra fredda e il suo sistema politico ha smesso di funzionare, lasciando campo libero ai venditori di fumo e ai tanti, troppi, cantori della fine delle ideologie. Un tema resta, sempre uguale a se stesso, anche se di tempo ne è passato parecchio, anche se di stragi non ce ne sono più, anche se gli intrighi sembrano essere scomparsi: il controllo democratico sugli apparati della Repubblica. Lo sforzo costante di sorvegliare gli argini dei fiumi per evitare che si rompano. E per far sì che i fatti vengano archiviati si può solo lavorare sugli archivi: se è vero che tutto passa, è vero pure che tutto lascia traccia. La figlia di Moro e il terrorista che lo rapì: “Noi, amici improbabili” di Michela Bompani La Repubblica, 12 dicembre 2023 Agnese, terzogenita dello statista ucciso nel 1978, e Franco Bonisoli, membro del commando di via Fani insieme nel percorso di giustizia riparativa del “Gruppo l’incontro”. Franco Bonisoli, ex brigatista, è il primo ad alzarsi in piedi, tra il pubblico del Palazzo Ducale, e ad applaudire, quando Agnese Moro, figlia dell’ex presidente del consiglio e presidente della Dc sequestrato e ucciso dalle Br nel 1978, riceve il Premio internazionale Primo Levi, per il suo impegno nella “giustizia riparativa”. “Grazie ai miei preziosi amici difficili e improbabili”, dice, e gli rivolge lo sguardo sereno. Bonisoli, che fu membro del commando di via Fani, la segue in quasi tutti gli incontri pubblici, seduto in platea, oppure accanto a lei, a raccontare il loro percorso di giustizia riparativa, “che ci ha liberato dall’essere noi vittime per sempre e loro cattivi per sempre. Loro hanno bisogno di noi e noi di loro, quando lo abbiamo capito, siamo diventati amici”, dice Agnese Moro. Per costruire un’amicizia “improbabile” ci sono voluti sei anni: “La prima volta che mi sono trovata in una stanza con uno di loro ho pensato “Oddio, cosa ci faccio qui” - dice Moro - mi aveva portato una piantina, una cosa viva. Io mi aspettavo un fantasma, di quelli che mi ero immaginata per trent’anni. Invece avevo davanti un uomo vecchio, come me. E mi disse: “Hai una faccia che non si può guardare”: gli ricordavo mio padre”. Bonisoli ha il viso solcato da rughe, i capelli biondi sulle spalle, ascolta ogni parola. “Ci siamo detti cose “indicibili” e “inascoltabili” - ha ricordato a un incontro - eppure le abbiamo dette e le abbiamo ascoltate, nel rispetto reciproco”. “Quando mio padre è morto, avevo 25 anni, due anni più di lui” dice Agnese Moro, adesso l’ex brigatista è diventato “uno dei miei difficili, improbabili e preziosi amici”. Tutto è cominciato nel 2009, quando hanno intrapreso un percorso di giustizia riparativa, con il “Gruppo l’incontro”, con tre mediatori, Claudia Mazzucato, Guido Bertagna e Adolfo Ceretti e il dialogo con il cardinale Carlo Maria Martini, che seguiva il progetto. Undici incontri protetti, in sei anni, tra una casa dei Gesuiti in Alpi Marittime e l’abbazia milanese di Viboldone: “Abbiamo passato settimane intere in un posto dove non prendevano i telefoni”, ricorda Bonisoli e insieme lavavano piatti, si chiudevano in silenzio, pulivano i pavimenti e hanno giocato anche a calcetto. “Pensavo che il dolore fosse solo mio - dice Agnese Moro - poi ho accettato di varcare una soglia e di incontrare chi era coinvolto nell’uccisione di mio padre e ho capito che al mio, corrispondeva un altro dolore. E allora abbiamo attraversato i nostri inferni insieme”. Come quando, il 17 giugno 2012, sono andati insieme, con il “gruppo”, sulla tomba di Moro e poi nella casa di famiglia, a Torrita Tiberina. Non parla mai di perdono, forse troppo grande, forse troppo unilaterale, ma dell’amicizia che la lega a un “ex”, come Bonisoli: “Niente può riparare l’irreparabile, mio padre non posso aggiustarlo e neanche posso riattaccare i cocci di quando mi sono rotta, con la sua morte - dice - però la giustizia riparativa toglie le maschere in cui ci siamo intrappolati: vittime e cattivi. Siamo tornati persone”. Ieri ai ragazzi del liceo Cassini di Genova ha mostrato le sue foto di bambina, con il suo papà, in giacca e cravatta, mentre tutti erano in costume, sulla spiaggia di Terracina: “Non riuscivo più a guardarle, erano sporche di sangue, finché i miei amici improbabili mi hanno restituito il passato”. Patteggiamento, l’inammissibilità del ricorso per cassazione prevale sulla remissione di querela di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2023 Nel caso era intervenuta sia l’efficacia della nuova riforma Cartabia sia la remissione della querela. Con la sentenza n. 49823/2023 i giudici di legittimità hanno affermato che la remissione di querela, intervenuta mentre pende il giudizio di Cassazione contro una decisione di patteggiamento, non prevale sull’inammissibilità del ricorso e di conseguenza non si estingue il reato. Nella giurisprudenza della Cassazione penale - anche prima della Riforma Cartabia - era emersa un’oscillazione tra due contrapposti orientamenti sulla preminenza o meno della remissione della querela in caso di ricorso inammissibile contro una sentenza di patteggiamento. La Corte respinge la lamentela del ricorrente secondo cui l’ordinanza della Cassazione che aveva dichiarato inammissibile il ricorso aveva taciuto sul punto dell’intervenuta rimessione mettendo solo in evidenza che medio tempore era entrata in vigore la norma della Riforma Cartabia che fissava come causa di procedibilità del reato l’esistenza della querela della parte offesa. Per cui riteneva la difesa con il ricorso straordinario - che è stato rigettato - che sussistesse un errore di fatto dell’ordinanza impugnata in quanto illogicamente rilevata l’efficacia delle nuove norme sulla procedibilità non dava invece alcuna rilevanza al fatto che prima della definitività della condanna fosse intervenuta la remissione. Sul punto della preminenza tra la querela ritirata e l’inammissibilità del ricorso la sentenza riporta anche orientamenti favorevoli a dar rilievo alla condizione di procedibilità venuta meno con la conseguente estinzione del reato. Ma il punto sta però proprio sui limiti di impugnabilità delle sentenze di patteggiamento che sono sì ricorribili per cassazione, ma solo in caso di pena illegale. Ed è proprio in base a tale limitata possibilità di impugnare in caso di pena su accordo tra le parti, che si fonda l’orientamento prescelto dall’ordinanza impugnata in via straordinaria che aveva dichiarato inammissibile il ricorso e non dichiarato estinto il reato per l’intervenuta remissione di querela contro l’imputato che aveva patteggiato la pena. La Cassazione penale ora confermando con una nuova inammissibilità del ricorso la decisione impugnata precisa però che realmente vi è un’attuale contrapposizione di orientamenti e che non poteva il ricorrente attaccare l’ordinanza per aver di fatto prescelto un’interpretazione a detrimento di un’altra. Trento. Detenuta ritrovata impiccata. I parenti: “Non è suicidio” di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 12 dicembre 2023 L’hanno trovata senza vita nel vano docce del carcere di Trento. Impiccata con un laccio per le scarpe lungo circa 50 centimetri. La vittima è una bolzanina di 37 anni, sulla cui morte i famigliari chiedono chiarezza. “Non avanzano ipotesi di alcun tipo, né lanciano accuse - premette Nettis, il loro avvocato - ma a loro avviso le circostanze in cui la donna sarebbe morta presenterebbero delle perplessità”. Sul caso indaga la Procura di Trento. “Non avanzano ipotesi di alcun tipo e nemmeno lanciano accuse - premette Nicola Nettis, l’avvocato al quale lo zio e la mamma della vittima si sono rivolti - ma a loro avviso le circostanze in cui la donna sarebbe morta presenterebbero delle perplessità. A partire dalle modalità con cui sarebbe avvenuta l’impiccagione: dal momento che pesava circa 80 chili, si domandano se sia possibile che un laccio abbia retto a una tale sollecitazione”. La donna, oltretutto, per lo meno in presenza dei famigliari, non avrebbe mai mostrato segnali che potessero indurli a pensare che fosse intenzionata a compiere un gesto estremo. “E questo - continua il legale -, anche perché, tra pochi mesi, avrebbe potuto lasciare il carcere: dopo un paio d’anni di detenzione, in seguito a una condanna per reati contro il patrimonio, avrebbe potuto chiedere l’accesso a una misura alternativa, che con ogni probabilità le sarebbe stata concessa. Sul caso, la Procura di Trento ha già aperto un fascicolo d’indagine. Con il conferimento ufficiale dell’incarico, Nettis potrà fare richiesta di accesso agli atti e confrontarsi con il pm titolare dell’inchiesta anche, eventualmente, perché possa essere disposta un’autopsia che chiarisca le cause del decesso. Trento. La Garante dei diritti: “Tragedia che lascia sgomenti, c’è ancora molto da fare” ildolomiti.it, 12 dicembre 2023 Una 37enne è stata trovata senza vita nelle docce della sezione femminile del carcere di Spini di Gardolo: si sarebbe trattato di suicidio, anche se da parte della famiglia è stato richiesto di poter fare chiarezza. Antonia Meneghini: “Non succedeva da 5 anni: una tragedia che lascia sgomenti e che conduce a riflettere su quanto lavoro ci sia ancora da fare, nonostante molto sia già stato fatto”. “Non c’è molto da dire: quello che è successo è una tragedia che lascia sgomenti”. Sono queste le parole della Garante dei diritti dei detenuti della Provincia Autonoma di Trento Antonia Meneghini, che commenta la terribile vicenda avvenuta negli scorsi giorni fra le mura del carcere di Spini di Gardolo. Con un laccio per scarpe legato attorno al collo: così, sarebbe riuscita a togliersi la vita la detenuta bolzanina (in carcere per reati contro il patrimonio ndr) che, fra 6 mesi, sarebbe dovuta tornare in libertà. I familiari però, sulla drammatica vicenda, come riporta Tagliente, avrebbero prontamente chiesto di fare chiarezza, non riuscendo a credere che una donna di un’ottantina di chili di peso possa essere morta in quel modo: la procura di Trento ha aperto un fascicolo d’indagine. “Gli ultimi due sono stati anni neri - commenta Meneghini -. Ben 85 i suicidi registrati nel 2022 nelle carceri italiane. Quest’anno, al 24 settembre 2023, ne contavamo già altri 51”, fa sapere, sottolineando che in particolare per quanto concerne la casa circondariale di Spini “terribili vicende come quella degli scorsi giorni non avvenivano da 5 anni”. “Possiamo dire che molto è già stato fatto, anche a Spini, dove da tempo esiste un piano locale di prevenzione delle condotte suicidarie - conclude la Garante dei diritti dei detenuti -. C’è ancora, però, anche molto altro da fare. Di fronte a fatti gravi come la morte della 37enne bolzanina dobbiamo riflettere, continuando a fare rete e a lavorare sulla prevenzione di queste tragedie”. Verona. A Montorio tre suicidi in 28 giorni. Protestano educatori e avvocati di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 12 dicembre 2023 Nel carcere scaligero situazione “gravissima” a causa del sovraffollamento. Il terzo suicidio nel giro di un mese è quello di un detenuto magrebino che era arrivato a un passo dalla libertà. La famiglia si chiede “Perché proprio ora che mancavano meno di tre mesi, a noi aveva detto che non vedeva l’ora di uscire e rifarsi una vita”. Il carcere di Montorio, che oggi tra gli altri ospita Benno Neumar e Filippo Turetta, è diventato un caso. Secondo Ilaria Cucchi è “Un simbolo di ingiustizia” e ora si muove anche la politica. Terzo suicidio, venerdì, nel carcere di Verona, in soli ventotto giorni. Un trentenne di origine marocchine, Oussama Hatim, si è tolto la vita in cella di isolamento. E ora la famiglia chiede di sapere cosa è successo, perché Oussama, dopo tre anni, a breve sarebbe tornato libero. “Una settimana prima della tragedia mio fratello era felice, stava contando i giorni all’imminente scarcerazione. Era pieno di progetti”, racconta Hatim Sadek, fratello di Oussama che di recente era stato visitato da uno psichiatra. “Nessuno si ucciderebbe sapendo che tra novanta giorni sarebbe tornato in libertà, men che meno mio fratello”, scuote la testa Hatim in videochiamata dal Marocco. “Oussama mi ha telefonato il 30 novembre. Era il mio compleanno, mi ha fatto gli auguri e promesso un regalo una volta libero. Era così entusiasta - lo descrive Hatim -, in carcere stava lavorando e diceva di non vedere l’ora di uscire e rifarsi una vita, trovare un impiego onesto e rendere finalmente felice nostra madre dopo il dolore che le aveva provocato con l’arresto”. Troppe cose, nell’improvvisa morte di Oussama, non convincono la famiglia. Neppure la cugina Nezha, che da anni vive e lavora a Cuneo, si rassegna all’idea del gesto volontario: “Nulla di quello che è successo negli ultimi giorni di vita di mio cugino mi sembra chiaro. Tra tre mesi lo avrebbero scarcerato e lui era impaziente di rifarsi una vita, io ero pronta a dargli una mano e accoglierlo in casa, non aveva alcuna ragione per ammazzarsi. Per questo chiediamo chiarezza e verità, non vogliamo che la sua morte venga subito archiviata e passata sotto silenzio, troppe cose non tornano. Ci dicono che avesse problemi psichiatrici, ma allora perché non gli è data assistenza specifica? Se venerdì ha avuto una crisi e gridava di volersi ammazzare, perché è stato messo in cella d’isolamento anziché sorvegliarlo?”. Sua madre, poi, lo aspettava in Marocco: “Rivederlo era il suo sogno. Erano oltre sette anni, da quando lui era partito per cercare fortuna in Italia, che nostra mamma lo sentiva solo al telefono - si commuove Hatim -. È stato tremendo dirle che ora tornerà da noi in Marocco ma dentro una bara”. La storia di Oussama, purtroppo, rispecchia quella di tanti immigrati: arrivano in Italia e finiscono in tunnel sbagliati. Lo spaccio, l’arresto: il senso di vergogna, il non voler deludere la famiglia, tutti i sogni, improvvisamente, erano stati rinchiusi insieme a lui in una cella del carcere di Montorio. Un peso a cui in un primo tempo Oussama aveva faticato a reagire: tre anni fa, all’inizio della sua detenzione, pare avesse già tentato di attuare gesti autolesionistici. “Poi però si era ripreso, sembrava aver trovato una sua stabilità. A noi - ribadiscono il fratello e la cugina - troppe cose non convincono. Gli è forse stato detto o fatto qualcosa di brutto? Non aveva motivo di uccidersi, vogliamo un perché”. Per il rimpatrio della salma in Marocco serviranno tempo e soldi: il direttivo dell’associazione Sbarre di Zucchero si è mobilitato: “Non lasceremo sola la famiglia”. A fronte dell’ennesima tragedia in una delle carceri più sovraffollate del Veneto (più 153% di detenuti, secondo solo a Treviso con più 154%) e, di recente, finito sotto i riflettori per la detenzione di Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio della ex Giulia Cecchettin, anche la politica chiede chiarimenti. “Il carcere di Verona diventerà un simbolo di ingiustizia”, dice la senatrice Pd Ilaria Cucchi, sorella di Stefano ucciso nel 2009 a Roma in regime di custodia cautelare. “Le strutture penitenziarie sono in condizioni disastrose - dice Cucchi -. Qualche mese fa il Corriere parlava delle carceri venete come di polveriere pronte a esplodere. E non è l’unica regione, anzi. Il governo non ha soluzioni al crescente malessere e disagio sociale, alla povertà, alle dipendenze. Montorio diventerà un simbolo di ingiustizia, perché la cella sarà la triste dimora di tutte le persone a cui la politica continua a vendere, contro ogni decenza, dei castelli di falsità”. Sovraffollamento e disagio sono un problema in tutte le carceri: da inizio anno sono 66 i suicidi in Italia. “Alla luce del terzo suicidio in 28 giorni a Montorio, abbiamo deciso di interpellare il deputato Flavio Tosi - dice Sbarre di zucchero - in merito alla situazione di detenuti tossicodipendenti e affetti da disagio psichico”. La Camera penale di Verona è pronta ad azioni forti: “È giunto il momento di alzare la voce e gridare “basta”: siamo pronti anche a deliberare lo stato di agitazione e proclamare l’astensione dall’attività di udienza”. Dove oltre Turetta, sono detenuti Benno Neumair, condannato all’ergastolo per l’assassinio dei genitori, e l’ex guardia giurata Massimo Zen. Verona. Ilaria Cucchi: “Il carcere di Montorio simbolo di ingiustizia” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 12 dicembre 2023 “Il carcere di Verona diventerà un simbolo di ingiustizia”. Sull’escalation di suicidi all’interno del penitenziario scaligero, addirittura tre nell’arco di soli ventotto giorni, la senatrice e attivista per i diritti umani Ilaria Cucchi, sorella di Stefano ucciso nel 2009 a Roma in regime di custodia cautelare, interviene con un pesante affondo partendo dall’ultimo dramma di Oussama Sadek, impiccato nel pomeriggio dell’Immacolata in cella d’isolamento a Verona: “Non stava bene, aveva già dato ampi segnali in passato di disagio psichico, ingerendo vetri, incendiando la sua cella”. È la testimonianza dell’associazione Sbarre di zucchero, dopo che nel carcere di Montorio un altro detenuto si è tolto la vita. Il terzo, in meno di un mese. Le strutture penitenziarie sono in condizioni disastrose scrive Cucchi - Qualche mese fa il Corriere parlava delle carceri venete come di polveriere pronte a esplodere. E non è l’unica regione, anzi. Il governo non ha soluzioni al crescente malessere e disagio sociale, alla povertà, alle dipendenze. Parla dell’Italia come della locomotiva d’Europa, ma la verità è che qui si sta sempre peggio. Montorio diventerà un simbolo di ingiustizia, perché la cella sarà la triste dimora di tutte le persone a cui la politica continua a vendere, contro ogni decenza, dei castelli di falsità. Senza sapere offrire una vera speranza”. Anche l’associazione Sbarre si fa sentire: “Alla luce del terzo suicidio in 28 giorni nel carcere di Montorio, abbiamo deciso di interpellare il deputato Flavio Tosi - dichiarano Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini del direttivo -. L’appello urgente che gli abbiamo rivolto riguarda la situazione di detenuti tossicodipendenti ed affetti da disagio psichico”. Intanto la Camera penale di Verona è pronta ad azioni forti: “È giunto il momento di alzare la voce e gridare “basta!”: l’Avvocatura penale scaligera è pronta, come sempre, a fare la sua parte, anche a deliberare lo stato di agitazione ed a proclamare l’astensione dall’attività di udienza, se ciò sarà necessario per riportare l’attenzione delle Istituzioni sulla gravissima situazione in cui versa la casa circondariale di Verona”. Una polveriera. Lecce. Detenuto muore in ospedale a 43 anni, indagati cinque medici del carcere di Francesco Oliva La Repubblica, 12 dicembre 2023 Patrizio Simone è stato ricoverato per due mesi per le conseguenze di una febbre molto alta. Aveva problemi di dipendenza da alcol e nell’istituto penitenziario era stato sottoposto a cure di cui la famiglia non era stata informata: la loro denuncia ha fatto aprire un’inchiesta. Si spegne in una stanza d’ospedale dopo due mesi di ricovero per le complicanze causate da una febbre alta. C’è un’inchiesta sulla morte di Patrizio Simeone, detenuto di Francavilla Fontana (popoloso comune in provincia di Brindisi), deceduto a 43 anni a metà ottobre nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Casarano. Lì dove era arrivato in condizioni già piuttosto critiche direttamente dal carcere di Lecce. E proprio il penitenziario di Borgo San Nicola è finito nell’occhio del ciclone della Magistratura dopo la denuncia dei familiari della vittima. “Chiedono solo giustizia e capire come sia potuto succedere che un detenuto arrivasse in ospedale con oltre 40 di febbre” spiega l’avvocato della famiglia Michele Fino. Nel registro degli indagati la pm presso la Procura di Lecce, Maria Consolata Moschettini, ha iscritto i nomi di cinque medici in servizio presso il penitenziario del capoluogo salentino con l’accusa di responsabilità colposa per morte in ambito sanitario: seguivano il detenuto affetto da una dipendenza all’alcol. Nella giornata di lunedì 11 dicembre nel cimitero di Francavilla si è proceduto con la riesumazione della salma in vista dell’esame autoptico affidato al medico legale Roberto Vaglio (affiancato dai consulenti di parte). Simeone, negli ambienti della criminalità locale, era conosciuto con il nomignolo di “Serpico”. Nel lontano 2005 si rese responsabile di una evasione dalla comunità terapeutica in cui stava scontando una condanna per tentata rapina e duplice tentato furto aggravato. Nel carcere di Lecce doveva espiare una sentenza diventata definitiva a due anni di reclusione per una rapina nel proprio comune di residenza (vicenda per la quale venne arrestato). Dietro le sbarre era in cura per la sua dipendenza dall’alcol e assumeva una terapia farmacologica. Una prima problematica di salute era già stata segnalata nel mese di giugno ma “era stata superata - racconta l’avvocato della famiglia - senza però che nessuno dei parenti venisse informato dal carcere”. Non è andata bene, invece, a fine luglio quando Simeone ha iniziato a stare male. Febbre molto alta (fino a 40°) e il detenuto è stato trasferito in ospedale. E la famiglia presentò una prima denuncia per lesioni personali aggravate. Per circa due mesi, Simeone è rimasto in terapia intensiva e, nonostante la professionalità dei medici, non è riuscito a superare questa seconda crisi e il suo cuore si è spento alla metà di ottobre. “Non intendiamo colpevolizzare nessuno - ma vogliamo capire se il mio cliente è stato soccorso in tempo all’interno del carcere - racconta l’avvocato - sul tipo di farmaci che assumeva dietro le sbarre e come sia possibile che si possa morire per una febbre alta”. Per avere le prime risposte bisognerà attendere il deposito degli esiti della consulenza medico legale sulla scrivania della pm nei prossimi due mesi. Salerno. “Da un mese senz’acqua calda”: scoppia la rivolta dei detenuti nel carcere di Fuorni salernotoday.it, 12 dicembre 2023 “La protesta poteva facilmente degenerare in qualcosa di più preoccupante, ma la professionalità del poco personale di Polizia penitenziaria presente, ha riportato la calma sia pure solo dopo la mezzanotte passata”. Tensione, ieri sera, nel carcere di Salerno, dove numerosi detenuti hanno messo in atto una protesta perché da circa un mese sono senza acqua calda. A riferirlo è Orlando Scocca (Fp Cgil Campania per la Polizia Penitenziaria): “La protesta poteva facilmente degenerare in qualcosa di più preoccupante, ma la professionalità del poco personale di Polizia Penitenziaria presente, ha riportato la calma sia pure solo dopo la mezzanotte passata”. La denuncia - Gli fa eco Daniele Maurizio Giacomaniello che denuncia l’attuale situazione del carcere: “È uno dei più sovraffollati della Campania con 525 persone detenute sulle 372 previste con un affollamento del 141%. A fronte dei numerosi ristretti, permane ancora la carenza d’organico del personale di Polizia Penitenziaria che è costretto a lavorare sempre in emergenza”. Infine, interviene anche Mirko Manna della Fp Cgil Nazionale: “Abbiamo sollecitato i due Sottosegretari competenti per le carceri, sia Ostellari che Delmastro, per trovare soluzioni concrete per i due maggiori problemi: il sovraffollamento e la carenza di personale di Polizia Penitenziaria. È di oggi la notizia che è in partenza il corso di formazione per oltre 1.800 agenti, ma questi rimpiazzeranno i poliziotti andati in pensione nel 2022. Se non si procederà nell’immediato alla stesura di un piano straordinario di assunzioni, il sistema penitenziario collasserà sul serio”. Sanremo (Im). “Gravi episodi all’interno del carcere”, il Ministro risponde alle interrogazioni lapoliticalocale.it, 12 dicembre 2023 Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto alle interrogazioni presentate in ottobre dall’Onorevole Roberto Giachetti su richiesta di Rita Bernardini e del Partito Radicale riguardanti l’autolesionismo del detenuto ucraino MP (che a seguito dello stesso ha perso una mano e avuto seriamente compromessa l’altra) e altri gravi episodi avvenuti dal 2021 ad oggi nella Casa Circondariale di Sanremo. Non è stato fornito un resoconto preciso dell’episodio che resta in buona parte oscuro nella sua dinamica, ma è stato ammesso come dagli esiti dell’inchiesta interna risultino ‘anomalie nella gestione della sorveglianza a vista’ che era stata disposta per un detenuto, attuata peraltro spostandolo in una zona abbandonata del Padiglione C (il vano seminterrato) anziché in sezione come da regolamento ma anche “Dubbi sulle modalità degli interventi posti in essere a seguito dell’evento critico” (in altre parole sulla tempestività dei soccorsi) e come il detenuto dopo quanto era accaduto non sia stato nemmeno visitato dall’equipe medica interna, un fatto che solleva ben più di un interrogativo. Gli atti sono stati messi a disposizione della Procura di Imperia perché accerti eventuali responsabilità penali che potrebbero sussistere. “Balzano purtroppo agli occhi - dicono dall’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ - le similitudini con quanto avvenuto pochi giorni fa nella gestione della misura della sorveglianza a vista per Alberto Scagni. Il detenuto si trova tuttora in carcere in stato di completa invalidità a Pontedecimo, non è stato possibile completare gli interventi di cui necessita (una protesi mioelettrica) a causa della mancata concessione della residenza in carcere da parte del Comune di Genova, una misura a cui tutti i detenuti con condanna definitiva hanno diritto in base alla legge di ordinamento penitenziario. Ringraziamo l’Amministrazione Penitenziaria, la direzione di Pontedecimo e il Garante Regionale per essersi attivati in suo favore e aver reso possibile che questo possa avvenire presto con il rinnovo del suo documento originale”. Più sbrigative le risposte fornite su altri eventi critici, in particolare il suicidio di un altro detenuto, avvenuto nello stesso Padiglione C dove “non sarebbero emerse trascuratezze”, voci discordi su questo purtroppo ne avevamo raccolte e le condizioni dell’isolamento contro cui un altro (che vi si trovava per ragioni sanitarie) per protesta aveva appiccato il fuoco alla sua cella finendo per perdere la vita avrebbero meritato un approfondimento. Più dettagliate quelle sui problemi di organico: per il ruolo dei sovrintendenti (quello più carente) è previsto entro fine anno l’aumento di 4 unità, sono in arrivo 6 nuovi vice-ispettori, mentre per i nuovi ispettori (già incrementati da quanto si asserisce di 5 effettivi nel 2022) si dovrà aspettare il concorso attualmente in atto; resta il problema che molti periodicamente chiedono il trasferimento presso altri istituti e che è difficile evitarlo senza incentivi economici o un significativo miglioramento della situazione. Una buona notizia è l’aumento a 25 ore di presenza settimanale del medico psichiatra deliberata lo scorso 15 novembre. È stato verificato inoltre come i problemi di qualità dell’acqua denunciati negli ultimi mesi dai detenuti sussistano (dipendono dal malfunzionamento del dispositivo anticalcare e della valvola anticorrosione dell’impianto) e sono stati disposti i necessari interventi. Sulla mancanza di lavoro e di attività il Ministro cita dati che conoscevamo: i posti di lavoro interno (a rotazione) sono una quarantina, il progetto di lavorazione del verde ornamentale per il Padiglione C è naufragato, l’officina dei serramenti della Coop. Art. 27 è una eccellenza, ma fornisce lavoro soltanto a 5 persone e rispetto ai 209 detenuti con condanna definitiva è davvero troppo poco. Riguardo al sovraffollamento (288 presenti su 223 posti disponibili e ormai oltre 60.000 a livello nazionale su 47.000 posti teorici che comprendono reparti inagibili o dismessi) “Le risposte - prosegue l’associazione - sono quelle deludenti del Governo che propone l’aumento degli spazi detentivi e la costruzione di nuovi padiglioni negli istituti esistenti, misure che richiedono tempi lunghi, costi notevoli e rischiano di sacrificare in diversi casi spazi destinati all’attività trattamentale. Noi riteniamo sia necessario e urgente diminuire le presenze applicando le misure alternative e adottando provvedimenti come la proposta di legge di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata ordinaria e speciale e che le Riforme della Giustizia per fornire buon esito debbano essere accompagnate - come non smetteva di ricordarci Marco Pannella - da un provvedimento di Amnistia che riporti nella legalità e nel rispetto della Costituzione le carceri del nostro paese”. Brescia. Carcere sotto la lente della Garante: “Sovraffollamento oltre il 200%” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 12 dicembre 2023 Il sistema carcerario bresciano sotto la lente della relazione annuale della garante. Per i detenuti poche telefonate e ore d’aria. La sindaca: al via l’iter per la nuova struttura. Sempre più detenuti, ma sempre meno ore fuori dalle celle e contatti con l’esterno ridotti drasticamente. È un quadro decisamente preoccupante quello dipinto nella relazione annuale stilata dalla Garante per le persone private della libertà personale del comune di Brescia, Luisa Ravagnani, anche solo guardando i numeri: la popolazione penitenziaria al Nerio Fischione sale in 12 mesi da 296 detenuti a 376 (a fronte di una capienza regolamentare di 185). L’indice di sovraffollamento supera così il 200%, ben al di sopra della media nazionale (115%) e anche lombarda (152%), mentre meno preoccupante “seppur non certo da prendere a modello quanto a utilizzo dei posti disponibili”, precisa la relazione, è la situazione nell’altra struttura bresciana, quella di Verziano, che rileva un aumento contenuto di presenze passate da 107 detenuti di un anno fa ai 116 di oggi. Qui, grazie alla sua natura altamente trattamentale, si riesce però “ad offrire una situazione detentiva adeguata anche in presenza di un numero superiore di detenuti, visto che quasi tutta la popolazione ristretta è impegnata quotidianamente in attività di lavoro o di studio, molte delle quali svolte all’esterno” si legge sempre nella relazione, presentata a Canton Mombello alla presenza di una nutrita schiera di consiglieri comunali, chiamati prossimamente a votarla, oltre che la sindaca Laura Castelletti e il presidente del consiglio comunale Roberto Rossini. Nel carcere cittadino da segnalare come sia diminuita la quota di stranieri: dal 48,9% del 2022 al 46,8% del 2023. Aumenta quindi del 2% la quota dei detenuti italiani, mentre a Verziano a calare è la presenza di donne (36% nel 2022, 32% nel 2023), mentre aumenta invece quella di stranieri (dal 29,9% del 2022 si passa al 31% del 2023). Al disagio del sovraffollamento “che non va certo nella direzione auspicata”, sottolinea Ravagnani, si deve aggiungere quello provocato dal ritorno alle norme in vigore prima dell’emergenza Covid, quando erano autorizzate chiamate quotidiane da parte dei detenuti. Adesso sono diventate una a settimana, che forse diventeranno 6 ogni mese se il nuovo pacchetto sicurezza verrà adottato. Non solo: dopo una circolare dell’anno scorso si è passati da una situazione di apertura diurna totale delle celle, con la possibilità di muoversi nelle sezioni, ad una intera giornata di chiusura. Tutti fattori che producono ancora più disagio e alimentano le malattie mentali, che a loro volta generano un aumento nel consumo di psicofarmaci tra i detenuti, oltre che uno stress maggiore per il (poco) personale sanitario, gli educatori e gli agenti presenti nella struttura. Ulteriori ombre, ma anche alcune luci, come quelle accese dalle attività del progetto “Carcere per i diritti umani”, laboratorio di idee attivo ormai da più di sei anni negli Istituti di pena bresciani, piuttosto che quelle con l’esterno, tra le quali quella promossa con Confindustria Brescia per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti. La relazione si chiude anche con quella che viene definita “nota positiva per Brescia: pare che finalmente si sia sulla strada giusta per la realizzazione del nuovo carcere di cui da anni si sente, impellente il bisogno”. Su questo la sindaca Castelletti ha parlato di “avvio nei ministeri competenti di percorsi che ci porteranno attorno ad un tavolo”, trovando nella direttrice dei due Istituti bresciani, Francesca Paola Lucrezi una prudente felicità quando afferma di “nutrire la speranza sia colta l’occasione”. Che sia la volta buona, al momento, difficile dirlo. Viterbo. Il Garante regionale al tavolo per la tutela della salute delle persone detenute garantedetenutilazio.it, 12 dicembre 2023 All’ordine del giorno il piano per la sicurezza degli operatori sanitari e le carenze del personale sanitario e penitenziario. Il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, si è recato oggi alla direzione generale della Asl di Viterbo, per partecipare al tavolo paritetico per la tutela della salute delle persone detenute, dedicato al sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie e di cui fanno parte tutte le istituzioni del territorio che operano in ambito carcerario. Il coordinamento è stato affidato alla Asl di Viterbo e alla direzione della Casa circondariale di Viterbo, “Mammagialla”. Alla riunione hanno partecipato, tra gli altri, la direttrice della casa circondariale di Viterbo, Anna Maria Dello Preite, il professor Antonio Rizzotto, facente funzioni della direzione sanitaria della Asl di Viterbo, il direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) di medicina protetta-malattie infettive, Giulio Starnini, il responsabile della Uos medicina penitenziaria territoriale, Fabrizio Ferri. Nella riunione si è discusso delle misure proposte dal servizio di prevenzione della Asl a seguito di alcuni episodi di violenza fisica e/o verbale subiti dal personale sanitario operante in carcere. Difficoltà specifiche vengono dalla carenza del personale di polizia penitenziaria. D’altro canto, la direttrice la direttrice dell’istituto penitenziario ha riportato il dato sulle presenze: 648 detenuti (a fronte di 405 posti effettivamente disponibili), ricordando che al momento del suo ingresso alla direzione, nel 2021, i detenuti erano 470, e che c’è una mancanza di personale di polizia penitenziaria pari a 81 unità. I problemi di sicurezza incidono anche sulla disponibilità del personale sanitario a prestare servizio in carcere, che si somma alla difficoltà dei Nuclei di traduzione e piantonamento ad assicurare l’accompagnamento dei detenuti a visite mediche esterne. Il Garante Anastasia ha quindi ribadito la necessità del riconoscimento di quelle penitenziarie come sedi disagiate per il personale sanitario e di una revisione delle dotazioni organiche dei Nuclei di traduzione e piantonamento e delle loro modalità operative. Entrambe le questioni saranno proposte alla riunione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria della Regione Lazio, convocata per il prossimo 14 dicembre. La Spezia. Carcere e rieducazione, Villa Andreino fa scuola: “Ma stanno entrando tanti giovanissimi” di Maria Cristina Sabatini La Nazione, 12 dicembre 2023 Diciotto persone impegnate in percorsi lavorativi fuori dall’istituto. La direttrice: “Abbiamo bisogno di più spazi. Molte attività si svolgono in chiesa”. Nella struttura circa 170 ospiti: poco più della metà sono stranieri. Sono circa 170 i detenuti accolti all’interno della Casa Circondariale della Spezia, in maggioranza (anche se di poco) stranieri e condannati per reati contro il patrimonio, come furti e rapine e per spaccio. A raccontarlo è Maria Cristina Bigi, direttore dell’istituto di pena spezzino, a cui abbiamo chiesto di fornirci uno spaccato della realtà carceraria della nostra provincia. Dottoressa Bigi sono più i giovani o gli anziani i detenuti accolti nel carcere spezzino? “L’età più frequente va dai 22- 23 anni fino ai 45 anni. Purtroppo, ultimamente, stanno entrando anche tanti giovanissimi”. Quanti sono i carcerati in attesa di giudizio e quanti quelli condannati in via definitiva? “Su 170 persone, più o meno 70 - 80 sono le persone condannate in via definitiva. Gli altri possono avere una posizione giuridica doppia, quindi una condanna definitiva più un fatto in attesa di giudizio o essere in attesa di giudizio o in attesa di appello”. Entriamo un po’ nella vita ordinaria del carcere. Che criterio utilizzate nella composizione delle celle? “In linea di massima si tende a tenere le persone in attesa di giudizio separate dai condannati in via definitiva. Ultimamente, per un discorso di convivenza, si cerca di far stare assieme persone della medesima nazionalità. Si tende a privilegiare questo aspetto, soprattutto in questo momento in cui due piani della struttura sono chiusi per lavori di ristrutturazione e purtroppo, in stanze in cui solitamente vi sarebbero 2, 3 persone ce ne sono anche 4 o 5”. E per quanto riguarda il vitto come siete organizzati? “All’interno del carcere c’è una cucina di tipo industriale dove lavorano i detenuti, un cuoco, un aiuto cuoco e degli inservienti di cucina. Con dei carrelli professionali portano il vitto ai piani e lo distribuiscono. Tutti coloro che lavorano in cucina devono avere la certificazione Hccp”. A proposito di lavoro. Quali sono le principali attività lavorative che i detenuti svolgono anche al di fuori del carcere? “Ad oggi sono 18 i detenuti che lavorano tra semiliberi e articoli 21. Alcuni sono in borsa lavoro, altri già assunti. Le attività che svolgono sono varie. Abbiamo persone che lavorano a Porto Mirabello, altre in panifici, in negozi di vendita al dettaglio. L’ultimo percorso che abbiamo organizzato riguarda la pulizia dei giardini e dei parchi. Vediamo di anno in anno, in base ad un’attività di progettazione, quello che serve e su questa base strutturiamo le borse lavoro. L’ente di formazione crea il percorso formativo e aggancia i datori di lavoro disposti ad assumere il detenuto. Inoltre, nel 2022, con la Cassa delle Ammende, l’ente che finanzia i percorsi lavorativi e formativi negli istituti penitenziari, abbiamo realizzato dei percorsi per edili. I detenuti hanno collaborato, ad esempio, al ripristino dei piani detentivi dove sono stati fatti lavori di ristrutturazione”. Ci sono all’interno del carcere delle zone comuni? “All’interno del carcere c’è una palestra, una biblioteca, poi ci sono salette per la socialità dove i detenuti possono trascorrere alcune ore e dove si trova un biliardino o possono, ad esempio, giocare a carte. L’istituto, però, avrebbe bisogno di avere ulteriori spazi. In un cortile abbiamo montato una casetta prefabbricata per il teatro, ma non abbiamo un teatro interno e molte attività si svolgono in chiesa. Abbiamo recuperato delle aule per le scuole. Sono molto bravi gli educatori ad inventarsi attività anche in spazi molto ridotti”. Nel carcere i detenuti svolgono anche attività culturali? “Abbiamo le scuole fino alle superiori. Poi c’è il teatro e la scuola di musica rap per i più giovani. Un’attività che vorrei intensificare è quella dell’utilizzo degli spazi all’interno del carcere per interagire con la società. Lo scorso anno, ad esempio, abbiamo fatto presentazioni di libri”. Gorizia. Al Cpr di Gradisca non funziona il riscaldamento. E scoppia la rivolta di Marika Ikonomu Il Domani, 12 dicembre 2023 Al Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo, in Friuli Venezia Giulia, sabato sera i trattenuti hanno iniziato una protesta contro le condizioni di vita, per il mancato funzionamento dei riscaldamenti, l’assenza di acqua calda e l’insufficienza di coperte. “Nella struttura fa molto freddo, ci sono finestre rotte e il riscaldamento non funziona”, spiega Yasmine Accardo referente della campagna LasciateCIEntrare, che da anni si batte contro il sistema dei Cpr e le condizioni disumane all’interno dei centri. I Cpr sono luoghi di detenzione amministrativa, dove i cittadini stranieri senza un permesso di soggiorno vengono privati della loro libertà in attesa dell’espulsione, che avviene nel 50 per cento dei casi. Formalmente non sono carceri, ma le condizioni di detenzione, come hanno rivelato molte inchieste e rapporti, sono spesso peggiori degli istituti di pena. Accardo spiega che erano appena arrivati cittadini tunisini molto giovani, che hanno da poco compiuto 18 anni ed erano “estremamente spaventati”, anche per i nuovi termini di trattenimento, estesi a 18 mesi. “Le persone, dopo aver subìto il freddo di questi luoghi e aver insistito perché cambiassero le condizioni, sono arrivate a queste proteste. Hanno chiesto i diritti minimi di sopravvivenza e non hanno ricevuto nessuna risposta, se non che i riscaldamenti non funzionano”, prosegue Accardo. Il Cpr friulano è uno dei pochi in cui è permesso usare il cellulare. Alcuni video raccolti da LasciateCIEntrare mostrano gli incendi appiccati all’interno della struttura e la presenza di squadre antisommossa. Non è la prima volta che i trattenuti contestano le condizioni di vita all’interno del centro, dove dalla riapertura, nel dicembre 2019, sono morte quattro persone. Secondo il decreto 124 del 2023, poi convertito in legge, dopo la prima convalida al trattenimento, l’esame della situazione del trattenuto avviene dopo tre mesi, quando viene valutata la proroga, che può estendersi a un totale di 18 mesi. La referente di LasciateCIEntrare ritiene che la convalida dopo tre mesi sia “una sottrazione della libertà individuale”, perché “non è possibile portare le proprie istanze prima dei tre mesi. Lo spettro dei 18 mesi spaventa tutti”. L’esposto - Un anno fa le allora parlamentari Paola Nugnes, ex Movimento 5 stelle e Doriana Sarli del M5s, dopo una visita nel centro friulano nell’estate 2022, con alcuni avvocati e avvocate avevano presentato alla procura di Napoli un esposto “in cui la compiuta esposizione dei fatti osservati e l’individuazione di diverse ipotesi di reato su cui sarà compito della procura indagare, si pone come un atto di doveroso senso civico, istituzionale e di giustizia”, raccontava in un articolo su Domani Gaetano De Monte. “Vediamo se ci saranno sviluppi di questo esposto, perché le condizioni del centro non sono migliorate”, dice Accardo. Diritti fondamentali violati - Come negli altri centri per il rimpatrio, potenziati da molti governi - recentemente dal governo Meloni che ha l’obiettivo di costruirne 9 e ristrutturarne due - i diritti delle persone trattenute vengono costantemente violati. Già nel 2020 il Garante delle persone private della libertà personale aveva rilevato problemi al sistema di riscaldamento. “Le persone trattenute hanno espresso un forte disagio per le condizioni climatiche dei locali e il Garante nazionale ha appreso che la Garante comunale ha fornito degli abiti pesanti per attenuare l’impatto di una simile condizione”, si legge nel rapporto del Garante. Si aggiunge, tra le altre cose, l’assenza di attività ricreative, l’impossibilità per i trattenuti di accendere e spegnere la luce, che è centralizzata e gestita dagli operatori, il non utilizzo di una sala mensa, il fatto che non vi sia “la prassi di avvisare i familiari in caso di invii in ospedale” e la lesione della dignità umana per chi si trovava in isolamento fiduciario nel periodo del Covid e riceveva “il cibo attraverso gli spazi delle sbarre della cancellata di ingresso del settore”, che rimaneva chiusa. Il centro di Gradisca dal 2019 è gestito dalla cooperativa Ekene, la stessa che si è aggiudicata l’appalto del Cpr di Macomer, in Sardegna, e che dal 2011 circa ha gestito centri di accoglienza in Veneto, con altre denominazioni. Nonostante i diversi processi in corso a carico dei vertici della cooperativa e l’accusa di omicidio colposo al direttore della struttura per la morte di un cittadino georgiano nel gennaio 2020, la cooperativa continua a gestire la struttura. Legittima difesa - L’unica sentenza che tratta un caso di rivolta nei Cpr, allora Cie, risale al 2012. Il tribunale di Crotone aveva assolto i trattenuti, imputati per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale nel Centro di identificazione e espulsione di Isola Capo Rizzuto, per legittima difesa. Per il tribunale le condizioni di vita all’interno della struttura erano lesive della dignità umana, e configuravano una violazione in linea con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce la tortura e trattamenti inumani e degradanti. Strutture, si legge nella sentenza, “al limite della decenza”, dove le persone non avevano altri strumenti per manifestare e cambiare le proprie condizioni, giustificando quindi le condotte degli imputati. Torino. Il Cpr costa oltre 19.000 euro l’anno per ogni detenuto. “Simbolo di un fallimento” di Gioele Urso torinotoday.it, 12 dicembre 2023 “Quel che accade fuori dal Cpr è figlio degli effetti che quelle strutture provocano in quelle persone”, ha detto Jacopo Rosatelli. Ogni persona detenuta dentro il Cpr di corso Brunelleschi costa allo Stato 19.707 euro l’anno. Una cifra enorme, ma non la più impressionante se si considera che per il CPR di Milano il costo è di 33.421 euro a persona l’anno a fronte di una capienza media di 21 persone e che a Caltanissetta sono 56.913 a fronte di una capienza media di 50 persone. Dati pubblicati da ActionAid e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari che sono stati messi in evidenza dalla garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, questa mattina - lunedì 11 dicembre - durante un incontro che si è tenuto in Comune al quale ha partecipato Jacopo Rosatelli, assessore al welfare della Città. Obiettivo dell’incontro “mostrare razionalmente con dati alla mano che è possibile contemperare le esigenze della sicurezza dello Stato e del rispetto dei diritti umani con misure più efficaci rispetto ai CPR”, ha spiegato l’assessore Rosatelli. Il CPR di Torino al momento non è in funzione perché chiuso nei mesi scorsi per la necessità di effettuare lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza, ma secondo il ministro dell’Interno Piantedosi rientrerà in funzione e verrà ampliato. Al momento però i lavori di ristrutturazione dopo svariati mesi non sono ancora iniziati. Cosa dicono i dati dunque? All’interno del CPR di corso Brunelleschi nel 2022 sono transitati 879 cittadini non comunitari e di questi solamente 240 sono stati rimpatriati. Situazione ancora più paradossale se si considera il 2023, anno in cui a marzo il CPR viene chiuso: fino alla chiusura sono stati rimpatriati 46 cittadini extracomunitari, mentre a CPR chiuso fino al 31 agosto ne sono stati rimpatriati 36. Numeri che secondo Monica Gallo, la garante dei detenuti, dimostrano l’inutilità della struttura. “Il CPR di Torino è il simbolo del fallimento del sistema. Lì dentro le persone vengono messe dentro gabbie. È da 25 anni che nella nostra città esiste il CPR in mezzo ai palazzi e nemmeno i residenti sanno cosa succede dentro quella bolla”. Senza contare i temi politici come il pericolo ‘radicalizzazione’ messo in evidenza dal consigliere comunale Luca Pidello, oppure le ricadute economiche che queste politiche di sicurezza hanno sul portafoglio dei cittadini. “Quando quella persona esce da quei cancelli rappresenta una domanda di intervento all’ente locale che non è messo in condizione di occuparsene”, spiega Rosatelli, “Dal punto di vista della coesione sociale di una città l’esperienza del CPR è problematica, sollecita risposte che i Comuni vengono in qualche modo lasciati soli nel fornire. Questo per il Comune rappresenta un problema, una criticità. Quel che accade fuori dal CPR è figlio degli effetti che quelle strutture provocano in quelle persone”. Da qui nascono le sollecitazioni che sono nate da un tavolo di lavoro organizzato dalla Città su iniziativa della Garante dei detenuti. Le richieste che vengono fatte sono quattro: presa in carico della situazione individuale al fine di valutare le prospettive di regolarizzazione o rimpatrio volontario; misure alternative al trattenimento amministrativo; presa in carico dei cittadini stranieri trattenuti per il tempo del riconoscimento presso le Camere di Sicurezza della Città; riconoscimento del detenuto durante il periodo detentivo. Ferrara: Cpr, la polemica non si placa. “Sono carceri senza diritti. Diciamo no a questi Centri” di Lucia Bianchini Il Resto del Carlino, 12 dicembre 2023 Il vescovo Perego: “Sono peggio di una prigione, i cittadini devono essere informati dicendo loro la verità”. Sono circa cinquanta le associazioni ferraresi che dicono no al Cpr, il Centro di permanenza per i rimpatri, sia a Ferrara (dove è in corso uno studio di fattibilità sull’eventuale costruzione, ndr) e ovunque. E hanno spiegato le loro ragioni e le condizioni di vita “in quelli che sono delle vere e proprie carceri” ieri sera al cinema Apollo. L’occasione è stata la proiezione del documentario ‘Sulla loro pelle’ di Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda, con l’illustrazione del report ‘Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr’ di Clid, Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, con la partecipazione di Federica Borlizzi. Presente alla serata anche l’arcivescovo Gian Carlo Perego, che fin da subito ha espresso la sua totale contrarietà alla creazione del Cpr. “Ad entrarci non sono persone pericolose - spiega Adam Atik, presidente di Cittadini del Mondo - non c’entra nulla la criminalità, ci sembra ingiusto che chi ha lasciato il suo paese per cercare un futuro migliore si trovi prigioniero per una semplice irregolarità amministrativa. Abbiamo notizie di come si vive in queste strutture: si attestano continui abusi, suicidi, cibo avariato, abbiamo tutti davanti le immagini del Cpr di Milano: persone che vivono nella sporcizia, senza cure mediche e tutele legali, ma il gestore ha intascato 4 milioni di euro, è un business, e per noi è inaccettabile”. I Cpr sono strutture dove i cittadini stranieri per una irregolarità amministrativa, la mancanza del permesso di soggiorno, o il suo mancato rinnovo, vengono detenuti in attesa dell’espulsione per un periodo che può andare dai tre ai diciotto mesi. Il report ‘Buchi neri’ ha analizzato le condizioni di vita nel 10 centri presenti sul territorio italiano: “Abbiamo fatto molte richieste di accesso nelle Prefetture - ha raccontato Federica Borlizzi - ma ci è stato sempre negato: sono luoghi molto opachi”. Tra i dati raccolti vi sono condizioni di vita che spesso non rispettano gli standard richiesti dal Comitato europeo di prevenzione della tortura, “le Prefetture ci hanno chiaramente detto - prosegue Borlizzi - che in una stanza di 20 metri quadrati erano alloggiate anche 8 persone, con celle in cui vi era il bagno con la turca a vista, si mangiava e dormiva accanto allo stesso con un trattamento inumano e degradante. I detenuti non hanno il diritto di accendere e spegnere la luce, non c’è igiene; situazioni in cui ci sono sei docce per 150 detenuti, non c’è il riscaldamento e non ci sono abbastanza coperte. Sono strutture fatiscenti e Asl e Prefetture che dovrebbero sorvegliare non lo fanno”. I servizi nei Cpr sono privatizzati, spiegano ancora i relatori, fino al 2013 gli enti gestori erano cooperative, “in seguito sono subentrate le grandi multinazionali”. A riuscire con telecamere nascoste a riprendere le condizioni di vita in un Cpr sono stati gli autori del documentario ‘Sulla loro pellè, parlando con persone trattenute e con ex operatori, che descrivono queste strutture come “gironi infernali, carceri alla stregua di Guantanamo”. “È peggio di una prigione e siamo fortemente contrari - ribadisce Giuliana Andreatti di Mediterranea -. Crediamo che i cittadini ferraresi debbano essere informati, non disinformati: sono state date notizie e subito sono state contraddette, a seconda della reazione delle persone, servono invece chiarezza, trasparenza e informazione”. “Altro problema forte che sentiamo - spiega Hajar Sahbaoui di Cittadini del Mondo - è la continua profilazione razziale, a Ferrara e in tutta la nazione. La nostra associazione dal 2020 ha attivato il progetto Yaya, per documentare questo fenomeno, molto presente e che temiamo si accentui”. Livorno. “Libertà vo’ lavorando”, la shopping-bag dei detenuti di Gorgona Il Tirreno, 12 dicembre 2023 È stata realizzata insieme all’artista Oblo Creature: è un progetto della Fondazione Laviosa. Sono a tiratura limitata. Dal laboratorio creativo con l’artista Giulia Bernini, in arte Oblo Creature e i detenuti del carcere di Gorgona e delle Sughere, dal titolo “Il lavoro della vita”, nasce la borsa “Libertà vo’ lavorando”. La Fondazione Laviosa, grazie alla sensibilità del presidente, il cavaliere Giovanni Laviosa, è fiera tra i suoi progetti, di portare avanti le iniziative che vedono i detenuti protagonisti. Il motore progettuale è la professoressa Flavia Bertolli, che lavora insieme alla professoressa Giovanna Lo Giacco, per creare le condizioni affinché avvengano due scopi. Che spiegano: “Coinvolgere attivamente i detenuti in attività di crescita personale, dialogo e apertura all’esterno, attraverso l’incontro con la popolazione civile, con particolare attenzione all’educazione civica per i più giovani - e vanno nei dettagli - Sensibilizzare l’esterno all’ascolto, all’accoglienza, al dialogo e all’abbattimento del pregiudizio”. Il laboratorio “ Il lavoro della vita” è partito dagli appunti raccolti in cerchio con i detenuti: quale lavoro sognavate da piccoli? quale lavoro avete svolto? Che cosa vorreste fare una volta usciti? Parlare di lavoro significa riconnettersi nel tessuto sociale. Il lavoro è autonomia, indipendenza economica e anche riconoscimento sociale, del proprio posto e ruolo nel mondo. Significa entrare o ri-entrare in relazione. Significa costruire prospettive di autonomia, responsabilità ed è uno dei più grandi deterrenti alle recidive. Eppure non è facile per un detenuto, che ciò avvenga con facilità. Durante il laboratorio con l’artista, i detenuti si sono raccontati, donando uno spaccato delle proprie speranze e delle proprie paure. Chi voleva fare il pilota, chi il venditore di granite. Chi ha imparato a fare il miele. Chi prima era un odontotecnico, chi ci ha illuminato su diversi tipi di pesca, chi sulle scarpe autentiche che faceva da calzolaio, chi sognava di fare il calciatore e adesso calcia i sogni della speranza, chi ha difeso gli ortaggi del proprio campo, chi sta studiando per prendere la patente per il camion. Il lavoro diventa un mezzo per parlare di futuro, di riscatto e di possibilità. Il laboratorio con l’artista, molto riconosciuta a livello nazionale ha lusingato i detenuti. In un contesto nazionale dove le carceri tendono al grigio, come se anche l’estetica dei luoghi dovesse rafforzare la pena, noi abbiamo creduto e investito nella bellezza. Dobbiamo ringraziare il Direttore del carcere Giuseppe Renna, per la fiducia e l’appoggio costante nel sottoscrivere le finalità dei nostri progetti. “Il titolo è stato un brainstorming di tre donne e di amici intorno ad un tavolo - spiegano ancora - Partendo da Dante, dalla libertà che Catone va’ cercando, è nato un titolo: Libertà vo’ lavorando. Il gerundio del lavorare, è l’azione continua e incessante di ricerca e costruzione della libertà, che passa attraverso il lavoro, che si conquista con fatica. Il vo’ richiama l’andare, ma anche il volere. Ed è proprio il lavoro che rende liberi, nel non dover più dipendere da nessuno e nel riuscire a far parte di una comunità che vive insieme di rispetto, collaborazione e valori condivisi”. Le shopping-bag sono a tiratura limitata e costituiscono un regalo etico. Il ricavato sarà interamente devoluto ai progetti a sostegno della popolazione detenuta. È possibile acquistarle sabato 16 dicembre sugli scali d’Azeglio 40, dalle 15.30 alle 18.30 o prenotarle scrivendo a segreteria@fondazionelaviosa.com”. Modena. Il Teatro dei Venti nel carcere di Sant’Anna “Io sono Cassandra”, reading con le detenute di Chiara Mastria Il Resto del Carlino, 12 dicembre 2023 Il teatro torna in carcere da stasera a giovedì, alle 18, con il reading ‘Io sono Cassandra’, appuntamento del Festival Trasparenze di Teatro Carcere, che raggruppa i lavori delle realtà del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Questa volta il festival approda al Sant’Anna di Modena con un reading con le detenute a cura di Francesca Figini e Oxana Casolari, con la drammaturgia e la regia di Stefano Tè e della poetessa Azzurra D’Agostino, che ha curato anche i testi. In scena un’indagine sulla figura femminile di Cassandra dall’interno di un luogo per eccellenza marginale, attraverso un reading di racconti, visioni, voci sul futuro. I testi sono scritture originali della D’Agostino nati a partire dal lavoro con le detenute attrici. “La lingua utilizzata - precisa l’autrice - è la poesia, che è sempre, in qualche modo, profezia”. Questo lavoro fa parte del percorso di ricerca per il prossimo spettacolo del Teatro dei Venti per gli spazi urbani di grandi dimensioni, con debutto previsto nel 2026. Sempre nella Casa Circondariale di Modena, questo venerdì alle 17, verrà presentato ‘Sognalib(e)ro_reading’, con gli attori detenuti della Casa Circondariale di Modena, nell’ambito della serata di Premiazione del concorso letterario nazionale per le carceri promosso dal Comune di Modena in collaborazione con il Ministero della Giustizia e con il contributo di Bper Banca, che ha visto la partecipazione di 17 carceri italiane. Il concorso ideato da Bruno Ventavoli, direttore di Tutto Libri - La Stampa, premierà un’opera della Sezione Narrativa, nella quale i detenuti aderenti ai gruppi di lettura da tutta Italia decreteranno un vincitore tra gli autori Bernardo Zannoni con ‘I miei stupidi intenti’, Veronica Raimo con ‘Niente di vero’ e Maicol & Mirco con ‘Pfui’. Una giuria di esperti valuterà anche gli scritti della Sezione Inediti, prodotti dai detenuti delle carceri aderenti sul tema ‘Quando ero bambino…’. Nel corso della serata gli attori detenuti che seguono i percorsi del Teatro dei Venti daranno voce ai testi vincitori delle due sezioni. Piacenza. “In carcere, per resistere, pensavo: un giorno scriverò per denunciare tutto” di Amedeo Sicuro ilpiacenza.it, 12 dicembre 2023 Patrick Zaki a Piacenza per presentare il suo libro. Ospite alla Cgil, ha ripercorso i difficili mesi della carcerazione nel suo Paese e l’aspetto psicologico della prigionia. “È stato il mio modo di resistere: durante le situazioni peggiori, pensavo: un giorno scriverò questa cosa, un giorno denuncerò tutto”. Così Patrick Zaki nella sede piacentina della Cgil per la presentazione del suo libro “Sogni e illusioni di libertà. La mia storia” nel pomeriggio di lunedì 11 dicembre. L’attivista egiziano, grazie a un’iniziativa della Camera del Lavoro - Cgil di Piacenza, Amnesty International e la casa editrice la Nave di Teseo, dopo aver incontrato nel corso della giornata oltre al sindaco Katia Tarasconi, lavoratori e lavoratrici del comparto logistico, alcuni attivisti e scolaresche, ha presentato di fronte a pubblico e giornalisti il libro in cui racconta il periodo di detenzione nelle carceri egiziane, dal 7 febbraio 2020 all’8 dicembre 2021. L’ex studente dell’Università di Bologna era stato detenuto dal governo del proprio Paese, accusato di diffusione di false notizie attraverso alcuni post pubblicati su Facebook. In questo suo primo libro Zaki ripercorre gli avvenimenti, dal giorno dell’arresto fino al carcere, l’isolamento, le torture, ma anche i sogni e le passioni che lo hanno animato per resistere ogni giorno, senza perdere mai la speranza. Intervistato da Mattia Motta, Zaki ha risposto alle domande dei giornalisti presenti all’incontro: “Nel libro parlo del “viaggio” di 22 mesi in carcere, è un modo per rappresentare la realtà delle carceri nel mio Paese; mi concentro sugli aspetti psicologici della reclusione, parlando di quanto sia difficile stare rinchiuso, raccontando le sensazioni che ho provato, di ansia e di speranza”. “Ho voluto farmi portavoce dei diritti dei prigionieri politici - ha sottolineato l’attivista - mi sono sentito fortunato rispetto agli altri reclusi nella mia condizione, avendo avuto alle spalle anni di studio sulla materia sapevo benissimo a cosa sarei andato incontro, non è stata una sorpresa essere stato sottoposto a torture psicologiche. Sapevo il motivo per il quale ero stato rinchiuso”. Poi ha aggiunto: “Mi sono reso conto che dopo essere stato incarcerato, all’esterno della prigione avevo un intero Paese, e non solo, al mio fianco che mi ha dato la forza e la speranza per resistere. Mi sono detto che una volta uscito, io stesso mi sarei dato da fare per appoggiare la causa di chi era sottoposto al mio stesso tipo di trattamento”. Ricordando i momenti più difficili della prigionia, Zaki ha spiegato che sono stati quelli in cui aveva la sensazione di sentirsi solo: “Quando mi sentivo solo avevo paura di perdere il senno; in carcere il nemico principale è il tempo, che ti spinge a porti migliaia di domande e alimenta le tue paure”. A conclusione dell’incontro Zaki ha voluto sottolineare l’importanza dei giornalisti e di tutte quelle persone che hanno dato spazio e visibilità alla sua storia: “Se non ci fossero stati i giornalisti che hanno sostenuto la mia posizione, facendo conoscere a tutti la mia storia, oggi non sarei qui a parlare con voi”. Il successivo incontro pubblico delle 18 in sala Nelson Mandela, per garantire a tutti la partecipazione, è stato trasmesso anche in diretta streaming sul sito www.collettiva.it e sulla pagina Facebook della Cgil di Piacenza. Foggia. LegalItria nel futuro: “Audiolibri e podcast per il nuovo festival” di Giuseppe Di Bisceglie Corriere del Mezzogiorno, 12 dicembre 2023 Il festival dell’antimafia sociale nel 2024 coinvolgerà anche l’Università di Foggia Parla il direttore, Leonardo Palmisano. “Sarà il primo esperimento in Italia”. Parlare ad un pubblico vasto, per diffondere la cultura della legalità, della lotta alle mafie realizzando un welfare sociale e non soltanto culturale. È l’obiettivo che, sin dall’inizio, si è posto LegalItria, tra i principali festival dell’antimafia in Italia che coinvolge come partecipanti attivi studenti di ogni ordine e grado; lavoratori e lavoratrici, genitori, detenuti e detenute, i frequentatori di biblioteche pubbliche e di comunità e i senza fissa dimora. LegalItria, sino alla sua ultima edizione, ha regalato testi sui temi del festival a migliaia di studenti italiani impegnati in un percorso di lettura collettivo. “Ora è arrivato il momento di un importante cambiamento”, afferma il direttore artistico della manifestazione, il sociologo Leonardo Palmisano. Palmisano, in cosa consiste la trasformazione di LegalItria? “Abbiamo scelto di far diventare LegalItria il primo book podcast festival italiano, valorizzando appieno il potenziale degli audiolibri e del podcast per coinvolgere il variegato pubblico sulle tematiche da noi affrontate”. A cosa si deve questa importante novità? “Abbiamo fatto una valutazione in merito agli esiti sociali di LegalItria. Il festival ha prodotto un numero importante di lettori su temi specifici, ma abbiamo scoperto che il rapporto col libro è reso difficoltoso dai dislivelli culturali presenti anche all’interno della stessa classe. Podcast e audiolibri livellano questi differenziali: un libro ascoltato raggiunge un numero più ampio di persone anche quando hanno i livelli culturali sono diversi creando quindi immediatamente una comunità che riesce a superare le disparità di ordine culturale”. Non crede che l’utilizzo di questi strumenti possa allontanare il pubblico, in particolare quello più giovane, dalla lettura? “Lo escludo. Podcast e audiolibri sono strumenti sui quali anche grandi editori stanno puntando. Sono strumenti che d’altra parte incentivano una lettura di approfondimento sulle tematiche. Per ogni podcast o audiolibro offriremo una bibliografia di riferimento in modo che chiunque ne abbia voglia possa approfondire in autonomia. L’ascolto diventa dunque uno stimolo a far sì che la comunità abbia accesso ai libri”. Valuterete anche gli esiti sociali di questo nuovo approccio? “Il nostro obiettivo è quello di creare una grande comunità che includa i luoghi del bisogno sociale, le persone senza fissa dimora, le biblioteche di comunità, le residenze per gli anziani. E certamente questo aspetto sarà studiato dall’equipe della professoressa Giusi Toto dell’Università di Foggia nell’ambito della pedagogia speciale. Partiamo dall’idea che l’ascolto innalza la conoscenza e ci interessa che l’Università di Foggia costruisca un percorso di analisi di quello che facciamo”. Tra i temi che state affrontando vi è quello della transizione ecologica. Qual è il vostro approccio all’argomento? “Abbiamo da poco vinto un bando del Mibact con un festival che si chiama Eco Culture, con 4 appuntamenti in cui raccontiamo le culture della transizione ecologica in quattro oasi ambientali: il Parco delle dune costiere, l’oasi di Torre Guaceto, L’oasi marina protetta di Manduria e quella di Porto Cesareo. Condurremo a partecipare attivamente a queste conferenze una parte dei partecipanti a LegalItria per offrire la conoscenza delle diverse transizioni ecologiche, perché non ve n’è una sola”. Quale sarà il prossimo passo per rendere LegalItria uno strumento ancor più di comunità? “LegalItria è ormai un patrimonio comune: l’anno prossimo vogliamo interloquire ancora di più con la Regione Puglia per far sì che diventi un marchio regionale pubblico, magari innestato sulla fondazione Fumarulo. Non siamo gelosi del nostro marchio ma dal momento che stiamo entrando nelle biblioteche di comunità e collaborando con istituzioni pubbliche, perché non pensare ad una transizione pubblica di LegalItria?” Natale, 8 miliardi in regali: e se donassimo qualcosa a chi ne ha bisogno davvero? di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 12 dicembre 2023 Si stima che quest’anno si spenderanno in media 186 euro a testa. Lo scambio di doni è una bella tradizione, sarebbe importante però fare qualcosa per gli altri. Confcommercio ha stimato che quest’anno gli italiani spenderanno un po’ più di 8 miliardi in regali di Natale. Una media - si legge nel Rapporto - di 186 euro a testa. È una stima giudicata in ripresa, visto che l’anno scorso di miliardi ne erano stati spesi solo poco più di sette. Però bisogna tener conto dell’inflazione che ha fatto salire i prezzi, quindi non è detto che a una spesa maggiore corrispondano più regali comprati. Dopodiché bisogna fermarsi un attimo e forse ripensarci un po’, a quella media dei 186 euro a testa. Perché in Italia ci sono 5,6 milioni di “poveri assoluti”, il che vuol dire una persona su dieci: questa volta la cifra è dell’Istat, oltre che dell’ultimo Rapporto Caritas. E loro, con ogni probabilità, nella media dei 186 euro non ci entrano perché in regali spenderanno poco o niente: se la cifra totale va quindi divisa solo tra gli altri dobbiamo pensare che quella media sia destinata a essere più alta. Si tratta di stime, certo. Ma il punto è un altro, anzi altri due. Il primo sta in una cifra ulteriore contenuta nella stessa indagine di Confcommercio, e cioè che solo il 40 per cento delle persone intervistate considera quella spesa in regali di Natale come una spesa “piacevole”: il livello più basso dal 2009, quando quelli contenti di andare in giro a comprare regali natalizi erano 48 su cento. Un bel paradosso, che appare in contraddizione diretta con lo spirito da cui dovrebbe essere animato il gesto stesso di fare un regalo a qualcuno. E qui veniamo all’altro punto, che invece si ricava dai rapporti annuali stilati dall’Istituto italiano della donazione in collaborazione con Csvnet. L’ultimo è del 4 ottobre scorso, Giorno annuale del dono, e vi si leggeva che nel 2022 la percentuale degli italiani che aveva fatto almeno una donazione benefica per qualcosa era di poco inferiore al 13 per cento, con una media di 69 euro a persona. Andando un po’ indietro negli anni, giusto per capire, nel 2020 il volume totale delle donazioni a scopo benefico in Italia era stato di 5,6 miliardi. Importo destinato a diminuire l’anno successivo e per tornare poi a crescere lentamente, ma senza finora più raggiungere i livelli di pre-pandemia come - a titolo di esempio - i 7,7 miliardi toccati nel 2017. Che sono comunque meno, per tornare al nostro punto di partenza, degli otto miliardi che spenderemo - in sei casi su dieci malvolentieri o comunque sbuffando - in regali di Natale quest’anno. Peraltro regali che almeno in un certo numero di altri casi, non rilevati dall’indagine ma che sappiamo benissimo esistere per innegabili esperienze personali, verranno quasi immediatamente cestinati o dimenticati da chi li riceve. Per mancanza di bisogno. La nostra conclusione? Per carità: lo scambio dei regali sotto l’albero è una bella tradizione, ci mancherebbe, anche quando si tratta di consegnare una sciarpa presa di fretta a quel cognato cui potendo regaleremmo piuttosto un dito nell’occhio. Ma proviamo a pensare, invece, a quelli che di un nostro regalo - di un dono veramente “solidale”, così si chiama - avrebbero bisogno davvero: non solo i poveri di cui dicevamo ma gli ospedali, i centri di ricerca, le innumerevoli associazioni che vivono facendo qualcosa per gli altri, nei posti più lontani del Pianeta ma anche per gli anziani di quella Rsa dietro casa. Quasi tutte e tutti noi ne conosciamo direttamente almeno una, di associazioni del genere, di cui magari ci ha parlato un amico. E in caso contrario basta aprire Internet, c’è l’imbarazzo della scelta. In molti casi anzi potremmo acquistare da una di queste associazioni, o in qualche mercatino benefico, anche la sciarpa per quel famoso cognato. In questo modo riusciremmo persino a essere contenti di dargliela: che poi sarebbe il vero miracolo. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo addio: ora trionfa il più bieco egoismo di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2023 Il 10 dicembre è una data che non può passare inosservata. Infatti il 10 dicembre 1948 fu approvata a Parigi, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, una Carta di straordinaria importanza che, concludendo una stagione di forte impegno culturale, apriva le porte a un mondo nuovo di progresso e di civiltà: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ed è da sottolineare che questa Dichiarazione fu prevalente opera di una straordinaria donna: Eleonora Roosevelt, cugina e poi moglie del Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. La grandiosità di questa Dichiarazione si coglie già nelle prime parole del suo Preambolo, le quali “considerano” che: “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Parole grandiose che oggi, a 75 anni di distanza dal loro pronunciamento, sembrano scomparse dal cielo della nostra storia, lasciando riemergere sulla terra quella atroce barbarie che si riteneva di aver sconfitto per sempre. Infatti, non possono non definirsi barbarie: la catastrofe umanitaria di Gaza, con 18.000 mila vittime di cui 9.000 bambini, oltre quelli rimasti orfani, vaganti soli e atterriti sotto le bombe; ragazze iraniane uccise da una polizia a servizio di un regime assurdo e retrogrado; migranti lasciati morire in mare a causa, addirittura, di ben precise disposizioni di legge; l’atroce guerra nella martoriata Ucraina; e via dicendo. Appare chiaro ed evidente che quello spirito solidaristico che era nato dopo la seconda guerra mondiale ha lasciato il campo al più bieco egoismo e alla inevitabile conseguenza del ricorso alla violenza. E non si può fare a meno di notare che il veleno della cupidigia del danaro sta travolgendo alle radici anche la nostra povera Italia, caduta da tempo nelle mani di governanti inesperti e piegati ai potentati economici statunitensi ed europei. E quello che è ancor più grave è che si sta tentando di travolgere, prima con leggi incostituzionali e poi con una proposta governativa di modifica costituzionale, la nostra stessa Costituzione, che è stata all’avanguardia della tutela dei diritti umani, avendo peraltro preceduto di 10 mesi la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. A tal proposito è da sottolineare che, secondo detta proposta di modifica costituzionale, la “politica nazionale” non è più decisa in Parlamento a seguito di una dialettica tra maggioranza e opposizione, come prevede il vigente art. 49 Cost., ma fuori del Parlamento con la predisposizione da parte di gruppi di persone di vari “programmi di governo” collegati alla candidatura del Presidente del Consiglio dei Ministri, con la conseguenza che il gruppo che ha presentato il programma che risulta vincente anche per un solo voto ottiene, con un “premio”, il 55 per cento dei seggi parlamentari, di modo che, magicamente, diventa maggioranza (beninteso del tutto fittizia). E, si badi bene, che la vittoria in questa specie di gara tra “programmi” certamente arride a chi ha maggiori possibilità di utilizzare i media, e cioè quella esigua ma potente categoria cosiddetta dei potentati economico-finanziari. Sarà quindi ancor più agevole considerare il “lavoro” una merce e togliere al popolo, con le micidiali “privatizzazioni”, la “proprietà pubblica demaniale” dei beni che, secondo gli intoccabili “principi fondamentali” della Costituzione, assicurano la vita della intera collettività: le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia, che devono appartenere alla mano pubblica o a comunità di lavoratori o di utenti (articoli 42 e 43 Cost.), nonché il paesaggio, il patrimonio storico e artistico, la biodiversità, gli ecosistemi, l’ambiente, la salute (articoli 9 e 41 Cost.), e così via. In questa società della menzogna chi è ancora ingannato è il popolo, reso stordito e indifferente da una martellante propaganda dei media. E questa volta il popolo crede di votare addirittura il capo del governo e non sa che non vota affatto un proprio “rappresentante”, che legifera interpretando i bisogni e i diritti fondamentali di tutti, ma un esecutivo tenuto a perseguire, in sostanziale autonomia, gli interessi di una minoranza, peraltro non esprimendo la propria “preferenza”, ma praticamente cedendo la propria “sovranità”. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Scuola. La paura delle relazioni e l’ossessione del sesso dietro il no alla proposta di Valditara di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 12 dicembre 2023 L’idea del responsabile dell’Istruzione fermata da una buona dose di bigottismo e vigliaccheria. Chissà se è stata la società del maschio o la società del pregiudizio a indurre il ministro Giuseppe Valditara a sospendere la nomina delle Garanti al progetto per le scuole “Educare alle relazioni”, tre donne di grande levatura culturale come Annapaola Concia, suor Monia Alfieri e Paola Zerman. Sicuramente una grande miopia politica si è impadronita dei principali partiti di maggioranza e di opposizione, sbalestrati tra gli opposti estremismi di movimenti per la vita piuttosto che per la fluidità. Una volta di più la politica ha mostrato, nel momento in cui avrebbe dovuto esibire la sua forza tranquilla, la propria fragilità, pari a quella del maschio da “rieducare”. Nel centrodestra, da Fratelli d’Italia alla Lega sembra prevalere una sterzata ancorata più verso il bigottismo piuttosto che uno stantio dio- patria- famiglia. Quanto al Partito democratico, pare giacere a terra avvolto dal proprio silenzio. Neppure una parola a difendere una propria figlia, quella Annapaola Concia che è stata anche deputata sotto quella bandiera. E che è stata lasciata sola mentre veniva sbranata, più che da destra, dagli estremismi ideologici di sinistra per la sua capacità di dialogo con tutti (“persino” con Ignazio La Russa) e da chi temeva che il trio delle garanti, per la sua composizione, non fosse in grado di difendere gli studenti da posizioni “omolesbobitransfobiche”. Una sola voce si è sentita da parte di Forza Italia, quella del giovane sottosegretario ai trasporti Tullio Ferrante, che ha applaudito il ministro per la sua capacità di dialogo, apertura civile e pluralismo. Uno solo, nel partito di Berlusconi. Ma, a parte il coraggio di due persone, un ministro e un sottosegretario, una volta di più il mondo dei partiti, già in agitazione per le elezioni europee che si terranno tra sei mesi, ha mostrato la propria subalternità, una volta tanto non alla magistratura, ma comunque ad altre corporazioni. Un’occasione persa? Sicuramente, anche se comunque, assicura il ministro, il progetto andrà avanti. Sappiamo benissimo tutti, non c’è bisogno che ce lo spieghino i detrattori, che non sarà qualche incontro tra i ragazzi e qualche esperto a cambiare le culture. Ma qualche segnale bisognerà darlo, e da qualche punto bisognerà partire. Abbiamo tutti quanti, e quotidianamente, sotto gli occhi che cosa sono le guerre, ce ne sono almeno due in corso, e in che cosa consista il bottino di guerra, cioè il possesso del corpo delle donne, che viene stuprato e posseduto e scambiato. E c’è in Italia quel numero, 109, in cui è compresa Giulia Cecchettin, che segna quotidianamente questi temi di violenza e femminicidio. E sappiamo che cosa sia l’anticamera, quel che viene prima del gesto definitivo. Sta cercando di comunicarlo agli altri uomini Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che ha spiegato domenica sera in tv come il proprio cambiamento sia avvenuto a opera di una donna, sua moglie Monica, che prima di morire, un anno fa, gli ha chiesto scusa. Perdonami, gli ha detto, per non aver saputo prima di incontrarti, che poi mi sarei ammalata e vi avrei dato questo grande dolore. Da quel giorno, dice il padre di Giulia, ho cambiato atteggiamento anche nei confronti dei miei figli, ho iniziato a dire “ti amo” e “ti voglio bene”. Certo, non è bastato a proteggere la figlia dalla fragilità violenta dell’altro, dalla sua possessività ossessiva che gli ha poi armato la mano. Ma questo discorso è un punto di partenza, ed è importante che provenga da un uomo. Questo dovrebbe, potrebbe essere il senso degli incontri proposti a scuola dal ministro Valditara, e che persone come le tre “esperte” indicate come coordinatrici avrebbero saputo orientare. Ma pare che in Italia ci sia sempre l’ossessione del sesso a esaltare o mortificare qualunque iniziativa di cambiamento. Da una parte il timore che a scuola si possa parlare tranquillamente di relazioni senza escludere, o trattare come un fardello, il corpo. Dall’altra quasi il dovere di dare universalità alle scelte di alcuni. Mentre i bisogni oggi sono altri, e li hanno bene espressi le tante manifestazioni che hanno seguito la morte di Giulia Cecchettin. Aiutare tutti a guardare una società di donne e ragazze emancipate che meritano rispetto invece che controllo. Aiutare i genitori ad avere una vera relazione con i figli, a saper dire di no, in modo che, dentro e fuori dalla famiglia, ogni ragazzo e ogni uomo sappia rispettare anche il no da parte della donna. Incontrarsi, parlarsi. In casa, certamente, tra padri madri fratelli e sorelle, figli e figlie. Ma perché non anche a scuola? Ma di che cosa avete paura, tutti voi che avete indotto un bravo ministro con un buon progetto a fare quel piccolo passo indietro? Conta di più qualche voto o il futuro delle vostre figlie e di tutte le donne? Il decreto anti-migranti del governo colpisce i bambini di Piero Sansonetti L’Unità, 12 dicembre 2023 È evidente che dietro alle scelte c’è un’ideologia secondo la quale gli esseri umani non sono tutti uguali, e di conseguenza per fare una politica moderna bisogna adattarla alla gerarchia degli esseri umani. Il governo ha cancellato l’esistenza dei ragazzini immigrati. Quelli che vari giornali di destra chiamano “negri”. Non esistono più. E questa semplice e da tempo auspicata decisione ha permesso un risparmio secco di 45 milioni, che sono stati spostati dal capitolo di bilancio relativo all’accoglienza dei profughi al capitolo relativo al rafforzamento della polizia. Giusto rafforzare la polizia (soprattutto se ci si decide ad aumentare gli stipendi da fame che oggi ricevono i poliziotti) meno giusto negare l’esistenza degli adolescenti che arrivano dall’Africa. Però le due cose sono legate. Cosa ha fatto il governo? Innanzitutto un decreto che stabilisce che i “negri” raggiungono la maggiore età prima dei bianchi e dunque a 16 anni sono già maggiorenni e possono essere reclusi nelle stesse celle dove vengono rinchiusi gli adulti. Mossa politica agile e di immediato effetto. A quel punto il numero dei ragazzini “negri” non accompagnati diventa molto esiguo e si possono tagliare di netto i fondi che erano stati stanziati per la loro accoglienza. L’atteggiamento della maggioranza di centrodestra nei confronti dei migranti fa davvero tremare i polsi. Si vede chiaramente che le misure anti-immigrato sono adottate non sulla base di scelte poco meditate, come succede spesso a questo governo. Stavolta è evidente che dietro alle scelte c’è un’ideologia secondo la quale gli esseri umani non sono tutti uguali, e di conseguenza per fare una politica moderna bisogna adattarla alla gerarchia degli esseri umani. Ci sono i borghesi, o comunque i ricchi e le persone benestanti, che sono classe dirigente e di conseguenza è giusto che dispongano di diritti speciali, che permettano loro di arricchirsi, accumulare denaro e reinvestire in modo di dare una buona dinamica alla società. Poi ci sono i lavoratori, che devono avere una certa quantità di diritti, purché questi diritti non finiscano per attenuare o ledere i privilegi delle classi superiori. I lavoratori servono allo sviluppo e perciò devono essere in qualche modo protetti, a condizione che accettino di essere in vario grado sfruttati, altrimenti il loro lavoro è del tutto inutile. E dunque non possono avanzare richieste salariali pericolose per l’economia, come - ad esempio - il salario minimo. Al di sotto dei lavoratori ci sono i disoccupati, ai quali è giusto togliere il reddito di cittadinanza, perché il reddito di cittadinanza non risponde alle leggi del mercato. Le leggi del mercato stanno sopra i diritti: se mettiamo i diritti al di sopra del mercato danneggiano il mercato e dunque l’interesse collettivo. Qual è l’interesse collettivo? L’interesse delle classi dirigenti, che rappresentano l’intero paese (la Nazione). Infine ci sono i migranti, ai quali è bene mantenere un livello minimo di diritti, e che dunque possono essere arrestati anche senza che sia loro contestato un reato, e che è necessario inquadrare in misura adeguata in condizione di clandestinità, perché - appunto - il mercato ha bisogno di un serbatoio anche se non grandissimo, di lavoratori clandestini, molto ricattabili e sottopagati. Perciò è assurda una politica che conceda il visto e il diritto d’asilo a chiunque fugga dal proprio paese. È esattamente questa l’ideologia di fondo che ha tenuto insieme, fin qui, il governo. Un sistema di orientamento politico che oscilla tra il liberismo estremo e la società delle caste che fino a qualche anno fa era alla base della politica indiana. Capite bene che uno stato di diritto a “scale”, cioè gerarchizzato e relativo, è molto funzionale al rafforzamento delle classi dirigenti e al funzionamento di una società che vuole finalmente affrontare il problema della propria crescita economica, che è ferma, o addirittura arretra, da almeno 25 anni. Le condizioni per realizzare questa politica ci sono tutte. Un’opposizione debole debole, e impegnata essenzialmente sul terreno della cosiddetta questione morale (ieri uno dei capi dell’opposizione, Giuseppe Conte, ha scritto una lunga e impegnata lettera a “Repubblica” nella quale al governo non rimproverava la sua ultra-reazionaria politica sociale, ma semplicemente la presenza al suo interno di figure considerate inadeguate, come quelle di Delmastro, Santanché, Lollobrigida e qualcun altro: persino Gasparri, che pure del governo non fa parte). Una stampa completamente schierata a suo favore in questo campo (ad esclusione del nostro giornale, dell’”Avvenire” e del “manifesto”). Una parte della stessa chiesa cattolica (come dimostra la campagna del “Giornale” della “Verità” contro la Cei e Bergoglio) ben decisa ad usare la lotta all’immigrazione come arma per la lotta interna alla gerarchia ecclesiastica. In queste condizioni non è sbagliato parlare di regime. E non si tratta semplicemente di un regime volto al rafforzamento di una “casta “politica. È la sedimentazione di un regime politico, ideologico e reazionario. Poi decidete voi se volete usare o no la parola fascismo. Non cambia molto. Il governo taglia il Fondo per i migranti bambini: così i soldi si spostano per gli aumenti alle forze dell’ordine Via risorse ai migranti, con i fondi dislocati in favore di forze dell’ordine e vigili del fuoco. È l’ennesima mossa a sorpresa della maggioranza Meloni che, con quattro righe di emendamento alla Manovra, riserva l’ennesimo colpo all’accoglienza. L’emendamento che taglia il Fondo per l’immigrazione - Dal prossimo anno fino al 2026 il governo intende infatti sottrarre al Fondo per l’immigrazione, che serve appunto per finanziare le misure per l’accoglienza dei migranti, soldi che finiscono anche ai Comuni per pagare l’assistenza ai minori non accompagnati, 15 milioni all’anno. Il totale, lo dice in maniera semplice, fa 45 milioni in tre anni. Questo il testo dell’emendamento, scovato da Repubblica e depositato giovedì sera: “All’articolo 66, comma 1? della legge di bilancio “sostituire le parole: 190 milioni di euro per l’anno 2024, di 290 milioni di euro per l’anno 2025 e di 200 milioni per l’anno 2026 con le seguenti: 175 milioni di euro per l’anno 2024, di 275 milioni di euro per l’anno 2025 e di 185 milioni di euro per l’anno 2026”. I pasticci sulle pensioni - Non bastava infatti il “pasticcio” sulle pensioni di alcune categorie della pubblica amministrazione, con la correzione che non convince né le minoranze né i sindacati, nemmeno quelli dei medici, che hanno confermato anche lo sciopero del 18 dicembre. Il Fondo creato e affossato dal governo - Arriva quest’altra trovata della maggioranza che, per recuperare 100 milioni da destinare alle forze di polizia, Forze armate e vigili del fuoco, taglia di 45 milioni di euro il Fondo per l’immigrazione che lo stesso governo aveva creato ad hoc con il Decreto Anticipi. Il Fondo era stato istituito infatti lo scorso 16 ottobre in Consiglio dei ministri con uno stanziamento di denaro fino al 2026. Ai quasi 47 milioni di quest’anno, si aggiungevano altri 680 milioni: 190 per il 2024, 290 per il 2025, 200 per il 2026. Con l’emendamento alla Manovra depositato in commissione Bilancio, la dotazione scende per spostare quei soldi sulle forze dell’ordine: il Fondo potrà contare su 175 milioni per l’anno prossimo, 275 nel 2025, 185 l’anno successivo, un totale di 45 milioni di euro in meno. Migranti. Altro che falsi salvataggi: Casarini “fece il suo dovere” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 12 dicembre 2023 Il Giornale pubblica “prove” contro il capomissione della Ong Mediterranea. Ma il Gip gli diede ragione sull’operazione in mare del 2019: per il giudice c’era l’obbligo di prestare soccorso. Il tiro a bersaglio sulle Ong passa anche per le fake news. Così, mentre il capomissione di Mediterranea, Luca Casarini, aspetta di sapere se verrà rinviato a giudizio a Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione, alcuni giornali hanno dato il via al cannoneggiamento. Ad aprire per primi il fuoco sono stati Panorama e La Verità, con la pubblicazione di alcuni atti dell’inchiesta giudiziaria, ma è stato il Giornale a ritirare fuori alcune “prove” che dimostrerebbero il vecchio vizio di Casarini di salvare in mare migranti pienamente capaci di raggiungere qualche costa in maniera autonoma. I finti “salvataggi” di Casarini nelle foto della Guardia libica è il titolo del pezzo pubblicato dal quotidiano di casa Berlusconi. Prova dello “scandalo” sarebbero sei fotografie scattate il 18 marzo 2019 dalla guardia costiera libica. Le immagini - tratte dal blog Migrant rescue watch (gestito dal canadese Rob Gowans) - ritraggono 49 persone stipate un gommone, e già questo basterebbe a chiudere la faccenda, ma visto che il natante non sembra in imminente pericolo di affondamento per il Giornale non ci sono dubbi: la Mare Jonio, la nave umanitaria che all’epoca dei fatti trasse in salvo quei profughi, andava a cercarsi i migranti. Non solo, quelle fotografie rafforzerebbero “gli interrogativi sul ruolo realmente svolto nel Mediterraneo meridionale dalla Ong guidata dall’ex leader dei centri sociali veneti”. Peccato che proprio per quella vicenda, quel salvataggio del 2019, anno di “porti chiusi” e prove muscolari al Viminale, Casarini sia già stato indagato e archiviato dal tribunale di Agrigento proprio per il salvataggio finito sotto la lente del quotidiano. Tutte le risposte ai sospetti del Giornale sono contenute nel decreto del Gip, che sposa integralmente la richiesta di archiviazione presentata dai pm Salvatore Vella e Cecilia Baravelli, sarebbe bastato leggerlo. È in quel documento, infatti, che vengono ricostruiti minuziosamente i fatti attraverso i documenti del Mrcc (Maritme rescue coordination Centre) di Roma, della Marina militare, della Guardia di finanza e della Guardia costiera. Ogni passaggio è descritto minuto per minuto dalle autorità. Ed è proprio in base a questa ricostruzione che il Gip di Agrigento può stabilire che il gommone con i 49 migranti bordo al momento dell’avvistamento “non aveva danni evidenti allo scafo, pur avendo la “prua rialzata”; quindi il gommone blu non era alla deriva, ma aveva il motore acceso e funzionante, ed era con i tubolari leggermente sgonfi, come comprovato dalla prua rialzata, quindi non in asse con il resto dello scafo”. Ma nonostante l’assenza di un rischio di imminente affondamento, “è convinzione di quest’Ufficio che si trattasse comunque di un’imbarcazione che si trovava in una evidente situazione di pericolo, per cui si doveva temere per la salvaguardia della vita umana in mare”. I motivi? Così evidenti, che a tratti sembrerebbe superfluo indicare. Ma, a quanto pare, è necessario: “È notorio”, ad esempio, scrivono i pm sulla richiesta d’archiviazione totalmente sottoscritta dal Gip, “che i gommoni utilizzati dai trafficanti libici per il trasporto dei migranti sono di pessima fattura, costantemente a rischio di lacerazione delle camere d’aria e del conseguente improvviso affondamento”. O ancora: “Il gommone blu (quello raggiunto dalla Mare Jonio, ndr) era certamente sovraccarico, in quanto trasportava molte più persone di quanto ne consentisse una navigazione in sicurezza, in modo da comprometterne la stabilità e la galleggiabilità”. Senza contare che nessuna “delle persone a bordo aveva salvagenti o altri dispositivi personali o collettivi di sicurezza, che ne avrebbero consentito il salvataggio in caso d’improvviso affondamento del mezzo”. È alla luce di questi “dettagli” che il comandante della Mare Jonio aveva “l’obbligo di prestare soccorso e assistenza alle persone presenti a bordo del gommone blu e di provvedere al successivo trasporto in un luogo sicuro di sbarco (Pos), alla luce di quanto sancito dalle disposizioni normative internazionali e nazionali”. Più chiaro di così sembra complicato dirlo. Anche i magistrati lo fanno, citando una mole impressionante di norme e sentenze nazionali e internazionali in materia. “Se non avessimo salvato quelle vite avremmo commesso un reato”, dice al Dubbio Casarini. Non solo. Anche rispetto all’altro capo d’imputazione indagato nel 2019, il “rifiuto di obbedienza a una nave da guerra” previsto dal codice navale, il Tribunale è stato perentorio: Luca Casarini e Pietro Marrone (comandante della nave) non misero in pratica alcuna condotta antigiuridica nel non rispettare l’alt a procedere intimato dal Pattugliatore Paolini della Guardia di Finanza. Un ordine pronunciato in nome di una presunta “Autorità giudiziaria italiana” che avrebbe negato l’autorizzazione all’ingresso in acque nazionali. “In realtà nessuna Autorità giudiziaria italiana aveva negato l’autorizzazione all’ingresso in acque italiane della nave battente bandiera italiana Mare Jonio”, si legge sul decreto. “Non è previsto da alcuna norma che una nave battente bandiera italiana debba avere una preventiva “autorizzazione” per fare ingresso nelle acque territoriali italiane, né è previsto da alcuna norma che l’Autorità Giudiziaria Italiana abbia la facoltà di “autorizzare” un natante a fare ingresso nelle acque territoriali”. Le navi da guerra che svolgono compiti di polizia, inoltre, non hanno alcun potere di bloccare l’accesso a un’imbarcazione battente bandiera italiana. Gli unici poteri previsti sono: chiedere informazioni, procedere con una visita a bordo, ispezione dei documenti di bordo e, solo nei casi più gravi, scorta fino in porto del mercantile. Nessun alt può dunque essere intimato. Disobbedire non è stata una condotta “antigiuridica”. Israele-Gaza, perché ora sarebbe giusto sondare la via della tregua di Antonio Polito Corriere della Sera, 12 dicembre 2023 L’imminenza del Natale: in questa terra si intreccia la storia di molti popoli e delle tre grandi religioni monoteiste. Tutto obbliga l’Occidente a tirare un bilancio della guerra e a cercarne la fine. C’è un “meme” che gira sul web in questi giorni. Dice: “Miliardi di persone in tutto il mondo stanno per celebrare il compleanno di un ebreo nato a Betlemme più di duemila anni fa, ma non credono che gli ebrei abbiano vissuto lì prima del 1948”. È un modo, certo provocatorio, di ricordare un po’ di storia ai nemici di Israele. Ma dovrebbe ricordarla anche a Israele. Il suo diritto ad esistere nei confini precedenti alla guerra del 1967 è fuori discussione. Eppure quella terra tra il Giordano e il mare è in qualche modo anche nostra, dei cristiani; ed è anche loro, degli arabi e dei musulmani che l’hanno abitata e la abitano. Perché vi si sono intrecciate le storie di molti popoli e delle tre grandi religioni monoteiste. L’imminenza del Natale, il compleanno di cui sopra, obbliga dunque tutto l’Occidente a tirare un bilancio della guerra di Gaza fin qui, e a cercarne la fine. Si dice che l’amministrazione Biden abbia concesso solo altre tre settimane a Netanyahu per la sua offensiva militare. Vorrebbe dire una tregua entro l’anno nuovo. Ma il governo di Gerusalemme vuole più tempo, almeno un mese e mezzo prima di considerare conclusa l’”operazione”. Il nuovo attacco di terra, ripartito dopo la pausa per il rilascio degli ostaggi, più distruttivo dei precedenti perché protetto da una strategia di preventiva “polverizzazione”, punta a poter dichiarare la “sconfitta” di Hamas e dunque la “vittoria” di Israele. Magari con le foto di una resa di massa dei miliziani, o meglio ancora con l’annuncio dell’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo dell’organizzazione nemica che forse si nasconde nei tunnel di Khan Yunis. Ma il problema di ogni guerra al terrorismo, che non si combatte contro Stati ma contro entità di fanatici votati al sacrificio, indifferenti alla sorte dei civili tra cui si nascondono, è che è sempre molto difficile stabilire che cosa sia la vittoria, e quando la si possa considerare raggiunta. Dal punto di vista di Hamas, per esempio, è molto probabile che la gravità delle devastazioni e il numero delle vittime siano state considerate fin dall’inizio come un successo, più che una perdita. C’è da credere che i capi di quella organizzazione, che conoscono Israele meglio di chiunque altro, abbiano ordito e realizzato il massacro del 7 ottobre nella perfetta consapevolezza della reazione militare che avrebbe provocato. Volevano una guerra, altrimenti non l’avrebbero cominciata. E una guerra che sapevano benissimo di non poter vincere sul terreno. Per chi ha apertamente detto di aver bisogno del sangue della sua gente, di donne vecchi e bambini, al fine di portare a compimento il disegno di eliminare Israele, il conteggio delle vittime palestinesi, giunto a un’intollerabile cifra, è ogni giorno un tragico bollettino di vittoria. Ci sono due Gaza: una all’aperto che soffre e muore, e un’altra che si nasconde sotto terra per avvantaggiarsene. Le finalità della guerra di Hamas erano perciò altre: fermare gli Stati arabi in procinto di firmare accordi con Israele, e riaccendere nel mondo l’odio per l”entità sionista”, mescolato sempre più a un antisemitismo di tipo nuovo, che ha fatto la sua comparsa perfino nelle roccaforti liberal delle università americane. Bisogna ammettere che entrambi questi obiettivi sono stati in buona parte raggiunti. E che dunque la prosecuzione della carneficina dei civili e l’aggravarsi della crisi umanitaria rischiano di rafforzare Hamas dentro e fuori la Palestina. D’altra parte Netanyahu non si trova nelle condizioni politiche ideali per prenderne atto. Visto che è considerato da gran parte dell’opinione pubblica come il responsabile numero uno del disastro di sicurezza del 7 ottobre e della divisione politica che ha indebolito il Paese, per lui la prosecuzione della guerra equivale alla conservazione del potere. Quando tutto questo finirà, probabilmente anche la sua carriera politica finirà. L’asticella dell’idea di “vittoria” che vuole vendere al suo popolo, per poter dichiarare vendicata la giornata del 7 ottobre, è dunque molto elevata. E non è detto che sia raggiungibile. Intendiamoci: annientare un’organizzazione terroristica non è un obiettivo impossibile o utopico. Alla fine l’Occidente c’è riuscito con Al Qaeda, e c’è riuscito con l’Isis. Le anime belle che protestano contro l’uso della forza anche quando è l’unico modo per impedire che qualcuno la usi contro di noi sono state più volte smentite dai fatti. E in ogni caso la battaglia di Gaza ha già sicuramente ridotto di molto e per molto l’efficienza assassina di Hamas. Ma di certo non basta la forza militare per estirpare un cancro come quello che da anni affligge e condanna la gente di Gaza a miseria e sofferenza. La politica, la diplomazia, la propaganda, gli aiuti umanitari, gli investimenti, sono altrettanti armi indispensabili per garantirsi quella superiorità morale che fa vincere davvero le guerre. Mentre invece il punto debole di Israele è che la sua leadership non ha ancora indicato, dopo 67 giorni di guerra, come immagina la pace, che cosa accade il giorno dopo la fine dei combattimenti, e chi sostituirà Hamas una volta che, sperabilmente, sia stata sconfitta. È giunto dunque il momento, e il tempo del Natale non potrebbe essere migliore, perché l’Occidente, cioè gli Usa e l’Europa, indichino a Israele la via della tregua. L’Europa ogni tanto ci prova, seppure in ordine sparso e senza argomenti efficaci. Gli Stati Uniti di argomenti invece ne hanno molti, a partire dal massiccio rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti con cui garantiscono a Israele la prosecuzione del conflitto, e dal rischio che si allarghi al nord con Hezbollah e sul Mar Rosso con gli Houthi dello Yemen, anch’essi alleati di Hamas e dell’Iran. Perché è vero che Israele ha diritto a difendersi. Ma anche l’Occidente si gioca qualcosa in Medio Oriente. Ungheria. Caso Salis, il Pd interroga il ministro Tajani Il Manifesto, 12 dicembre 2023 Dopo la lettera dell’anarchica detenuta a Budapest. Il Pd, per bocca della deputata Lia Quartapelle, interroga il ministro degli Esteri Antonio Tajani sulle condizioni di Ilaria Salis, la 39enne reclusa in Ungheria dallo scorso febbraio e accusata di aggressione a due neonazisti. Due settimane fa era stata resa pubblica una sua lettera nella quale descriveva le terrificanti condizioni della sua detenzione, tra ambienti fatiscenti e situazioni degradanti, “incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta trattamenti inumani e degradanti e per i quali l’Ungheria è già stata condannata dalla Cedu anche con riferimento al sovraffollamento carcerario”. Quartapelle chiede così “se il governo abbia avuto modo di verificare le affermazioni” della donna. Il processo per Salis comincerà a gennaio e la procura di Budapest le ha proposto un patteggiamento a undici anni (per lo stesso reato, l’aggressione aggravata, in Italia si arriva al massimo a quattro anni di reclusione). Questa mattina, poi, la Corte d’Appello di Milano dovrà decidere sulla consegna all’Ungheria di Gabriele Marchesi, accusati degli stessi reati di Salis. Una settimana fa la procura generale si era espressa contro la sua estradizione, rilevando anche la sproporzione tra il fatto contestato e la pena ipotizzata: fino a 16 anni di carcere. Russia. Il mistero della “scomparsa” di Navalny. Il carcere: “Non è più tra i nostri detenuti” di Anna Zafesova La Stampa, 12 dicembre 2023 Da sei giorni nessuna notizia dell’oppositore rinchiuso nella colonia Ik-6. Alexey Navalny è sparito. L’allarme è stato lanciato ieri dai collaboratori del dissidente russo, dopo che per sei giorni non si è avuta nessuna notizia di lui. Ieri non è apparso in videocollegamento all’udienza per uno dei numerosi ricorsi che aveva sporto contro i maltrattamenti subiti nel sistema penitenziario russo. “Problemi con la fornitura di elettricità”, hanno risposto dalla IK-6, la colonia correttiva di regime severo a Melekhovo, regione di Vladimir, dove Navalny era detenuto da due anni. Gli stessi “problemi” si erano già verificati il 7 dicembre, in occasione di un altro collegamento mancato. E il giorno dopo, i suoi avvocati hanno atteso davanti all’ingresso della prigione per un giorno intero, senza riuscire a incontrare il loro assistito. La stessa scena si era ripetuta anche nei due giorni precedenti, ma probabilmente era stata attribuita dal team di Navalny a una ennesima rappresaglia delle autorità contro il detenuto più famoso della Russia. Un mese prima, i suoi tre legali principali erano stati dichiarati “terroristi” e arrestati: un attacco che non solo ha costretto gli altri avvocati del politico a fuggire dalla Russia, ma ha mandato un segnale chiaro a chiunque avrebbe preso la sua difesa. A Navalny vengono negate le visite e le telefonate dei familiari, le sue lettere vengono bruciate dalla censura carceraria, non riesce nemmeno a ottenere visite mediche. Gli unici due canali che Navalny aveva per comunicare qualcosa erano le visite degli avvocati (sotto l’osservazione dei secondini) e le apparizioni in videoconferenza alle udienze. Erano anche gli unici due modi per assicurarsi che fosse ancora vivo e - almeno relativamente - in salute, anche se nemmeno la videocamera sfocata che inquadrava la sua cella buia riusciva a nascondere quanto fosse dimagrito e provato. Ora entrambi i canali di comunicazione sono stati bloccati. Una circostanza che aveva fatto temere per lo stato di salute di Navalny: la sua portavoce Kira Yarmysh ha raccontato ai giornalisti che qualche giorno fa il politico aveva perso i sensi nella sua cella. Le guardie carcerarie erano accorse immediatamente, aprendo la branda - Navalny viene rinchiuso sistematicamente nel “shizo”, la cella di punizione dove dalle 5 del mattino alle 21 di sera è vietato stendersi - e mettendo una flebo di contenuto non meglio precisato. Gli avvocati erano riusciti a incontrare il detenuto poco dopo, e sembrava in condizioni relativamente buone. Secondo i suoi collaboratori, era svenuto per la fame: nel “shizo” è vietato consumare altro cibo che una razione intenzionalmente scarsa di minestra, e Navalny aveva raccontato di perdere mediamente 3,5 kg in 10 giorni di isolamento punitivo. Una tortura, ed è difficile cancellare il sospetto che Navalny sia improvvisamente “sparito” per non mostrare al mondo che le sue condizioni di salute sono peggiorate. La situazione potrebbe però essere ancora più preoccupante: dopo un’altra giornata di attesa, ieri sera la direzione del carcere di Melekhovo ha comunicato agli avvocati di Navalny che “non risultava più tra i detenuti” della colonia IK-6, ha annunciato Yarmysh con un post su X. A questo punto, potrebbe essere ovunque. Molto probabilmente, ha iniziato un “etap”, il trasferimento verso un’altra prigione: può durare anche diverse settimane, da un treno per detenuti all’altro, fuori da qualunque vigilanza e senza possibilità di alcun contatto. Alla fine dell’”etap”, ci sarà un’altra prigione, dove Navalny dovrà scontare altri 19 anni per “estremismo”, in un carcere a “regime speciale” riservato agli ergastolani, dove i contatti con il mondo esterno sono ridotti al minimo. In altre parole, il dissidente è stato condannato a sparire, e il fatto che questo sia avvenuto proprio quando Putin ha annunciata la sua candidatura alle elezioni è stato definito da Leonid Volkov, ex capo della rete dei navalniani “0% di coincidenza”. Le indicazioni di voto comunicate da Navalny ai suoi sostenitori - non boicottare le urne e andare a votare “qualunque candidato che non sia Putin” - potrebbero essere l’ultima comunicazione che il nemico numero uno di Putin riuscirà a fare per molto tempo. Esplosivo e pistole per l’arsenale dell’Egitto: l’Italia raddoppia di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 12 dicembre 2023 Il nuovo rapporto di EgyptWide: dai 35 milioni di euro del 2021 ai 72 del 2022 per i sistemi d’arma usati dalla polizia. Pistole e armi leggere, esplosivo Tnt, attrezzature per l’addestramento e pezzi di ricambio: questa la parte più consistente dell’export verso l’Egitto di armi fabbricate in Italia. “Sembrano componenti secondarie ma possono giocare un ruolo significativo nella violazione dei diritti umani e quindi del diritto internazionale”, è l’allarme lanciato da Alice Franchini, responsabile advocacy di EgyptWide. A ridosso del primo turno delle presidenziali del 10 dicembre, l’organizzazione con sede in Italia ha pubblicato un report con cui avverte: nel 2022 l’export di sistemi d’arma fabbricati in Italia verso Il Cairo è più che raddoppiato, passando dai 35 milioni di euro del 2021 ai 72 milioni del 2022. Lo studio è stato realizzato a partire dalla “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento vendita e l’acquisto di materiale bellico e di sicurezza”, presentato al parlamento nel luglio scorso. Una cifra cui si devono aggiungere i materiali esportati sotto precedenti licenze, oltre 262 milioni. Per legge, l’ultima parola sulla vendita di specifiche tecnologie e sistemi militari a Stati terzi spetta al governo e nello specifico all’Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento), che fa capo al ministero degli esteri, chiamato a verificare che lo Stato acquirente non sia coinvolto in un conflitto in qualità di invasore o aggressore, né essere interessato da embargo sulle armi. Elementi che non riguardano l’Egitto, eppure il report di EgyptWide - dal titolo “Made in Italy per reprimere in Egitto - Rapporto annuale sulle armi italiane in Egitto 2022” - mette in luce possibili violazioni. Franchini continua: “Abbiamo identificato l’uso di armi di fabbricazione italiana, soprattutto leggere tra cui pistole, per reprimere manifestazioni pacifiche come quelle di piazza Rabaa Al-Adawiya e Al-Nahda” del 2013 al Cairo, per chiedere il rilascio dell’allora presidente Mohammed Morsi, al cui arresto seguì l’ascesa del generale Abdel Fattah Al-Sisi. Oltre 900 persone persero la vita quando gli agenti aprirono il fuoco sulla folla. EgyptWide denuncia poi l’esportazione “dell’esplosivo Composto B (RDX+TNT), che si usa - osserva Franchini - per ordigni in operazioni offensive, ma l’Egitto non è in guerra, sebbene da anni conduca un conflitto invisibile nel Sinai”, regione in cui diverse organizzazioni, tra cui Amnesty e Human Rights Watch, denunciano esecuzioni extragiudiziali. Non solo: “Il Tnt si usa per fabbricare mine antiuomo, ma l’Italia è firmataria della Convenzione di Ottawa per la messa al bando”. Il Report del Parlamento poi “non chiarisce la quantità esportata. Indica il valore 9.675 senza specificare l’unità di misura”. Il documento annuale del governo preoccupa anche sul fronte interno: “Non solo è stato consegnato alle Camere a luglio invece che a marzo” ma dimostrerebbe che “permane un trend in crescita nelle esportazioni di armi, concentrato nelle mani delle solite aziende come Leonardo, Fincantieri e Simmel Difesa”. Franchini conclude: “Chiediamo all’Italia di non riconoscere il prossimo governo egiziano, frutto di elezioni fortemente antidemocratiche, con candidati d’opposizione perseguitati e media imbavagliati, ma anche di rivedere gli accordi sulle armi che rafforzano gli apparati militari che sostengono e legittimano l’attuale presidenza al-Sisi, ritenuta responsabile di violazioni dei diritti umani, ponendo inoltre un tema di sostenibilità economica”. Con l’inflazione oltre il 40%, la sterlina egiziana dimezzata e l’aumento generale dei prezzi, “l’Egitto attraversa una delle peggiori crisi economiche, nel 2023 Bloomberg lo indica come il secondo paese al mondo più vulnerabile alla crisi del debito dopo l’Ucraina. Da anni si tagliano fondi a scuola, sanità e welfare, ma si possono spendere milioni in armi”.