La Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo proibisce il 41 bis e i Cpr di Piero Sansonetti L’Unità, 10 dicembre 2023 Settantacinque anni fa, proprio il 10 dicembre, l’Onu approvò la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Frutto di anni di discussioni e lavori e che prendeva spunto dalla dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e dalla dichiarazione di diritti del cittadino frutto della rivoluzione francese, del 1789. Votarono a favore 48 paesi dei 58 che facevano parte dell’assemblea dell’Onu; due paesi non parteciparono al voto e otto si astennero. Tra gli astenuti il Sudafrica, che voleva difendere il diritto al razzismo e all’Apartheid, e l’Unione sovietica (insieme al blocco dei paesi vicini a Mosca) i quali non erano d’accordo sulle libertà politiche. Nessun paese però votò contro. L’Italia, appena uscita dal fascismo (come la Germania) non faceva parte dell’Onu, fu ammessa qualche anno dopo e sottoscrisse la dichiarazione. La dichiarazione è composta da un breve preambolo, politico-filosofico, e poi di 30 articoli, secchi e chiarissimi. Ci sono molte parti di quella dichiarazione che ancora oggi risultano molto moderne e assolutamente attuali nel dibattito politico. Ci torneremo nei prossimi giorni. Anche perché vorremmo aprire un dibattito sull’idea visionaria, avanzata su queste colonne da Mario Capanna qualche giorno fa. E cioè la proposta di “governo mondiale democratico”. Capanna propone di sostituire l’Onu con un Parlamento mondiale, eletto a suffragio universale dall’intera popolazione del pianeta, con ampi poteri immediati e concreti sulle grandi questioni come i rapporti tra stati, le azioni militari, i diritti collettivi e individuali. Conoscete Capanna. È stato uno dei maggiori protagonisti del ‘68 europeo (insieme ad Adriano Sofri, a Daniel Cohn Bendit, a Rudy Ducke e tanti altri giovani nati negli anni immediatamente precedenti o successivi alla fine della guerra). E sapete che il movimento del ‘68, a livello mondiale, produsse uno scatto in avanti impressionante nell’opinione pubblica e nel senso comune. La sua idea - di Capanna - a me pare affascinante, anche se molto complicata da realizzare. E mi piacerebbe aprire su questo una discussione sull’Unità. Proprio, forse, partendo, dal 10 dicembre del 1948 quando furono proclamati di diritti universali, i quali diritti, oggi, forse non sono del tutto applicati in nessun paese del mondo. Neanche, ovviamente, in Occidente. Basta pensare a quel che sta accadendo a Gaza. Il problema è proprio questo: quale può essere lo strumento per realizzare quei principi? L’Onu non ha funzionato. Ha poteri troppo modesti e una struttura non democratica. Oggi però vorrei occuparmi solo di alcuni dei principi affermati nella Dichiarazione, molto circoscritti, ma importantissimi, e che sono negati e violati in Italia. Quelli affermati nell’articolo 5 della Dichiarazione, nell’articolo 9 e poi negli articoli 13 e 14. Li trascrivo: Articolo 5: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti”. Articolo 9: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. Articolo 13: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. Articolo 14: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Non ci sono ambiguità. L’articolo 5 proibisce il carcere duro (il nostro 41 bis) che qualche anno più tardi sarà esplicitamente vietato da un successivo documento dell’Onu chiamato “Il codice Mandela”. L’Italia su questo è fuori dal consesso civile. Come la Turchia. L’articolo 9 proibisce i Cpr. Gli articoli 13 e 14 dicono in modo chiarissimo che l’emigrazione non è un fenomeno da trattare sulla base di politiche decise da singoli stati o da singole maggioranze, ma è un diritto universale. Non vietabile, non disponibile, non disciplinabile. Gli Stati devono semplicemente decidere in che modo accogliere, non se accogliere. Siamo molto lontani, ancora, dal 1948. Giornata mondiale dei diritti umani. Le “Regole di Mandela” profanate al 41bis di Sergio D’Elia L’Unità, 10 dicembre 2023 Il leader sudafricano non ha lasciato un vuoto, ma un pieno di ispirazione e di proposte. Come il documento che l’Onu gli ha intitolato e che definisce standard minimi per il trattamento dei prigionieri. E che però viene calpestato ogni giorno nelle nostre celle di isolamento, cimiteri dei vivi dove è concentrato tutto ciò che la civiltà ha abolito. Nelson Mandela è venuto a mancare dieci anni fa. Ma nessuno può veramente dire che ci ha lasciati o che ha lasciato un vuoto. Tanti sono quelli che della sua mancanza hanno fatto in questi anni una presenza, tanto è quello che in nome suo e del suo vissuto è diventato stato di vita e di diritto. Il capolavoro del padre del nuovo Sudafrica si chiama “Commissione verità e riconciliazione”. Mandela lo ha concepito alla fine dell’apartheid quando, insieme a Desmond Tutu, ha pensato a un altro modo di rendere giustizia alle vittime di violenze inaudite. Quando, per ricucire le ferite del passato, non si è affidato al solito tribunale penale ma ha concepito una istanza di verità per non dimenticare le vittime del passato e una di riconciliazione per dare un futuro al Paese. Un cambio di paradigma radicale della giustizia, che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Nelson Mandela continua anche per questo a essere esempio, fonte di ispirazione e proposta di governo per le grandi questioni del nostro tempo e del nostro mondo. È il miracolo della “compresenza dei morti e dei viventi” di cui parlava Aldo Capitini e di cui era fermamente convinto Marco Pannella, convinzione che ripeteva come un mantra nelle assemblee radicali, che viveva e dimostrava agli occhi increduli dei suoi compagni di lotta. Contro il luogo comune che vuole il morto non debba afferrare il vivo, che il morto è morto e non torna mai più. A ben vedere, invece, la compresenza è il prodigio di una realtà che diventa di tutti mentre prima era di uno solo, financo di una realtà compiutamente liberata proprio dal venir meno della persona fisica che l’aveva immaginata. Che lo si voglia o no, che lo si creda o meno, è una realtà evidente, al di là di ogni evidenza. “Su ogni assemblea passa il soffio della compresenza”, diceva Capitini. La compresenza va oltre la fisica della materia, opera nella quarta dimensione, quella dello spirito, l’essenza che illumina, letteralmente crea una nuova realtà, la orienta ai valori umani universali. Veni creator spiritus! Non esiste assemblea umana sulla quale non spiri il vissuto di chi è passato prima di noi, illumini il presente e prefiguri il futuro. Nelson Mandela, il suo vissuto, i suoi 27 anni passati in carcere, compreso quello duro dell’isolamento totale, hanno ispirato nel 2015 l’Assemblea della Comunità Umana Universale, quando le nazioni si sono riunite nell’atto di scrivere le regole dette appunto “Mandela”, per porre un limite al potere degli Stati nel momento del giudicare, del condannare, del sorvegliare, del punire e isolare un essere umano. Come pro-memoria ai finti smemorati del potere e del dis-ordine costituito ricordiamo quelle essenziali: la regola 44 dice che è isolamento il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani e che è isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi; un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante; la regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Lo spirito di Mandela svanisce alla vista dei dannati del 41 bis, nelle sezioni del “carcere duro” dove le sue regole minime sono profanate, dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e si traduce in vere e proprie pene corporali. La mancanza della vista di un tramonto, di un monte o del mare, di un orizzonte che vada oltre i pochi metri di lunghezza della cella, rende ciechi. La negazione di affetti e del calore di un contatto fisico di una mano e di una carezza di una persona cara, ti fa perdere il senno, spezza letteralmente il cuore. La proibizione di una parola possibile di conforto o un solo saluto scambiato tra una cella e l’altra, rende sordi e muti. Il ricordo negato del sapore e del profumo di un cibo familiare della propria infanzia e del paese d’origine, fa perdere il sapore, l’olfatto, i denti. Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto. “Cimiteri dei vivi” chiamava le carceri Filippo Turati. Lo sono non solo il “carcere duro”, ma anche il “carcere normale”, dove è concentrato tutto quello di inumano, incivile e mortifero che nella storia dell’umanità abbiamo abolito, perché, appunto, inumano, incivile, mortifero: i luoghi di tortura, i bracci della morte, i manicomi, i lazzaretti. Tali sono le celle di isolamento, le sezioni di osservazione, ordine e sicurezza, i reparti di transito e di assistenza detta “sanitaria” del “carcere normale”, dove sono cumulati e tumulati tossici, minorati fisici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo in luoghi di cura, non di pena. Nelson Mandela e le sue regole sono oggetto di preghiera soprattutto nelle celle di isolamento che si trovano di solito nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Dove la luce filtra malamente da finestre di pochi centimetri quadrati. Dove a una fila di sbarre si aggiunge una rete a trama molto fitta che impedisce non solo di guardare fuori, sia pure un muro di cinta, ma anche all’aria di scorrere libera. Dove, nella stanza di pochi metri quadri, tutto è piantato alla parete o al pavimento di cemento: branda, tavolo, sedile, armadietto, lavabo. Dove tutto è “a vista”, anche il gabinetto che a volte è la solita tazza, altre volte il water incastonato nel cemento, altre ancora il “cesso alla turca”. Dove l’ora d’aria può avvenire uno alla volta in una vasca di cemento armato lunga e larga pochi metri, con le mura invece altissime e sopra, a chiudere il tutto, una rete come quella di un pollaio. In questi luoghi dove la sola permanenza induce alla pazzia, ho visto coi miei occhi: persone in “cura psichiatrica” da anni, con il corpo segnato da cicatrici per i continui atti di autolesionismo, sorvegliate a vista giorno e notte perché a rischio di suicidio; persone trovate nude con una coperta sulle spalle in celle con la branda priva di materasso, lenzuola e cuscino piantata su un pavimento ricoperto di cibo, urina ed escrementi; evidenti casi psichiatrici di persone che, però, erano state dichiarate del tutto capaci di intendere e volere. È una pena dell’anima vivere tutto ciò, non solo per l’uomo privato della libertà, ma anche per l’occasionale visitatore e, soprattutto, per il suo custode, condannato a lavorare ogni giorno in un tale degrado umano e ambientale. In tutti gli istituti di pena del nostro Paese, nell’ufficio del direttore, accanto alla foto del Presidente della Repubblica, dovrebbe essere incorniciata anche quella dell’ex Presidente del Sudafrica. Nei corridoi delle sezioni, accanto ai murales di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dovrebbe essere pitturato il volto sorridente di Nelson Mandela. Nelle biblioteche del carcere, dove è raro trovarlo, oltre al Regolamento d’istituto, dovrebbero essere stampate in più lingue e messe a disposizione di detenuti e detenenti anche le Regole Mandela. Non solo in Italia, lo spirito di Mandela e delle sue Regole continua a essere invocato nelle celle di isolamento di tutto il mondo dove non splende mai il sole, dove “vivono” anime sempre in pena, dove sono ridotti a zero quei significativi contatti umani senza i quali una persona è sottoposta a trattamento inumano e degradante, dove il diritto diventa torto, e tutto si torce nel senso della tortura. Fondamentalismo islamico: sos carceri di Giacomo Galeazzi interris.it, 10 dicembre 2023 Il fondamentalismo islamico “è il vero nemico della società, è un pericolo”, ha detto il presidente della conferenza degli Imam di Francia, Hassen Chalghoumi dopo l’attentato alla Tour Eiffel a Parigi. L’Imam è noto per le sue posizioni moderate e da sempre in favore del dialogo interreligioso. E ha lanciato un forte appello “all’unità di tutti per combattere questo flagello”. Per lui, “la radicalizzazione è come un cancro: ci sono certe fasi in cui si può ancora trattare, ma dopo no. Quando sono determinati a passare all’azione è finita”, ha avvertito Chalgoumi. L’allarme-fondamentalismo è particolarmente grave nelle carceri. “Se non bastassero le aggressioni quotidiane, gli agenti della polizia penitenziaria devono da tempo prepararsi a fronteggiare altre emergenze. E ulteriori pericoli-avverte Aldo Di Giacomo, segretario S.Pp.-. Come i sequestri di persona ad opera di detenuti sempre più violenti, specie stranieri”. Per esempio, aggiunge Di Giacomo, “nel carcere fiorentino di Sollicciano un nostro collega è stato sequestrato da un gruppo di detenuti di origini africane. Già noti per comportamento ed atteggiamenti violenti. La situazione ha superato ogni limite di sopportazione”. Fondamentalismo in carcere - Secondo il segretario del sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria (S.Pp.), “il personale penitenziario è coinvolto in una guerra non sua da settori di popolazione carceraria straniera che dà segni evidenti di sfida allo Stato italiano. Anche perché convinta di non aver più nulla da perdere. Di rimare impunita. E comunque di non essere rimpatriata nel Paese di origine”. Aggiunge il leader sindacale: “Nel 2022, nelle carceri di tutta Italia, risultano presenti 17.840 cittadini stranieri. Corrispondono al 31,8% dell’intera popolazione detenuta. I più numerosi sono proprio i marocchini (oltre 3500, quasi il 20%). Seguiti dai romeni (più di 2mila, 12%), albanesi (1900, 10,5%) e tunisini (1800, 10%). Rispetto a inizio 2022 sono aumentati di 811 unità che corrispondono a un tasso di crescita del 4,7%. Le concentrazioni più elevate si riscontrano nel Centro-Nord Italia, in particolare in Trentino Alto Adige (62,4%), Valle d’Aosta (60,6%) Liguria (55,8%) Veneto (51,3%), Emilia Romagna (48%), Toscana (46,6%) e Lombardia (45,9%)”. Gestione - “Questi numeri - afferma Di Giacomo - evidenziano che la detenzione della popolazione carceraria straniera va gestita. Con mezzi, strumenti e soprattutto personale specifico. In troppi casi non si conoscono nemmeno le autentiche generalità e provenienza. L’assenza di traduttori è il primo problema. Con il personale penitenziario in grande difficoltà soprattutto di fronte ai continui fenomeni di fondamentalismo. Manifestazioni di radicalismo islamico che sfociano in atti di ribellione e protesta. Oltre alle gang di mafia nigeriana (oltre il 7% dei detenuti stranieri sono nigeriani) che sono un pericolo dentro e fuori le carceri. Per il segretario del S.Pp., le misure da mettere in campo sono decisamente più complesse e urgenti. A partire dall’attuazione dei trattati con gli Stati Africani per il rimpatrio di criminali nei propri Paesi di origine”. La radicalizzazione jihadista in carcere è definita da Francesco Marone (Ispi) “una questione critica in tutta Europa, e non solo”. Limitazioni - Una delle principali preoccupazioni è costituita dal rischio - purtroppo già tramutatosi più volte in realtà - che soggetti radicalizzati possano indottrinare e mobilitare altri detenuti “comuni”. In effetti, aggiunge l’Istituto per gli studi di politica internazionale, l’esperienza della reclusione può persino diventare una sorta di opportunità per proseguire la propria “lotta” estremistica. Facendo, per così dire, di necessità virtù. “In generale, i processi di radicalizzazione possono chiaramente essere favoriti in un contesto particolare come quello carcerario - analizza Marone-. Un contesto che spesso è già caratterizzato da frustrazioni e risentimenti personali. Condizioni di vulnerabilità ed emarginazione sociale. Rigidi vincoli e limitazioni istituzionali”. Sono varie le motivazioni che possono innescare una trasformazione dei sistemi di credenze e dei comportamenti di un detenuto. Incluso un processo di radicalizzazione jihadista. carceri Motivazioni - Tra le motivazioni c’è la ricerca di significato e identità. Oltreché il desiderio di sfidare le autorità o il sistema in generale. Ma anche un bisogno di protezione fisica. “I problemi di carattere organizzativo in prigione possono aggravare i rischi di radicalizzazione- avverte Marone-. Tali criticità possono interessare tutti i detenuti in generale. Ad esempio, sovraffollamento, carenza di risorse umane e finanziarie. Ma anche - per quanto in modo non intenzionale - i detenuti musulmani nello specifico. Tanto più se stranieri. Per esempio, eventuali limiti nella preparazione culturale del personale penitenziario. O difficoltà nella gestione delle esigenze legate alla pratica religiosa”. Il problema della radicalizzazione jihadista in carcere riguarda l’Italia su scala minore rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale come la Francia e il Regno Unito. Prendendo in considerazione i Paesi di origine, è possibile stimare che più di un detenuto su cinque sia di fede musulmana. Monitoraggio - Il monitoraggio di detenuti associati al rischio di radicalizzazione jihadista sulla base di tre distinti “livelli di analisi”. Il “primo livello raggruppa i soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento”. Il secondo livello raggruppa i detenuti che all’interno del penitenziario hanno posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadista e, quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento. Il terzo livello raggruppa quei detenuti che meritano approfondimento per la valutazione successiva di inserimento nel primo o secondo livello ovvero il mantenimento o l’estromissione dal terzo livello. L’individuazione di un processo di radicalizzazione jihadista costituisce il primo strumento utile per l’attività di prevenzione. Tramite l’applicazione di diverse misure specifiche. Tra queste misure particolare rilievo ha assunto l’espulsione dal territorio nazionale. Nonostante il fatto che gran parte dell’attuale discorso sulle carceri e la radicalizzazione sia generalmente negativo, le carceri non rappresentano solo una minaccia. Infatti, possono offrire un contributo positivo nell’affrontare i problemi dell’estremismo violento nella società nel suo complesso. No al “pacchetto sicurezza” L’Unità, 10 dicembre 2023 In occasione della Giornata mondiale dei diritti umani, associazioni della società civile lanciano una richiesta alle forze parlamentari: cancellate il ddl governativo con le disposizioni in materia di sicurezza pubblica: norme “inemendabili, contrarie ai diritti umani e ai principi costituzionali”. Le sottoscritte organizzazioni della società civile impegnate per la promozione del rispetto dei diritti umani lanciano un appello urgente affinché il Parlamento non adotti il “pacchetto sicurezza” governativo presentato pubblicamente a fine novembre. Un provvedimento che, ancora una volta, prevede la creazione di nuove fattispecie di reati nonché l’aumento significativo di sanzioni penali e pecuniarie per condotte delittuose già previste dal nostro ordinamento. Nella giornata mondiale che ricorda il 75esimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale sui diritti umani, e alla vigilia della revisione periodica universale che vedrà la Repubblica italiana scrutinata dal Consiglio sui diritti umani delle Nazioni unite nel 2024, riteniamo che quanto proposto dal Governo vada nella direzione diametralmente opposta da quanto deciso dalla Comunità internazionale il 10 dicembre 1948. Infatti, tra i principi che ispirarono quella Dichiarazione adottata all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale ci sono la non-discriminazione e la proporzionalità delle pene; buona parte di quanto contenuto nello schema governativo rappresenta una grave violazione dello spirito della Dichiarazione universale e della lettera dei Patti internazionali sui diritti umani che l’Italia ha ratificato oltre mezzo secolo fa. In una fase storica in cui, secondo quanto affermato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione all’inizio del 2023, l’Italia registra una costante diminuzione di reati - pur con la grave eccezione dei femminicidi - perseguire un approccio prevalentemente, se non esclusivamente, basato sulla pervasività di norme penali piuttosto che sul tentativo di affrontare problemi con appropriate risposte socio-economiche e culturali, che metterà una volta di più in crisi i diritti umani, civili e politici di tutti e tutte e la legalità costituzionale, nonché il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia. Le organizzazioni della società civile italiane che condividono questo appello non si sono mai sottratte al confronto e all’elaborazione di proposte di governo di fenomeni complessi e delicati come sono quelli che riguardano le persone private della libertà, dei migranti, delle minoranze, delle vittime delle mafie o dell’usura fino al diritto a manifestare il proprio pensiero pubblicamente o nei luoghi di reclusione. Restiamo come sempre a disposizione per quanto collettivamente o singolarmente ci compete e interessa per affrontare punto per punto le questioni che il Governo ritiene meritino modificazioni legislative, ma affermiamo con forza che nessuna delle questioni trattate nell’articolato può essere affrontata con misure che comportano la violazione di diritti fondamentali e in particolare dei soggetti socialmente più fragili. Diciamo no alla sostituzione di necessarie politiche sociali con norme penali pervasive e sanzioni sproporzionate. Affermiamo inoltre che tale scambio di analisi e proposta deve avvenire in modo trasparente e di merito e non di critica ex-post a decisioni già prese che poco attengono alla sicurezza nazionale. Oggi ci appelliamo alle forze presenti in Parlamento perché non passino al voto su queste norme, inemendabili, contrarie ai diritti umani e ai principi costituzionali e manifestiamo da subito la nostra disponibilità a un confronto prima e durante il dibattito parlamentare. Organizzazioni promotrici: 24marzo Onlus, Arci aps, Associazione Antigone, Associazione Comunità il gabbiano odv, Associazione Comunità San Benedetto al Porto, Associazione Luca Coscioni, CGIL, Ci siamo anche noi, Cittadinanzattiva Aps, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza - CNCA, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Dedalus, cooperativa Sociale, Encod Italia, Famiglie in rete, Fondazione Gruppo Abele onlus, Forum Droghe, Forum per il Diritto alla Salute, Itardd aps, L’Isola di arran ODV, la Società della Ragione, LILA - Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, Loscarcere Odv, Lunaria, Medicina Democratica ETS, Meglio Legale, Rete degli Studenti Medi, Ristretti Orizzonti, Sapereplurale APS Torino, Sbarre di Zucchero, Sbilanciamoci, Società Informazione - Diritti Globali Onlus, Ufficio Garante Comune Livorno, Un Filo Rosso Per aderire: fuoriluogo.it/pacchettosicurezza Ddl Sicurezza, Vanorio (Md): “Norme da stato autoritario. Si reprime il dissenso” di Vincenzo Iurillo Corriere della Sera, 10 dicembre 2023 “Il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica contiene una serie di norme tecnicamente da stato autoritario”. La tocca piano il pm di Napoli Fabrizio Vanorio, esponente di Magistratura Democratica, dieci anni in Direzione distrettuale antimafia, già inquirente di inchieste e processi sul clan dei Casalesi e sui loro referenti politici, su Silvio Berlusconi e su Massimo D’Alema, ora in servizio alla sezione pubblica amministrazione dell’ufficio guidato da Nicola Gratteri. Vanorio queste cose le ha dette in un seminario all’Università di Napoli davanti ai docenti dell’Ateneo e ai vertici della classe forense napoletana. E le ribadisce in questa intervista. Dottor Vanorio, cosa non le piace della bozza di ddl in discussione? Farei prima a dire cosa mi piace. Parliamo del resto invece... Con franchezza: l’impianto complessivo dell’articolato che è circolato, che è stato pubblicato sulla rivista ‘Ristretti Orizzonti’ dopo un comunicato della presidenza del Consiglio, e che quindi possiamo ritenere ufficiale, fa emergere un quadro estremamente preoccupante. Perché? Il ddl vuole punire queste categorie di persone ritenute evidentemente ‘pericolosissime’: i ladri come tipi d’autore, da criminalizzare a vita; i dissenzienti, perché torna in vigore la normativa Scelba sul blocco stradale; i poveri; i migranti. Persino le detenute madri di bambini sotto i tre anni. Faccia qualche esempio... Emblematica è la norma contro lo sfruttamento dei minori. Due genitori poveri, spesso extracomunitari ma ce ne sono anche italiani, che insieme rimediano in nero 1.000-1.200 euro e non ce la fanno, e mandano il loro figlio 15enne a fare elemosina o a vendere fazzoletti agli incroci, in Italia farebbero scattare un reato punito addirittura fino a nove anni di carcere. La corruzione propria ne prevede dieci. Per questo governo due genitori poveri srilankesi e il grande imprenditore che paga una enorme tangente per strappare un appalto miliardario sono uguali. Lei prima accennava anche alla punizione del dissenso... Si alzano le pene per la resistenza a pubblico ufficiale. Reato serio, per carità. Ma già ora si prevedono pene serie. Farle arrivare a sette anni è ai limiti del reato di rapina, dell’induzione indebita, la concussione più lieve. E la triplicazione delle pene per i ‘pericolosissimi’ giovani armati di bombolette spray, che imbrattano i muri. Possono arrivare sino a tre anni. Poi c’è la norma più vergognosa di tutte, un obbrobrio giuridico. Quale? È quella contro i migranti, studiata per reprimere gli atti di resistenza passiva dei migranti. Le faccio questo racconto: arrivi in Italia per scappare dalla guerra, dalla miseria, sei solo povero, non hai torto un capello a nessuno. Vieni rinchiuso in un Cpt, che magari non ha acqua calda o i bagni a norma o fa troppo caldo o troppo freddo o il cibo è scadente. Protesti, fai rumore, gridi, batti le pentole e qualcuno si associa. Ecco, contro gli organizzatori di questa ‘resistenza passiva’ di tipo gandhiano si prevedono sino a sei anni di reclusione. Possono scattare le intercettazioni, gli arresti: non si è mai vista in un paese civile l’incriminazione della resistenza pacifica. Al secondo posto tra le norme autoritarie c’è il ritorno della normativa Scelba sul blocco stradale. Un capolavoro. Perché è così duro? Si reprime il dissenso puro e semplice della gente per bene. Chi va in piazza oggi? Chi è vittima di tagli, dello stop al reddito di cittadinanza, di licenziamenti collettivi. Persone oneste che soffrono. Che se organizzano una protesta o uno sciopero e comunicano in anticipo i luoghi, vengono ignorati dai mass media, che non possono seguire tutto. E allora che fanno? Bloccano una autostrada, per avere attenzione. Fanno bene? No, non fanno bene. Però dico che sinora il blocco prevedeva una sanzione amministrativa pesante da 1000 a 4000 euro, quindi le sanzioni già c’erano. Ora fanno tornare Scelba al comma 1-bis, inseriscono anche le proteste sulle strade ferrate, e si arriva a una pena sino a due anni. Si sporca la fedina penale di cittadini che non sono criminali, ai quali si creeranno problemi ulteriori sul lavoro, che forse non troveranno più, non potranno fare concorsi pubblici. E magari prima o poi trovi un giudice troppo rigoroso che non ti dà la sospensione della pena e vai in carcere. Senza considerare l’intasamento degli uffici dei pm per seguire questi fascicoli. Saremo costretti a sfornare centinaia di decreti penali inutili, destinati alle scontate opposizioni degli avvocati d’ufficio. Non mi pare il caso di usare i carabinieri e la polizia per inseguire i mendicanti e i disoccupati che protestano, distraendoli dai reati gravi. Qual è la sintesi del tutto, secondo lei? Il disegno di fondo, che un certo tipo di destra ha sempre avuto, è quello di arrestare il povero e il dissidente. Prevedendo innalzamenti di pene e l’eliminazione delle attenuanti per reati già puniti seriamente, come la resistenza a pubblico ufficiale, che è un reato commesso non dai colletti bianchi o dai politici, ma da giovani, poveri, ubriachi e tossicodipendenti. Eppure prima c’erano sanzioni amministrative serie, che creavano risorse pubbliche, invece adesso vi saranno ulteriori processi e ulteriore sovraffollamento in carcere. Tutto questo in un paese dove i penitenziari sono oltre i limiti di capienza, dove si sta in dieci extracomunitari in una cella a Poggioreale. E come spieghiamo ai cittadini che questo governo con la mano destra vuole mettere in carcere i poveri e con la mano sinistra vuole abrogare l’abuso d’ufficio, proteggendo il docente universitario che trucca un concorso, il sindaco che affida illegalmente un appalto a un amico, il magistrato che avvantaggia illegittimamente una parte processuale? Lei al seminario ha parlato di “norme liberticide, tecnicamente fasciste”... La democrazia ovviamente è solida e non è in pericolo. Ma queste norme sono tecnicamente fasciste perché fanno rivivere in parte quelle del codice Rocco. Se questo disegno di legge passasse, si tornerebbe a un diritto penale autoritario simile a quello degli anni di Mussolini, o per fare un esempio più moderno, a quello dell’Ungheria di Orban. Ed infine inasprire le pene contro gli straccioni e i mendicanti ricorda ‘la ley de vagos y maleantes’ inasprita in Spagna da Francisco Franco. “Gli avvocati ora alzino la voce, il processo accusatorio è a rischio” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2023 Intervista a Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere penali. “L’appello promosso da Paolo Ferrua e da altri giuristi, al quale ho aderito, è stato concepito per proporre soluzioni in grado di rimettere il codice sui suoi binari. Serve una vera mobilitazione”. “Ridateci il processo accusatorio” è l’appello lanciato da alcuni giuristi, tra cui Paolo Ferrua e Gaetano Pecorella, a cui si è aggiunto in corsa anche Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere penali. Con lui entriamo più nel dettaglio delle istanze di una parte dell’accademia e dell’avvocatura. Perché lanciarlo adesso? L’appello è finalizzato da un lato a segnare lo stato ormai ridotto a lumicino dell’ispirazione accusatoria del cpp. Diverse leggi l’ultima è la Cartabia hanno smussato e piallato quelli che sono i principi fondamentali del codice accusatorio, che oggi è figlio di nessuno. Il tutto si somma alle prassi dei tribunali e le giurisprudenze che tradiscono l’ispirazione del codice. Dall’altro è stato pensato per proporre delle soluzioni al fine di rimettere il codice sui suoi binari. Il problema è che pare non ci sia una grande tensione su questo argomento. E allora era necessario riportarlo alla ribalta e lo hanno fatto meritoriamente Paolo Ferrua insieme ad altri. È necessario riaprire una stagione di protesta dell’avvocatura. Da questo punto di vista la situazione attuale non è molto diversa rispetto a quella del 1992, dopo le sentenze della Corte costituzionale. Che situazione era? In Italia, per dieci anni, hanno condannato all’ergastolo persone che non avevano diritto ad interrogare coloro che le accusavano. Ciò produsse una forte reazione dell’avvocatura. Oggi siamo in una situazione simile, però manca la reazione. L’appello sottolinea diverse criticità. Volendo sceglierne un paio tra le più significative? Si indica, per esempio, il problema delle impugnazioni sotto diversi profili. Da un lato si è snaturato l’appello, prima attraverso le sentenze creative di piazza Cavour poi con la legge Cartabia cercando di assimilarlo al ricorso per Cassazione. Alla fine il sistema delle impugnazioni è stato affrontato con un spirito di deterrenza: si sono inserite norme - come la necessità dell’elezione di domicilio della procura speciale per il secondo grado - che, al di là dell’illogicità delle soluzioni, in realtà seminano ipotesi di inammissibilità al solo fine di falcidiare gli appelli. Si parla poi di inappellabilità delle sentenze di assoluzione... Persino la Commissione Lattanzi aveva segnalato questa possibilità. Se c’era un problema di tenuta generale rispetto ai numeri, con riguardo all’appello, si doveva cominciare eliminando quello del pubblico ministero. L’appello prevede pure la sostituzione dell’improcedibilità con la prescrizione sostanziale. Sembrava fatta in Parlamento ma ora sembra che Nordio voglia raccogliere l’ennesimo grido di dolore dei magistrati che hanno chiesto una norma transitoria... A me pare che questa richiesta dei presidenti delle Corti d’Appello non abbia molto senso. Si lamentano che non sono pronti dal punto di vista organizzativo. Ma non mi pare un problema insormontabile, soprattutto se si adottasse una ipotesi di sospensione della prescrizione sul modello della legge Orlando. Un aspetto discusso del documento è l’istituzione di un organo parlamentare bicamerale di vigilanza sulle interpretazioni “creative” della giurisprudenza. Ci spiega meglio? Su questo punto, effettivamente, si è creato maggior dibattito in quanto tale previsione viene vista da qualcuno come un attentato alla libertà della giurisdizione. Io, semmai, noterei che gli unici casi di leggi interpretative si sono risolte in evidenti riduzioni delle garanzie. Tuttavia non è meno vero che noi abbiamo un problema, da tante parti riconosciuto, di limiti dell’interpretazione che si è fatta autonoma rispetto al testo della legge. Uno degli esempi più chiari è proprio quello della sentenza a Sezioni Unite Bajrami, su cui poi hanno costruito una parte della legge Cartabia, che ha svuotato di contenuto il principio di immutabilità del giudice e l’oralità del dibattimento. E allora che fare? Se si tratta di un fenomeno dilagante, come rilevano accademici che non possono essere ritenuti vicini a idee in qualche misura contrarie all’opera della magistratura o alla sacralità della libertà della giurisdizione, allora perché non prevedere una commissione bicamerale per fornire al Parlamento gli strumenti per verificare come l’applicazione della legge si distanzi dal punto di vista dei principi da quella che era la lettera e le ratio della legge? L’Italia difende gli abusi antimafia davanti alla Cedu, in merito alle misure di prevenzione. Che ne pensa? C’è un aspetto che mi sorprende: da quando circolano le risposte dell’Avvocatura dello Stato, sembrerebbe che tutti dicano “il re è nudo”, stigmatizzando le povere argomentazioni alla base della risposta del governo. Ma si tratta delle stesse argomentazioni spese da qualche lustro dalle nostre Corti. Infatti l’Avvocatura ha allegato sentenze della Cassazione e della Consulta... Esatto: quella non è una cattiva figura del governo italiano ma di tutto il nostro sistema giudiziario. Le distinzioni, ad esempio, tra imprenditore colluso, concusso, appartenente o continguo, le ha elaborate la giurisprudenza affinando quella ingiustizia suprema che è il sistema delle misure di prevenzione. Pqm e la giustizia penale in Italia: il racconto che va oltre la schiacciante prevalenza dell’accusa di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 10 dicembre 2023 PQM è il nuovo settimanale che il Riformista dedica all’approfondimento dei temi della giustizia penale, e che mi si è voluto dare l’onore e l’onere di dirigere. È una sfida che merita di essere raccolta, per coprire un vuoto assordante nel nostro panorama editoriale e mediatico. La giustizia penale è un tema politico e sociale cruciale, perché è il luogo dove avviene quotidianamente lo scontro tra la potestà punitiva dello Stato ed i diritti primari (libertà, dignità) della persona. Comprenderne regole, ragioni e devianze esige competenza, libertà morale ed onestà intellettuale. Oggi quei temi sono affrontati in modo ideologico, strumentale, polemico, tendenzialmente conformista e quasi sistematicamente disinformato. Non solo: è evidente -e sconfortante- la schiacciante prevalenza, a partire dalla cronaca giudiziaria, del punto di vista dell’Accusa. PQM, il dibattimento e i processi come nessuno ve li racconta - Da Mani Pulite in poi si è sedimentata nella opinione pubblica e nei media la convinzione che l’ipotesi accusatoria sia già il giudizio sulla responsabilità dell’accusato, sicché le indagini sono seguite e raccontate avidamente, mentre il dibattimento -il solo giudizio che conta- non interessa più a nessuno. Noi vi racconteremo i processi come non ve li racconta nessuno, e daremo voce, finalmente, anche ai diritti di chi subisce, a torto o a ragione, la potestà punitiva dello Stato. PQM sarà affidato alla collaborazione di accademici, avvocati, magistrati, operatori del mondo carcerario, in nome di null’altro che della loro competenza e della passione civile che tutti li anima. PQM saprà essere una voce libera e coraggiosa, che vuole raccontare i fatti della Giustizia penale dal punto di vista dei più deboli, senza cedere al ricatto odioso di vedersi inquadrati, perciò solo, tra i fiancheggiatori della criminalità mafiosa o tra le giulive suffragettes del buonismo salottiero. PQM contro i garantisti “à la carte” - Nemmeno apprezziamo i garantisti “à la carte”, che digrignano i denti per gli amici e invocano ghigliottina per i nemici. Chi vuole confrontarsi con noi, si armi di fatti e di competenza, e sarà il benvenuto. A cominciare da questo primo numero, che non a caso dedichiamo ad uno dei tabù intoccabili di questo Paese: le misure di prevenzione patrimoniali. Leggete cosa può accadere e cosa accade, in Italia, nell’esercizio di questo micidiale potere poliziesco, coperto e legittimato, senza limiti e riserve (ma ora l’Europa ci interroga), dal verbo intangibile della lotta alla Mafia; noi ve lo raccontiamo, perché non vediamo molti altri in giro che lo facciano. D’altronde, vogliamo che sia ben chiaro ciò che siamo, e che abbiamo l’ambizione di rappresentare. PQM esprime quel pensiero e quel convincimento che ha attraversato millenni di storia dell’umanità, senza scalfirsi di un graffio: la libertà e la dignità di un solo innocente ingiustamente accusato valgono l’impunità di cento criminali. Su questo, cari lettori, non abbiamo l’ombra del dubbio. Buona lettura. *Presidente Unione Camere Penali Italiane I genitori di Regeni: “Illusi da sei governi ma sulla morte di Giulio ora la verità è più vicina” di Giuliano Foschini La Repubblica, 10 dicembre 2023 “La decisione di far iniziare il processo è una vittoria del diritto ma anche di chi ha resistito insieme a noi e all’avvocato Ballerin”. Pazienza. Resistenza. Forza. Coraggio. Sono alcune delle parole del vocabolario civile di Paola e Claudio Regeni. In pochi, in questi sette anni, immaginavano che saremmo arrivati qui: un processo ai presunti assassini, sequestratori e torturatori di Giulio, ucciso al Cairo a gennaio del 2016. E invece, eccoci: Paola, Claudio e l’avvocata Alessandra Ballerini parlano per la prima volta dopo il rinvio a giudizio dei tre agenti della National security egiziana del 4 dicembre scorso. Ci siamo. Meglio, ci risiamo... “Sì, ci risiamo, a sette anni dalla morte di Giulio, ormai quasi otto, finalmente il processo potrà iniziare”. Ve lo aspettavate? “Lo abbiamo sempre sperato e abbiamo sempre lottato, resistendo ad ogni insidia, affinché si giungesse ad un giusto processo”. Si è detto che è la vittoria del diritto... “Si, è la vittoria del diritto alla verità e all’ intangibilità dei corpi, non solo per noi ma per tutti i cittadini, perché come ha scritto la Corte Costituzionale: “Quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il diritto alla verità sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il diritto di sapere cos’è accaduto”. E anche della vostra resistenza. È così? “Sì, certamente, come famiglia, come avvocata, con la procura di Roma, il popolo giallo, la scorta mediatica e tutti coloro che ci hanno sempre sostenuto in questi sette anni”. C’è voluto un giudice, meglio i giudici della Corte Costituzionale per fare quello che la politica non era stata in grado di fare: permettere l’avvio del processo... “La Corte Costituzionale, e prima ancora il giudice Ranazzi e la Procura di Roma hanno ben compreso che non era “giusto” impedire la celebrazione del processo, a carico dei quattro indagati per il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio, garantendo loro una “ripugnante” impunità, in virtù della protezione del governo egiziano. Come ricorda la Corte “diversamente allo Stato estero sarebbe consentito istituire una inammissibile zona franca di impunità per i cittadini-funzionari, che ridonderebbe in una irreparabile lesione dei diritti inviolabili delle vittime, tra i quali il diritto di accedere al giudice; sarebbe violato poi l’articolo 111 della Costituzione perché non vi è processo più ingiusto di quello che non si può instaurare per volontà di autorità di governo… Impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, si annulla un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima. Il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”“. Cosa altro non ha fatto la politica in questi anni? “Ricordiamo, che da quel 25 gennaio 2016, quando Giulio è stato sequestrato, si sono avvicendati ben sei governi italiani, e nessuno è stato in grado di pretendere ed ottenere dal governo egiziano effettiva collaborazione, mentre invece sul piano degli affari e della politica ci sono stati grandi intese e strette di mano. A gennaio 2021, abbiamo depositato, come cittadini, un esposto contro lo Stato italiano per violazione della legge 185/90, che vieta la vendita di armi agli Stati che violano sistematicamente i diritti umani. L’Egitto, secondo le denunce del Parlamento Europeo e dell’Onu, è chiaramente uno di questi”. Vi è capitato di perdere la speranza in questi anni? “Abbiamo attraversato diversi periodi di alti e bassi, di sconforto e di speranza, ma alla fine è sempre prevalsa la volontà di andare avanti e la determinazione a riuscire ad ottenere verità e giustizia per Giulio”. In questi anni si è sempre detto che l’obiettivo dell’Egitto era perdere del tempo affinché tutti potessero dimenticare cosa è accaduto a Giulio. Avete avuto paura che questo accadesse? Quanto vi fa paura ancora oggi il silenzio? “Abbiamo imparato a leggerlo, il silenzio parla più di lunghi discorsi, mentre le false promesse del governo egiziano abbiamo imparato a riconoscerle fin dall’inizio. E a contrastarle, con l’aiuto di tanti”. Che cosa vi aspettate ora dal processo? “Confidiamo in un processo giusto che stabilisca le responsabilità sul sequestro le torture e l’uccisione di nostro figlio, per stabilire la verità processuale. Ma anche dalla politica ci aspettiamo che stia dalla parte dei cittadini che chiedono l’applicazione dei principi costituzionali e la tutela dei diritti inviolabili e universali. Oggi peraltro è l’anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che deve rappresentare un’ineludibile impegno per lo Stato italiano”. Alcuni Comuni stanno togliendo gli striscioni gialli “Verità per Giulio”, come se fossero il simbolo di una parte. Siete offesi? “Più che offesi rammaricati e sconcertati che alcuni sindaci (fortunatamente una sparuta minoranza) non comprendano come i diritti umani siano di tutti e da tutti vadano tutelati. Giulio, come ampiamente dimostrato, ha subito “tutto il male del mondo” e la tortura è un crimine contro l’intera umanità”. Tempo fa vi diceste pronti a incontrare Al Sisi. Lo siete ancora? “Se viene a Roma per accompagnare i quattro imputati e consegnarci finalmente gli effetti personali di Giulio, siamo disposti ad incontrarlo. Non ci siamo mai sottratti a nessuna fatica né a nessuna afflizione”. Vi spaventa la nuova battaglia che ora dovrete affrontare? “Ci stiamo preparando da molti anni. E non siamo soli: al nostro fianco c’è la procura di Roma e l’avvocatura dello Stato. E pensate mai alla fine della battaglia? “È il traguardo che ci aspettiamo di raggiungere, in tempi auspicabilmente brevi. Ci rendiamo comunque conto che il cammino potrebbe ancora essere tortuoso, ma anche e soprattutto in questa fase non possiamo permetterci soste né distrazioni. Rivendichiamo il diritto alla verità, per Giulio, per noi, per tutti”. Sardegna. Le carceri scoppiano: “Natale amaro dietro le sbarre, a Uta celle sovraffollate” di Jacopo Norfo castedduonline.it, 10 dicembre 2023 “Si profila un Natale molto amaro per le persone private della libertà in Sardegna. Continuano infatti ad aumentare le detenute e i detenuti nelle carceri. La situazione più pesante si registra a Cagliari-Uta dove a fronte di 561 posti sono ristrette 608 persone (29 donne - 111 stranieri) (108%), un sovraffollamento che crea gravi disagi nelle celle progettate per due persone ma che spesso ne ospitano 4”. “Si profila un Natale molto amaro per le persone private della libertà in Sardegna. Continuano infatti ad aumentare le detenute e i detenuti nelle carceri. La situazione più pesante si registra a Cagliari-Uta dove a fronte di 561 posti sono ristrette 608 persone (29 donne - 111 stranieri) (108%), un sovraffollamento che crea gravi disagi nelle celle progettate per due persone ma che spesso ne ospitano 4”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” esaminando i dati della Sardegna diffusi dal Ministero della Giustizia. “Particolarmente delicata - rileva - la situazione nella sezione femminile dove - secondo quanto riferiscono con preoccupazione i familiari - le detenute sono state sistemate nelle celle di un solo piano costringendole a convivenze obbligate che spesso provocano questioni di incompatibilità di carattere. Un provvedimento assunto probabilmente per colmare almeno in parte la carenza di personale. Non si può del resto trascurare che il Direttore dell’Istituto, nonostante la presenza di un Vice, appena insediato, si sta facendo carico anche di Sassari e Nuoro, ancora senza una dirigenza, dovendo quindi dare risposte a 1.265 detenuti”. “Alla condizione di difficoltà della Casa Circondariale “Ettore Scalas”, gravata anche da un’altissima percentuale di tossicodipendenti e di sofferenti psichici, si aggiungono quella di Sassari-Bancali con 465 ristretti (15 donne e 117 stranieri) (102%) e della Casa di Reclusione di Tempio-Nuchis (178 presenze per 170 posti) (104%). I dati del Ministero della Giustizia che fotografano la realtà detentiva al 30 novembre mostrano anche un incremento dei detenuti stranieri passati in un mese da 494 a 503, mentre sono quasi rimaste invariate le presenze di detenuti nelle colonie penali (598 posti disponibili - 329 detenuti). Complessivamente dietro le sbarre ci sono 2149 ristretti (44 donne - 503 stranieri)”. “È urgente - osserva Caligaris, referente SDR per le carceri - colmare i vuoti delle direzioni di Sassari e Nuoro, entrambi con detenuti al 41 bis e garantire il personale. Occorre però anche una rivisitazione del servizio sanitario penitenziario che non garantisce appieno il diritto alla cure di chi ha perso la libertà. È necessario che il Ministero della Salute e l’assessorato regionale competente se ne facciano carico apportando le indispensabili modifiche. La situazione non è più tollerabile a quasi 12 anni dal passaggio al SSN occorre che qualcosa si muova per rideterminare condizioni coerenti con il dettato costituzionale”. Puglia. Osservatorio carceri dell’Aiga: l’avvocato Monopoli nuovo responsabile brindisireport.it, 10 dicembre 2023 Il legale brindisino, già componente dell’Osservatorio nazionale, è stato nominato dal coordinatore nazionale Mario Aiezza. L’avvocato brindisino Francesco Monopoli è il nuovo responsabile e referente per la Regione Puglia dell’Onac (Osservatorio Nazionale Aiga Carceri). La nomina è stata formalizzata dal coordinatore nazionale Mario Aiezza. L’Onac, di cui Monopoli era già componente dell’Osservatorio nazionale, nello scorso biennio è riuscito a raggiungere risultati straordinari culminati nella redazione del Libro Bianco, presentato il 4 novembre scorso presso la casa circondariale di Genova-Pontedecimo ove è stato stampato e rilegato dai detenuti del carcere ligure nella tipografia legatoria che si trova all’interno dell’istituto. Il Libro Bianco costituisce l’epilogo del lavoro e dell’impegno profuso dalla giovane avvocatura, a seguito dei sopralluoghi svolti presso i diversi istituti penitenziari italiani, annotati dalle diverse delegazioni delle 140 sezioni dell’Aiga distribuite sul territorio nazionale e rappresenta il punto di partenza del lavoro che impegnerà l’Aiga nel prossimo futuro. Contiene anche le proposte di modifica dell’ordinamento penitenziario e degli istituti carcerari formulate da AIGA insieme a numerosi esperti della materia penitenziaria. Del comitato tecnico scientifico per la scrittura del libro bianco erano componenti anche gli avvocati brindisini Francesco Monopoli e Domenico Attanasi unitamente alle illustri figure del professor Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale Università di Palermo, il professor Carlo Fiorio, ordinario di diritto processuale penale Università di Perugia, la professoressa Donatella Curtotti, ordinario diritto processuale penale Università di Foggia, il professor Pasquale Bronzo, associato diritto processuale penale Università Sapienza, il dottor Massimo Brandimarte, già presidente del tribunale di sorveglianza di Taranto, il professor Domenico Alessandro De Rossi. “Occorre tenere alta l’attenzione sul sistema carcerario e in particolare sugli istituti penitenziari pugliesi e sulle tante criticità da cui vengono afflitte - afferma Francesco Monopoli - l’Onac si pone al servizio di tutto il sistema penitenziario, rendendosi parte attiva di un percorso che può mira a dare concretezza alla funzione rieducativa e risocializzante della pena”. Francesco Monopoli attualmente è anche consigliere della sezione Aiga di Brindisi, dopo aver già ricoperto il ruolo di presidente provinciale e di coordinatore regionale, oltre ad aver presieduto il dipartimento nazionale sull’Ordinamento Penitenziario. Napoli. In cella a 91 anni. Il Garante: è il detenuto più anziano d’Italia di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 10 dicembre 2023 Non è un assassino e nemmeno un mafioso, eppure alla veneranda età di 91 anni è rinchiuso nel carcere napoletano di Poggioreale e dovrà trascorrere in cella altri tre anni, feste di Natale comprese. Lui (che chiameremo M.) è un “sex offender”, condannato a sette anni e imprigionato quando di anni ne aveva già 87 per un reato di natura sessuale. Secondo Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, si tratta del recluso più vecchio d’Italia. Nel suo caso non è stato possibile attivare misure alternative alla detenzione, come prevede la legge per le persone che abbiano superato i 70 anni di età. “Questo perché - spiega Ciambriello - i reati di natura sessuale sono ostativi. Ma la verità è che ogni storia è diversa da un’altra e la vicenda giudiziaria di M. è completamente differente da quella di un vero e proprio stupratore. Si tratta di un reato che l’ha condotto in cella quando aveva 87 anni e per questo la carcerazione appare insensata, sia per l’età avanzata, sia perché è davvero complesso ipotizzare che M. costituisca un pericolo per la società. Sarebbe etico - continua il garante - che venisse affidato a una comunità per trascorrere lì gli ultimi anni della sua esistenza, tenerlo rinchiuso in cella appare davvero un atto disumano, soprattutto adesso che manca poco al Natale e lui lo trascorrerà per il quarto anno recluso”. Le visite del medico e quelle dei parenti - M. vive in una cella insieme ad altri reclusi, per ora è ancora autonomo, anche se fortemente provato per le condizioni di detenzione a un’età così avanzata. I medici di Poggioreale lo visitano ovviamente con maggiore frequenza per accertarsi del suo stato di salute, i suoi familiari gli fanno visita nei giorni stabiliti per i colloqui e gli inviano generi di conforto, tuttavia nemmeno il suo avvocato ha potuto ottenere l’applicazione di misure alternative. Ma il caso di M. anche se clamoroso per l’età del protagonista, non è l’unico sotto la lente del garante. “Sempre a Poggioreale abbiamo un altro detenuto di 72 anni affetto da sclerosi multipla, almeno una trentina di persone affette da disturbi mentali -aggiunge il garante -, insomma una umanità dimenticata che meriterebbe sorte diversa dal restare rinchiusa in carcere”. Celle sovraffollate e poche ore d’aria - Secondo gli ultimi dati su 7.327 detenuti nelle carceri campane, 757 devono scontare pene da un mese a tre anni. “Si tratta quasi sempre di reati bagatellari - continua Ciambriello - stiamo parlando di assegni a vuoto, contrabbando, oltraggio a pubblico ufficiale. In casi del genere il carcere andrebbe tenuto come estrema ratio. È possibile che non si riesca ad adottare metodi alternativi?”. Intanto, sulle condizioni dei reclusi a Poggioreale preoccupano i risultati del rapporto dell’associazione Antigone: “Napoli Poggioreale è l’istituto più grande del paese per capienza e numero di persone ristrette. Al momento della visita, a fronte dei 1.571 posti regolamentari, risultavano recluse 2.126 persone, con un esubero di oltre 500 unità”. Il sovraffollamento è tale che in alcune celle i detenuti dispongono di meno di 3 metri quadrati di spazio a persona. I detenuti possono uscire dalle celle solo 2 ore al mattino e 2 al pomeriggio. Milano. Renato Vallanzasca, linea dura dei giudici: “Può essere curato in carcere a Bollate” di Anna Giorgi Il Giorno, 10 dicembre 2023 Dopo 53 anni di carcere - su 73 di vita - “soffre di un grave decadimento cognitivo”. Ma per la Procura generale e la Cassazione non può accedere ai domiciliari. I legali: è un caso unico. Il “bel René”, il mascalzone bandito che diceva con una punta di orgoglio “io sono nato ladro” (e non solo ladro purtroppo), il Vallanzasca che uccideva sequestrava e rubava, ma sapeva sedurre le donne, innamorate di una idea romantica di bandito, poi condannato a quattro ergastoli, non esiste più. Dopo 53 anni di carcere, su 73 di vita, chi lo ha amato, come la ex moglie Antonella D’Agostino dice che ormai è “l’ombra di se stesso, il carcere l’ha piegato e ha diritto di essere curato fuori”. Cinquantantrè anni sono tutta una vita, la Comasina non è più la Comasina della “ligera” e in via Porpora al 162 dove abitava con la sua mamma oggi c’è la Milano gentrificata. Vallanzasca cominciò lì la sua storia criminale: a 8 anni liberò una tigre dal circo accampato in piazza Gobetti e andò dritto al Beccaria per 48 ore, prima di essere affidato a una zia. Il resto della sua vita è un pezzo della storia della mala milanese, buona trama di film e libri. A parlare oggi di “grave decadimento cognitivo” non è solo la ex moglie, ma anche una perizia in carcere a Bollate dove è detenuto, disposta dai suoi avvocati Corrado Limentani e Paolo Nuzzi, che spiegano: “Il caso della lunga detenzione in cella di Vallanzasca è unico tra i detenuti italiani”. I legali non negano la gravità dei reati commessi tra gli anni Settanta e Ottanta, per i quali fu condannato appunto a quattro ergastoli. Sostengono però che, a distanza di 50 anni da quei fatti, abbia il diritto di accedere ai benefici previsti dalla legge. A dire il vero nel 2010 Vallanzasca aveva avuto accesso al regime di semilibertà, ma gli fu revocato nel 2014 perché sorpreso a rubare un paio di mutande in un centro commerciale. Per la ex moglie quel “presunto furto” è semmai la conferma che “qualcosa nella sua testa aveva cominciato a non funzionare”. Per la Sorveglianza, invece, è l’ulteriore prova che lui non è mai cambiato, oltre a non essersi mai pentito, come dimostra “l’aver sottaciuto” le scuse “alle sue tante vittime”, spiega la Sorveglianza. Lo scorso maggio la Procura generale si era opposta alla richiesta di detenzione domiciliare in una struttura sanitaria, avanzata ancora dai legali di Vallanzasca. I giudici non avevano dato parere favorevole al differimento della pena, seppur da scontare in un istituto, non certo a casa. L’ultima decisione sul “caso unico in Italia”, insistono i legali, è di una settimana fa. Ed è ancora un “no” alla scarcerazione che arriva dalla Corte di Cassazione. I giudici, pur riconoscendo il decadimento cognitivo, hanno stabilito che ci sono trattamenti di tipo conservativo e farmacologico. Il 73enne, dunque, può essere, ben curato in carcere a Bollate. Milano. “Non si è mai pentito. Ma non lasciamolo morire chiuso in un carcere” di Gabriele Moroni Il Giorno, 10 dicembre 2023 Stefanini faceva parte della banda che terrorizzò Milano negli anni 70. “Vallanzasca è anziano e malato, ora non è più pericoloso. Io oggi sono quasi libero, non mi lamento: mi bastano Tv e buon vino”. Settantuno anni di cui quarantanove trascorsi entrando e uscendo da una quarantina di patrie galere. Esponente di spicco e oggi uno dei tre superstiti, con Renato Vallanzasca e Osvaldo Monopoli, della banda che terrorizzò Milano e non solo. Oggi, placato, Tino (all’anagrafe Alfredo Santino) Stefanini vive a Milano, al Gallaratese, nell’abitazione che è stata di sua madre. Vive da uomo quasi libero, in affidamento ai servizi sociali ancora per un anno, con l’impegno di proseguire nel volontariato presso la cooperativa sociale Zerografica di via dei Mille. Stefanini, la Cassazione ha detto no agli arresti domiciliari: Vallanzasca deve rimanere in carcere... “Renato è una persona anziana. Ha trascorso in cella cinquantatré anni. È malato, molto malato. Se fosse uscito, sarebbe andato ai domiciliari alla comunità ‘Il Gabbiano’. Siamo stati insieme per tre anni in carcere a Bollate, al quarto reparto. Andavo a chiamarlo per il pranzo, sono un bravo cuoco. Lui si meravigliava. ‘È già mezzogiorno’, chiedeva. E alla sera lo stesso. Cominciava già allora a perdersi con la memoria. Non stava bene. Saliva mezza scala e doveva fermarsi e riposare. Poi c’è stato il crollo”. Vallanzasca si è lasciato alle spalle sangue, morti, famiglie nel lutto... “Nessun nega il passato. C’è stato. È lì. Guardiamo al presente. Vallanzasca è un uomo più vecchio dei suoi 73 anni. D’accordo: quaranta o cinquant’anni ha fatto, anzi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, mi ci metto anch’io. Il Vallanzasca di allora non esiste più. Renato non è più un pericolo per la società, non è un pericolo per nessuno. Ci sono responsabili di efferati delitti che sono già in libertà. Deve morire in galera? Anche la storia delle mutande rubate in quel centro commerciale, una storia da fuori di testa. Vallanzasca che ruba le mutande? Scherziamo?”. L’ha sentito di recente? “Qualche mese fa in videochiamata. Ho capito che non era più quello di una volta”. Vallanzasca non ha mai rinnegato il suo passato, non ha mai chiesto scusa... “Le sue scuse sarebbero state un fatto mediatico. Parlo anche per me. Posso pensare a cose che non rifarei, ad altre che mi provocano dispiacere. Però la parola ‘pentito’ non mi piace, non mi è mai piaciuta. Che pentiti sono quelli che lo diventano per andare a casa, per salvarsi e inguainano altre persone? E lo dice uno che è un uomo completamente diverso, che ha pagato per tutto quello che ha fatto, che non ha più niente a che fare con il suo passato”. Il primo incontro con Vallanzasca... “Avevo 17 anni, alla Comasina. Ero davanti al bar-tabacchi dove ci trovavamo noi ragazzi. Lui è arrivato in Jaguar, con Consuelo, la madre di suo figlio. Cercava un suo amico, il ‘Tasso’, che aveva conosciuto al Beccaria. Lo voleva per fargli da autista nei colpi. Sono andato a cercarlo. ‘Ehi, Tasso, c’è uno col Jaguar che ti cerca’. Con Renato l’amicizia vera è nata a San Vittore”. Quanto ha giocato nel suo destino l’essere un ragazzo della Comasina? “È stato determinante. Alla Comasina chi lavorava era una mosca bianca. Ero stato in collegio. Ho rubato le prime magliette, le prime radioline e neanche le rivendevano per farci un po’ di grana. Sono stato al Beccaria e poi a San Vittore, che non era il carcere di oggi, con gli educatori e gli assistenti sociali. Entravi a San Vittore apprendista e uscivi professionista. A un certo punto mi sono reso conto che avevo meno paura o più coraggio degli altri. Lì c’è stato lo scatto. Ho iniziato con le rapine. Con Vallanzasca è stato il boom”. Perché ha preso quella strada? “Per la bella vita. Soldi, la sera in giro per night, casinò, belle donne, bei vestiti, belle macchine. Avevo 21 anni e possedevo una Porsche e una Dino Ferrari. Nel 1973 c’è stata l’austerity e non potevo circolare con nessuna delle due per la storia delle targhe alterne. Allora ho preso una 124 Coupé”. La mala di una volta aveva delle regole: verità o luogo comune? “Vero. Noi ci ammazzavamo con quelli delle altre bande, ma non abbiamo mai toccato una donna, un bambino, un anziano. Né io né gli altri”. Come vive un ex bandito? “Con la pensione d’invalidità. Sono invalido totale. Ho il necessario per mangiare e per la benzina. Posso stare fuori dalle otto del mattino alle otto di sera. Ogni tanto mi compro un abito, non come quelli di una volta, uno da 130 euro. Vado a trovare mio fratello. Vedo mio figlio e la mia nipotina che ha 7 anni e quando è nata io ero dentro. Mi piace cucinare e un bicchiere di buon vino. Un po’ di tv. Una vita normale che non mi dispiace”. Ancona. “Carceri sovraffollate. Montacuto in difficoltà” Il Resto del Carlino, 10 dicembre 2023 La situazione degli istituti penitenziari marchigiani con la fotografia dei dati rilevati dal Ministero di Giustizia al 30 novembre. Complessivamente i detenuti presenti risultano 907 (294 stranieri e 24 donne), per una capienza complessiva di 837, di cui 80 con condanne non definitive e 36 in semilibertà. “Il sovraffollamento è senza dubbio preoccupante - commenta il Garante Giancarlo Giulianelli - soprattutto per quanto riguarda le due punte dell’iceberg che registriamo, ancora una volta, a Montacuto di Ancona e Villa Fastiggi di Pesaro. È pur vero che essendo due Case circondariali le presenze risultano essere fluttuanti, ma i picchi sono comunque degni di nota. Questa situazione crea problemi agli stessi detenuti ed a chi quotidianamente deve portare avanti il proprio lavoro per garantire la vivibilità e la sicurezza delle strutture. E sappiamo come gli organici, in tutti i settori, al momento non corrispondano alle reali esigenze”. Nello specifico a Villa Fastiggi risultano presenti 240 detenuti (104 stranieri) su una capienza regolamentare di 153, mentre a Montacuto sono 330 (108) su 256 posti disponibili. A Barcaglione situazione stabile con 95 presenze (37 gli stranieri) su 100; a Marino del Tronto di Ascoli Piceno 111 detenuti (26 stranieri) su 103; a Fermo 43 (17) su 43. Per quanto riguarda Fossombrone i detenuti attualmente nella struttura sono 88 (2) su una capienza regolamentare di 182, ma c’è sempre da considerare il reparto chiuso per ristrutturazione. Trento. Gli avvocati contestano la riforma Cartabia Corriere del Trentino, 10 dicembre 2023 Gli avvocati trentini contestano la riforma della giustizia Cartabia. In un convegno hanno analizzato il testo elaborando un documento con alcune proposte. In primis si punta a rendere inappellabili tutte le sentenze di assoluzione. Più ombre che luci. La Riforma Cartabia “ha determinato una serie di gravi alterazioni processuali improntate a una logica di garantismo inquisitorio”, affermano le toghe trentine che a fine novembre hanno esaminato gli effetti della riforma nell’ambito delle “Giornate Tridentine della difesa penale” con un convegno. Il titolo dell’incontro organizzato dall’Ordine degli avvocati è eloquente: “Riforma Cartabia: un labirinto senza uscita”. Sul tavolo il testo che contiene le modifiche messe a punto dalla Guardasigilli Marta Cartabia, ma gli avvocati trentini sono andati oltre e hanno elaborato un documento che contiene una serie di proposte volte a “limare” le criticità rilevate nella riforma. E gli avvocati partono da un tema molto caro ai cittadini: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. La nuova riforma limita l’inappellabilità delle assoluzioni solo ai reati minori, portando “al paradossale esito - osservano - di ridurre le garanzie in proporzione della gravità dei reati”. I professionisti, nel documento (i primi firmatari sono Paolo Ferrua, Emanuele Fragasso jr, Gaetano Insolera, Maurizio Manzin, Bruno Montanari, Cosimo Palumbo, Gaetano Pecorella e Maria Anita Pisani) propongono l’inappellabilità di tutte le sentenze di assoluzione. In sintesi non potranno essere impugnate. Altro tema riguarda l’udienza preliminare. La riforma introduce l’0bbligo per il giudice dell’udienza preliminare di interrogarsi sulla ragionevole previsione di condanna dell’imputato. Gli avvocati propongono invece la soppressione dell’udienza preliminare, pertanto si salterebbe un passaggio andando direttamente a processo, o la sua instaurazione solo a richiesta dell’imputato. Sono diversi i punti elencati nel documento predisposto e gli avvocati puntano anche a istituire “un organo parlamentare bicamerale di vigilanza sulle interpretazioni “creative” - scrivono - della giurisprudenza”. L’obiettivo: proporre adeguati correttivi. Pescara. Un progetto per aiutare i giovani detenuti Il Centro, 10 dicembre 2023 Facilitare il recupero e il reinserimento nella società dei giovani detenuti attraverso lo sport. È questo l’obiettivo del progetto “Insieme con i giovani” che, a partire da gennaio e per 18 mesi, vedrà 10 ragazzi tra i 14 e i 24 anni di Montesilvano praticare pallavolo e beach volley insieme ai loro coetanei. L’iniziativa, proposta dall’asd Fuoriclasse di Montesilvano, in collaborazione con Sport e Salute Abruzzo e la Comunità Cooperativa sociale Ausiliatrice, si inserisce nell’ambito del progetto “Sport di tutti - Carceri” promosso dal ministero per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute Spa, la società dello Stato per la promozione dello sport e dei corretti stili di vita. Le attività sportive si svolgeranno al Palaroma e al centro sportivo Babilonia. A prendere parte alla presentazione del progetto sono stati il sindaco Ottavio De Martinis, l’assessore allo Sport e alle Politiche Giovanili Alessandro Pompei, il coordinatore territoriale Sport e Salute Abruzzo Domenico Scognamiglio e il vice presidente di Fuoriclasse Montesilvano, Teodoro Ivano Calabrese. “I ragazzi verranno inseriti all’interno dei nostri gruppi sportivi già esistenti e gli allenamenti si effettueranno al Palaroma, al centro Babilonia e in estate sulla spiaggia di Montesilvano”, anticipa Calabrese. “Oltre allo sport, sono previste anche attività di formazione per favorire la crescita della persona non solo dal punto di vista fisico, ma anche sociale e culturale. Sono previste poi attività di sensibilizzazione e collaborazioni con le scuole del territorio”. Siracusa, Concluso il progetto dell’Ulepe “Affidati e mettiti alla prova con senso di comunità” siracusanews.it, 10 dicembre 2023 Il percorso infatti oltre ad essere stato incentrato su incontri tematici di rieducazione, si è arricchito di una fase operativa: la partecipazione alla giornata nazionale dedicata alla colletta alimentare che si è svolta a Siracusa lo scorso 18 novembre. Nei giorni scorsi, alla presenza di tutti gli attori coinvolti, si è concluso il progetto “Affidati e mettiti alla prova con senso di comunità”, uno dei progetti in atto presso l’Ufficio di esecuzione penale di Siracusa del Ministero della Giustizia, che in collaborazione con l’associazione Kolbe Aps, per il terzo anno consecutivo, ha visto il coinvolgimento di persone in esecuzione penale in un percorso di legalità finalizzato alla rieducazione del reo ed alla riparazione del danno. Il progetto afferisce ad un nuovo paradigma di giustizia, la Giustizia Riparativa, non più con finalità esclusivamente rieducative ma anche di riparazione del danno effettuato nei confronti della vittima e della società, come spiegato da Maria La Gumina, Responsabile dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Siracusa. Il percorso infatti oltre ad essere stato incentrato su incontri tematici di rieducazione, si è arricchito di una fase operativa: la partecipazione alla giornata nazionale dedicata alla colletta alimentare che si è svolta a Siracusa lo scorso 18 novembre attività finalizzata alla raccolta di generi alimentali per la fascia più indigente della città, contribuendo alla raccolta di 1128 kg di alimenti. La partecipazione ad attività di senso civico costituisce un valore aggiunto nei percorsi riparativi anche per la prevenzione delle recidive. Hanno preso parte al progetto circa 15 soggetti in esecuzione pena che, riferisce la Coordinatrice Psicologa del progetto Alessandra Faino hanno partecipato attivamente ad una serie di incontri tematici su educazione razionale emotiva e sviluppo di social skills. Il presupposto è che sviluppare una maggiore consapevolezza di sé stesse e puntare sulle risorse personali dei soggetti, dando rilevanza alla persona è il punto di partenza per lo sviluppo di un maggiore senso di comunità e di cittadinanza attiva. Soddisfatto il Direttore Papa dell’Ulepe di Siracusa che nel ringraziare l’associazione Kolbe Aps ed i suoi collaboratori Reitano e Mudanò, sostiene l’importanza della collaborazione con enti ed associazioni del territorio per la promozione del senso civico e della legalità, in un’ottica del lavoro di rete. Ferrara. Si parla di Cpr con un documentario d’inchiesta e un incontro al Cinema Apollo ferraratoday.it, 10 dicembre 2023 Lunedì a partire dalle 18 è prevista una serata dedicata ad approfondire il tema dei Cpr, i Centri di Permanenza per i Rimpatri, veri e propri buchi neri del diritto e della nostra democrazia, ma che negli ultimi anni hanno unito centro-sinistra e centro-destra nelle politiche sull’immigrazione. In programma la proiezione del documentario “Sulla loro pelle”, di Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda, inchiesta vincitrice del Premio Morrione 2022. A seguire, la presentazione del rapporto “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr”, a cura di Federica Borlizzi e Gennaro Santoro. A Ferrara, in pochi se ne occupavano e molti ne ignoravano l’esistenza fino a quando non è trapelata la notizia di una struttura che potrebbe essere costruita nella zona sud della città. L’appuntamento è quindi l’occasione per saperne di più su queste realtà isolate ed inaccessibili dove viene detenuto non chi ha commesso reati, ma chi semplicemente non è in regola con i documenti. Persone che avrebbero bisogno di percorsi di inserimento legale o protezione umanitaria, piuttosto che di vere e proprie prigioni. Coloro che hanno visitato i Cpr ne hanno denunciato i gravi problemi: abbandono, disordine, abuso di psicofarmaci, autolesionismi, suicidi. Manca una vera tutela legale e non ci sono cure mediche adeguate. In più, le persone vengono spesso rinchiuse in una struttura lontana, quindi sono isolate da amici e familiari. E in queste condizioni, a impazzire senza fare niente, possono rimanere mesi e mesi. Messina. La Cattedrale apre le sue porte ai detenuti attori del carcere di Gazzi di Marco Olivieri tempostretto.it, 10 dicembre 2023 “InCanti sacri” di Mario Incudine è lo spettacolo in programma martedì 12 dicembre a Messina, abbattendo “barriere e pregiudizi”. La Libera compagnia del teatro per sognare non smette di sognare. E abbatte barriere e pregiudizi. Così i detenuti della Casa circondariale di Messina arrivano fino al Duomo, nella Cattedrale. Detenuti, ex detenuti, professionisti del teatro, della musica e della danza, studentesse dell’Università insieme per “InCanti sacri”. Musiche e parole di pace di e con Mario Incudine, cantante, attore, polistrumentista e regista siciliano. Si tratta di un nuovo progetto, con direzione artistica, di Daniela Ursino. Dopo “Contrada luna” a Tindari, un concerto-spettacolo in programma martedì 12 dicembre, alle 20.30, con l’Orchestra filarmonica di Giostra. L’iniziativa è stata presentata nel salone di rappresentanza del palazzo arcivescovile dall’arcivescovo monsignor Giovanni Accolla, la direttrice artistica Daniela Ursino, la direttrice della Casa Circondariale di Messina Angela Sciavicco, il direttore della Caritas diocesana don Nino Basile, il direttore dell’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali monsignor Giò Tavilla, il comandante Gianluca Pennisi, del Nucleo traduzioni e piantonamenti del carcere di Gazzi e Mariangela Bonanno, direttrice di “Studio danza”. C’è stato anche un collegamento telefonico con Mario Incudine (nella foto in alto con Accolla e Ursino). L’evento è stato fortemente voluto dall’arcivescovo, e ha ottenuto il patrocinio del ministero della Giustizia, all’interno del progetto “Il teatro per sognare”, ideato e organizzato da Ursino in qualità di presidente di D’aRteventi. Un progetto avviato nel 2017, nella Casa circondariale di Messina, con l’obiettivo di mirare alla rieducazione dei detenuti attraverso le arti e i mestieri del teatro. Lo spettacolo è prodotto da D’aRteventi, con il sostegno di Caritas e Uniuversità. Il concerto-spettacolo - Gli attori della Libera compagnia racconteranno la storia di Gesù nel presepe di San Francesco, in occasione degli 800 anni dalla prima rappresentazione, presentandosi a piedi nudi davanti all’altare, al cospetto del Signore alla presenza dei propri familiari, dei propri figli e al pubblico della città. Un segno che apre al valore della prossimità e accoglienza all’insegna dell’inclusività, quale significativa opportunità per prepararsi al Natale con sincerità di cuore. Da Accolla alla direttrice Sciavicco: “L’importanza di un progetto che invita a ricominciare” - Se è stato sottolineato l’elemento simbolico dell’incontro in Cattedrale, nel cuore della sacralità per i cattolici, tutti gli intervenuti, compresi gli ex detenuti Antonio e Lorenzo, si sono soffermati sull’importanza del progetto. “Il messaggio è che si può ricominciare, fare tesoro degli errori e ripartire”, ha sottolineato la direttrice Sciavicco. E il teatro aiuta a essere liberi e a trasmettere ciò che si è, in profondità. “I laboratori teatrali sono un impegno che i nostri detenuti attori svolgono con impegno e si crea una grande sinergia con le studentesse di Giurisprudenza e Scienze politiche e i professionisti, senza barriere”. Dalla Norvegia a Trento: la nuova Capitale europea del volontariato di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 10 dicembre 2023 La parola significa “lavorare insieme per una comunità migliore”: è l’eredità che la città norvegese di Trondenheim ha consegnato a Trento, che sarà la Capitale europea del volontariato nel 2024, durante una suggestiva cerimonia. L’apertura ufficiale in Italia il 3 febbraio con Sergio Mattarella. Dalla Norvegia al Trentino, il volontariato italiano torna protagonista in Europa: il testimone della Capitale europea del volontariato è passato infatti da Trondheim a Trento, con una cerimonia celebrata in un edificio postindustriale della città norvegese alla presenza di almeno 500 persone. A ritirarlo a nome di tutta la comunità trentina è stato il sindaco Franco Ianeselli, in una giornata che ha visto importanti momenti di ufficialità intervallati da una festa vera e propria, con musica e spettacoli. Non è mancato un omaggio all’Italia, con l’interpretazione di canzoni simbolo come Caruso, Volare e ‘O sole mio. Il cuore della cerimonia, alla presenza dell’ambasciatore italiano in Norvegia Stefano Nicoletti e di una delegazione dei circa mille connazionali che vivono nella regione, è stato quando il sindaco di Trondheim Kent Radum è salito sul palco per il passaggio di consegne ufficiale accanto al suo omologo trentino e a Gabriella Civico, direttrice del Cev, il Centro per il volontariato europeo. Dopo aver ringraziato per l’investitura, Ianeselli ha invitato il primo cittadino norvegese il 3 febbraio all’evento inaugurale di Trento Capitale europea del volontariato 2024. “Alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la cerimonia si preannuncia un’occasione straordinaria per mettere insieme le nostre esperienze e per ribadire che la cittadinanza attiva è il pilastro della nostra democrazia”, ha dichiarato Ianeselli. Che poi si è rivolto in questo modo ai cittadini norvegesi presenti all’appuntamento: “Trondheim è una città che mi ha affascinato e sorpreso. Qui ho trovato gentilezza, efficienza e passione. Qui ho imparato una nuova parola, Dugnad, che in poche lettere riassume un concetto immenso: lo “spirito di voler lavorare insieme per una comunità migliore”. Dugnad entrerà nel vocabolario della città di Trento nel 2024, sarà la parola-testimone, il filo rosso che unirà i volontari trentini ai volontari di Trondheim”. Durante la cerimonia è stata nominata anche la Capitale europea del volontariato 2025: sarà Mechelen, in Belgio, che ha vinto sulle altre due città spagnole in corsa, Salamanca e Avilés. La città di Trondheim ha celebrato l’anno che l’ha vista Capitale europea del volontariato con eventi, incontri e attività che hanno promosso le attività del Terzo settore. È stato inoltre creato il Frivilligforum, un luogo di incontro mensile per gruppi e organizzazioni di volontariato. Trondheim e la Contea del Trøndelag ospitano 14 centri di volontariato molto attivi e 1.500 organizzazioni di volontariato. Inoltre, più del 50 per cento dei residenti di Trondheim sono coinvolti in azioni di volontariato. L’ambasciatore Nicoletti si è detto orgoglioso della nomina di Trento a Capitale europea del volontariato e ha augurato che gli eventi previsti per il 2024 “aumentino ulteriormente la partecipazione dei cittadini alle attività di volontariato, che sono fondamentali per creare una comunità all’insegna della solidarietà, della partecipazione e della mobilitazione sociale, sportiva, culturale e ambientale”. Welfare, con 6 milioni di poveri serve la rivoluzione del “coprogettare” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 10 dicembre 2023 Coprogettazione anche con le aziende per le iniziative di sostegno ai lavoratori. Sistema classico fallito, ora si cambi”. Da competitor a partner, una rivoluzione tra pubblico e privato, profit e non profit. Con l’articolo 55 nel Codice del Terzo settore c’è uno schema operativo per passare dalla teoria alla pratica. Presa d’atto numero uno: “Veniamo da sedici anni di crisi ripetute e i modelli di intervento non hanno funzionato, il Paese si è impoverito e le disuguaglianze sono aumentate”. Presa d’atto numero due: “Il welfare nel suo modello tradizionale non funziona più”. Conclusione, cosa bisogna fare allora? Semplice: una rivoluzione. Culturale, radicale, profonda: e cioè costruire il nuovo welfare “insieme”. Tra pubblico e privato, non profit e profit, istituzioni e semplici gruppi di cittadini. Perché questo significano le parole “coprogrammazione” e “coprogettazione”. Già da molto tempo dette e ripetute in mille convegni. Ma ancora molto, troppo raramente tradotte in pratica. Non che sia una cosa facile, per carità: “Certo, non è un automatismo. Serve un cambio totale di mentalità”. I virgolettati sono di Franca Maino, docente dell’Università Statale di Milano, direttrice scientifica del laboratorio di ricerca Percorsi di secondo welfare e curatrice della sesta edizione del relativo Rapporto biennale appena presentato e il cui titolo - “Agire insieme. Coprogettazione e coprogrammazione per cambiare il welfare” - sintetizza di fatto ciò che la professoressa ha spiegato nel paragrafo sopra. Punto di partenza del Rapporto è l’analisi - partendo dai dati Eurostat - di come sta oggi il welfare italiano in un contesto di “policrisi” che vede da un lato la crescita dei bisogni (5,6 milioni di poveri, un abitante su quattro con più di 65 anni) e dall’altro un sistema sempre più incapace di rispondervi nonostante 561 miliardi di spesa sociale pubblica che nel 2021 erano il 30,7% del Pil, due punti sopra la media europea. A fronte di questo ci sarebbe il “secondo welfare”, e cioè il contributo di attori non-pubblici quali aziende, organizzazioni di Terzo Settore, sindacati, associazioni e gruppi di cittadini. Un universo in crescita, con iniziative di welfare aziendale per quasi 3 miliardi di euro e una platea potenziale di oltre sei milioni e mezzo di lavoratori; un salvadanaio filantropico da 9 miliardi tra donazioni individuali e istituzionali; e il capitale umano di 363mila organizzazioni di Terzo settore, con 870mila dipendenti e quasi 4,7 milioni di volontari. Qual è il punto? Quel che si è detto sopra: finché queste forze non vengono fatte lavorare “insieme”, superando gli steccati di sempre e anche l’abitudine del “si è sempre fatto così”, il risultato continuerà a essere quello di avere tipo una nave pronta usandola però come una barchetta. Eppure, sottolinea la professoressa Maino, esperienze nella giusta direzione e strumenti per accelerare non mancano. “L’articolo 55 del Codice del Terzo settore - ricorda - fornisce da tempo uno schema operativo per tradurre coprogettazione e coprogrammazione da teoria a realtà pratica”. Dopodiché il compito di muoversi chiama in causa tutti: “In primo luogo enti locali e istituzioni pubbliche, per chiamare al tavolo il Terzo settore non più solo se ci sono servizi da esternalizzare ma allo scopo di individuare prima e insieme bisogni e risposte. Tuttavia la collaborazione da cercare non è solo quella tra pubblico e privato. Va costruita anche tra non profit e profit. Oltre che tra realtà diverse del non profit”. Il Rapporto cita esempi virtuosi di buona relazione tra welfare aziendali e coprogettazione come le Reti territoriali di conciliazione, che in Lombardia promuovono iniziative e percorsi per meglio conciliare vita e lavoro; o come il ruolo delle Fondazioni di comunità nel facilitare le pratiche collaborative; o esperienze sul modello del progetto Cambia Terra con cui ActionAid Italia - proprio partendo da azioni di coprogettazione dei servizi nell’Arco Ionico - si propone di tutelare i diritti delle donne nell’agricoltura. La domanda è: quali sono state, finora, le resistenze rispetto a tutto questo? A rispondere è il sociologo Flaviano Zandonai, esperto di Terzo settore: “Più che in resistenze consapevoli il problema sta nel cambio totale di mentalità che questo passaggio richiede. Passare da una logica di competizione, che poi era anche la dinamica classica dei bandi e bene o male ha sempre caratterizzato tutti gli attori in campo, a una logica di collaborazione in nome di un obiettivo comune non è un cambiamento né immediato né semplice. Trasformare in partner quello che prima era un competitor è una rivoluzione culturale. Ma il salto da fare è quello”. E in effetti la coprogettazione è già diventata un requisito di molti bandi di oggi. “Ma per finire - chiude di nuovo Franca Maino - gli altri e non ultimi attori da chiamare in causa sono le persone. È a loro che bisogna chiedere quali sono i servizi che servono alla comunità. Coprogettare e coprogrammare, in definitiva, significa mettere le persone al centro. Cioè quel che si dice da sempre. Questa è la via per farlo”. Comunità di Sant’Egidio: “Aumentano povertà abitativa, lavorativa e sanitaria” di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2023 Due le proposte alle istituzioni, incentrate sul destinare parte dei fondi per la preparazione del Giubileo al sostegno delle famiglie in povertà assoluta: creare un fondo di sostegno alle locazioni, visto che quello per il contributo agli affitti e per la morosità incolpevole non è stato più finanziato; sfruttare l’enorme patrimonio immobiliare non occupato concordando con i proprietari immobiliari affitti calmierati (e sostenuti da un apposito fondo) a chi ne ha diritto. Povertà della strada, quella relativa ai senza fissa dimora, povertà lavorativa perché aumenta la percentuale di chi è povero anche se lavora, “i cosiddetti working poor”; povertà abitativa, perché aumenta la difficoltà di trovare un alloggio adeguato alle proprie disponibilità economiche e, soprattutto, a mantenerlo; povertà minorile che colpisce un milione 269mila minori (il 13,4% dell’intera fascia della povertà assoluta) con un peggioramento che interessa soprattutto la fascia tra i 4 e i 6 anni per il Centro e quella da 7 a 13 per il Sud. La dispersione scolastica - E ancora, povertà degli stranieri, povertà educativa con il “doloroso fenomeno della dispersione scolastica che in Italia raggiunge il 12,7 per cento, una delle percentuali più alte in Europa, mentre i Neet arrivano al 23,1”; povertà di futuro, poiché l’”Italia ha perso nel 2022, 179 mila residenti”, e non ultima la povertà sanitaria, “un’altra fragilità, emersa particolarmente con la pandemia, aggravata dalle conseguenze del carovita: oggi 2 milioni di italiani rimandano visite ed esami; 4 milioni si indebitano per curarsi e si calcolano 10 milioni di prestazioni sanitarie arretrate (screening oncologici o interventi chirurgici)”. Un italiano su dieci in condizioni di povertà assoluta - Sono le dimensioni della povertà analizzate e presentate dalla Comunità di Sant’Egidio in occasione della conferenza stampa “Dati e proposte sulla povertà - La nuova edizione della Guida “Dove mangiare, dormire, lavarsi” - Le cifre della solidarietà - Il #natalepertutti di Sant’Egidio con i poveri al centro”. Sant’Egidio ha rielaborato i recenti dati Istat e Censis alla luce anche dell’osservazione diretta della realtà socio-economica del Paese grazie alle proprie case dell’Amicizia, poli multifunzionali di accoglienza e assistenza, l’ultimo di recente inaugurato a Roma dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Secondo l’Istat, nel 2022, i poveri assoluti in Italia sono oltre 5 milioni e 600mila italiani, cioè il 9,7 per cento della popolazione (in crescita rispetto al 9,1% dell’anno precedente mentre 15 anni fa eravamo al 3,6%). “Praticamente - commenta il presidente di S. Egidio, Marco Impagliazzo - un italiano su dieci”. Le proposte - Due le proposte di Sant’Egidio alle istituzioni, incentrate sul destinare parte dei fondi per la preparazione del Giubileo al sostegno delle famiglie in povertà assoluta: creare un fondo di sostegno alle locazioni, visto che quello per il contributo agli affitti e per la morosità incolpevole non è stato più finanziato; sfruttare l’enorme patrimonio immobiliare non occupato concordando con i proprietari immobiliari affitti calmierati (e sostenuti da un apposito fondo) a chi ne ha diritto. La solidarietà - Quest’anno, segnato dalle conseguenze economiche e sociali delle troppe guerre in corso, dall’Ucraina alla Terra Santa, Sant’Egidio ha aumentato le sue attività a sostegno di persone fragili e vulnerabili. I suoi servizi di aiuto hanno raggiunto 40mila persone, di cui 20mila nella sola Roma. I pacchi alimentari distribuiti dall’inizio del 2023 sono 250mila, di cui 120mila nella sola Roma. Per rispondere ai crescenti bisogni, la Comunità ha anche aumentato il numero dei centri di distribuzione alimentare nelle 35 città in cui sono aperti i suoi centri, dal Sud al Nord, senza contare i Comuni minori in cui raggiunge persone e famiglie in stato di necessità. A Roma i luoghi di distribuzione, chiamati Case dell’Amicizia perché oltre all’aiuto concreto forniscono anche ascolto e informazioni, sono passati dai tre iniziali a 28, a Genova da quattro a 10. A raccontare la difficile situazione sono anche i 120mila pasti serviti quest’anno nelle mense di Roma, Genova, Novara, Frosinone e Lucca: il doppio rispetto agli anni pre-pandemia. Inoltre, sono stati 200mila i pasti distribuiti in un anno nelle cene itineranti in tante città, da Padova a Catania, da Torino a Napoli. Oltre 60mila i capi di abbigliamento donati a chi aveva bisogno. Sant’Egidio ha aiutato anche molte persone senza dimora, anziane o con disabilità che hanno chiesto aiuto: solo a Roma, oltre mille persone hanno usufruito delle convivenze avviate negli anni recenti. A Natale “aggiungi un posto a tavola” - Le attività di Sant’Egidio per non lasciare indietro nessuno comprendono anche la campagna solidale “A Natale aggiungi un posto a tavola”, grazie alla collaborazione delle compagnie telefoniche, di Rai, Mediaset, Sky, La7 e al sostegno di tanti, a cominciare dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Per regalare alle persone più fragili un pranzo degno del 25 dicembre, con un pasto abbondante, un dono e il calore di una casa, tutti possono contribuire, inviando un sms o chiamando da rete fissa il numero 45586, fino al 26 dicembre. Era il Natale 1982 quando, per la prima volta, alcuni poveri furono accolti nella basilica di Santa Maria in Trastevere. Da allora, il banchetto si è allargato e ogni anno coinvolge circa 80mila persone in Italia e 250mila nel mondo. Diversi sono i luoghi dove si apparecchia il pranzo: chiese, case, scuole, ma anche istituti per anziani, carceri e ospedali. A consentire la capillare attività di Sant’Egidio sono le migliaia di volontarie e di volontari, giovani e non, che ogni giorno si dedicano alle persone più fragili. Mai così tanti clochard nel centro di Milano. E aumentano gli italiani di Andrea Galli Corriere della Sera, 10 dicembre 2023 Emergenza nuovi poveri. Crescono gli italiani che vivono per strada: dopo la pandemia sono rimasti senza casa e lavoro. Qui intorno, da piazza San Babila a via Hoepli, sembrano litigare tutti quanti, si vede gente bisticciare nella hall d’un hotel di lusso, altri che si urlano in faccia al tavolo del ristorante, e perfino guardando in su non serve indugiare sulle ampie finestre degli assai luminosi appartamenti per scorgere, nella mimica di quelli che ci abitano, momenti di non pacifica conversazione. Sarà una serata storta, e comunque, problemi loro restano. O forse no. Passa un gruppo di ragazze, una sibila “tossica fai pena” a una donna che dorme per terra, sul pavimento, sotto i portici, dentro una casa costituita da una grande scatola di cartone dispiegata a formare quattro basse mura. Sibila così, se la ride, fila via. Gli abitanti di strada hanno sempre storie vere ed estreme, e non hanno, di solito, giacendo al gelo ed essendo il sonno una sfida alla sopravvivenza, tempo né voglia di raccontar balle. Che gli viene in tasca? Sicché, dopo aver incrociato, su un altro versante, ovvero dalla Galleria al Duomo e poi lungo corso Vittorio Emanuele insieme camminando per via Agnello come via San Paolo, parecchi africani del Sahel, reduci dalle traversate prima del deserto quindi del mar Mediterraneo, i quali, spesso ubriachi, a volte assenti da se stessi, s’affidano a una narrazione di tormenti e fantasmi, di vane richieste d’asilo e di ordini d’espulsione disattesi, dicevamo, dopo aver incrociato costoro eccoci alla casa di cartone e alla sua occupante. In realtà sono due, l’altro è il suo compagno, perso sotto un doppio strato di coperte. Ascoltiamo questo racconto della Milano reale, antitetica all’ormai noiosa filosofia da brochure d’una città meravigliosa senza problemi, un prodotto da vendere ai turisti, ai palazzinari, agli investitori arabi. “Io ho 45 anni e lui, il mio uomo, 52. Siamo italiani, il che è un casino: loro, gli africani, credono di essere gli unici a poter dormire per terra, provano a rubarti di tutto mentre dormi, infatti le cose preziose, tipo i centesimi e gli assorbenti, me le porto con me nel sacco a pelo. Veniamo dal Veneto, capita che ci torno per lavorare come donna delle pulizie, 6 euro l’ora, in nero, ovvio, ma chi se ne frega, non è una questione importante. Niente casa, con la pandemia e i mesi dopo sono successe un po’ di cose, intanto il mio uomo ha perso il lavoro, stava in una caffetteria importante ma il capo aveva, o avrà ancora, cavoli suoi, il vizio della cocaina, si è riempito di debiti, gli hanno portato via il locale, e i dipendenti sono stati spediti a casa. Il mio uomo stava nella casa della mamma, qui a Milano, una bella casa, ma sua madre non ne vuole sapere di avercelo intorno, l’ha cacciato anche lei come lo aveva cacciato in precedenza il proprietario del bar; a un certo punto finisci anche di mandare in giro curriculum, lascia perdere, a ‘sta età manco ti ricevono per il colloquio, oppure, sapendo benissimo che hai un bisogno disperato, ti offrono già al telefono condizioni di sfruttamento peggiori di quelle degli africani... Al diavolo. Oh, comunque, prima mi sono arrabbiata con quella che mi ha gridato “tossica”, dimmi di tutto, ma “tossica” no” ripete coprendo con la mano la bocca sdentata. Nell’annotare che in concomitanza con un generale aumento delle presenze si registra altresì l’aumento anche dei volontari, inquadrati in associazioni oppure, non di rado, itineranti in gruppi di amici che decidono di muoversi da soli distribuendo cibo, coperte e medicinali, resta, confermata da altri senzatetto, la casistica d’un calo della, chiamiamola così, classica solidarietà di strada. Un tempo ci si aiutava mentre ora, appena possibile, l’attitudine è quella anticipata dalla donna: depredare il prossimo tuo simile. Ovvio l’elenco dei beni ambìti a cominciare dalle calze di lana grossa e dalle scarpe meglio se di montagna poiché vale come eterno il principio esistenziale dei clochard per cui, se inizia a prenderti i piedi, in breve il freddo conquista il resto del corpo, e va da sé che negli ultimi giorni i gradi han preso a scendere di parecchio tanto che, pure a tarda ora rispetto alle canoniche fasce temporali delle operazioni di sdraiarsi sotto le coperte, tra le 21 e le 22, si sconfina oltre vagando alla ricerca di punti meno gelidi. In alternativa, si sceglie di tirare l’alba e buonanotte. Almeno si evitano i vigili. Dice la donna: “La polizia locale arriva alle sette del mattino, ordina di tirarti su, i vigili non vogliono la gente sdraiata sul pavimento, ti devi mettere in piedi e iniziare la giornata, che è pure peggio della notte, devi girare, mettere qualcosa nello stomaco, trovare un bar che non ti bestemmi dietro se chiedi di usare il cesso per lavarti faccia, ascelle, parti intime”. In Italia l’educazione sessuale a scuola è impossibile. E così cresciamo individui fragili e oppressi di Loredana Lipperini L’Espresso, 10 dicembre 2023 Impedire che nelle aule si parli ai bambini e alle bambine dei loro sentimenti e dei loro corpi equivale a soffocarli nei nostri ingiustificati timori. A perderli. E quindi a perdere l’anima e il futuro della comunità. Ricordiamo che figli e figlie non sono “nostri”. Sabato scorso, mentre si affollavano le piazze del 25 novembre, Pro Vita & Famiglia attaccava manifesti per le vie di Roma: vi si vede un bambino senza testa, con grembiulino arcobaleno, piede destro in un anfibio, piede sinistro in una scarpa (rossa) con tacco a spillo. Testo: “Basta confondere l’identità sessuale dei bambini nelle scuole”. Bisogna riconoscere a Pro Vita l’efficienza, perché il bambino con scarpe “gender” arriva a poche ore dalla richiesta comune di introdurre educazione sentimentale, affettiva, sessuale nelle scuole: ma la reazione degli oltranzisti non sorprende affatto. Semmai, fa tornare in mente Russell Banks, che nel 1991 scrisse Il dolce domani (ne venne tratto un film da Atom Egoyan nel 1997 e nel 2020 i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo ritorneranno sugli stessi passi con Favolacce). Per Banks, il dolce domani è il sogno perverso dell’America liberal, e quando racconta l’incidente di uno scuolabus, che precipita sul ghiaccio uccidendo la gran parte dei bambini della cittadina di Sam Dent, ha in mente altro: “Negli Stati Uniti - diceva - da una ventina d’anni qualcosa di terribile è accaduto ai nostri bambini. Li abbiamo persi. Una comunità che perde i bambini perde l’anima. L’America è in uno stato di crisi profonda, antropologica. Con la perdita dei nostri bambini, l’avvenire passa dietro di noi e ci lascia di fronte al dolce domani illusorio”. Perdere i bambini significa soffocarli con i nostri timori, allontanare da loro ogni possibile frustrazione, creare individui fragili che, un giorno, potrebbero essere sopraffatti o sopraffare. Perdere i bambini significa impedire sistematicamente che nelle scuole italiane si parli dei loro sentimenti e dei loro corpi: obbligatoria in quasi tutti i Paesi dell’Unione, l’educazione sessuale è praticamente impossibile nel nostro, le leggi presentate sono ferme o bloccate da anni e i progetti educativi boicottati. Nel maggio 1992 venne espulso dalle scuole Lupo Alberto, il personaggio a fumetti creato da Silver e scelto come protagonista della campagna contro l’Aids per spiegare ai ragazzi “come fregare il virus” usando il preservativo. Il ministero della Pubblica Istruzione fermò tutto perché “la parola profilattico non era opportuna”. Le cose sono peggiorate da quando, nel 2011, Benedetto XVI bollò l’educazione sessuale come “minaccia alla libertà religiosa contraria alla fede e alla retta ragione”, e si procede, ogni volta, con proteste e lettere di genitori e dei loro avvocati contro “l’ora di masturbazione” (sic). Eppure questa volta non avrebbero molto da temere dal progetto del ministro Valditara, che a quanto pare prevede poche attività riservate alla sola scuola secondaria, peraltro da sottoporre al controllo delle associazioni dei genitori. Uno di questi giustificò a Presa Diretta nel 2016 la propria contrarietà così: “Mio figlio è mio”. La cosa preziosa di oggi è allora Il Pifferaio di Hamelin, sia nella versione raccolta dai fratelli Grimm sia nella poesia di Robert Browning, The Pied Piper. Da qui trassero ispirazione Russell Banks e poi i fratelli D’Innocenzo, per ricordarci la stessa cosa: i bambini e le bambine, quando vengono oppressi dalle loro famiglie, si perdono. I vostri figli non sono i vostri figli, diceva il poeta, molto e molto tempo fa. Migranti. Vogliono impedire alla Chiesa di salvare i naufraghi di Erio Castellucci* L’Unità, 10 dicembre 2023 Ho usato alcune somme dalla “carità del Vescovo” per aiutare il soccorso in mare. È nei bilanci. Questo attacco mediatico vuol condizionare la libertà della Chiesa. Le notizie diffuse negli ultimi giorni dalla stampa nazionale, con ampio rilancio sui social e sulla stampa locale, riguardanti donazioni che le Diocesi italiane erogano alla ONG “Mediterranea Saving Humans”, toccano anche l’Arcidiocesi di Modena-Nonantola e alcune mie scelte. Contro ogni garanzia costituzionale, è stata diffusa parte della mia corrispondenza privata con Luca Casarini, totalmente estranea alle indagini in corso su “Mediterranea”. Senza entrare negli ambiti di competenza della Magistratura, nella quale ripongo la massima fi ducia, mi sembra opportuno diffondere questa Nota per offrire alcune informazioni relative alla sola Arcidiocesi di Modena- Nonantola. A partire dall’autunno 2020 ho deciso di aiutare “Mediterranea” elargendo periodicamente delle somme attinte alla “carità del Vescovo”, alimentata da diversi contributi (tra i quali una percentuale dell’otto per mille affi data al Vescovo per interventi assistenziali), offerte liberali ed eredità o lasciti ricevuti in diverse occasioni e per diversi motivi, destinati a progetti da me scelti o concordati con i donanti, secondo le loro intenzioni. La Chiesa, nella fedeltà al Vangelo, è sempre prossima, specialmente là dove la vita e la dignità umana sono minacciate: aiuta i bambini non ancora nati e le loro famiglie, opera per l’educazione, soccorre chi si trova in situazioni di povertà in Italia e nel mondo; difende chi è perseguitato a causa della fede in Gesù e assiste i fragili e i malati. Sono situazioni che richiedono quelle che il Catechismo chiama “opere di misericordia corporali e spirituali”, dedotte dal Vangelo, là dove Gesù considera fatto a se stesso il soccorso prestato agli affamati, assetati, poveri, malati, stranieri, carcerati (cf. Mt 25,31-46). Esistono una fame di pane e una fame di fede, una sete di acqua e una sete di senso, una povertà fisica e una culturale, una prigione del corpo e una del cuore, un’estraneità fisica e una spirituale, malattie che investono il fisico e altre che arrivano all’anima. L’intreccio tra necessità materiali e spirituali è l’orizzonte di intervento della Chiesa, da sempre. Si possono certo commettere degli errori nella destinazione degli aiuti, ma la Chiesa non può rinunciare a quella “storia della carità” tratteggiata da papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica. Con questo animo - lo dico molto umilmente - ho cercato negli anni di ministero a Modena di valutare anche la destinazione delle somme affidatemi; come parte di quel servizio ai poveri per il quale, nel giorno dell’ordinazione episcopale, ho promesso di impegnarmi: “Vuoi essere sempre accogliente e misericordioso, nel nome del Signore, verso i poveri e tutti i bisognosi di conforto e aiuto?”. Quando mi è stato chiesto aiuto per soccorrere persone in pericolo di vita nel Mediterraneo, ho perciò deciso di impiegare alcune somme dalla “carità del Vescovo”, tra le quali non pochi contributi finalizzati dagli offerenti stessi. E le ho indirizzate a “Mediterranea”, che per quanto potevo constatare stava intervenendo efficacemente. Queste somme, “scoperte” dagli organi di stampa - peraltro in realtà maggiori rispetto a quelle divulgate dagli stessi - in realtà erano state regolarmente contabilizzate dentro al bilancio della Diocesi, come le altre offerte liberali che partono dalla “carità del Vescovo”, tutte tracciabili attraverso i movimenti bancari. Le ho definite “una goccia nel mare”, e lo confermo, nonostante il sarcasmo di qualcuno: una goccia che è stata però utile per salvare la vita a qualche fratello e sorella in pericolo di vita. Con la “carità del Vescovo” in questi anni non sono stati aiutati solamente i migranti. A titolo esemplificativo, tra gli interventi con un contributo superiore ai diecimila euro, leggo dall’estratto conto degli ultimi due anni: un reparto maternità di un Ospedale in Tanzania; diverse esperienze di formazione della pastorale giovanile e universitaria dell’Arcidiocesi; la sistemazione di alcune canoniche ed edifici parrocchiali per i quali non erano sufficienti le offerte dei fedeli; la pubblicazione di libretti della collana “Figurae” sul Duomo di Modena e l’Abbazia di Nonantola; il sostegno economico ai presbiteri che conseguono titoli accademici fuori Diocesi; l’aiuto alla popolazione di Boa Vista, nell’Isola di Capo Verde, ridotta alla fame dalla pandemia; l’adozione a distanza di seminaristi nella Diocesi di Leopoli in Ucraina; il contributo alla ristrutturazione di una residenza parrocchiale per anziani a Modena; una somma consistente, in questo caso totalmente finalizzata dagli offerenti, per il progetto di avvio di due laboratori per detenuti nel Carcere Sant’Anna di Modena. Ritengo in conclusione che il fine principale di questo attacco mediatico, portato avanti con quel tono sprezzante che nasconde sempre carenza di ragioni, sia di condizionare la libertà della Chiesa, per impedire il suo aiuto ai migranti naufraghi. La Chiesa però continuerà ad annunciare il Vangelo, celebrare i sacramenti e aiutare i poveri, compresi quelli che si imbarcano nel Mediterraneo per fuggire dalla fame e dalle guerre. *Vescovo di Modena Medio Oriente. Emergenza a Gaza, l’Onu: “Si muore di fame, impatto catastrofico” ansa.it, 10 dicembre 2023 Almeno 1,93 milioni di persone, pari al 78% della popolazione di Gaza, sono già sfollati interni: lo rende noto l'Onu nel suo ultimo aggiornamento pubblicato dal “Guardian”. “Se Israele è al di sopra del diritto internazionale, bisognerebbe imporre sanzioni”. Si è espresso così al Forum di Doha il premier palestinese Mohammad Shtayyeh, secondo le dichiarazioni riportate da al-Jazeera. “A Israele non dovrebbe essere consentito di continuare a violare il diritto umanitario internazionale e il diritto internazionale - ha aggiunto. Vogliamo fermare le atrocità e il genocidio in atto oggi. La nostra principale preoccupazione non è il futuro, ma il presente”. Secondo la tv satellitare, durante l'intervento di Shtayyeh alcune persone hanno abbandonato la sala dei lavori. Oms: “La guerra sta avendo un impatto catastrofico sulla salute” - La guerra tra Israele e Hamas “sta avendo un impatto catastrofico sulla salute nella Striscia di Gaza”. Lo ha affermato il capo dell'Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. “L'impatto del conflitto sulla salute è catastrofico” e gli operatori sanitari stanno svolgendo un lavoro impossibile in condizioni inimmaginabili, ha dichiarato il direttore generale dell'agenzia sanitaria delle Nazioni Unite all'apertura di una sessione speciale del comitato esecutivo dell'Oms convocata per discutere le condizioni sanitarie nei territori palestinesi. Qatar: “Continuano gli sforzi verso una tregua” - Gli sforzi di mediazione per ottenere un cessate il fuoco, nella guerra tra Israele e Hamas, continuano nonostante gli incessanti bombardamenti israeliani che “riducono le possibilità” di “un risultato positivo”. Lo ha affermato il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani durante il forum di Doha. “I nostri sforzi, messi in atto insieme ai nostri partner, continuano. Non ci arrenderemo”, ha assicurato. Guterres: “Onu paralizzata ma non mi arrendo” - Il Consiglio di sicurezza dell'Onu è “paralizzato dalle divisioni geostrategiche” che stanno minando le soluzioni alla guerra tra Israele e Hamas. Lo ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, parlando al Forum di Doha, in Qatar. “L'autorità e la credibilità dell'organismo sono state gravemente minate” dal ritardo nella risposta al conflitto, ha affermato, commentando il veto degli Stati Uniti che ha impedito una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza. “Ho ribadito il mio appello affinché venga dichiarato un cessate il fuoco umanitario”, ha detto Guterres. “Purtroppo il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a farlo”, ha aggiunto. “Posso promettere che non mi arrenderò”. La sfida dei diritti. Il doppio premio alle donne (Nobel e Sakharov) fa paura all’Iran di Luca Miele Avvenire, 10 dicembre 2023 Bloccati a Teheran i genitori di Mahsa che all’Europarlamento dovevano ritirare il “Sakharov”. La Nobel Narges Mohammadi è in sciopero della fame, a Oslo il suo diploma verrà posato su una sedia vuota. Per Kiana e Ali quella sedia vuota è qualcosa di più di un mero effetto scenografico. È una ferita profondamente, intimamente conficcata nelle loro vite di diciassettenni. Quell’assenza - la stessa che domenica 10 dicembre risuonerà potente a Oslo durante la cerimonia per l’assegnazione del premio Nobel per la Pace alla loro madre, l’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi - è scavata da sempre nei loro giorni, li accompagna da anni, li tallona come un fantasma, come un incubo. “Ho dimenticato il suono della sua voce, la sua altezza, il suo aspetto. Ho accettato questa vita. È un dolore terribile vivere senza tua madre, ma non ci lamentiamo”, ha confidato Kiana a France 24. “Quando avevamo quattro anni, nostro padre andò in prigione. Da allora in poi, o lui o nostra madre, erano rinchiusi in un carcere. Ci siamo abituati a vivere senza l’uno o l’altro”, dice a sua volta Ali, suo gemello, prima di partire da Parigi, dove vivono, alla volta della capitale norvegese. E Kiana: “La rivedrò? Ho paura di no”. Non ci sarà a Olso Narges Mohammadi, che ha iniziato un nuovo sciopero della fame. Le porte del carcere di Evin, a Teheran, dove la donna è seppellita da una valanga di condanne, non si sono aperte: la giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani è stata arrestata 13 volte, condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Come non ci saranno, mercoledì a Strasburgo per la consegna del Premio Sakharov, i genitori e il fratello di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni morta mentre era in custodia presso la polizia morale iraniana perché “mal vestita”, la cui tragica fine ha “acceso” la rivolta in Iran del 2022. “Ai familiari di Mahsa è stato vietato di salire sul volo che li avrebbe portati in Francia nonostante avessero il visto”, ha fatto sapere l’avvocato Chirinne Ardakani. “I loro passaporti sono stati confiscati”, ha aggiunto. A Oslo ci saranno, invece, Kiana e Ali, accompagnati dal padre Taghi Rahmani. Avranno un ruolo importante: riempire quel vuoto, colmarlo con le parole della madre, quelle parole che tanto spaventano il regime iraniano. “Non siamo nervosi, siamo molto orgogliosi di poter essere la voce di nostra madre e fare del nostro meglio per far andare avanti le cose. Il premio rafforzerà la nostra determinazione ad arrivare alla fine”, ha raccontato Ali che, come la sorella, non vede la madre da nove anni e non la sente per telefono da almeno venti mesi. Il discorso scritto dalla madre - ha fatto sapere il marito dell’attivista - conterrà le parole chiave della lotta politica di Narges Mohammadi: “Libertà, uguaglianza e democrazia. Sono i concetti osteggiati dal regime. Sentirete parole sulla parità di genere, che per noi è un tema centrale. Narges chiede alla comunità internazionale di tenere alta l’attenzione sulla nostra gente che porta avanti la rivoluzione con azioni quotidiane. E che tornerà nelle piazze”. E ci sarà l’appello al mondo, alla comunità internazionale perché si scuota di dosso l’apatia, l’indifferenza, il silenzio. “Sono profondamente turbata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano”, ha scritto Narges Mohammadi pochi giorni fa, in una lettera “filtrata” dal carcere e pubblicata in esclusiva da Avvenire. “La macchina delle esecuzioni ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta”, è il grido di dolore della premio Nobel iraniana affidato alla missiva. Quella della repressione della protesta di piazza, sprigionatesi dopo la morte di Mahsa Amini, è una delle pagine più oscure della storia recente dell’Iran. Tutta ancora da scrivere. Un rapporto pubblicato da Amnesty International ha denunciato come “le forze di sicurezza e dell’intelligence” abbiano commesso “atti raccapriccianti di stupro e altre forme di violenza sessuale contro le dimostranti detenute in modo arbitrario durante le rivolte “Donna, vita, libertà” in Iran tra settembre e dicembre 2022. Giudici e pubblici ministeri sono stati complici di questo, ignorando o coprendo le denunce di chi è sopravvissuto”. Nessun funzionario “è stato messo a processo per stupro o per le altre forme di violenza sessuale” che vengono documentate nel rapporto. Secondo i dati raccolti da Amnesty, oltre 500 persone hanno perso la vita durante la repressione delle proteste da parte delle forze dell’ordine mentre gli arresti sono arrivati a quasi 20mila.