41bis, necessità ed eccessi di una normalità abnorme di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 dicembre 2023 Nato oltre trent’anni fa sull’onda dell’orrore e dell’indignazione per le stragi di Capaci e via D’Amelio, il cosiddetto carcere duro è stato applicato quasi esclusivamente ai mafiosi (ancora oggi, su 730 solo quattro sono i condannati per reati non connessi a Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta). Più delle intercettazioni col loro potenziale infamante. Più dell’avviso di garanzia tramutato in lettera scarlatta. Più dell’abuso d’ufficio con annessa paura della firma. C’è una materia che meglio d’ogni altra rivela la torsione dialettica tra garantismo e massimalismo penale, anche in una maggioranza solida come quella che sostiene il governo. E mostra al tempo stesso le sensibilità reali del Paese, le sue opzioni più profonde sulla giustizia e l’espiazione, sulla riabilitazione e la sicurezza sociale. Si trova in un cono d’ombra, un po’ nascosta al dibattito pubblico, perché su di essa è scomodo per molti politici e opinionisti prendere una posizione franca: è il 41 bis, il regime di detenzione speciale dell’ordinamento penitenziario. Il motivo di tale disagio è facile da capire e attiene alla natura stessa di questo istituto. Nato oltre trent’anni fa e cresciuto sull’onda dell’orrore e dell’indignazione per le stragi di Capaci e via D’Amelio, il cosiddetto carcere duro è stato applicato quasi esclusivamente ai mafiosi (ancora oggi, su 730 reclusi sottoposti ad esso, solo quattro sono i condannati per reati non connessi a Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta). Di fronte al sacrificio di Falcone e Borsellino, rispondeva a un desiderio forse non codificabile ma fortissimo nel Paese: “buttare via la chiave”, seppellire nel buco più profondo belve come Riina e Provenzano. E trovava (trova) la sua ratio giuridica in un’esigenza passata anche al vaglio della Corte costituzionale: impedire ai boss di dare ordini dal carcere, interromperne i contatti col mondo criminale. Solo in quest’ottica, e non certo come un quid di afflizione in più motivato dall’odiosità del reato, la detenzione speciale era (ed è) accettabile in un Paese liberale che ha l’illuminismo di Cesare Beccaria nel suo Dna. Ma la sua applicazione pratica s’è spesso spinta oltre. Come illustra l’ultimo rapporto redatto a marzo scorso dall’ufficio del Garante, in alcune prigioni s’è tradotto in finestre schermate cinque volte fino alla rarefazione di aria e luce “senza alcuna ragionevole giustificazione”; in altre nella privazione visiva “come pena corporale” (non un cespuglio, non una piantina nel loculo di cemento del cortile); ovunque, in regole vessatorie e insensate, e reclusione emotiva senza riguardo nemmeno per i bambini dei reclusi. Emergenza trent’anni fa, il 41 bis è diventato normalità abnorme: era transitorio, e una legge del 2002 lo ha reso permanente; una del 2009 ne ha centralizzato i ricorsi a Roma, troncando il rapporto tra detenuto ricorrente e giudice naturale sul territorio. Entrato nel dibattito pubblico per lo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito, è esploso in una battaglia parlamentare all’esito della quale è stato rinviato a giudizio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, accusato di avere passato al collega di partito Donzelli notizie riservate sulla visita di una delegazione di deputati dem nel carcere di Cospito. Al netto delle polemiche di fazione, il sospetto di voler “annacquare” il 41 bis vale ancora quale marchio d’infamia, se non di cripto-mafiosità; la sua difesa aprioristica può divenire una patente di moralità anche per politici dal discutibile profilo etico. “Quando una norma ha più valore simbolico che fattuale diventa un elemento di consenso”, riflette Mauro Palma, che è stato per sette anni garante nazionale dei detenuti: “Un sistema che interrompa le connessioni nella criminalità organizzata è doveroso e chi parla di tortura non sa ciò che dice, ma il 41 bis va ridotto nella sua applicazione di circa una metà e sfrondato di parecchie… cavolate”. Qualche settimana fa s’è consumato proprio su questo uno scontro sotterraneo in via Arenula, sede del ministero. Il capo del Dap, Giovanni Russo, un galantuomo garantista messo al vertice dell’amministrazione penitenziaria dal ministro Nordio, ha promesso in un dibattito pubblico la revisione di una circolare del 2017 passata con parere contrario del garante e accusata di inasprire con ridondanze burocratiche e durezze quotidiane non necessarie un regime già angusto di suo. E ha prefigurato la nascita di “un nuovo 41 bis”, “costituzionalmente ineccepibile, che elimini l’ipotesi di qualunque trattamento vessatorio al di là di ciò che serve per garantire che questi criminali speciali non proseguano la loro attività dannosa alla società intera”. La sortita di Russo è stata silenziata in fretta, avendo provocato non pochi malumori nella componente giustizialista di via Arenula. Delmastro sostiene che il governo “non arretrerà di un millimetro sulla materia”, giurando che all’estero gliene chiedono notizie “quale normativa all’avanguardia contro il crimine organizzato”. Le elezioni europee ormai alle porte non aiutano un approccio pragmatico. Servirebbe, e molto. Ad eliminare, per esempio, la piaga delle “aree riservate”, una sorta di 41 bis rafforzato per una trentina di detenuti ai quali la socialità già ridottissima è azzerata fin quasi all’isolamento. Magari a creare nuove strutture idonee all’Alta Sicurezza 1 (il livello di detenzione appena meno afflittivo) evitando di spedire molti al circuito di detenzione speciale solo per mancanza di alternative. È del tutto evidente che una spinta a modificare il 41 bis non troverebbe consenso nei sondaggi. Ma proprio perciò questa cartina di tornasole ci dice molto su quante probabilità abbia davvero di andare in porto un’autentica riforma della giustizia, quella su cui Carlo Nordio ha messo tutto il peso del suo prestigio. Per chi la propone, insieme con una visione di lungo periodo, i sondaggi dovrebbero pesare il giusto, ma non di più: così da non lasciare nel buio della rimozione gli angoli più tormentati di un sistema carcerario già dolente. Il paradosso di un ministro ultragarantista imbrigliato dal massimalismo penale potrebbe esplodere quando, passate le elezioni, i calcoli elettorali non faranno più da sordina. I suicidi in carcere e la necessità di una radicale inversione delle politiche relative alla fase dell’esecuzione della pena camerepenali.it, 11 dicembre 2023 Tre suicidi per impiccagione si sono tragicamente susseguiti in questi ultimi giorni nella Casa di reclusione di Parma, nella Casa Circondariale di Milano San Vittore e in quella di Verona-Montorio, portando a sessantasei il numero complessivo delle persone che si sono tolte la vita in carcere in questo ultimo anno. E non vale certo la pena di ragionare sulle unità in più o in meno di questo atroce conteggio come fosse il freddo bilancio consuntivo di un’azienda a fine anno. Quando è in conto la vita di persone affidate alle cure dello Stato nessuno mai dovrebbe essere lasciato morire, in nessun modo e in nessun caso. E invece questo terribile conteggio si allunga inesorabilmente, travalicando le inutili cesure degli anni, nell’indifferenza dei governi che hanno sempre guardato e guardano al carcere con cinica distanza, spesso utilizzandolo come improbabile emblema della sicurezza collettiva o vantandone comunque la salvifica funzione di discarica sociale. Anziché porre rimedio a tale incivile e perdurante scandalo con urgenti e concrete politiche d’intervento, si sono al contrario viste elaborare normative che incidono sulla realtà del carcere con strumenti repressivi, autoritari ed intimidativi, introducendo nuove fattispecie di reato ostative alla concessione di misure alternative alla detenzione e criminalizzando ogni manifestazione anche non violenta di disagio proveniente dai detenuti, marchiando così il carcere nel segno della pura afflittività anziché farne il luogo del recupero, favorendo l’espansione degli strumenti trattamentali e la conseguente più ampia e sollecita fruizione di tutte le misure volte alla risocializzazione. La Camera Penale di Roma insieme alle Camere Penali del distretto ossia Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, quelle di Santa Maria Capua Vetere e di Perugia hanno dichiarato in questi ultimi mesi altrettante astensioni per protestare contro le perduranti disfunzioni dei Tribunali di Sorveglianza, cogliendo in ogni caso un nesso evidente fra la incapacità di quegli uffici di dare risposte alle speranze ed alle attese dei detenuti ed il volto drammaticamente disperante della condizione detentiva nel nostro Paese. L’inadeguatezza delle strutture nel fornire cure sanitarie e assistenza psichiatrica e nell’assicurare strumenti di recupero dalle dipendenze (un terzo dei detenuti risulta essere tossicodipendente), la carenza di sufficienti contatti con la famiglia, l’assenza di affettività e di socialità, hanno un peso evidente nella possibilità di prevenire prima e di intercettare poi la disperazione dei singoli e nel porsi ad ostacolo a quei gesti estremi. L’Unione denuncia da anni questa terribile condizione dell’universo carcerario, la mancata predisposizione di risorse necessarie all’incremento dei mezzi, delle strutture, del personale specializzato e di quello amministrativo negli istituti di pena, nei tribunali e negli uffici per l’esecuzione esterna, anch’essi oberati dalla riforma Cartabia da ulteriori e non meno rilevanti incombenze. L’Unione conosce, anche tramite gli Osservatori delle singole Camere Penali, le condizioni delle carceri, in molti casi indegne di un paese civile, e le insufficienze endemiche e non più tollerabili di molti tribunali di sorveglianza. Risulta peraltro evidente non solo l’irragionevolezza dei tempi necessari per la definizione anche delle domande di minore rilievo, ma anche l’applicazione sovente eccessivamente restrittiva degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario, che concorrono a comporre quel trattamento rieducativo e risocializzante. La Giunta non può pertanto che accogliere l’appello delle Camere Penali di Roma, di Santa Maria Capua Vetere e di Perugia, facendo proprie le istanze di cui alle relative delibere di astensione, impegnandosi a contrastare con iniziative di ambito nazionale ogni normativa che sia volta, in violazione dei principi della nostra Costituzione, alla sostituzione delle finalità rieducative delle pene con strumenti di tipo repressivo, securitario e contenitivo, manifestazioni di una visione carcerocentrica della giustizia penale che non concorre in alcun modo, come si vuol far credere, ad un incremento della sicurezza dei cittadini, impegnandosi a segnalare al Ministro della Giustizia, e alla politica tutta, la necessità di una radicale inversione delle politiche relative alla fase dell’esecuzione della pena affinché siano poste in essere nel solco dei principi costituzionali a tutela della integrità e della dignità della persona. Tra ritardi e nuove riforme, Nordio sta sabotando il Pnrr di Giulia Merlo Il Domani, 11 dicembre 2023 La riforma della prescrizione rischia di far saltare i risultati positivi raggiunti sulla durata dei processi penali. I buoni propositi del ministro per le assunzioni sono smentiti dal fatto che in finanziaria non ci sono fondi. Il Pnrr non è fatto di sole rate incassate, ma anche di obiettivi da raggiungere entro una scadenza precisa - giugno 2026 - e la riforma dell’assetto giudiziario italiano (a cui sono destinati 2,7 miliardi) è uno dei pilastri su cui si fonda l’intero progetto. Per questo, nella scorsa legislatura, l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia ha fatto approvare tre pacchetti di riforme sotto forma di legge delega al governo: penale, civile e ordinamento giudiziario. Il passaggio all’epoca non è stato indolore, vista la maggioranza spuria che appoggiava il governo tecnico di Mario Draghi, che vedeva però l’appoggio di due dei tre partiti che compongono la maggioranza di Giorgia Meloni: Lega e Forza Italia. Un lavoro, questo, che l’attuale guardasigilli Carlo Nordio si è ritrovato pronto nel perimetro ma con l’onere di attuare con decreto le deleghe, in modo da dare l’impulso necessario per raggiungere gli obiettivi. In particolare, i due quantificati in modo preciso: la riduzione del 40 per cento della durata dei procedimenti civili e del 25 per cento di quelli penali, e del 90 per cento dell’arretrato civile. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni iniziali del ministro soprattutto sulla volontà di dare impulso al settore civile “che vale uno o due punti di Pil”, la maggiore attenzione dell’esecutivo si è riversata sul penale. Con un effetto, però, che è stato segnalato a più riprese anche dai magistrati: le iniziative di riforma del governo, infatti, rischiano di rallentare invece che di avvicinare il raggiungimento dei parametri negoziati con Bruxelles. Prescrizione - L’esempio più lampante di questo è la prescrizione. Dopo un lungo braccio di ferro in maggioranza, Nordio è arrivato alla presentazione della sua riforma della prescrizione, con un intervento che modifica proprio la riforma penale Cartabia approvata nel 2022 nell’ambito del Pnrr. La riforma Cartabia prevedeva una prescrizione divisa in due: sostanziale, e dunque calcolata sugli anni di pena, per il primo grado; processuale, invece, per l’appello e la cassazione, con un tempo massimo di due anni e un anno per giungere a sentenza, a pena di improcedibilità. Cartabia aveva spiegato che questo meccanismo - non ottimale perché rischiava di caducare in appello molti procedimenti, soprattutto nelle corti con più difficoltà gestionali e scoperture di organico - si andava a inserire in una più complessiva riforma del processo penale e che, secondo i dati del 2022, solo poche corti d’appello sforavano i 2 anni. A un anno dall’implementazione della riforma, i risultati della Relazione sul monitoraggio statistico sugli indicatori Pnrr aggiornata al I semestre 2023 sono buoni: nel primo semestre 2023, il disposition time (il tempo di conclusione dei procedimenti) è calato del 29 per cento - 29,7 per cento in primo grado, 27,1 in Corte d’appello, 39,1 per cento in Cassazione - con una riduzione rispetto al 2019, e supera pertanto la richiesta del target Pnrr. Ora Nordio ha trasmesso un nuovo testo alla commissione Giustizia della Camera, che prevede di riportare tutto sotto il sistema della prescrizione sostanziale, con una sospensione però dei termini di decorrenza: per 24 mesi dopo la condanna in primo grado e di 12 mesi dopo la conferma in appello. Si tratta della quarta riforma in sei anni, che non fa i conti con due elementi: i dati positivi da poco riscontrati rispetto alla riduzione del disposition time, ma soprattutto il fatto che ogni modifica procedurale, ora, rischia di frenare il trend positivo e addirittura di invertirlo. Gli uffici giudiziari, infatti, si sono adeguati nei calcoli della prescrizione alla precedente riforma di appena un anno fa; la modifica che vorrebbe Nordio costringerà a un ricalcolo anche molto complicato sulla base del principio che per i casi pregressi ancora in corso andrà applicata la legislazione più favorevole. Anche perché la nuova prescrizione non avrà una disciplina transitoria per agevolare il passaggio. Col risultato di scucire, come una tela di Penelope, quanto appena fatto. Non a caso tutti e 26 i presidenti di corti d’appello hanno indirizzato una lettera preoccupata al ministro, in cui hanno scritto che già in passato “l’assenza di una tempestiva ed esauriente disciplina transitoria” per le riforme penali ha prodotto “conseguenze paralizzanti sul piano organizzativo”, e dunque hanno chiesto che “eventuali nuove discipline in materia di prescrizione e improcedibilità siano comunque accompagnate da esaurienti e coeve disposizioni transitorie. Si tenga conto infatti che ogni eventuale modifica imporrà, necessariamente, altra rivisitazione di parte molto consistente della pendenza di ciascun Ufficio”. Con l’effetto, comunque, che le modifiche imporranno di sottrarre alla trattazione di nuove udienze, “i cui tempi inevitabilmente si allungheranno”, magistrati e personale amministrativo. Processo penale telematico - Tra gli obiettivi del Pnrr, però, ci sono anche importanti investimenti per la digitalizzazione della giustizia in modo da poter rendere effettivo lo smaltimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi di giudizio. Proprio questo settore, invece, rimane uno dei punti veramente dolenti, con una digitalizzazione a singhiozzo e su cui si procede ancora molto a rilento sia per mancanza di personale che di strutture: l’attività, infatti, è stata avviata in poco più del 60 per cento degli uffici, con una digitalizzazione di circa 980mila fascicoli, lontanissimi dalla cifra di 3,5 milioni che dovrebbe essere raggiunta alla fine del 2023, senza contare che a giugno 2026 la cifra complessiva da raggiungere è di 10 milioni. Non solo: tra gli obiettivi di digitalizzazione c’era anche l’avvio del nuovo processo penale telematico, per portare anche questo settore al pari del civile, dove il processo civile telematico è già in funzionamento da anni. L’entrata in avvio prevista a gennaio 2024, tuttavia, è stata fatta slittare di un anno con una proroga ufficializzata dal ministero di via Arenula. La causa è puramente tecnica: per il Ppt il ministero ha sviluppato un applicativo che, sperimentato in varie corti, ha dimostrato di essere ancora pieno di errori e non in grado di gestire in modo funzionale il deposito degli atti penali. Ufficio del processo - Accanto alla digitalizzazione, l’altro strumento introdotto dalla riforma Cartabia per permettere sia lo smaltimento dell’arretrato che la velocizzazione dei procedimenti è stato l’ufficio del processo. Ovvero, l’assunzione di 16.500 funzionari a tempo determinato, per coadiuvare il lavoro dei magistrati nella stesura dei provvedimenti e agevolare lo svolgimento delle procedure amministrative. Anche su questo, però, stanno emergendo i primi problemi, segnalati anche dall’Anm. I funzionari dell’Upp, infatti, sono tutti assunti a tempo determinato, percepiscono 1:800 euro lordi al mese e vanno formati. Tuttavia, proprio questa precarietà della funzione ha scatenato già una fuga: dei primi 8mila assunti, più di 2mila hanno già dato le dimissioni, e l’emorragia continua, perché molti degli assunti cercano (e trovano) nuovi lavori non precari. Invece, proprio l’investimento sul personale è la vera chiave di volta per raggiungere gli obiettivi del Pnrr, come mostrano anche i dati sulla situazione nel settore civile. Una ricerca di Italiadecide ha infatti mostrato come il civile sia quello dove i risultati di riduzione di arretrato e disposition time siano i più lenti ad arrivare, per due ragioni: “la differente disponibilità di risorse e i diversi modelli organizzativi”. Tradotto: dove c’è maggiore personale, che consente modelli organizzativi più efficienti, il sistema è in grado di raggiungere gli obiettivi europei. Con un dato che prescinde dalla latitudine: infatti, le migliori performance sono state realizzate da Marsala, che nella variazione tra pendenti ultra triennali tra il 2022 e il 2017 ha totalizzato il -93 per cento, e da Crotone (-90 per cento), con una media nazionale del 31 per cento. Nordio ha più volte annunciato che il suo obiettivo è “stabilizzare gli assunti con l’ufficio del processo”, tuttavia ai buoni propositi non corrispondono le scelte del governo di cui fa parte. Nell’attuale manovra finanziaria, infatti, non sono previste risorse per la giustizia, ma la previsione è quella di tagliare le spese del 10 per cento per i prossimi anni. Complicato, allora, che si riesca a mantenere la via positiva imboccata dall’Italia verso gli obiettivi del Pnrr sulla giustizia. La vergogna dei fascicoli arretrati nei Tribunali dei Minori che riguardano il destino di 110 mila bambini di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 11 dicembre 2023 È un’emergenza collettiva che ci riguarda molto da vicino, ma la vediamo solo quando diventa il titolo di un tg o di un giornale. Parliamo della sofferenza sociale e psichica di bambini e adolescenti: se non curata tempestivamente finisce troppo spesso con l’aggravarsi, fino a procurare danni irreparabili e condizionare o compromette la loro vita adulta. Il fenomeno delle baby gang, la delinquenza minorile, i giovanissimi che abbandonano la scuola, i bambini stranieri senza famiglia, i minori orfani di violenza domestica, vittime di abusi o figli di alcolisti o tossicodipendenti rappresentano solo alcune delle situazioni che richiedono valutazioni adeguate, interventi rapidi e sorveglianza sulla corretta applicazione delle misure. Chi deve occuparsi di tutti questi casi è il Tribunale per i minorenni. Siamo andati a vedere come funziona. Quello che emerge lascia interdetti. Cosa c’è sul tavolo dei giudici - In Italia ci sono 29 Tribunali per i minorenni: a tutti manca il personale amministrativo, mentre i giudici previsti dalle piante organiche sono meno rispetto alla mole di lavoro e in quasi la metà dei Tribunali il loro numero non viene neppure rispettato. A Milano dovrebbero essere 18 invece sono 13, a Roma 16 e sono in 12, a Genova 7 e sono in 5, a Bari 10 e sono in 7. E via di questo passo a Firenze, Venezia, Ancona, Napoli. Né bastano i giudici onorari che li affiancano (psicologi, pedagogisti, neuropsichiatri infantili, educatori, assistenti sociali). Il risultato è l’accumulo di fascicoli: il totale fa quasi 110 mila, e a ogni fascicolo corrisponde un minore e il suo destino. Le chiamano “pendenze”. A Milano sono 12.662: vuol dire che ogni singolo giudice ha sul tavolo 974 fascicoli arretrati, e ogni anno 562 casi nuovi. A Roma le pendenze sono 8.368, a Napoli 5.531, a Bologna si raggiunge il numero esorbitante di 10.106, nonostante il numero dei giudici sia quello previsto da pianta organica. Ma concretamente cosa vogliono dire questi numeri per la vita dei minori? Prima autolesionista, poi drogato - Vincenzo, 12 anni, si ferisce volontariamente. La scuola informa i servizi sociali e, dopo una diagnosi di disturbo depressivo, arriva la decisione del Tribunale per i minorenni: deve andare dallo psicologo e ai genitori va affiancato un educatore a domicilio. Passano due anni e mezzo, ma i servizi sociali non si attivano e il giudice non sollecita perché ha altre urgenze. Vincenzo lascia la scuola e inizia a drogarsi. A 16 anni ritorna al Tribunale per i minorenni, stavolta davanti al giudice penale per furto e spaccio. In comunità, anziché in famiglia - Claudia e Armando sono due fratellini inseriti in comunità perché i genitori sono entrambi tossicodipendenti. Prima che i Servizi sociali segnalino al Tribunale passano 5 mesi, altri 6 prima che i genitori vengano inseriti in percorsi di disintossicazione, altri 15 prima di capire che la disintossicazione non sta funzionando. Nel frattempo i bambini, che avrebbero potuto essere dati in affido, restano in comunità. Invece Marco è un giovane papà che per 2 anni vede il figlio piccolo in uno “spazio protetto” a causa di pregressi problemi di droga. Il padre accetta di seguire un percorso di disintossicazione che funziona bene e dopo 3 anni chiede di essere reintegrato nella responsabilità genitoriale. Ma il giudice risponde alla richiesta dopo 13 mesi. Quattro fratelli alla deriva - Hanno un’età compresa fra i 3 e i 16 anni. Il padre è in carcere, la madre convive con un compagno. I più piccoli devono essere seguiti a casa da un educatore, i più grandi frequentare un centro diurno, per tutti è necessario un supporto psicologico. I giudici non riescono a seguire l’evolversi della situazione per prendere via via provvedimenti mirati: la figlia più grande diventa maggiorenne e oggi non studia né lavora; il secondo è tossicodipendente; il terzo con disturbi dell’apprendimento. Per il più piccolo si apre l’affido perché la madre non ce la fa. Orfana di femminicidio - La mamma di Gioia, 4 anni, è morta per mano del padre. Ci vogliono 15 mesi per dichiarare la bambina adottabile, ma nel frattempo per mancanza di fondi non viene attivato nessun supporto psicologico nonostante disturbi del sonno e pianti prolungati. Conseguenza: la ricerca di una famiglia adottiva fallisce poiché la bambina non riesce a inserirsi in nessuna famiglia. Nessun sostegno dopo gli abusi - Marina subisce abusi sessuali tra gli 8 e i 10 anni dal compagno della madre. Trova il coraggio di raccontare a scuola. Si apre il procedimento penale che porta alla condanna dell’uomo. La ragazzina viene seguita da uno psicologo, ma dopo 6 sedute la terapia si interrompe perché all’operatore è scaduto il contratto della cooperativa. Marina salta ripetutamente la scuola, fughe da casa e uso di sostanze stupefacenti. Mamma alcolista - Francesca ha problemi di alcol e per 2 anni sta in comunità con il figlio di Gabriele di 4 anni. Quando finalmente tornano a casa è prevista l’attivazione di un educatore domiciliare per il reinserimento nella vita normale, e la presa in carico del Gruppo operativo di alcologia (Noa). Nel passaggio di competenze tra i servizi sociali e specialistici che la seguivano in comunità e quelli del nuovo Comune di residenza, a cui passa il caso, l’educatore domiciliare non si trova. Dopo 6 mesi Francesca torna a bere e Gabriele non va a scuola. Chi deve fare cosa - Le competenze sono divise. Il Tribunale per i minorenni si occupa di adozioni, affidi etero-familiari e di limitazioni della responsabilità genitoriale nel caso in cui la presenza in famiglia può arrecare danno a un bambino o a un adolescente. Poi c’è il Tribunale ordinario che interviene in caso di separazioni, divorzi e conseguente necessità di regolamentazione della responsabilità genitoriale dei figli di coppie sposate e non; infine il giudice tutelare che si occupa di tutele di minori italiani, oltre che di nomine e gestioni delle amministrazioni di sostegno. Tradotto nella pratica: la polizia interviene su un brutto episodio di violenza e allontana un minore dalla famiglia. La polizia segnala subito il caso alla Procura presso il Tribunale per i minorenni che, a sua volta, chiede ai giudici la convalida di quell’allontanamento e altri provvedimenti a tutela. Nel frattempo la madre si separa dal compagno/marito e quindi deposita, con il suo avvocato, un ricorso davanti al giudice del Tribunale ordinario nel quale chiede, oltre alla separazione, l’affidamento del figlio e l’assegno di mantenimento per il minore. Successivamente la madre decide di recarsi all’estero, il padre si oppone e non dà il consenso all’espatrio. La madre per ottenere il documento valido è costretta a fare ricorso al giudice tutelare. Questa frammentazione di competenze allunga i tempi e complica situazioni già difficili in origine. La riforma Cartabia - La legge 206 del 26 novembre 2021, nota come riforma Cartabia sulla giustizia, per quanto riguarda i minori viene attuata con il decreto legislativo 149 del 10 ottobre 2022 (qui). L’obiettivo è di riunire entro ottobre 2024 tutti i procedimenti sotto un tribunale unico dal nome “Tribunale per le Persone, per i Minorenni e per le Famiglie”, applicando un rito unico. Le buone intenzioni, però, devono fare i conti con la realtà. Due i problemi su tutti. 1) Per i procedimenti iscritti dopo il 28 febbraio 2023 i giudici onorari non avrebbero più potuto svolgere attività istruttoria, occuparsi della prima udienza, né procedere autonomamente all’ascolto del minore. Sono intervenute due proroghe, ma dal 30 aprile 2024 tutto ricadrà sulle spalle dei giudici togati già oggi seppelliti dai fascicoli. 2) Al 30 giugno 2023 avrebbe dovuto essere operativa l’informatizzazione del Tribunale per i minorenni. A metà dicembre 2023 sia il Tribunale ordinario, sia quello dei Minorenni e il giudice tutelare non sono ancora in grado di vedere reciprocamente tutti i procedimenti che riguardano lo stesso minore. E poi se l’organico rimane lo stesso, se restano tal quale i fondi per il sostegno ai minori e genitori e nessuno guarda quali sono le criticità dentro agli uffici fuori parametro, cambia davvero poco. Le conseguenze le vediamo quando finiscono in cronaca. Caso Cucchi, il processo per depistaggi dell’Arma in prescrizione di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 11 dicembre 2023 Mai fissata la data del secondo grado. Prescritti tutti i reati fra 2009 e 2015. Inutile la sollecitazione dell’avvocato di parte civile Maccioni. Ilaria Cucchi esce di scena. Il generale Alessandro Casarsa che, secondo i giudici di primo grado, diede l’ordine di falsificare l’annotazione relativa alla notte dell’arresto di Stefano Cucchi, dando il via alla catena di manipolazioni che porterà a imbastire un processo nei confronti della polizia penitenziaria, non patirà conseguenze per la sua decisione benché sanzionata con cinque anni di carcere. Tutto è infatti pacificamente prescritto, considerato che stiamo parlando di un reato (il falso) commesso nel 2009. Ma anche i silenzi e le omissioni del colonnello Lorenzo Sabatino che nel 2015, quando era avviata un’inchiesta bis che puntava proprio ai carabinieri quali autori del pestaggio nei confronti del giovane, trascurarono di denunciare al pm Giovanni Musarò la falsa annotazione del fotosegnalamento (prova madre del fatto che qualcosa, negli uffici dei carabinieri, era andata male) non saranno perseguiti. Prescritti anche quelli malgrado in primo grado abbiano prodotto una condanna a un anno e 9 mesi. Il “ritiro” di Ilaria Cucchi - Le sorti del più clamoroso processo sui depistaggi commessi dall’Arma dei carabinieri appaiono ancora una volta legate alla pressione mediatica attorno al caso. Questa pressione è venuta meno perché Ilaria Cucchi (oggi senatrice del centrosinistra) legittimamente stanca dopo quattordici anni di battaglie, esposti, udienze e dimostrazioni, ha deciso di ritirare la sua costituzione al processo. Di colpo è quindi venuto meno il motore di quell’attenzione che a suo tempo aveva imposto il terzo filone investigativo su Cucchi quale simbolo di una giustizia negata prima e ritrovata poi. Mai fissata la data del secondo grado - Sta di fatto che i giudici della Corte d’Appello non hanno ancora fissato la data dell’udienza del secondo grado malgrado la sollecitazione dell’avvocato Stefano Maccioni che rappresenta Giovanni Cucchi al processo. Un’istanza formale, notificata il 16 novembre scorso, è rimasta senza risposta. Così una delle inchieste più celeri (soprattutto in rapporto alla sua complessità) concluse dalla Procura si arena in secondo grado per ostacoli burocratici e sfuma nel nulla malgrado gli sforzi fatti durante la celebrazione del primo dibattimento dal giudice Roberto Nespeca che, con due e perfino tre udienze settimanali, aveva saputo garantire una chiusura del processo in tempi ragionevoli. L’arretrato del tribunale - A giudizio del presidente della Corte d’Appello Giuseppe Meliadò, anche i depistaggi in questione sono vittima dell’arretrato storico del tribunale romano: “Quarantaseimila cinquecento fascicoli da smaltire - dice - una carenza del 20% dei magistrati e del 30% del personale amministrativo: con numeri del genere non possiamo fare miracoli. Avessimo quindici magistrati in più potremmo abbattere il 50% dell’arretrato...”. Prigioniero della burocrazia, insomma, il processo-simbolo degli ultimi anni. Un fatto che indigna anche l’avvocato di parte civile Diego Perugini rappresentante di quella polizia penitenziaria ingiustamente accusata: “Abbiamo di fronte una giustizia melliflua quando si tratta dei potenti e arrogante con l’uomo della strada. Da anni aspettiamo scuse e risarcimenti per la vergogna cui abbiamo assistito. E invece da una parte si lasciano scivolare via i responsabili e dall’altra si prendono in giro le vittime promettendo risarcimenti che non arrivano. Vergogna tutta italiana”. Agnese Moro: “Gli ex Br sono diventati amici difficili e preziosi” di Michela Bompani La Repubblica, 11 dicembre 2023 La figlia dello statista ucciso ha ricevuto il premio Primo Levi per il suo impegno nella “giustizia riparativa”. Primo ad applaudire Bonisoli, l’ex terrorista che partecipò al rapimento. “Non si ripara l’irreparabile, ma abbiamo attraversato insieme i nostri inferni, io e i miei amici difficili e improbabili, i miei amici preziosi”: Agnese Moro parla di chi ha ucciso suo padre, Aldo Moro, 45 anni fa, nel silenzio assoluto del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, a Genova, ieri sera, dopo aver ricevuto dalle mani del sindaco Marco Bucci il Premio internazionale Primo Levi, istituito da Piero Dello Strologo presidente del Centro Culturale Primo Levi di Genova nel 1992, e assegnato ad Agnese Moro per il suo impegno nella “giustizia riparativa”. E il primo ad alzarsi in piedi, il primo di tutti, poi seguito da tutta la sala, per una commossa standing ovation, è Franco Bonisoli, ex brigatista, proprio uno dei suoi “amici difficili e improbabili”, che rapì l’ex presidente del consiglio e presidente della Dc. “L’incontro è molto importante - dice Moro - perché, fino ad allora, vivevo in un mondo popolato di fantasmi. Al primo incontro, invece, mi trovai di fronte a una persona: fino ad allora ero circondata da fantasmi giovani, invece lì c’era un vecchio. E il dolore, ho capito, non era solo mio. Mi disse “Hai una faccia che non si può vedere”, perché gli ricordavo mio padre. È strano il loro desiderio di incontro. Si sono fatti decine di anni di galera brutta, eppure mi vogliono incontrare. La giustizia riparativa è fatta così: raccontare, rimproverare e imparare a disarmarsi, per ascoltare. E ci fa togliere le maschere: quelle che ci hanno intrappolato per decenni: loro, quelle di cattivi per sempre. Noi, quelle di vittime per sempre. La giustizia riparativa si occupa dell’irreparabile”. E il sindaco Bucci ha raccontato quel suo giorno di marzo, il 16, del 1978, quando Moro venne rapito e cinque uomini della sua scorta uccisi: “Studiavo al liceo D’Oria - parla e guarda negli occhi Agnese Moro - uscimmo da scuola e ci sedemmo sui gradini delle Caravelle, avevamo tutti un senso di disperazione: pensavamo a cosa ne sarebbe stato di noi, se la violenza poteva avere il sopravvento?” e ricorda anche l’uccisione di Guido Rossa, nel gennaio successivo. A indagare le origini nella Torah, della giustizia riparativa è stato Davide Assael, presidente dell’associazione Lech Lechà, che ha indicato come il filosofo medievale Maimonide avesse già spiegato che “la giustizia serve per liberare le parti”, altrimenti bloccate nel momento del delitto. E, introdotta dal presidente del Primo Levi Alberto Rizzerio, è intervenuta Claudia Mazzucato, docente di Giustizia riparativa e promotrice del progetto “L’incontro” che ha messo in contatto negli anni vittime e autori di delitto, non solo in Italia, ma anche in Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Israele, Belgio e Francia. Cita i “Sommersi e i salvati” di Primo Levi e il suo indagare “tutte le parti, non solo le vittime” e riconosce a Moro la “forza mite di essere chiamata e rispondere”. Agnese Moro ha sottolineato l’onore di ricevere il Premio dedicato a Primo Levi: “Ammiro tanto il suo coraggio di non cedere mai alla tentazione della semplificazione - ha detto - Levi non ha mai escluso neppure un atomo, neppure il più contraddittorio o il più scomodo. Una virtù, la complessità, di cui abbiamo assoluto bisogno, in un mondo che ama i leader, le persone strafighe”. Ringrazia i mediatori del progetto “L’incontro”: “Noi vittime eravamo squinternati, danneggiati dal nostro dolore - dice - sono grata a loro, ma anche ai miei compagni di viaggio difficili”. Perché, spiega Moro, è tornata a respirare: “Il mio unico merito è aver varcato la soglia, aver accettato di provarci - dice - dopo trentuno anni dalla morte di mio padre. Mi sono accorta, durante un incontro, che era da allora che non facevo più un respiro completo. E ho anche ritrovato un “prima”. Perché guardavo le foto di mio padre, con me piccola, e le vedevo macchiate di sangue. I miei amici improbabili mi hanno restituito il conforto di quelle fotografie”. Agnese Moro racconta la storia di due piantine. La prima, quella che le ha portato un ex brigatista, la prima volta che si sono incontrati. La seconda è quella che nasce “nelle crepe dei marciapiedi di Roma: quella sono io, un po’ stortignaccola, ma che vive”. E conclude: “In me c’era una goccia d’ambra in cui era intrappolato un insetto ferito - parla, piccola, e fortissima, nella sua sedia al centro dell’enorme salone del Ducale - ora, al suo posto, c’è un luogo di quiete in cui convivono mio padre, Aldo Moro, e i miei amici improbabili”. La maledizione di Piazza Fontana. L’indagine interrotta e quella guerra tra i magistrati di Rocco Vazzana Il Dubbio, 11 dicembre 2023 Nel libro pubblicato per le edizioni “Chiarelettere”, il giudice milanese Guido Salvini ripercorre la sua inchiesta sulla strage: una ricerca di verità finita nel mirino de media e dei colleghi. Quella di Piazza Fontana non è solo la storia di una strage senza condanne e di indagini depistate, è anche il racconto di una vera e propria guerra tra magistrati che ha prodotto come unico risultato il mancato raggiungimento di una verità giudiziaria. Con grande soddisfazione dei responsabili. Un conflitto senza esclusione di colpi a cui Guido Salvini, giudice istruttore a Milano negli anni Novanta, dedica un intero capitolo de “La maledizione di Piazza Fontana” (Chiarelettere). Il magistrato milanese ripercorre, spiegando ogni passaggio con i documenti, la storia della sua inchiesta sulla strage finita improvvisamente nel mirino di alcuni colleghi e del mondo dell’informazione. L’accanimento vale a Salvini una lunghissima indagine per abuso d’ufficio, aperta dalla Procura di Venezia e archiviata sette anni dopo, e due procedimenti davanti al Csm, uno disciplinare e uno per incompatibilità ambientale, finiti entrambi nel nulla dopo un lungo calvario. Ed è proprio all’organo di autogoverno che l’ex giudice istruttore muove alcune delle critiche più feroci. “Maccartismo giudiziario”, “inquisizione del Csm”, “tecnica intimidatoria del Csm”, “il Csm falsifica gli atti di cui dispone”. Sono solo una parte delle accuse mosse al Consiglio, considerato troppo prono nei confronti di alcune personalità di spicco della magistratura, un organo disposto a credere a qualsiasi accusa, senza verificarne la fondatezza, purché proveniente dalla “nobiltà togata”. Perché contro le indagini di Salvini si sarebbero mosse alcune delle personalità più amate dall’opinione pubblica italiana. Come in un film, sfilano le immagini di Francesco Saverio Borrelli, Felice Casson, Gerardo D’Ambrosio e Grazia Pradella, volti normalmente associati alla lotta corruzione, all’eversione e alla criminalità organizzata, che nel libro assumono contorni diversi, molto più terreni. Tutti uniti a puntare l’indice contro il magistrato milanese, uno degli ultimi giudici istruttori rimasti in circolazione dopo la riforma Vassalli dell’89. La guerra, nella ricostruzione del magistrato, sarebbe scaturita da semplici invidie e gelosie tra toghe in merito alle indagini sulla Strage. In particolare, a non gradire il lavoro svolto da Salvini a Milano sarebbe stato l’allora sostituto procuratore di Venezia Felice Casson. Il pm veneziano è già molto noto all’opinione pubblica per aver scoperto l’esistenza di Gladio ed è da tempo convinto che l’organizzazione paramilitare abbia avuto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dell’attentato. Non solo, Casson vede la mano dei gladiatori anche dietro alla strage di Peteano che provocò la morte di tre carabinieri. Ma è una teoria smentita dalle indagini condotte dal giudice istruttore milanese, che individua invece la testa e la regia di chi ha piazzato l’esplosivo tra le cellule neonaziste venete di Ordine Nuovo. Uno smacco ulteriore per Casson, che in base a questo assunto, si sarebbe fatto sfuggire da sotto il naso i responsabili delle stragi. L’inchiesta di Salvini sta facendo progressi inattesi, grazie all’acquisizione di nuove prove e a testimonianze inedite come quelle di Vincenzo Vinciguerra e Carlo Digilio. Bisogna dunque trovare un modo di bloccare in fretta l’indagine per non spostare l’attenzione dai gladiatori. O almeno di questo è persuaso Salvini. E l’incidente arriva. Nel 1995 Carlo Maria Maggi, capo ordinovista di Mestre e reggente per l’intero Triveneto è stato appena scarcerato dopo una lunga pena detentiva. Sa che i suoi ex camerati Digilio (reo confesso per la strage di Piazza Fontana) e Martino Siciliano stanno collaborando e teme di essere tirato in ballo. E fa una mossa “apparentemente disperata”: scrive un esposto al ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, in cui lamenta di essere stato sottoposto a pressioni dall’ufficiale del Ros Massimo Giraudo, stretto collaboratore del giudice istruttore, che nel corso di un colloquio investigativo lo avrebbe costretto a collaborare su mandato del magistrato milanese. “Carta straccia. Se qualcuno non avesse un interesse personale a considerarla qualcosa di diverso”, scrive Salvini. A dettare l’esposto a Maggi, dietro lauto compenso è Delfo Zorzi, latitante in Giappone, convinto che quel testo fosse la carta giusta per “uccidere” le indagini milanesi e scatenare la guerra tra inquirenti. E così è. A nulla vale nemmeno la testimonianza del figlio di Maggi, presente all’incontro con l’ufficiale del Ros, che definisce Giraudo “una persona affidabile, cortese, educata e con la ragione dalla sua parte”. La denuncia dell’ordinovista arriva a Venezia, tra le mani di Casson, è l’inizio della fine. Salvini è indagato dal collega veneto, la notizia finisce sulla prima pagina della Nuova Venezia, firmata da un cronista molto vicino al pm che ha aperto il fascicolo, e rimbalza su tutti i media nazionali. Il lavoro del giudice istruttore e della polizia giudiziaria viene ufficialmente delegittimato. E non solo. Si interrompe ogni collaborazione con la Procura di Milano, capitanata da Francesco Saverio Borrelli, che si dissocia dai metodi salviniani. Grazia Pradella, la giovane sostituta che lo affianca nelle indagini, inizia un’altra guerra col giudice istruttore, con tanto di accuse davanti al Csm. Persino il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, ex collaboratore di Salvini, si scaglia contro le indagini su Piazza Fontana, definendole “illegittime” sul Corriere della Sera. Borrelli si schiera con lui. Al fianco del magistrato si schierano “solo” i familiari delle vittime e il quotidiano Liberazione, l’unico a non credere al ritratto di un giudice depistatore. Gli ordinovisti possono brindare, hanno raggiunto il loro scopo. “A Casson gli hanno tolto il pane di bocca di Gladio”, diranno due ex ordinovisti intercettati. “Sei riuscito a metterli l’uno contro l’altro”, esulta al telefono un amico di Maggi, riferendosi alla guerra scatenata tra magistrati. Le indagini della Procura di Venezia su Salvini dureranno sette anni prima di essere definitivamente archiviate. E così i procedimenti davanti al Csm, avviati nel 1996. Una macchina inquisitoria basata su documentazioni mai verificate, in alcuni casi rivelatisi veri e propri falsi. “Poi, a tempo scaduto, le accuse cadono una a una”, scrive Salvini. “Ma è come consentire a un giocatore di rientrare in campo quando l’arbitro ha già fischiato il fine partita e le squadre sono negli spogliatoi”. Le indagini su Piazza Fontana sono ormai compromesse. Il grande inganno. L’esplosione e poi il tonfo di Pinelli: “Si è buttato!” di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 11 dicembre 2023 12 dicembre 1969. Venerdì, pochi giorni prima di Natale. Sono le quattro e mezza di pomeriggio. Fuori è già buio e fa freddo, come è normale in quegli inverni milanesi. A Piazza Fontana, nel salone centrale della Banca dell’Agricoltura si stanno svolgendo, per antica consuetudine, le contrattazioni dei fittavoli, dei coltivatori diretti e dei vari imprenditori agricoli che sono venuti dalla provincia per discutere i loro affari ed attendere alle operazioni bancarie presso gli sportelli. Le contrattazioni stanno finendo, la filiale sta per chiudere. C’è voglia di tornare a casa, soprattutto per chi viene da fuori Milano e ha paura della nebbia sulla strada del ritorno. Nessuno fa caso a una borsa, tra le tante che stanno sotto il grande tavolo al centro della sala. È una borsa capiente, di cuoio nero, di fabbricazione tedesca, Mosbach & Gruber di Offenbach. Improvvisamente un’esplosione, violenta e crudele. Il boato di sente in tutto il centro di Milano. Piazza Fontana è proprio dietro al Duomo. Sui tavolini del bar, dall’altro lato della Piazza, il rombo improvviso fa tintinnare le porcellane e i cucchiaini. Istintivamente tutti si voltano verso la banca. Esce del fumo insieme ai primi feriti che scappano, grondando sangue. A poca distanza da lì, nella questura di via Fatebenefratelli, Luigi Calabresi sta lavorando nel suo ufficio. Calabresi è un ragazzo romano che ha appena compiuto 32 anni. Figlio di due osti, ha studiato legge ed è entrato in Polizia per emanciparsi da un destino, già scritto, nella cucina della trattoria dei genitori, ma anche per vocazione etica e cristiana. È “di stanza”, come si usa dire essendo la polizia ancora un corpo militare, presso la questura, assegnato all’Ufficio Politico da due anni. Si è sposato pochi mesi prima con Gemma Capra, allora ventiduenne. Aspettano il primo figlio, hanno già deciso il nome: si chiamerà Mario. Antonino Allegra, il Capo dell’Ufficio, piomba nella stanza di Luigi e lo spedisce subito a Piazza Fontana. Nessuno ha capito cosa sia successo, forse l’esplosione di una caldaia, ipotizzano. All’interno della Banca dell’Agricoltura la deflagrazione è stata spaventosa. L’enorme orologio a muro, con il vetro rotto, è fermo all’ora dell’esplosione: le 16 e 37. Tutto è crollato intorno e davanti ai clienti che partecipavano al mercato agricolo. I banconi di legno degli impiegati sono, letteralmente, saltati in aria. La sala si è riempita di frammenti di vetro della grande cupola alta quindici metri. Schegge impazzite conficcate nei muri e nei corpi di chi ha avuto solo lo sventurato destino di essere lì in quel momento. “Ai primi accorsi l’interno della banca offriva un raccapricciante spettacolo: sul pavimento del salone, che recava al centro un ampio squarcio, giacevano, fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita e mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore”, sarà scritto nella sentenza del Tribunale di Catanzaro, l’assurda sede del processo per un crimine perpetrato a Milano. Tra i primi a entrare, Luigi Calabresi sente un odore particolare. Ne parla con i Vigili del Fuoco, concordano: quello non è gas. Corre fuori per sfuggire all’orrore, ma anche per cercare un telefono. Entra in un negozio e, difronte all’atterrito proprietario, parla con la questura: “è stata una bomba!”. Le ambulanze portano via 17 cadaveri e 88 feriti. In piazza arrivano Allegra e il questore Marcello Guida, un vecchio arnese buono per tutte le stagioni. Era stato uno dei “carcerieri” di Pertini durante l’esilio di Ventotene. Il Presidente si rifiuterà di stringergli la mano in una visita ufficiale a Milano. Guida e Allegra sono già sicuri della matrice anarchica, la stessa cui erano stati attribuiti altri attentati dinamitardi avvenuti pochi mesi prima. Calabresi non sembra della stessa idea: quelle erano azioni dimostrative, criminali sì, ma non stragiste. Ma Allegra e Guida insistono. Ci sono stati cinque attentati quella sera. Tre a Roma e due a Milano. Fortunatamente gli altri non hanno causato vittime, ma si tratta di un unico disegno sovversivo. Bisogna reagire immediatamente. I suoi superiori lo spediscono al circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa. Deve portarli tutti in Questura per essere interrogati. Calabresi obbedisce. Va alla Ghisolfa e carica sui cellullari decine di simpatizzanti anarchici. Mentre sta per ripartire incontra Giuseppe Pinelli, quarantuno anni, ferroviere e animatore del Circolo. Da giovane è stato staffetta partigiana. È un non violento, il suo impegno politico trasuda soprattutto una profonda voglia di vivere: crede, come molti in quegli anni, che un mondo migliore sia possibile. È sposato con Licia Rognini, sua coetanea, e ha due figlie. Pinelli e Calabresi si conoscono bene. Il Circolo è “attenzionato” dalla polizia, ma i due si parlano e si rispettano. Non sono amici come qualcuno dirà negli anni a venire. In quegli anni sono dalle parti opposte della barricata. Ma Calabresi sa che Pinelli è una persona onesta. Un anno prima gli aveva regalato il suo libro preferito “l’antologia dello Spoon River”, il libro dei morti, un triste presagio. Onesto non vuol dire che non sappia, pensa Calabresi. Quando Pinelli si lamenta per quella retata, il Commissario lo invita a seguirlo in questura se ha a cuore la sorte dei suoi compagni. Pinelli ci pensa un attimo, poi spontaneamente sale sul suo Benelli 50 e segue i cellulari fino a via Fatebenefratelli. Quella sera tutta l’Italia è davanti alle televisioni. C’è ancora un solo canale. Il Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, lancia un messaggio chiaro: “Non è il momento di leggi speciali, piuttosto occorre, cittadini, che ognuno di noi si senta parte di una comunità che può perdere se stessa se non si unisce alla legge che già esiste e che la garantisce e difende”. Per la maggior parte degli italiani sono parole di conforto: lo stato democratico è forte. Per altri, che aspettavano quell’intervento come la chiusura di un cerchio iniziato a disegnare anni prima a Roma in un convegno al Parco dei Principi, Rumor è un traditore: non è stato ai patti e si dice che sia stata una telefonata di Aldo Moro a “costringerlo” a cambiare idea. Sui muri di alcune città del Veneto, quella notte, appaiono delle scritte: “Rumor boia” firmato con l’ascia bipenne di Ordine Nuovo. Quella stessa sera Federico Umberto D’Amato, potente dirigente dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e critico gastronomico de L’Espresso, invia subito i suoi uomini alla questura di Milano per aiutare/controllare le indagini. Può fidarsi di Guida, forse anche di Allegra. Gli altri sono troppo giovani. L’inchiesta deve seguire la direzione giusta: sono stati gli anarchici. Il 14 dicembre si svolgono i funerali delle vittime. Piazza del Duomo è stracolma, enorme la mobilitazione popolare. Nessuno striscione o vessillo, solo tante facce di gente normale. Moltissimi piangono. È la fine di un’epoca: l’Italia, diventata la settima potenza economica mondiale durante gli anni del boom, è un Paese di confine, stretto tra il blocco sovietico e quello atlantico. Una nazione a sovranità limitata, con il partito comunista più forte di tutto l’occidente. La libertà, conquistata con la Resistenza e sancita dalla Costituzione del ‘46, non può mettere a rischio la nostra fedeltà ai valori occidentali. Così la verità sarà la diciottesima vittima della strage. La piazza addolorata sembra intuirlo, mentre accompagna in un agghiacciante silenzio le bare di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo ad una guerra mai dichiarata. Quello stesso giorno, Cornelio Rolandi si presenta in questura e afferma di avere accompagnato col suo taxi in Piazza Fontana un uomo molto somigliante a Pietro Valpreda. Lì Valpreda sarebbe sceso con una valigetta e sarebbe, poi, subito tornato sul taxi senza. Valpreda è un anarchico, che aveva in passato frequentato il Circolo della Ghisolfa, di professione ballerino. Viene immediatamente arrestato, non sembra avere un alibi valido. Ma anche il racconto del tassista è poco plausibile. Valpreda avrebbe preso il taxi in piazza Cesare Beccaria, solo 130 metri a piedi da piazza Fontana. Il taxi, però, non si è fermato in piazza, ma ha proseguito sino alla fine di via Santa Tecla. Così facendo Valpreda avrebbe percorso 110 metri a piedi, al posto dei 130 metri da Piazza Beccaria alla Banca, risparmiando solo 20 metri e rischiando di farsi riconoscere: perché? Inoltre Valpreda avrebbe chiesto al tassista di attenderlo e, in questo modo, avrebbe dovuto ripercorrere all’inverso i 110 metri: perché? Il riconoscimento, svolto a Roma con modalità molto discutibili, dà un esito incerto. L’arresto di Valpreda, però, viene confermato. Al telegiornale, un giovane Bruno Vespa lo definisce colpevole della strage. Passerà in galera oltre tre anni prima di essere definitivamente assolto da ogni accusa. Rolandi, invece, incasserà una lauta ricompensa. Il giorno seguente, 15 dicembre, Fausto Giurati, un uomo di circa cinquant’anni, entra nel Comando Provinciale dei Carabinieri di Padova, accompagnato da una ragazza di venticinque anni, Loretta Galeazzo. La donna fa la commessa nel negozio di Giurati, una pelletteria del centro, ed è certa che, il 10 dicembre, un signore alto e magro ha comprato cinque borse Mosbach Gruber, tre nere e due marroni. Esattamente la stessa borsa dell’attentato. L’ha riconosciuta subito, appena ha visto in televisione quella inesplosa alla Banca Commerciale. D’altronde in pochi in Italia vendono quelle borse ed è difficile che un solo cliente ne compri addirittura cinque tutte insieme. Immediatamente parte un telex con l’informativa dei Carabinieri alla Questura di Milano. Stranamente, però, quella notizia non viene presa in alcuna considerazione dagli inquirenti a Milano. Riemergerà solo qualche anno più tardi per opera di due magistrati veneti Pietro Calogero e Giancarlo Stiz. L’uomo che aveva acquistato le borse era Franco Freda, un piccolo editore, militante nella destra neofascista, devoto al pensiero di Julius Evola. Tra i volumi pubblicati dalla sua casa editrice tutti gli scritti di Adolf Hitler e numerosi volumi negazionisti dell’Olocausto. Autodefinitosi politicamente “nazi-maoista”, è molto vicino a Ordine Nuovo. Quella stessa sera, Luigi Calabresi, appena tornato da un inutile viaggio in Svizzera per seguire una falsa pista sull’esplosivo, viene convocato nella stanza di Allegra. La questura è quasi vuota. La maggior parte degli anarchici, fermati tre giorni prima sono stati rimandati a casa. Restano solo Giuseppe Pinelli e Lello Valitutti. Allegra ordina a Calabresi di interrogare Pinelli e farlo parlare. Gli dica che Valpreda ha confessato, anche se non è vero. Calabresi è stanco, prova a opporsi, sostenendo che Pinelli dovrebbe essere rilasciato, che i termini del fermo di polizia sono scaduti. Allegra lo incalza: “lei deve solo pensare ai morti e ai feriti che ha visto, con i suoi occhi, quando è entrato in banca. Vada e faccia il suo dovere. Il tempo del dialogo è finito”. Quando entra nella sua stanza Luigi Calabresi trova Giuseppe Pinelli seduto. Intorno a lui, in piedi il tenente dei carabinieri Savino Lograno e i brigadieri Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi e Pietro Muccilli. Pinelli si alza in piedi e protesta. Lui dovrebbe essere a casa, sono passati tre giorni. Il commissario lo guarda negli occhi e si accorge che il ferroviere è stanco quanto lui. Si chiude la porta dietro le spalle. E l’interrogatorio comincia. Aspro, difficile da gestire, impossibile da sopportare. Ma Pinelli non cede. Non può farlo, lui non c’entra niente con quella bomba, lui non sa nulla. A questo punto Calabresi mente: “Valpreda ha confessato”. Pinelli è visibilmente scosso da quell’affermazione. “Se fosse così, è la fine di tutto. È la fine dell’anarchia!”, ma subito aggiunge: “Se è stato lui, non doveva farlo. Io non so niente di quello che mi state dicendo. Se è stato Valpreda, io non lo so. Ma non ci credo”. L’interrogatorio finisce, Pinelli firma i verbali pagina per pagina. Calabresi esce dalla sala interrogatori e va al piano superiore da Allegra per dirgli che il ferroviere non ha confessato e, secondo lui, non c’entra nulla con la bomba di Piazza Fontana. In quel momento l’orologio nell’androne della Questura segna la mezzanotte: è il 16 dicembre. Un cronista dell’Unità, Aldo Palumbo, saluta i colleghi in sala stampa e si incammina verso l’uscita attraversando il cortile della Questura. Fa pochi passi e si ferma per accendere una sigaretta. Non fa in tempo a tirare la prima boccata di fumo che sente un rumore sordo, ma fortissimo. Si volta e vede Pinelli che è precipitato giù dal quarto piano della questura. Palumbo alza la testa, vede la finestra della stanza di Calabresi illuminata e alcune persone, che non distingue, affacciate. Intanto Allegra sta ancora leggendo il verbale dell’interrogatorio e Calabresi è in piedi di fronte a lui, quando sentono delle voci in corridoio. Calabresi si precipita nella sua stanza. Si affaccia alla finestra e vede il corpo di Pinelli, riverso sul selciato. Chiude gli occhi e sente dietro di lui qualcuno dire: “si è buttato”. Intorno al corpo di Pinelli si è formato un piccolo gruppo di persone, tra cui l’attonito Palumbo che raccoglie le ultime parole del ferroviere agonizzante: “mamma mia”. Licia Pinelli non sa ancora niente. È a casa quando sente suonare il campanello del suo appartamento. Quel rumore inatteso la fa sobbalzare. Alla porta trova Camilla Cederna e Giampaolo Pansa. Sono loro a darle la notizia. Telefona immediatamente in questura e chiede del Commissario Calabresi. Sa dei rapporti tra suo marito e quel giovane funzionario di Polizia. Calabresi è profondamente turbato quando risponde alla moglie di Pinelli. Le dice che il marito è al Fatebenefratelli. La donna gli chiede perché non sia stata avvisata. Calabresi non ce la fa ad andare avanti. Interrompe bruscamente la chiamata: “Abbiamo molto da fare”. Odio, gogna, bugie. I giorni che hanno cambiato l’Italia di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 11 dicembre 2023 Pochissime ore dopo, a notte fonda, di fronte ad uno sparuto gruppo di giornalisti, fra cui Camilla Cederna, Corrado Stajano e Aldo Palumbo, il questore Guida dichiara che Pinelli “era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato … non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma”, avvalorando l’ipotesi del suicidio. Pinelli, secondo Guida, avrebbe avuto uno scatto improvviso, si è gettato verso la finestra, che era socchiusa perché il locale era pieno di fumo, lanciandosi nel vuoto. Calabresi è in piedi dietro di lui, sa che le cose che dice il questore sono false. Pinelli non aveva confessato. Era stanco, sì, ma non rassegnato. Aveva firmato i verbali. Aspettava solo di tornare a casa dalla sua famiglia. In quello stesso momento, Licia Pinelli, in compagnia della madre del marito, entra nella sala dell’obitorio dell’Ospedale Fatebenefratelli. Giuseppe Pinelli è sdraiato sul tavolo di marmo, coperto da un lenzuolo eccetto la faccia. Alla madre viene da piangere, ma si trattiene. Quello che colpisce i giornalisti, che le aspettano fuori dalla sala mortuaria, è la composta dignità delle donne. La stessa dignità operaia che traspare dalle immagini del funerale di Pinelli, che Luigi Calabresi e Gemma Capra vedono al telegiornale: la moglie Licia e le due figlie, seguono il feretro, accompagnato dalle bandiere rosse e dai pugni chiusi di una grande folla. È profonda e sincera la commozione che accompagna la bara trasportata da un pulmino Fiat 850. Quei giorni cambiano radicalmente la storia del nostro Paese - Lotta Continua - fucina di veri talenti giornalistici, diretta da Adriano Sofri - inizierà una feroce campagna mediatica contro Luigi Calabresi, additato come certo colpevole della morte di Pinelli. Il 16 giugno 1970, in un articolo anonimo, si legge “questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme... A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per “falso ideologico in atto pubblico”; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento”. Le strade e le piazze di tutta Italia si riempiono di scritte “Calabresi assassino”. Anche la stampa “indipendente” pubblica un profluvio di notizie sul Commissario: uomo della CIA, addestrato negli USA, esperto di arti marziali. Tutto plausibile, ma tutto falso. Solo una persona gli rimane amica: Enzo Tortora. Scrive per il Giorno e per la Nazione, essendo stato allontanato dalla Rai, perché aveva denunciato la lottizzazione politica dell’Azienda. Prova a difenderlo nei suoi articoli. Il Ministero dell’Interno, invece, lo lascia solo. Anzi, attraverso solerti funzionari dell’Ufficio Affari Riservati, lo invita a denunciare Lotta Continua per diffamazione. Il processo, che ne seguirà, sarà il definitivo calvario per il Commissario e la sua famiglia. Su L’Espresso verrà pubblicata, per tre settimane consecutive dal 13 giugno 1971, una lettera aperta, sottoscritta da oltre 700 intellettuali, dal seguente tenore letterale: “Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. (...) noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni”. Il 17 maggio 1972, alle 9 del mattino, Luigi Calabresi esce dal portone della sua abitazione per andare in ufficio. È felice: ha da poco saputo che sarà trasferito a Roma. Tornerà a casa. Lì nascerà il suo terzo figlio. La famiglia finalmente si allontanerà da Milano e dai suoi veleni. Sembra una palingenesi. Percorre pochi metri a piedi, fino al punto in cui ha parcheggiato la sua Fiat 500. Calabresi si piega per aprire lo sportello quando viene raggiunto da un colpo alla schiena e uno alla testa. Trasportato d’urgenza in ospedale, morirà un’ora più tardi. Ha 34 anni. Lascia la moglie Gemma, incinta, e due figli: Mario e Paolo. Il terzo, Luigi, nascerà pochi mesi dopo la sua morte. Il giorno successivo Adriano Sofri scrive su Lotta Continua che “l’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”. Le indagini sulla morte di Pinelli si concluderanno nel 1975 - L’inchiesta, condotta da Gerardo D’Ambrosio, escluderà sia l’ipotesi del suicidio che quella dell’omicidio. Per il Giudice è “verosimile l’ipotesi di precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio. Improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto. Tutti gli elementi raccolti depongono per questa ipotesi. La mancanza di qualsiasi indizio e di qualsiasi motivo per l’omicidio volontario. L’assenza di qualsiasi causa scatenante l’impulso suicida”. Nella sentenza, però, è chiaramente affermato che “l’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli”. Vi è, però, un’altra interessante conclusione nell’inchiesta D’Ambrosio. Il magistrato si chiede perché il questore Guida avesse frettolosamente convocato una conferenza stampa, nel cuore della notte, avvalorando l’ipotesi del suicidio. Sostiene D’Ambrosio che “la versione del suicidio era gradita “AI SUPERIORI”, che l’avevano, senza esitazione alcuna, utilizzata come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici”. La sottolineatura, con il tutto maiuscolo, “AI SUPERIORI” nel testo originario dattiloscritto è particolarmente significativa, commenterà anni dopo Bruti Liberati, poiché “nel 1975 D’Ambrosio non poteva conoscere la circostanza che già dalla notte del 12 dicembre erano giunti in Questura a Milano alti funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, che di fatto, pur senza mai comparire negli atti ufficiali, avevano assunto la direzione delle indagini”. Il 3 luglio 1988, sedici anni dopo il delitto, Leonardo Marino, ex militante di Lotta continua, si presenta ai carabinieri per confessare di avere partecipato all’uccisione del commissario Calabresi. Si accusa di aver rubato e guidato l’auto su cui viaggiava l’autore materiale dell’omicidio, Ovidio Bompressi, e di avere agito su mandato di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Il 2 maggio 1990 la Corte d’Assise di Milano condanna a ventidue anni Sofri, Bompressi e Pietrostefani, a undici anni Marino (prosciolto per prescrizione nei successivi gradi di giudizio). Il 5 ottobre 2000, la prima sezione penale della Cassazione confermerà definitivamente le condanne di Sofri, Pietrostefani e Bompressi. Adriano Sofri si costituisce in carcere e sconterà tutta la sua pena, assumendosi la responsabilità morale del delitto, ma rifiutando quella penale. Pietrostefani si rifugia in Francia, dove tutt’ora vive. Bompressi, dopo brevi periodi di detenzione, ottiene prima gli arresti domiciliari e, nel 2006, l’estinzione della pena per motivi umanitari. Le indagini sulla strage di piazza di Fontana, costellate da una serie impressionante di depistaggi e insabbiamenti, portano alla celebrazione di ben undici processi: a Catanzaro, a Roma, a Milano - Poche condanne, mai definitive, molte assoluzioni. Il 3 maggio 2005 la Cassazione - pur confermando l’assoluzione pronunciata dalla Corte di Appello di Milano nei confronti dei tre principali imputati (Zorzi, Maggi e Rognoni) - ha tuttavia affermato che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili, in applicazione del principio del ne bis in idem, in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Sebbene gli ordinovisti siano stati riconosciuti come gli ispiratori ideologici e i mandanti, non è mai stato mai individuato a livello giudiziario né l’esecutore materiale, ossia l’uomo che pose personalmente la valigia con la bomba, né gli altri mandanti “occulti”. Si raggiunge, però, un altro approdo giudiziario: vengono accertati i depistaggi dei servizi segreti per accreditare la pista degli anarchici, trascurando volutamente quella ordinovista. Emerge almeno la verità storica, riassunta da Guido Salvini, l’ultimo pm ad occuparsi di Piazza Fontana: “Anche nei processi conclusisi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l’insediamento di un governo autoritario. Erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il “pericolo comunista”, ma la risposta popolare rese improponibili quei piani. L’on. Rumor fra l’altro non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico- militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all’ultimo momento i nazifascisti”. Ma non si fecero scrupolo di coprirli, attraverso la creazione della falsa pista anarchica, e neppure di utilizzarli nelle successive azioni riconducibili alla strategia della tensione. Intanto, mentre la giustizia lentamente (non) fa il suo corso, Licia Rognini e Gemma Capra hanno cresciuto, da sole, le figlie e i figli di Giuseppe e Luigi - Sono rimaste a vivere in una Milano divisa tra l’odio ideologico per il commissario e la colpevole indifferenza per il ferroviere, sopportando una quotidiana fatica che non ha consentito di rimarginare le ferite. Si incontrano per la prima volta al Quirinale, il 9 maggio 2009, invitate dal Presidente della Repubblica, per ricordare che le ultime due vittime innocenti di Piazza Fontana sono state Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Pochi mesi prima del 12 dicembre 1969, avevano condiviso la lettura dello Spoon River: “A volte la vita di un uomo si trasforma in un cancro per le ammaccature continue... Ed io ero là, infangato in un pantano di vita in cui camminavo credendolo un prato”. Il giorno in cui mio padre rientrò in casa e disse a mia madre: “Gemma, Pinelli è morto” di Mario Calabresi* Il Dubbio, 11 dicembre 2023 “Non era una giornata “normale” quando venne ucciso, nel senso che non era inaspettata. Da molto tempo nessun giorno era più normale: i presagi peggiori, le paure improvvise, le angosce e perfino i pianti erano diventati compagni di strada dei miei genitori. Nessuno potrebbe più dire da quando. O forse sì, dalla sera in cui mio padre rincasò sconvolto: “Gemma, Pinelli è morto”. E poi, dal momento in cui le prime scritte apparvero sui muri della città, indicandolo come il commissario “assassino”. Dalla mattina in cui cominciò quella feroce campagna di stampa, carica di violenza e sarcasmo, fatta di minacce, promesse, sfide e anche vignette. Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano “Lotta Continua” ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico. Ma sono i particolari, che negli anni ho raccolto e istintivamente catalogato nella memoria, a fare di una giornata qualsiasi una giornata annunciata. Prevista. Quasi attesa. I miei genitori si preparavano da tempo all’esplosione della tragedia. Certo, lo facevano quasi senza saperlo, sempre con una quota di irrazionalità, ma oggi, a ripercorrere quei momenti, quei loro attimi di lucidità o di disperazione improvvisa, non riesco a respirare, non riesco a capire come abbiano fatto a sopravvivere. Oggi scrivo, ma sono anni che archivio ricordi, discorsi e confidenze. Da mia madre. A piccolissime dosi. La sofferenza si riaccende in fretta e permette incursioni brevi, veloci; non si può restare troppo a lungo in quel territorio dei primi anni Settanta, si rischia di farle troppo male, e allora è meglio mettere un freno alla curiosità. Da mia nonna materna, Maria Tessa Capra. Con lei si può parlare a lungo, ha navigato tutto il Secolo Breve, essendo nata all’alba della Prima guerra mondiale e due anni prima della Rivoluzione russa. Ha visto due guerre, la sua casa bombardata, un marito prigioniero in Germania, è rimasta vedova e ha perso uno dei suoi sette figli, ma non ha mai smesso di combattere. Con lei si può solo parlare a lungo. Le piace ricordare, ama farlo, anche se ciò può dare dolore”. *Tratto dal libro “Spingendo la notte più in là”, Mondadori Editore Verona. Tre suicidi in 28 giorni nel carcere. “Silenzio insopportabile dell’istituto e del Garante” di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2023 Tre suicidi in 28 giorni nel carcere di Montorio, alle porte di Verona, la casa di detenzione dove si trova anche Filippo Turetta, estradato in Italia dopo l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin. La notizia della tragica sequenza di disperazione e di morte è stata data dall’associazione Sbarre di Zucchero, che si occupa dei problemi dei detenuti. “A poche ore dalla notizia del decesso in ospedale del detenuto di San Vittore che si era impiccato mentre era in corso la diretta della Prima della Scala di Milano, ci giunge notizia dettagliata dell’ennesimo suicidio nel carcere di Verona. - scrivono Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini a nome dell’associazione - Un giovane marocchino, Oussama Saidiki, si è impiccato in una cella di isolamento, nei pressi dell’Ufficio Matricola”. La ricostruzione prosegue: “Oussama proveniva dalla quinta sezione e, dopo circa tre anni di detenzione, si stava avviando al fine pena, gli mancavano solo 3 mesi! Ma non stava bene, aveva già dato ampi segnali in passato di disagio psichico, ingerendo vetri, ad esempio, e incendiando la sua cella. Nel pomeriggio di oggi (8 dicembre 2023, nda) è stato portato a colloquio con lo psichiatra, dove si è agitato così tanto da diventare aggressivo; da qui la decisione di non ricondurlo in sezione, ma di metterlo in isolamento, da solo. Ed Oussama si è impiccato”. Aveva cercato di farlo anche un anno e mezzo fa, gettandosi da una finestra dell’ospedale e fratturandosi le gambe. Il 10 e il 20 novembre scorsi si erano tolti la vita Farhady Mortaza e Giovanni Polin. “Storie diverse, ma un denominatore comune per questi tre ragazzi: il silenzio ormai insopportabile di Istituto e Garante dei detenuti, da parte loro tutto tace, ancora ed ancora. Perché? Adesso pretendiamo delle risposte urgenti, sperando di ‘non disturbare’ la quiete, in questo freddo ponte dell’Immacolata”. L’associazione ha anche scritto una lettera al deputato veronese Flavio Tosi, coordinatore regionale di Forza Italia, sollevando il problema del trattamento che subiscono in carcere i tossicodipendenti e chiedendo riforme legislative. “Due delle tre persone che si sono suicidate a Verona erano tossicodipendenti ed erano gravati da disagio/patologia di carattere psichiatrico. Questo dimostra ancora una volta che il carcere non è il luogo adatto per fare scontare la pena a questi soggetti fragili che necessitano di una seria e costante presa in carico da parte delle Asl competenti al di fuori degli istituti penitenziari, luoghi nei quali si assiste a un uso e abuso di psicofarmaci”. L’appello di Sbarre di Zuchero: “Tossicodipendenti e malati psichiatrici lascino le carceri per scontare la loro pena in comunità o case di cura. Oltre a salvare vite umane, ciò semplificherebbe la quotidianità detentiva degli altri ristretti e di tutti gli operatori penitenziari”. La notizia del terzo suicidio è stata accolta con grande preoccupazione anche dalla Camera penale di Verona. Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. - è scritto in una nota - A togliersi la vita è un ragazzo straniero che sarebbe stato libero tra soli 3 mesi. Tre suicidi in tre settimane, uno alla settimana, un morto in carcere ogni settimana, devono far riflettere. La sistematicità con cui tali eventi accadono è il segno di una sofferenza interiore tanto diffusa, quanto poco conosciuta”. Gli avvocati denunciano il sovraffollamento delle strutture, la carenza di organico e la mancanza di figure professionali specializzate che siano in grado di prevenire i gesti estremi. Gli avvocati criticano anche “il contesto normativo che ha recentemente visto da parte del governo l’approvazione di un disegno di legge improntato alla ormai consueta visione carcerocentrica, con l’introduzione di nuove fattispecie di reato, l’inasprimento delle pene per i reati già esistenti, l’estensione del catalogo dei reati ostativi e la limitazione dei benefici penitenziari”. Aggiungono che si tratta di “una prospettiva radicalmente contraria alla concezione liberale del ricorso alla sanzione e all’esecuzione detentiva quale estrema ratio che si dovrebbe adottare”. La Camera penale è pronta a proclamare lo stato di agitazione, con astensione dalle attività in udienza. Verona. Tre suicidi in un mese nel carcere di Montorio, la Camera Penale: “È ora di dire basta” veronasera.it, 11 dicembre 2023 L’avvocatura penale scaligera chiede un cambio di rotta dalla “visione carcerocentrica” della sicurezza. L’associazione Sbarre di Zucchero: “Carcere non è luogo adatto per fare scontare la pena a soggetti fragili”. Tre suicidi in un mese nel carcere veronese di Montorio. L’ultimo si è verificato venerdì scorso, 8 dicembre, e a compierlo è stato un ragazzo straniero che aveva scontato una pena di tre anni di detenzione e sarebbe tornato in libertà tra tre mesi. Un episodio che, insieme agli altri avvenuti nelle settimane scorse, ha spinto la Camera Penale Veronese a una riflessione, vista “la sistematicità con cui tali eventi oramai accadono, segno di una sofferenza interiore tanto diffusa quanto poco conosciuta”. Per la Camera Penale Veronese, le cause di questa “sofferenza” che porterebbe poi al suicidio sono il sovraffollamento e la carenza di quel personale che intercetti e prevenga i gesti estremi dei detenuti. “Pare evidente che non sia possibile garantire quell’approccio individuale che l’ordinamento penitenziario pone alla base del percorso rieducativo e trattamentale - ha commentato il direttivo della Camera Penale di Verona - Tutto questo, poi, in un contesto normativo che ha recentemente visto, da parte del Governo, l’approvazione di un disegno di legge improntato dalla ormai consueta visione carcerocentetrica, con l’introduzione di nuove fattispecie di reato, l’inasprimento delle pene per i reati già esistenti, l’estensione del catalogo dei reati ostativi e la limitazione dei benefici penitenziari. Una prospettiva radicalmente contraria a quella che si dovrebbe adottare. È giunto il momento di alzare la voce e l’avvocatura penale scaligera è pronta a fare la sua parte, anche deliberando lo stato di agitazione ed a proclamare l’astensione dall’attività di udienza, se ciò sarà necessario per riportare l’attenzione delle istituzioni sulla gravissima situazione in cui versa la casa circondariale di Verona”. L’intervento della Camera Penale Veronese è stato condiviso dall’associazione Sbarre di Zucchero, che intanto ha scritto al deputato veronese Flavio Tosi, invocando un suo intervento. “Il carcere non è luogo adatto per fare scontare la pena a soggetti fragili, che necessitano assolutamente di una seria e costante presa in carico da parte delle Asl competenti - si legge nel messaggio scritto dall’associazione veronese - La cura ed il trattamento di tossicodipendenze e patologie mentali non debbono più essere di esclusivo carattere farmacologico. Si fa notare come, in occasione di questi tragici episodi, vada in scena l’ormai arcinoto teatrino dello scaricabarile tra direzioni penitenziarie e Asl, senza mai veder partorire un barlume di soluzione che abbia come obiettivo principale la salvaguardia della salute e della vita della popolazione ristretta, popolazione che è sotto la totale custodia dello Stato e che sotto tale custodia continua a morire”. E mentre +Europa, attraverso Enrico Migliaccio e Anna Lisa Nalin, chiede “un forte intervento da parte del sindaco Damiano Tommasi e dell’amministrazione comunale per chiarire cosa sta succedendo nel carcere di Montorio, la consigliera comunale Jessica Cugini auspica invece un intervento a livello nazionale “Montorio per tante persone è un carcere transitorio - ha dichiarato Cugini - Lo è per chi attende giudizio, così come lo è per chi ha avuto una condanna e si trova in reclusione a scontare una pena breve. Ed è soprattutto per queste persone a modesta pericolosità sociale che vanno pensati da subito dei percorsi di rieducazione, recupero e avviamento al lavoro. Una presa in carico che il Comune di Verona ha messo in atto. Rimane la vastità delle competenze governative e ministeriali, che devono partire da una presa d’atto: la sicurezza si conquista non con l’aumento delle pene, bensì con un aumento di percorsi di inclusione lavorativa e di salute psicologica e psichiatrica”. Ferrara. L’Università in difesa del diritto allo studio dei detenuti di Giovanni Iannucci estense.com, 11 dicembre 2023 Presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara si è svolto un incontro relativo all’impegno delle università italiane per il diritto allo studio di detenute e detenuti. Un tema di grande importanza perché il diritto allo studio, come previsto dall’articolo 34 della Costituzione che tutela il diritto all’accesso agli studi superiori e universitari anche alle persone capaci e meritevoli ma prive di mezzi, deve essere inequivocabilmente rispettato e garantito. Stefania Carnevale, delegata della rettrice ai rapporti istituzionali con l’amministrazione penitenziaria, ha introdotto l’argomento ponendo particolare attenzione al fatto che sia necessario eliminare gli ostacoli che si frappongono al diritto allo studio dei detenuti. “La parola chiave - afferma la docente - è ‘persone prive di mezzi’, soprattutto per quanto riguarda il fattore economico, status quo in cui si ritrovano i detenuti e le detenute. In carcere è molto difficile lavorare e nella maggior parte dei casi si lavora poche ore al giorno per pochi giorni al mese dove una percentuale del guadagno molto basso viene trattenuta per il mantenimento spese. Stiamo parlando di persone ‘paralizzate’ per legge, in parte legittimamente e in parte illegittimamente, private di ogni forma di autonomia”. Franco Prina, ordinario di Sociologia giuridica della devianza e del mutamento sociale presso l’Università di Torino Franco Prina e presidente della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp), ha spiegato che oggi sono 228 i dipartimenti coinvolti con 417 corsi di laurea e 1267 studenti iscritti alle triennali, 189 alle magistrali e 2 ai master/PhD. Tale iniziativa è stata istituita presso la Conferenza dei rettori delle Università italiane (Crui) il 9 aprile 2018 e rappresenta la formalizzazione del coordinamento dei responsabili di attività di formazione universitaria in carcere Prina ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che evidenzia l’obbligo della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà delle persone di concorrere al progresso della società. “Noi abbiamo a che fare - spiega - con persone a cui la libertà è limitata o negata, ma questo non dovrebbe veder negati altri diritti come la salute, le relazioni, l’affettività, l’istruzione e il lavoro. L’abbiamo detto cosa vuol dire lavorare in carcere, salvo poche eccezioni. Se esiste un diritto significa che da un’altra parte esiste un dovere. Un diritto si pretende, si esige. Come dice l’articolo 27 la pena deve portare alla rieducazione del condannato, non a dire buttate via la chiave”. “Le cerimonie di laurea - aggiunge il docente - sono un momento molto emozionante e toccante, nella maggior parte dei casi svolte interamente in carcere con la Commissione e il Relatore, dove finita la discussione facciamo una piccola festa con eventualmente le famiglie e gli amici”. “La situazione carceraria italiana - concludono i due professori - è al centro di dibattiti e spesso anche delle cronache per il sovraffollamento e l’alto numero di suicidi. La possibilità di svolgere studi universitari può portare il detenuto/a ad una maggiore consapevolezza e, successivamente, ad un eventuale ‘reintegro’ all’interno della società”. Roma. La scuola dentro e fuori il carcere di Giuseppe Motisi Il Messaggero, 11 dicembre 2023 I “corti” degli studenti del Von Neumann raccontano Rebibbia e la vita dei detenuti iscritti alla scuola. Lo sguardo, le voci e le riflessioni degli studenti dell’istituto tecnico Von Neumann sui detenuti di Rebibbia e su quanti di loro, tra le mura del carcere, hanno scelto di iscriversi alla scuola superiore di via Pollenza per ottenere un diploma ed una nuova chance di vita una volta fuori della casa circondariale. Questi i temi dei cortometraggi realizzati dagli studenti dell’Iis Von Neumann nell’ambito del progetto ‘Uscire dentro, entrare fuori’, sostenuto dai ministeri della Cultura e dell’Istruzione e del Merito attraverso il Piano nazionale cinema per la scuola, corti che verranno proiettati in anteprima l’11 dicembre all’Uci cinema di Porta di Roma. Per la realizzazione dei video sono stati coinvolti oltre 100 studenti tra quelli frequentanti il triennio nelle sedi di via Pollenza e via del Tufo e quelli detenuti presso la Terza casa circondariale e la Casa di reclusione del carcere di Rebibbia, i quali, partendo dai diversi punti di vista di chi vive dentro e fuori dal carcere, hanno raccontato la loro percezione di libertà con la guida di professionisti del settore audiovisivo. Fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi del progetto è stata la collaborazione della scuola con la Simvideo dei fratelli Saglio e con l’associazione culturale Neverland, vero motore del progetto portato avanti dal responsabile scientifico Enzo Aronica affiancato da Paolo Pasquini e coadiuvato da Monica Belardinelli ed Agnese Ciaffei, che hanno messo insieme i lavori delle classi dentro e fuori della casa circondariale. “Con questi filmati si è realizzata una narrazione audiovisiva seriale per raccontare passato, presente e futuro, passioni e paure di oggi, sogni e speranze per il domani”, afferma il responsabile scientifico del progetto Enzo Aronica. “Uno degli obiettivi dell’iniziativa progettuale era proprio quello di unire attraverso lo schermo cinematografico due comunità di studenti, fuori dal carcere e all’interno del carcere - aggiunge Paolo Pasquini dell’associazione Neverland. Queste due comunità hanno creato e inventato storie comuni, in cui c’è molto della vita tanto di adolescenti quanto di uomini maturi”. All’incontro di presentazione dei video del progetto ‘Uscire dentro, entrare fuori’ all’Uci cinema verrà quindi illustrato anche il percorso didattico e sperimentale che, nell’arco di circa sei mesi di attività, ha portato alla realizzazione dei cortometraggi. “Il lavoro, avviato nella primavera 2023 e conclusosi oggi, ha collegato le diverse comunità di studenti dell’istituto, detenuti e non, utilizzando il linguaggio cinematografico e audiovisivo come oggetto e strumento di educazione e formazione, e riuscendo nell’impresa di creare un ponte tra carcere e libertà”, conclude la dirigente scolastica del Von Neumann, professoressa Claudia Angelini. Cremona. Carcere al femminile: “Le donne detenute esistono e non vanno trascurate” di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 11 dicembre 2023 Conferenza organizzata dal Soroptimist club, e tenuta dalla Garante Ornella Bellezza in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani. Si parla poco di carcere al femminile, “eppure, le donne detenute esistono, ma da sempre sono legate ad una tradizione che le vede come minoritas, una minoranza, perché, da sempre il carcere è stato concepito per gli uomini e, da sempre, le donne hanno avuto una relegazione, anche per quanto riguarda la detenzione, in un ambito molto, molto chiuso. Al 30 giugno di quest’anno, le donne negli istituti penitenziari italiani erano 2.512, il 4, 37%”. Sedici le donne madri con figli in istituto, 17 le donne madri con figli minori di 3 anni, 6 le donne gravide in carcere. Ornella Bellezza, già direttore degli istituti penitenziari, compreso Cà del Ferro, il carcere di Cremona, oggi è Garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale. Alla conferenza organizzata dal Soroptimist club Cremona (presidente Elisabetta Bondioni), in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani (oggi la celebrazione), nella sala Mercanti della Camera di Commercio, la Garante Bellezza ha tenuto un’appassionata e appassionante conferenza sulle condizioni delle donne detenute che, essendo una minoranza, purtroppo vengono ancora considerate un pezzettino da trascurare. Tra uomini e donne detenute “non c’è ancora una vera equiparazione trattamentale”. Articolo 27 della Costituzione: “Le pene non devono tendere solamente a punire chi si è reso colpevole di un reato, ma, se possibile, devono mirare anche alla sua rieducazione favorendone il reinserimento nella società, il carcere, pertanto, deve essere concepito come una struttura di rieducazione e di recupero del condannato”. “Non mi piace utilizzare il termine rieducato - esordisce Bellezza -, perché il rieducare mi fa pensare ai bimbi che devono essere rieducati daccapo. Preferisco il termine risocializzare. Io penso che il sistema penitenziario, in qualche modo quello italiano, debba dare modo al soggetto che ha sbagliato di avere consapevolezza di sé, quindi di avere la possibilità di rinascere a nuova vita con la consapevolezza di autocritica degli errori commessi per inserirsi nuovamente nella società e non incorrere nel fenomeno della recidiva”. Fatta la premessa e tornando al tema, Bellezza ha citato la normativa internazionale (le Regole di Bangkok delle Nazioni Unite) e la normativa italiana, “che ha preso in considerazione la donna detenuta”. Come la legge del 2011, n.62, “soprattutto per le donne madri e le donne che hanno al seguito i bambini. Quando leggo le idee di ciò che oggi si vuole cambiare all’interno delle carceri, soprattutto per la popolazione femminile, mi viene da pensare che il carcere andrebbe un po’ più vissuto dai nostri legislatori non soltanto per un mero giro di conoscenza, ma per un approfondimento di che cosa significa vivere il carcere. Questo può spiegare tante espressioni che, a volte, rasentano molto la superficialità”. “Poco è citato - ha aggiunto Bellezza - il report 2008 effettuato da una commissione del Parlamento europeo sui diritti delle donne”. Il report mette in luce che le carceri sono pensate ancora dal punto di vista maschile, ma “anche tutto quello che si fa all’interno delle carceri femminili o delle sezioni detentive femminili è pensato sulla femminilità”. Insomma, “non c’è ancora una vera equiparazione trattamentale”. “Quello che è il mondo esterno è esattamente riportato nel mondo interno di recluse, per cui tutte le attività, tutta la formazione, tutta l’istruzione ha quella direttiva: ritornare ad essere femmine, donne, quindi ‘ma certo, bisogna che si curi il proprio corpo. Ma certo, bisogna dare i cosmetici, la tintura per i capelli (negli anni Novanta era vietata, guai se io come direttore concedevo una tintura per i capelli: dal comandante maschio a tutto il personale maschio del carcere mi saltavano addosso, metaforicamente parlando). Ma così non va bene. Non è perché la donna che si trucca o non si trucca è meno o più donna perché è reclusa”. La formazione offerta “è di manicurista, estetista, parrucchiera: tutto il mondo del lavoro che ruota all’esterno come donna, all’interno come donna”. Per quanto riguarda l’istruzione, “dalla scuola dell’obbligo alla scuola superiore secondaria fino alla laurea, nell’ultimo triennio c’è stata una sola donna laureata in tutti e 4 gli istituti e in tutte le 52 sezioni femminili. Gli uomini laureati sono molti di più. L’amministrazione penitenziaria dà più possibilità e più offerte agli uomini, perché sono in numero maggiore”. Fa un parallelo, il Garante Bellezza: “Come docente negli istituti dell’amministrazione penitenziaria, non si parla della detenzione femminile. Io sono stata l’unica docente che ha affrontato la tematica in un paio di corsi, perché c’era un numero di agenti donne che sarebbero state destinate nelle sezioni per donne detenute”. Messina. “Da detenuto ho scoperto la libertà grazie al teatro in carcere” di Marco Olivieri tempostretto.it, 11 dicembre 2023 Antonio non è più a Gazzi ma è rimasto nella “Libera compagnia del teatro per sognare”. E martedì recita in cattedrale in “InCanti sacri”. “Fare il teatro all’interno di un carcere, come detenuto, è un’opportunità che dovrebbero provare tutti. In uno spazio chiuso, di reclusione e dove spesso si fanno sempre le stesse cose, essere inserito in un progetto come quello della Libera compagnia del teatro per sognare significa sentirsi non più recluso. Ma, al contrario, una persona un po’ libera. Ti spogli di tutto e recitare ti aiuta ad affrontare meglio le giornate. Soprattutto esprimi le tue emozioni, che in altri modi non saresti in grado d’esprimere”. Antonio M. ha cominciato a fare teatro all’interno della Casa circondariale di Gazzi grazie al progetto “Il teatro per sognare”, ideato e organizzato da Daniela Ursino, presidente di D’aRteventi, dal 2017. E ha continuato anche quando è uscito. Antonio (nella seconda foto in Curia con i vari protagonisti dell’iniziativa) è ora tra gli interpreti principali di “InCanti sacri” e si esibirà martedì 12 dicembre in cattedrale, alle 20.30. Musiche e parole di pace di e con Mario Incudine, cantante, attore, polistrumentista e regista siciliano. Detenuti, ex detenuti, professionisti del teatro, della musica e della danza, studentesse dell’Università si esibiscono insieme, andando oltre le barriere e le sbarre. “Il teatro ti dà la forza di ricominciare e di reinserirti nella società” - Racconta l’ex detenuto: “Con il teatro puoi scoprire parti di te nascoste e farle conoscere agli altri. Perché ho continuato a frequentare la compagnia anche dopo il carcere? Perché fuori da lì la situazione non cambia. Nella vita sociale tu sei considerato un poco di buono. Perciò, dimostrare che vuoi ricominciare, che sei capace di fare cose buone e di inserirti nella società, ti dà la forza per andare avanti. Il teatro aiuta a superare i pregiudizi nei confronti di chi è stato in carcere. Il teatro può aiutarti a ricominciare e a dimostrare alle persone che si può cambiare. Può aiutare a far vedere agli altri che puoi tornare libero, nella società, diventando una persona migliore”. Treviso. “Il libro sospeso 2024” per i carcerati a Santa Bona lavitadelpopolo.it, 11 dicembre 2023 Il lancio dell’iniziativa solidale martedì 12 dicembre alle ore 17.30 alla Libreria Paoline di Treviso, in piazza Duomo. Partecipano anche il sindaco Mario Conte, il dg dell’Ulss 2 Francesco Benazzi, la presidente di Advar Annamaria Mancini. Anche quest’anno, e non in un’obbligata consuetudine o dovere, come Cittadinanzattiva Treviso abbiamo deciso di rinnovare l’iniziativa “Il libro sospeso 2024” per i carcerati della struttura di Santa Bona. Come nelle due precedenti edizioni lo facciamo insieme alla Libreria Paoline, in raccordo e collaborazione con la Direzione e il Cappellano della Casa Circondariale di Treviso. I periodi dedicati per il dono del “libro sospeso” saranno per noi l’Avvento e la Quaresima. Abbiamo colto l’occasione che quest’anno 2023, in un diffuso ed importante passaparola di marketing, si invita a “regalare un libro a Natale”. Momento che cogliamo anche noi per abbinare il “dono-libro per i detenuti”, mettendo insieme il periodo dell’Avvento e quello Quaresimale, che era di norma nostra tradizione. Entrambi i periodi, hanno insito nel loro messaggio liturgico parecchi valori sociali che si identificano anche con il nostro impegno associativo. Infatti, Cittadinanzattiva si definisce come “un’organizzazione che promuove l’attivismo dei cittadini per la tutela dei loro diritti e il sostegno alle persone in condizione di debolezza e fragilità”. Partendo dalla nostra missione, con il “libro sospeso 2024” vorremmo far risaltare il valore delle persone fragili. Ossia tutte quelle persone incapaci, spesso non per causa loro, di occuparsi di sé stesse. Tra queste, sicuramente, ci sono anche le persone detenute e le loro famiglie. Scrive Cosima Buccoliero, direttrice di carceri, nel suo libro “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” , che il carcere “è soprattutto la privazione totale della libertà personale, anche delle azioni più naturali e innocue”. Per ogni cosa che si deve fare, infatti, bisogna chiedere il permesso a qualcuno, e aspettare la decisione. Delle persone fragili, parleremo negli incontri che solitamente facciamo, per la presentazione di libri. Martedì pomeriggio 12 dicembre 2023 alle ore 17.30 alla Libreria Paoline di Treviso in Piazza Duomo faremo la presentazione del “Libro sospeso 2024”. La faremo per dare un senso sia alle parole, che si incontreranno tramite la lettura di libri, sia dando il giusto valore della solidarietà che noi vorremmo monetizzare attraverso il “dono-libro con dedica personalizzata”. Viterbo. “Qua la zampa”, progetto sociale con i detenuti di Mammagialla di Enpa Viterbo tusciaweb.eu, 11 dicembre 2023 Il 19 dicembre alle ore 16 presso la Sala del Cunicchio della Camera di Commercio di Viterbo saranno presentati i risultati del progetto “Qua la zampa”, percorso inclusivo di recupero dell’emotività, finanziato dalla regione Lazio e realizzato dall’Ente Nazionale Protezione Animali-Enpa della sezione provinciale di Viterbo in collaborazione con la casa circondariale Mammagialla. Il progetto ha previsto un percorso terapeutico di conoscenza, relazione e interazione con i cani provenienti da realta? e storie di vita differenti. Lezioni frontali accompagnate da sessioni di prova e di pratica, altamente esperienziali e con personale qualificato, si sono susseguite per 10 mesi. Aspetto innovativo della proposta e? stata la valutazione dei cani provenienti da situazioni difficili, nello specifico per Astro e Bianca, fatta dai detenuti, dove hanno messo in campo le conoscenze apprese dagli incontri precedenti e che si e? conclusa con la redazione di schede descrittive di questi due splendidi cani in cerca di adozione. L’obiettivo e? stato quello di dare sostegno al benessere psicofisico dei detenuti mediante pratiche educative di sensibilizzazione a doppio senso (per detenuti e cani) che hanno mirato al recupero dell’emotivita?, al miglioramento delle capacita? sociali e comportamentali dei detenuti. Il progetto, inoltre, mira al futuro reinserimento dei detenuti all’interno della società, a stimolare l’interesse e la spinta motivazionale verso indirizzi lavorativi di settore o nella pratica del volontariato, oltre a renderli partecipi alla campagna di prevenzione contro l’abbandono e alla promozione delle adozioni di cani meno fortunati. La conferenza e? l’occasione per presentare al pubblico e alle istituzioni i risultati raggiunti. Ai saluti istituzionali segue la presentazione del progetto della project manager dell’Enpa Caterina Poli e la proiezione del video Qua la zampa, realizzato dalle videomaker Ilaria Fochetti Scattastorie e Alessia Frangiamore, dove si ripercorrono tutte le tappe del percorso. Al termine del video la sezione Question Time con gli interventi dei relatori e docenti ovvero il presidente della sezione Mauro Angelo Dino Chiarle, il veterinario Marco Cianchella, il veterinario esperto in comportamento Silvia Boni, l’istruttore cinofilo Nicola Carosi e il consigliere e volontario Enpa Alessandro Licci. Segue l’attività di edu-entertainment di reading “Detenuti a cielo aperto” di Paola Francesca Iozzi, scrittrice e drammaturga e chiude la conferenza la distribuzione dell’opuscolo informativo del progetto. Moderatore sarà Maurizio Spinnato vicepresidente Enpa Viterbo. L’evento e? un’occasione di riflessione per offrire a chi vive in una condizione detentiva, che implica l’isolamento sociale, non solo dai familiari e conoscenti, ma dall’intera società, di recuperare il contatto con la realtà, di riacquisire fiducia nelle proprie capacita? e negli altri, di vivere le emozioni, non respingerle. L’interazione con cani provenienti da situazioni difficili e? uno dei modi per riconnettere i detenuti a tutto questo, in quanto il cane e? capace di far capire l’importanza della fiducia, del rispetto e dell’amore incondizionato, nonostante i casi in cui e? stato ferito e abbandonato da chi avrebbe dovuto solo amarlo e proteggerlo. Bari. I detenuti di realizzano un presepe artigianale bariviva.it, 11 dicembre 2023 “Umiltà e Umanità: per un Natale di vera rinascita”: questo il tema dell’iniziativa. I giovani e gli adulti della Casa Circondariale di Bari e i ragazzi dell’Istituto Penale per i Minorenni Fornelli di Bari, in occasione della festività del Santo Natale 2023, presentano un piccolo presepe artigianale corredato di auguri natalizi, opera-segno che li ha visti protagonisti di un laboratorio sinodale realizzato nel dialogo, nella creatività, nel confronto e nella manualità artistica. Quest’anno questa opera presepiale si incastona nella memoria del presepe di Greccio che celebra il suo 800° anniversario dalla sua “invenzione” ad opera di San Francesco D’Assisi. Il tema centrale per la riflessione è quello dell’umiltà e dell’umanità: a Natale, infatti, tutto ci parla di ciò. L’umiltà di Betlemme è la più grande lezione del Natale: solo diventando umili sapremo essere più umani e capaci di volerci più bene, senza finzioni e falsità. Il presepe ci racconta di Dio che ha scelto di umanizzarsi, di farsi uomo per entrare nella storia, nella vita e nel cuore di ogni uomo e di ogni donna e donare loro l’amore, la pace, la gioia, la tenerezza. Il presepe ci chiede di custodire la vita e di custodirci a vicenda per vivere da veri fratelli, capaci di costruire un mondo migliore, un mondo più umano e vivibile dove regni la pace. Il Natale è la festa della generatività, dà la grazia di crescere nella consapevolezza di essere generati per amore e di generare gli altri nell’amore. Nella mattinata di venerdì 15 dicembre, durante il Ritiro Spirituale dei sacerdoti presso l’Oasi Santa Maria in Cassano Murge, con la presenza di un detenuto, sarà distribuito ai parroci questo presepe fatto a mano. Donne, giovani, Sud: i numeri che non interessano a chi deve decidere per l’Italia di Daniele Manca Corriere della Sera, 11 dicembre 2023 Ci sono alcuni dati che non fanno ben sperare per le giovani generazioni e quindi per il nostro Paese. Dati che possono trovare una comune spiegazione nella poca attenzione che prestiamo al futuro potenziale dell’Italia. Essere un Paese dove lavora una donna su due significa privarsi del contributo che la metà dei cittadini, anzi delle cittadine, può dare non solo alla crescita ma in generale al miglioramento dell’Italia. Anche il dato che 44 mila donne hanno lasciato il lavoro lo scorso anno deve far pensare. Soprattutto se il 63% di loro lo ha fatto per l’impossibilità di conciliare gli impegni di lavoro e famiglia. Il rendimento medio in matematica, secondo l’indagine internazionale Ocse-Pisa, degli studenti italiani è sceso ai livelli del 2003 e del 2006. E anche qui, il divario tra ragazzi e ragazze è il più ampio al mondo. Al Sud poco più di un ragazzo su due strappa la sufficienza, sempre in matematica. Donne, giovani, Meridione. La Svimez rileva come nel 2023 il Sud crescerà la metà del Centro Nord, più 0,4% rispetto a un più 0,7%. Ma come può contribuire alla crescita del Paese un Meridione che vede un progressivo svuotarsi della popolazione? Dal 2002 al 2021 circa 2,5 milioni di persone hanno lasciato il Sud, di questi l’81% si è stabilito al Nord. Il numero che deve far riflettere di più è però quello relativo agli under 35 che hanno lasciato il Sud: sono stati 808 mila, sempre nello stesso periodo. E di questi 263 mila erano laureati. Se poi torniamo a osservare l’impiego femminile, il tasso di occupazione relativo medio in Europa è pari al 72,5%. Nelle regioni del Meridione la percentuale è più che dimezzata: in Campania e Sicilia è pari al 31% e sale al 32% in Puglia. La Germania è al 78,6%. Se questi sono i numeri, a voler essere ottimisti il potenziale da sfruttare è enorme. Purché ai decisori politici interessi impostare programmi di lungo periodo. A giudicare dal dibattito degli ultimi mesi l’interesse non è elevatissimo. L’eterna stagione della propaganda di Alessandro De Angelis La Stampa, 11 dicembre 2023 Mancano esattamente sei mesi, ovvero ben centottanta giorni, oltre quattromila ore alle Europee. Praticamente un’eternità, ma sembra già domani: Salvini, dopo aver aperto la sua campagna elettorale con i “mostri” a Firenze, va comiziando sul gioielliere pistolero per prendere voti da destra; Giorgia Meloni pur di aprire - ammesso che ci riesca - i famosi centri in Albania, stanzia uno sproposito di denari ma vuoi mettere il gran finale a Durazzo. E nel frattempo, stoppa pure la nomina di Paola Concia (per non perdere voti a destra); Conte ha alzato i decibel sognando il sorpasso a sinistra; Elly Schlein per l’occasione ri-arruola la triade dei riservisti democristiani (Prodi, Letta e Gentiloni); Renzi invece è già capolista. Insomma, tutti sono partiti con eccessivo anticipo perché tutti vivono l’appuntamento come una prova esistenziale, sovrastimandolo negli effetti (ricordate il 40 di Renzi e il 35 di Salvini o, in tempi meno recenti, l’exploit di Emma Bonino?). Mettetevi comodi e preparatevi al grande raglio della propaganda, sommandoci anche le quattro Regioni dove si vota di qui a giugno (Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Piemonte) e i 3.700 comuni che mobilitano una pletora di decine di migliaia candidati. In questa sproporzione temporale e di significato c’è il limite di una classe dirigente che vive di angosce e di bisogno di conferme immediate, in relazione al proprio destino: non il progetto, di cui non si capisce nulla, che detta i tempi della politica; ma una permanente insicurezza esistenziale che fa vivere tutto come una scadenza del qui e ora. E consuma slogan e iniziative, in una società che anch’essa metabolizza rapidamente le “scosse emotive” di cui ha parlato il Censis, dall’Ucraina alla Palestina fino a Giulia e al suo papà, finito anch’egli frullato nel gioco mediatico. Lì dove invece l’appuntamento rappresenta realmente una scadenza, il suo carico di significati e conseguenze è felicemente rimosso. Mica si parla del ruolo (inesistente) dell’Europa in Palestina e (minimo) in Ucraina - essendo impopolare il prossimo decreto armi praticamente si fa, ma non si dice - o di che ne sarà del vecchio continente, che finora ha retto sulla politica estera perché c’erano gli Stati Uniti, se vince Trump. Riflessione scomoda su cui, dopo gli ultimi sondaggi che lo davano in vantaggio, si è cimentato ieri l’editoriale del Nyt. E per una volta l’Italia non è l’eccezione in un’Europa modello. Ma l’Europa è lo specchio dell’Italia, segnata anch’essa un po’ ovunque nei singoli Paesi dalla preoccupazione “elettorale” per i riflessi interni delle guerre più che da quello che può fare nello scenario internazionale. La suggestione, per ora tale è, di Mario Draghi per la prossima commissione europea in fondo riflette proprio questa fragilità della politica che mette in conto di ricorrere a un “uomo della Provvidenza”, di indubbio prestigio e indiscusse capacità, ma non eletto. Proprio mentre si prepara al voto. Insegnare a rispettare non solo le minoranze di Lucetta Scaraffia La Stampa, 11 dicembre 2023 Dopo l’efferato omicidio di Giulia Cecchettin si è verificato, come al solito, l’effetto imitazione: si susseguono violenze e femminicidi, in alcuni casi chiaramente collegati al delitto di Giulia dal colpevole stesso. Si tratta di un fenomeno che si è più volte presentato nella nostra società mediatica: le denunce, le manifestazioni di solidarietà alle vittime, la ricerca dei metodi utili a frenare questo o quel tipo di violenza si rovesciano nel loro contrario. Troppo spesso tutti i discorsi, le manifestazioni, le condanne suscitate dai femminicidi, così come succede del resto per le continue condanne dell’antisemitismo, sembrano non servire ad altro che a favorire la diffusione degli uni e dell’altro. Non solo però continuiamo a praticare le forme più estreme di voyeurismo nei confronti dell’ultimo delitto con il loro indubbio effetto imitativo, ma quel che più conta non tentiamo neppure di spiegarci le ragioni di questo effetto paradossale. Che forse sta in una mutazione decisiva lentamente e inavvertitamente prodottasi nelle nostre società. Nel fatto cioè che sembra esserci sempre più difficile, più estraneo culturalmente, condividere una morale universale, fondata su obblighi e divieti validi nei confronti di chiunque, di qualsiasi essere umano. La crisi di una morale siffatta si manifesta concretamente nella pratica diffusa per cui, da anni, nell’arena pubblica la richiesta di rispetto umano, la difesa della dignità dovute ad ogni essere umano, vengono declinate soprattutto in riferimento a categorie ritenute fragili e comunque particolarmente meritevoli di protezione: i gay, gli handicappati, le donne, gli immigrati e gli ebrei. Categorie considerate vittime o possibili vittime di violenza e/o di discriminazione e per questo bisognose di protezione. Intendiamoci bene: ciò è assolutamente vero, questo bisogno è reale, ma ciò non toglie che questa categorizzazione - legata intrinsecamente al contesto sociale e inevitabilmente intrisa per ragioni storiche di un connotato ideologico, risulti priva di quel valore astratto sul quale necessariamente si fonda l’universalizzazione della morale. In questo modo nella quotidianità della vita sociale finisce dunque per accadere che il rispetto dovuto a tutti gli esseri umani venga presentato come obbligatorio se esercitato nei confronti delle vittime, o di categorie che sanno presentarsi come tali e non già come un valore assoluto in quanto tale, come un obbligo a cui si è tenuti verso ogni essere umano, indipendentemente dal suo statuto storico-ideologico. Le conseguenze di questa realtà sono gravi. Infatti la corsa alla moltiplicazione delle categorie diciamo così protette non arriverà mai a coprire il concetto generale di umanità, e rivelerà sempre, quindi, l’inevitabile debolezza di una morale siffatta. Chiunque tra l’altro può sentirsi più vittima delle vittime, e quindi sentirsi autorizzato a farsi giustizia anche da solo. In un gran numero di casi ad esempio anche i violenti contro le donne si sentono - naturalmente a torto - vittime magari del rifiuto delle donne stesse, e in questo cercare una giustificazione per le loro malefatte. Questo tipo di morale “per categorie” - esposto alle ideologie e per forza di cose in una certa misura anche alle mode - non poggia su fondamenta profonde e condivise, cioè su quella inviolabile dignità di ogni essere umano, che da sola basta a giustificare la difesa di ogni tipo di vittima. Se sono necessarie le campagne per categoria, se è necessario, forse indispensabile, difendere con battaglie apposite ogni categoria percepita come debole, è evidente che questa base comune, questa universalità, non esiste più. Forse non esiste più perché si fondava su un altro tipo di universalità, quella religiosa della tradizione ebraico-cristiana che la secolarizzazione sta cancellando. Ma anche la morale laica di Kant, è bene ricordarlo, si voleva obbligatoria verso qualunque essere umano. L’una e l’altra hanno fondato una tradizione che ha stabilito con forza i confini fra bene e male, fra ciò che è giusto e ciò che non lo è: una tradizione che ha perso progressivamente forza. Proprio per questo anche la nostra educazione attuale ha perduto la certezza in una moralità universale, e oggi per chiedere giustizia deve ricorrere alla preliminare vittimizzazione di questo o quel gruppo umano. Con tutto quanto di aleatorio può esserci in una moralità del genere, esposta ai mutevoli venti della storia. Cecchettin e quella vergognosa condanna social di Gianluca Nicoletti La Stampa, 11 dicembre 2023 Il tribunale della “gente per bene da tastiera” ha sentenziato che Gino Cecchettin dovrebbe tacere e scomparire. Nei social, e non solo, è partita la gara al massacro di un padre che ha appena seppellito la sua ragazza, ammazzata a coltellate. Qualcuno ora pretende di insegnargli come comportarsi nella gestione del suo dolore. Perché nulla possa essere concesso a quest’uomo trapassato da una tragedia inimmaginabile, gli è stato anche ricordato come Gesù avesse perdonato i suoi carnefici. Gli indignati peraltro si erano già ampiamente espressi nei confronti della sorella di Giulia, il suo discorso sulle responsabilità dei maschi in generale non è piaciuto ai difensori della virilità cosmica, che il femminismo vorrebbe delegittimare. Persino verso la nonna non sono state risparmiate critiche, solo perché in tv non è sembrata sufficientemente affranta. È triste doverlo ammettere, è però chiaro che una parte dell’opinione generale vorrebbe ancora una volta delegittimare il diritto a esistere del concetto stesso di femminicidio, trovando nell’attacco al padre una nuova forma di vigliacca militanza nei ranghi dei restauratori del mondo che fu, in cui i maschi erano rispettati da donne sottomesse. Il padre di Giulia è una presenza imbarazzante per i sostenitori del “sano”“ essere maschi e femmine; nella regola avrebbe dovuto tacere, scomparire, scegliere la via della clausura. Soprattutto non avrebbe mai dovuto, lui maschio, farsi portatore di istanze che vera gentaccia, ignorante e fuori dal tempo, attribuisce a un’isteria generalizzata, una mistificazione generata dall’ideologia Woke, dai progressisti, da quelli della propaganda gender. In quest’ottica un padre non si dovrebbe permettere di farsi portavoce di altri padri, non dovrebbe porsi come testimone della cattiva coscienza di quanti di noi scrollano le spalle, pensando che si dia troppa enfasi a un banalissimo caso di cronaca nera. È la tesi che furoreggia nei talk populisti, per cui, in fondo, si tratta di un ragazzo con evidenti problemi che ha ucciso l’ex fidanzata perché è “un debole”, gli altri si possono tenere pure fuori, la colpa è individuale ed esclude ogni presa in carico collettiva. Invece Gino Cecchettin sta dimostrando sulla sua pelle che le cose non stanno così, la shitstorm scatenata contro di lui conferma quanto sia giusto che la società tutta dei maschi si interroghi sul proprio livello di civilizzazione. Il suo è un pericoloso esempio di attacco a un pensiero fintamente dominante, in un Paese che in grande parte sembra inseguire il passato. Ci meravigliamo che sia osteggiato un padre che chiede ad altri padri di prendersi sulle spalle il problema dei femminicidi? Chiunque non sia ipocrita non può fingere di ignorare che, per non scontentare lo stesso fronte bigotto, si sia arrivati al punto che, nel comitato per il programma ministeriale di educazione affettiva nelle scuole, nemmeno una suora e un’esponente attiva del “popolo della famiglia” siano bastate a controbilanciare la presenza di una terza garante, che ha la colpa inammissibile di amare un’altra donna. Medio Oriente. Malattie e fame, allarme Onu su Gaza. Il Qatar: “Ora più difficile mediare” di Davide Frattini Corriere della Sera, 11 dicembre 2023 Netanyahu: “Arrendetevi, non morite per Sinwar”. Dura telefonata del premier con Putin. Per l’intelligence solo il 10-15% dei palestinesi catturati appartiene ad Hamas. Un sacco di farina costa 450 shekel, oltre 110 euro, lo zucchero è scomparso dai negozi e lo si compra al mercato nero, caffé, uova, biscotti sono lussi che nessuno si può permettere perché sono introvabili. L’autunno mediorientale non ha ancora portato il freddo più intenso, i palestinesi tagliano la legna dove la trovano - alberi o porte delle case distrutte - per bollire l’acqua. Oltre 1,8 milioni di sfollati interni sono scappati a sud lungo le vie di evacuazione ordinate dall’esercito israeliano, adesso premono verso Rafah e il confine con l’Egitto. Dove sopravvivono ammassati nelle tende. “Non c’è nulla da mangiare e siamo in 21 sotto i teli”, racconta Etimad Hassan all’agenzia Associated Press. I morti sono quasi 18 mila, un terzo di questi combattenti. “È l’inferno sulla Terra”, denuncia Philippe Lazzarini che dirige l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Il collasso negli ospedali e il cedimento progressivo del sistema fognario nei 65 giorni di guerra stanno causando il diffondersi di malattie. Ne sono consapevoli anche gli israeliani che hanno individuato virus nelle analisi del sangue degli ostaggi liberati dopo quasi due mesi di prigionia, avrebbero intaccato le falde acquifere. Un inferno di cui gli abitanti - racconta il corrispondente dell’Ansa dalla Striscia - cominciano ad accusare Hamas: “È lì che ci ha trascinato, finiremo con l’essere espulsi”. I capi jihadisti dichiarano che “nessun altro sequestrato potrà tornare senza negoziati”, ne restano 137. Fonti militari israeliane - scrive il quotidiano Haaretz - ammettono che “la pressione bellica non è in grado di creare in questo momento le condizioni”, l’offensiva è concentrata su Khan Younis dove si nasconderebbe Yahya Sinwar, il boss di Hamas. “È finita, arrendetevi, non morite per lui”, proclama il premier Benjamin Netanyahu rivolgendosi ai paramilitari del gruppo. L’intelligence stima che dei palestinesi catturati - sui social media sono girate foto dei prigionieri in mutande - solo il 10-15% appartiene ad Hamas. Il Qatar ripete di non aver abbandonato gli sforzi per una mediazione: i fondamentalisti hanno rilasciato 105 persone - portate via negli attacchi del 7 ottobre, 1.200 gli israeliani massacrati - in cambio della scarcerazione di quasi 300 donne e minori palestinesi detenuti, della pausa di una settimana nei combattimenti, dell’ingresso di 200 camion con aiuti militari. “I bombardamenti e l’offensiva riducono le nostre possibilità”, commenta Mohammed bin Abdelrahman Al-Thani, il primo ministro del piccolo regno sul Golfo. In questi anni - come ricostruisce il New York Times - gli sceicchi hanno riversato miliardi di dollari all’organizzazione jihadista. Le valigie di contanti sono state consentite dal premier Benjamin Netanyahu: il leader della destra voleva mantenere le fazioni arabe divise - i fondamentalisti hanno tolto con un golpe il controllo di Gaza al presidente Abu Mazen - e rendere impossibili le trattative per la nascita di uno Stato palestinese. Un’altra dottrina decennale che Bibi è stato costretto a ribaltare è quella dell’amicizia - come la definisce nell’autobiografia - con Vladimir Putin: durante una telefonata di un’ora ha espresso le lagnanze per le “posizioni anti-israeliane” e il totale disaccordo per la cooperazione russa con gli iraniani. Che complica il fronte a nord, dove Hezbollah dal Libano ha ferito numerosi soldati con un drone. Stupri nelle carceri e nei furgoni della polizia: così in Iran stroncano le proteste di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2023 “Una volta ero una combattente. Anche quando la Repubblica islamica cercava di demolirmi, io andavo avanti. Ma recentemente penso spesso al suicidio. Passo tutto il giorno in attesa che arrivi la notte per addormentarmi”. “Non credo che sarò mai di nuovo la persona che ero prima. Non trovo nulla che mi riporti a com’ero prima, che mi restituisca l’anima. Spero che la mia testimonianza favorisca la giustizia, non solo per me”. Sono due delle tante testimonianze contenute in un rapporto di Amnesty International che, in 120 pagine, denuncia come durante la rivolta del movimento Donna Vita Libertà del 2022 le forze di sicurezza iraniane abbiano usato lo stupro e altre forme di violenza sessuale per intimidire e punire chi aveva manifestato in forma pacifica. Il rapporto, che il 24 novembre Amnesty International ha inviato alle autorità iraniane senza ricevere alcuna risposta, racconta le strazianti esperienze di 45 persone (26 uomini, 12 donne e sette minorenni) sopravvissute a stupro, stupri di gruppo e/o altre forme di violenza sessuale da parte di agenti dei servizi segreti e delle forze di sicurezza successivamente all’arresto. Si tratta di un vero e proprio sistema, di cui le 45 storie costituiscono la punta dell’iceberg: nella maggior parte dei casi, lo stigma associato allo stupro e la paura di rappresaglie inducono a non denunciare. Un sistema che vede all’opera agenti delle Guardie rivoluzionarie, della milizia paramilitare Basij e dei servizi segreti, così come varie sezioni delle forze di polizia tra cui la Polizia di pubblica sicurezza, l’Unità investigativa della polizia e le Forze speciali di polizia. Un sistema che si avvale della complicità di magistrati e giudici che non solo ignorano o insabbiano le denunce di stupro, ma utilizzano anche confessioni estorte con la tortura per muovere accuse false contro le persone sopravvissute, per poi condannarle a morte o al carcere. Sedici dei 45 casi documentati nel rapporto di Amnesty International sono di stupro e riguardano sei donne, sette uomini, una ragazza di 14 anni e due ragazzi di 16 e 17 anni. Gli agenti iraniani hanno violentato donne e ragazze per via vaginale, anale e orale, mentre gli uomini e i ragazzi sono stati violentati per via anale. Sono stati usati manganelli di legno e di metallo, bottiglie di vetro, tubi e/od organi sessuali e dita. Gli stupri sono avvenuti in centri di detenzione, all’interno dei furgoni della polizia, così come in scuole ed edifici residenziali, illegalmente utilizzati come luoghi di fermo. Maryam, che ha subito uno stupro di gruppo in un centro di detenzione delle Guardie rivoluzionarie, ha raccontato che uno dei suoi stupratori le ha detto: “Voi siete tutte dipendenti dal pene, così vi abbiamo fatto divertire. Non è questo che volete dalla libertà?”. Amnesty International ha ulteriormente documentato 29 casi di altre forme di violenza sessuale, diversa dallo stupro. Questi casi hanno visto coinvolti regolarmente agenti di stato che hanno strizzato, palpato e preso a calci i seni, gli organi genitali e le natiche delle donne; hanno obbligato queste ultime a spogliarsi, a volte riprendendole in video; hanno usato scariche elettriche, aghi e ghiaccio contro gli organi genitali degli uomini; hanno tagliato e/o tirato i capelli delle donne; hanno minacciato di stupro quelle stesse persone o i loro parenti. Lo stupro e le altre forme di violenza sono stati spesso accompagnati da torture e maltrattamenti: percosse, frustate, scariche elettriche, somministrazione di pillole o di iniezioni sconosciute, negazione di cibo e acqua e condizioni inumane e crudeli di detenzione. Le forze di sicurezza hanno inoltre ripetutamente negato alle vittime le cure mediche, comprese quelle per le ferite causate dagli stupri. La maggior parte delle persone sopravvissute ha raccontato ad Amnesty International di non aver sporto denuncia dopo la scarcerazione, temendo ulteriori conseguenze e ritenendo che la magistratura fosse uno strumento di repressione piuttosto che di riparazione. E a chi ha denunciato com’è andata? Sei persone hanno mostrato i segni delle torture e hanno denunciato le violenze davanti alla procura mentre erano ancora in detenzione chiedendo di poter rilasciare dichiarazioni, ma sono state ignorate. Altre sei persone hanno mostrato i segni delle torture o si sono lamentate delle violenze quando sono state portate davanti ai funzionari del pubblico ministero per essere interrogate, ma a loro volta sono state ignorate. Ulteriori tre persone hanno raccontato di aver sporto denuncia dopo la scarcerazione, ma due di loro sono state costrette a ritirarla dopo che le forze di sicurezza avevano minacciato di ucciderle o di prendere in ostaggio i loro familiari. La terza è stata ignorata per mesi per poi sentirsi dire da un funzionario che aveva “confuso” una perquisizione con una violenza sessuale. Ad oggi, le autorità iraniane non hanno incriminato né tantomeno processato alcun funzionario per i casi di violenza sessuale e stupro documentati nel rapporto di Amnesty International. *Portavoce di Amnesty International Italia