La vera riforma delle carceri passa dalla rieducazione di Franco Corleone L’Espresso, 9 aprile 2023 Il carcere si manifesta sempre più come il luogo di contraddizioni e di finzioni. Dallo specchio della composizione sociale della popolazione detenuta - tolti i 740 soggetti richiusi nelle sezioni speciali del 41bis e i diecimila ristretti nell’Alta sicurezza - si riflette un’umanità dolente costituita da consumatori e piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti vietate: stranieri, poveri, “borseggiatrici rom”, come è stato detto a sprezzo di razzismo, tossicodipendenti, secondo una definizione approssimativa. Le patrie galere, per i due terzi dei 56.319 prigionieri, di cui solo 2.425 sono donne, accolgono quella che icasticamente abbiamo definito come la detenzione sociale. Altro che il carcere come extrema ratio! E per questo luogo ineffabile si sono spesi fiumi di retorica maleodorante, imponendo slogan cattivi o fuorvianti, come “buttare la chiave” e “certezza della pena”. Il carcere della dignità e dei diritti rimane una utopia, a cominciare dal diritto all’affettività e alla sessualità che resta conculcato per moralismo perbenista. E con il Regolamento di applicazione dell’Ordinamento penitenziario disatteso dopo ventitré anni dalla sua adozione. Ha fatto bene Carlo De Benedetti, nel suo volumetto “Radicalità”, sul cambiamento necessario per l’Italia, a dedicare alcune pagine al senso della pena; anche se l’esempio di intervento proposto, cioè abbattere edifici storici come San Vittore e Regina Coeli, è sbagliato, oltre che improponibile per i vincoli di tutela culturale. Non abbiamo bisogno dì un ennesimo piano carcere, ma di una riforma profonda. D’altronde sappiamo tutto in termini di analisi almeno dal 1949, quando Piero Calamandrei dedicò un numero speciale della rivista “Il Ponte” a una inchiesta sulle carceri e sulla tortura ed Ernesto Rossi scriveva un pezzo intitolato “Quello che si potrebbe fare subito”, il quale conserva un’attualità disarmante. Il centro di gravità permanente, per dirla con Franco Battiato, dovrebbe rimanere l’articolo 27 della Costituzione con il precetto del reinserimento sociale dei condannati (anche se il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ne ha proposto uno stravolgimento). Come lo si può realizzare? Ho elaborato un’idea suggestiva riprendendola da un testo di Sandro Margara, che nel 2005 fu riversato in una proposta di legge presentata da Marco Boato. È una sperimentazione davvero originale: istituire delle “Case territoriali di reinserimento sociale” utilizzabili dalle persone con un fine pena sotto i dodici mesi (sono 7.259 soggetti; di questi, 1.471 hanno avuto una condanna sotto un anno, come denunciato dal garante nazionale Mauro Palma). Penso a piccole strutture, da cinque a 15 posti, dirette dal sindaco della città ospitante, senza polizia penitenziaria e con una presenza significativa delle associazioni del terzo settore e di educatori. Come ha dichiarato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non sarebbe conveniente l’evasione. Peraltro ricordo che una realtà simile era presente fino a trent’anni fa con oltre 200 case mandamentali riservate ai condannati a pene brevi irrogate dal pretore. Mi auguro che la proposta sia raccolta dal Parlamento. Col doppio risultato di abbattere il sovraffollamento e di favorire il reinserimento attraverso le relazioni in una comunità. Nordio non toglierà le sigarette ai detenuti anche se “affumicano” gli agenti di Fosca Bincher open.online, 9 aprile 2023 Anche se la richiesta veniva dal suo partito - Fratelli d’Italia - il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto un perentorio no: non verrà applicata nelle carceri italiane rigorosamente la legge anti-fumo. Perché la sola libertà che hanno i detenuti è quella di fumarsi una sigaretta in cella, anche se nei pressi ci sono agenti della Polizia penitenziaria cui potrebbe dare fastidio. D’altra parte anche ai condannati a morte nella storia si concedeva un ultimo desiderio, e spesso era proprio quello: fumarsi un’ultima sigaretta. A chiedere lo stop del fumo in carcere a Nordio era stato l’ex capogruppo di Fratelli di Italia nel consiglio regionale della Puglia, Ignazio Vullo, ora diventato senatore. Al ministro della Giustizia aveva segnalato una richiesta di un sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, che lamentava come “nonostante le leggi nazionali ed europee in vigore vietino il fumo in ogni ambiente lavorativo e, in alcuni casi, anche all’aperto, i poliziotti penitenziari verrebbero costretti dall’amministrazione penitenziaria ad inalare il pericoloso fumo passivo rilasciato dalle sigarette dei detenuti che sarebbero autorizzati a comprarle e a fumarle nelle zone detentive alla presenza di poliziotti e detenuti medesimi per l’intero turno lavorativo, con tutti i gravi danni che ciò comporterebbe alla loro salute”. La risposta scritta di Nordio è stata netta, spiegando che si toglie la libertà di sigaretta dietro le sbarre sarà ancora più difficile mantenere l’ordine in carcere. “Quanto alla doglianza circa il fumo passivo”, scrive il ministro della Giustizia, “va osservato che all’interno dei penitenziari il consumo di tabacco rappresenta una delle modalità compensative cui la popolazione reclusa ricorre a fronte del disagio derivante dallo stato di privazione materiale e psicologica connesso alla condizione detentiva; ragion per cui un intervento drasticamente riduttivo della possibilità di fumare potrebbe avere effetti destabilizzanti”. Palermo. Detenuto si toglie la vita nel carcere Pagliarelli blogsicilia.it, 9 aprile 2023 Un detenuto di 56 anni si è tolto la vita nel carcere Pagliarelli di Palermo. Filippo Giovanni Corrao è stato trovato impiccato. Sono intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria e i sanitari dell’istituto di pena che hanno cercato di fare di tutto per salvarlo. Al loro arrivo sanitari del 118 hanno constatato il decesso. Gli agenti della polizia penitenziaria e la direzione del carcere stanno cerando di ricostruire quanto successo. Il precedente - C’era stato a Palermo un altro suicidio in carcere, con un detenuto che si era stretto le lenzuola attorno al collo nel carcere maresciallo Di Bona, ex Ucciardone nella nona sezione a Palermo. Era stato soccorso dal personale in servizio e gli erano state praticate le prime manovre di rianimazione in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118. Poi la corsa in ospedale. Il personale di polizia in servizio, i medici e il personale infermieristico, anche in quel caso, avevano tentato di salvarlo. L’intervento dell’osservatorio Antigone - “Apprendiamo la notizia della morte del giovane detenuto nel penitenziario palermitano dell’Ucciardone. Una morte che si unisce ad altri casi. Ieri, infatti, un altro detenuto aveva provato a togliersi la vita a Caltanissetta. Di fronte a questa escalation è necessario che la politica faccia qualcosa”, aveva detto Pino Apprendi, dell’Osservatorio Antigone. “Tutto questo - aggiunge - accade nell’indifferenza di tutti a iniziare dai segretari di partito, che in questi giorni girano l’Italia per la campagna elettorale. A loro diciamo che dietro i numeri ci sono persone in carne ed ossa, quasi sempre giovani dei quali non si occupa nessuno”. Una vergogna che denunciamo da anni” conclude Apprendi. L’indagine statistica preoccupante - Nei giorni scorsi è stata pubblicata un’indagine inquietante che riguardava proprio le carceri siciliane. La Sicilia è la seconda regione in Italia, dopo la Campania, per numero di violenze sessuali in carcere secondo quanto aveva denunciato il segretario generale della Spp, un sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, per il quale gli stupri sono il propellente per i suicidi dei detenuti, fenomeno piuttosto esteso nelle carceri siciliani: altri ultimi due casi si sono registrati nei giorni precedenti nei penitenziari di Siracusa e Caltagirone. Il sindacalista aveva reso noto che la Campania presentava 20 casi, dopo di lei la Sicilia con 14. Cagliari. Suicidio al carcere di Uta, interviene Irene Testa L’Unione Sarda, 9 aprile 2023 La Garante regionale dei detenuti: “Chiederò un tavolo di confronto con sindacati e personale della struttura”. Sul caso del suicidio di Angelo Frigeri, trovato morto nella sua cella all’istituto penitenziario di Uta, interviene Irene Testa, Garante regionale delle persone sottoposte a privazione della libertà personale: “Persone con grandi disagi non possono essere gestite in carcere. Occorrono altre strutture. Chiederò un tavolo di confronto con sindacati e personale del carcere di Uta”. Testa inoltre aggiunge: “Ha ragione Michele Cireddu del sindacato di polizia penitenziaria della Uilpa: non si può continuare ad usare il carcere come contenitore di tutte le problematiche. Non si può pensare di gestire gli eventi critici di una struttura problematica come Uta con la carenza di personale idoneo a trattare situazioni di grande disagio. È necessario assumere personale, differenziare le strutture e dedicare maggiori risorse al carcere. Sono troppi i detenuti che si tolgono la vita in carcere. Nella giornata di ieri oltre a quello di Cagliari si è registrato un suicidio anche a Palermo”. “Per queste ragioni - conclude la garante - chiederò un tavolo di confronto con i sindacati di polizia penitenziaria e il personale del carcere di Uta”. Modena. Garante dei diritti dei detenuti, al via le candidature comune.modena.it, 9 aprile 2023 Domande fino al lunedì 8 maggio. La figura, a garanzia delle persone private della libertà personale, sarà eletta dal Consiglio comunale. Si è aperta la fase di raccolta delle candidature per la nomina a Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena. La figura, che opererà per i diritti dei detenuti e in genere per chi è privato o limitato nella libertà personale, è stata istituita, con voto unanime, dal Consiglio comunale che ha anche approvato il Regolamento con requisiti, funzioni e modalità dell’incarico. L’avviso per la presentazione delle candidature è pubblicato sul sito del Comune (sezione “avvisi”) da cui è possibile scaricare anche il fac-simile della domanda. Alla carica è preposto un cittadino italiano con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o nel campo delle attività socio-sanitarie negli Istituti di prevenzione e pena e nei Servizi sociali, oltre che con esperienze acquisite nella tutela dei minori. Possono presentare domanda coloro che non si trovino in una delle situazioni di incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità previste per la carica di consigliere comunale e che non siano stati condannati per un reato contro la Pubblica amministrazione. I candidati non dovranno, inoltre, essere membri del Governo o del Parlamento, presidenti di Regione, sindaci, consiglieri, assessori. Non possono essere candidati coloro chi svolge la professione forense o qualsiasi attività lavorativa da cui possa derivare un conflitto di interessi; in particolare, l’incarico è incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato con le amministrazioni soggette a controllo o vigilanza nell’esercizio del mandato. La stessa candidatura a elezioni politiche o amministrative costituisce causa di decadimento dalla carica. La domanda, accompagnata da curriculum, va inoltrata entro le ore 12 di lunedì 8 maggio, al presidente del Consiglio comunale tramite posta elettronica (presidente.consiglio@cert.comune.modena.it), a mano o tramite raccomandata A/R all’Ufficio Protocollo del Comune. Il Settore Servizi sociali svolgerà la fase istruttoria per quanto riguarda la verifica dei requisiti e la Commissione consiliare Servizi provvederà, previa definizione dei criteri di valutazione e comparazione dei curriculum, ad individuare i soggetti ritenuti maggiormente idonei a ricoprire la carica disponendo una rosa di massimo tre candidati da proporre al Consiglio comunale per l’elezione. Il Garante rimarrà in carica cinque anni e potrà essere rieletto per una sola volta. La carica è a titolo gratuito e al Garante, per la durata dell’incarico, spetta il rimborso delle spese di missione effettivamente sostenute e documentate e preventivamente condivise con il Comune, fino a un massimo di 5mila euro annui. Napoli. Questione minorile: così lo Stato tradisce se stesso di Giovanni Melillo* Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2023 A Napoli, la questione minorile è esacerbata, incredibilmente aggravata, da una speciale condizione di frammentazione del tessuto sociale e di debolezza delle politiche pubbliche di inclusione e integrazione sociale. Una condizione per larghi versi comune a quelle di Palermo o Catania e alle conurbazioni urbane che le circondano, ma che presenta ancor più drammatici profili. La questione minorile a Napoli si staglia come indicatore di ben altro: una sorta di effetto di dissolvenza delle promesse costituzionali di eguaglianza e progresso fondative della nostra Repubblica. Il lento inscheletrimento di parte significativa delle potestà pubbliche diverse da quelle su cui si fa sovente leva per eccitare sentimenti e bisogni securitari - magistratura e forze di polizia - è alla base anche della diffusione della mortifera idea che esista una governance illegale sostitutiva di quella che dovrebbe spettare alla pubblica amministrazione nei campi più diversi: dalle politiche del lavoro al decoro urbano, dalla gestione del patrimonio edilizio pubblico ai servizi sanitari. In particolare, l’impressionante povertà educativa che segna lo sviluppo dei giovani, l’elevatissimo tasso di dispersione scolastica e la siderale lontananza dei più dalla consapevolezza dei doveri di cittadinanza, non possono ridursi a mero e inevitabile riflesso di disagio familiare e sociale, poiché è anche il prezzo dell’indebolimento dell’idea stessa che compete alla Repubblica: assicurare l’educazione dei giovani e garantire e promuovere lo sviluppo della loro personalità. È un processo di dissolvenza, quasi cinematografico, su cui tutti dovremmo interrogarci. Siamo abituati a pensare che democrazia e libertà siano beni inconsumabili, ma, se privati del nutrimento dato da educazione, consapevolezza, solidarietà, capacità di ascolto e partecipazione, rischiamo di perderli. Tutto ciò sta già avvenendo e, davvero, credo che la questione minorile, come quella criminale nel suo complesso, siano allarmi potenti, ma inascoltati, di un rischio democratico. È antica la distinzione fra educazione e istruzione. La prima coincide con la conoscenza dei doveri. La seconda è condizione di esercizio dei diritti. Tocca alla Repubblica assicurare tali beni. E ripartirli in parti uguali. Ma la realtà rivela come al progressivo arretramento dello Stato nella garanzia dell’istruzione primaria e secondaria corrisponda l’esaltazione del peso delle differenze socio-territoriali, della qualità dei poteri locali, delle infrastrutture e dei livelli di spesa sociale qualificata. E su tutto ciò, nell’area metropolitana di Napoli come forse in nessun altro luogo, agisce come cappa asfissiante la pressione criminale. Non parliamo di luoghi sperduti ma di aree urbane di grandi dimensioni, di realtà dove il voto di un cittadino vale poche decine di euro, dove esistono comuni sciolti più volte per mafia. In un caso, persino 4 volte in trent’anni. Non sono queste autentiche condizioni di sofferenza della democrazia? Non si intravede la trasformazione dei caratteri della questione mafiosa? Naturalmente esiste e a Napoli è particolarmente visibile, una dimensione criminale oppressiva del vivere civile, ma le mafie sono ormai innanzitutto forza di trasformazione della violenza in ricchezza e della ricchezza prodotta - attraverso le leve della speculazione affaristica, della corruzione e della frode fiscale - in ricchezze sempre più grandi. Sono fattore non secondario dell’alimentazione finanziaria dei mercati d’impresa, e non soltanto delle regioni meridionali. Cresce così una domanda sempre più pressante di legittimazione sociale delle componenti più raffinate del ciclo mafioso, mentre prevalgono rappresentazioni fuorvianti e banalizzanti, che riducono la questione criminale mafiosa a ordine pubblico, relegandola nei confini della repressione. È preoccupante che a parlare di questo siano chiamati solo magistrati, questori e uomini di chiesa. Altri sono i luoghi dove dovrebbero trovarsi analisi, sintesi, traduzioni in nuovi indirizzi della sfera pubblica. Che la spesa per la protezione sociale e gli investimenti siano formidabili strumenti di contenimento dell’espansione del crimine organizzato è dato acquisito nelle scienze sociali. Ma le logiche e le dinamiche del crimine organizzato sono ridotte a poca cosa nel dibattito pubblico, prevalendo rassegnazione e indifferenza. Siamo abituati a non considerare il peso devastante che su tutto ciò hanno cose che noi normalmente consideriamo lontane dalle questioni criminali. L’urbanistica, per esempio. Le scelte fatte a Napoli sono una delle cause più significative della questione criminale e della devianza giovanile. Mentre la debolezza della domanda politica di servizi, educazione, welfare, inclusione e integrazione sociale contribuiscono sempre più all’aggravamento di una situazione nella quale i ragazzi di Secondigliano, un tempo città orgogliosa ed oggi area cittadina degradata e costretta al silenzio da un potente cartello mafioso, studiando o lavorando nel centro di Napoli se richiesti di dire dove abitano, mentono, per evitare di essere discriminati. Cosa c’è di più lontano di ciò dalla promessa di uguaglianza inscritta nel patto costituzionale? *Procuratore Nazionale Antimafia. Intervento tenuto in occasione del “Premio Frunzio”, dicembre 2022 Napoli. La prof che non si è arresa: “Amo Scampia, e ho lottato per la sua rinascita” di Francesca Barra L’Espresso, 9 aprile 2023 Elvira Quagliarella è arrivata nel quartiere napoletano quando era abbandonato alla camorra. Ha portato la cultura, cercando di dare le stesse opportunità educative a tutti. Perché in mezzo al brutto esiste il bello, anche se non fa notizia. “Amo Scampia e la sento come la mia terra. La amo incondizionatamente, nonostante le sue molteplici contraddizioni”. A parlare così di uno dei quartieri più noti in Italia è la professoressa Elvira Quagliarella, arrivata a Scampia a ventuno anni, quando questa era solo una terra deserta, sovrastata dal famoso complesso residenziale delle Vele. Che sono diventate presto l’unico simbolo della zona, inghiottendo tutto il resto, tutto il buono, tutto il bello che tentava di sopravvivere e di opporsi alla rassegnazione. La camorra si è impossessata del luogo facendolo diventare roccaforte dello spaccio di droga e delle più orribili attività criminali. Coinvolgendo intere famiglie e privando i bambini del diritto più puro all’infanzia, consegnando loro un destino già scritto. “Avevo visto morire sul selciato un ragazzo giovanissimo, uno dei tanti che quotidianamente approdavano a Scampia per una dose di eroina”, racconta la professoressa: “Ciò accadeva nei pressi della mia scuola, sotto gli occhi di tutti, ma nessuno osava intervenire perché terrorizzato dagli spacciatori. Non era la prima volta, ma ero, oltre che addolorata, stanca e indignata per queste scene atroci che mi si presentavano dinanzi quasi ogni giorno. Così decisi che avrei contribuito a un cambiamento”. Scampia diventa per Elvira il luogo predestinato; durante questi quarant’anni di insegnamento non ha mai mollato, opponendosi alla narrazione che sia solo un territorio “brutto, sporco e cattivo”. Lo sono l’isolamento e il pregiudizio. Un luogo diventa tale non solo quando le persone finiscono per essere invisibili, tranne che per episodi violenti, ma anche quando lo diventa il bene, perché non fa notizia. Tante associazioni da oltre un ventennio operano instancabilmente e lontane dai riflettori, creando progetti di inclusione e speranza: come con il progetto di Affido Culturale che, con Elvira e la dirigente dell’Istituto comprensivo statale Virgilio IV di Scampia, Lucia Vollaro, ha coinvolto 60 famiglie in appuntamenti culturali gratuiti in città, tra musei, cinema, teatri, librerie, fattorie didattiche e tante attività. “C’erano famiglie che non erano mai entrate in una biblioteca o in un museo. Bambini che non avevano mai visto il mare, che non sapevano cosa fosse un campo estivo, un laboratorio creativo; altri che non conoscevano il centro storico di Napoli e la sua storia, perché non tutti hanno le stesse opportunità”. Per contrastare la fascinazione delle organizzazioni criminali, che riescono a penetrare nei tessuti sociali imponendosi come unica possibilità di sopravvivenza, si dovrebbero offrire le stesse opportunità educative, riducendo le diseguaglianze sociali, i divari fra quartieri. “Se la (ri)conoscono, per forza scelgono la bellezza”, spiega Daniele Sanzone, scrittore e cantante della storica rock band di Scampia, ‘A67: “Per questo te lo nascondono il bello: hanno paura che diventi la tua arma contro la paura”. Come diceva Peppino Impastato. Basterebbe così poco, invece, se alle imprese dei singoli, dei cittadini più generosi, degli insegnanti come Elvira, si facesse percepire la mano costante dello Stato. Perché quando i fondi finiscono si rialzano i muri e tutto torna così com’era, quando non c’era speranza. E solo perché nessuno voleva farti scoprire “quel profumo di libertà”. Milano. Beethoven e Mozart per i detenuti di Opera: la musica classica dietro le sbarre di Giuseppina Manin Corriere della Sera, 9 aprile 2023 Il progetto ideato dalle Dimore del Quartetto in collaborazione con Cisproject e con il sostegno di Itsright. L’obiettivo è coinvolgere un gruppo di detenuti del carcere di Opera in un programma che coniuga parola e musica. In carcere Raffaele ci è nato. La madre, che a Forcella campava di contrabbando, per non essere arrestata, come Filumena Marturano, era sempre incinta. Ma il trucco non ha funzionato e Raffaele è venuto al mondo dietro le sbarre. Dove poi è uscito e rientrato infinite volte. Un via vai che somiglia a quello di tanti altri detenuti: l’isolamento forzato, la vita che si ferma, il tempo che si dilata. Eppure, in quelle tenebre emergono talora inattesi sprazzi di luce. Cosa può significare per chi ha provato solo degrado e violenza l’ascolto di un brano di Beethoven o la lettura di una poesia di Neruda? O magari l’incontro con la forma musicale più sofistica e emblematica di un vivere civile, il Quartetto d’archi. Il progetto MetaFour nasce così, ideato dalle Dimore del Quartetto con l’associazione culturale Cisproject e il sostegno di Itsright, per coinvolgere un gruppo di detenuti del carcere di Opera in un programma che coniuga parola e musica. L’esito lo si potrà sperimentare “sul campo” martedì 18 alle 20 alla Casa di Reclusione di Opera, aperta al pubblico previa prenotazione. “Il lavoro di preparazione è stato lungo e coinvolgente per noi e per loro - ricorda Francesca Moncada, presidente delle Dimore del Quartetto -. È il secondo anno che partecipiamo, la volta scorsa il tema era la Bellezza, stavolta la Speranza. Parola chiave in un carcere, stimolo per i detenuti a creare alcune poesie a cui abbiamo accostato proposte di ascolto, da Mozart a Beethoven, a Brahms”. I primi risultati sono stati sconvolgenti. “Beethoven non sapevo neanche chi fosse - confessa Mimmo, uno dei carcerati - Ma al primo ascolto ho sentito muoversi in me un “biscione” che mi scuoteva tutto. E sono scoppiato in lacrime”. “Un’esperienza incredibile per loro ma anche per noi - assicura Ida Di Vita, violinista del Quartetto Indaco - Abituati a ritmi forsennati e continue connessioni, il tempo sospeso del carcere ci ha spinti a condividere la loro esperienza di riflessione. E oggi il nostro modo di fare musica è diverso, più profondo”. A conquistare l’inedita platea, anche la singolarità di una formazione di quattro strumentisti, emblematica della capacità di convivenza, dialogo, rispetto reciproco. “Siamo fieri di aver sostenuto il progetto MetaFour e i suoi valori civili, per noi è una forma di restituzione a Milano e al territorio in cui operiamo - interviene Gianluigi Chiodaroli, presidente di Itsright, società di collecting dei diritti musicali con oltre 170mila artisti -. Inoltre la musica può diventare occasione di inventare, una volta scontata la pena, nuovi profili professionali. Questi primi incontri sono solo il prologo”. Complice la sensibilità del direttore di Opera Silvio Di Gregorio, gli interventi di “Liberamente”. “Da 15 anni offriamo ai detenuti laboratori di lettura e scrittura - precisa Barbara Rossi, presidente di Cisproject. Un impegno di rilievo, 20 ore alla settimana, per ampliare il vocabolario, aiutarli a esprimersi meglio, manifestare sentimenti rimossi. Per tutti un’esperienza rivoluzionaria”. Sciacca (Ag). I disegni di Disney colorano la sala colloqui tra detenuti e figli Giornale di Sicilia, 9 aprile 2023 Nel carcere di Sciacca è stata realizzata una sala colloqui con, sui muri, la riproduzione della piazza del paese e coloratissimi personaggi Disney. L’obiettivo è quello di mettere a disposizione dei bambini, che con il resto delle famiglie vanno a trovare i papà detenuti, un ambiente il meno traumatico possibile. È una delle iniziative realizzate nella casa circondariale dell’Agrigentino che sorge all’interno di un antico convento dei Carmelitani costruito nel 1200 e ospita 35 detenuti. L’idea di una sala colloqui così particolare è stata dell’Associazione di volontariato socio-sanitario ammessa dalla direzione a promuovere iniziative di assistenza materiale e psicologica. Sono stati i detenuti, con pennelli e colori, a partecipare al progetto contribuendo a trasformare la stanza, rendendolo un luogo più gradevole e accogliente. “Il nostro tentativo - dice Maricetta Venezia, presidente dell’Avulss - è stato quello di creare un ambiente più accogliente, soprattutto per mettere a loro agio soprattutto i piccoli, cercando di umanizzare il più possibile un luogo che, naturalmente, è fatto di fragilità e talvolta di angoscia”. Un’iniziativa che l’Avulss ha realizzato grazie anche alla condivisione dell’idea da parte del Centro servizi volontariato di Palermo e la collaborazione di due insegnanti del liceo artistico in pensione: Calogero Cantone e Calogero Cucchiara. Tra le altre iniziative in corso, una riguarda un progetto condotto dalla psicoterapeuta Maria Grazia Bonsignore su “Liberarsi dalla violenza” che, con colloqui e letture condivise nella biblioteca del penitenziario, tende all’affermazione di concetti di legalità e di contenimento della rabbia e del disagio. “Tutte queste iniziative - dice la direttrice Giovanna Re - sono il punto di forza della casa circondariale di Sciacca. Le abbiamo accolte favorevolmente perché indubbiamente alleviano le sofferenze e le difficoltà che quotidianamente affrontano i detenuti, non tralasciando il fatto che il nostro è un istituto che sorge in un edificio molto antico e che per questo ha problematiche strutturali che rendono le condizioni di vivibilità, sia degli ospiti che degli operatori, non del tutto ottimali”. “The Good Mothers”: se la realtà romanzata può rendere giustizia di Aldo Grasso Corriere della Sera, 9 aprile 2023 La serie diretta da Julian Jarrold e Elisa Amoruso tratta un tema difficile e spinoso come quello delle collaboratrici di giustizia con una scrittura molto coscienziosa. Per capire il senso delle polemiche suscitate dalla messa in onda di “The Good Mothers” bisogna partire da una constatazione: la serie diretta da Julian Jarrold e Elisa Amoruso è un ottimo lavoro. Un tema difficile e spinoso come quello delle collaboratrici di giustizia è trattato con una scrittura molto coscienziosa, ricca di soluzioni linguistiche che trasfigurano una storia “vera” in un vero racconto. Senza entrare nel merito delle proteste di Giuseppina Pesce, l’idea che il personaggio che la rappresenta non abbia nulla a che vedere con la storia reale della protagonista è un pretesto fragile. Non solo perché il “realismo” è una poetica fra le altre (tra l’altro, la serie è tratta dal romanzo di Alex Perry), ma soprattutto perché “The Good Mothers” rende giustizia a storie “invisibili” senza alcuna fascinazione per il male. Il crimine fa parte del “lato oscuro” della natura umana, e raccontarlo risponde al compito della narrazione, che è quello di “reinventare” la realtà, di sublimare i fatti veri con l’invenzione creativa. Il primo dovere di un autore non è copiare la realtà ma restituire la complessità del reale. L’inflazione non è uguale per tutti, colpisce soprattutto i più poveri di Francesco Saraceno* Il Domani, 9 aprile 2023 Il Fondo Monetario internazionale nel suo rapporto sulle finanze pubbliche sottolinea ancora una volta l’impatto redistributivo di inflazione e politiche monetarie restrittive, raccomandando trasferimenti mirati per proteggere i più vulnerabili. Se la politica monetaria è una mazza la politica di bilancio è un fioretto, che può contare su una pluralità di strumenti e può calibrare meglio le misure controllandone gli effetti a breve e a lungo termine. Anche la BCE oggi si preoccupa più della spirale prezzi-profitti che di quella prezzi-salari. Le misure adottate finora per tassare gli extra profitti sono probabilmente insufficienti. Il tre aprile è uscito il Fiscal Monitor del Fondo Monetario Internazionale, il rapporto semestrale nel quale l’istituzione di Washington descrive gli sviluppi recenti delle politiche di bilancio dei paesi membri e analizza le sfide per i decisori pubblici. Questo volume era atteso perché il FMI negli ultimi mesi ha molto insistito sull’impatto dell’inflazione sulla disuguaglianza e ha tenuto alta l’attenzione sui possibili effetti distributivi dell’aumento dei tassi. Il rapporto ricorda in primo luogo gli effetti redistributivi della fiammata inflazionistica: (a) l’aumento dei prezzi di cibo ed energia ha colpito soprattutto le famiglie più povere, per le quali questi beni costituiscono una proporzione maggiore del consumo. Spingendoci a sollevare la testa dal nostro ombelico, il rapporto ci ricorda che questo effetto è molto più pronunciato in paesi a basso reddito. (b) L’inflazione ha avuto un impatto marcato sul potere d’acquisto, non essendo i salari stati in grado di tenere il ritmo dell’aumento dei prezzi. (c) I debitori, soprattutto nei paesi con mercati finanziari e creditizi più sviluppati, hanno visto la loro posizione migliorare a scapito dei detentori di ricchezza. Incidentalmente, il rapporto nota come, almeno a breve termine, questo contribuisca ad alleviare la pressione sulle finanze pubbliche. Il fioretto della politica di bilancio - Abbracciando la strategia delle banche centrali, gli economisti del Fondo ritengono necessarie politiche restrittive per comprimere la domanda. Essi raccomandano poi che non sia solo la politica monetaria a frenare, ma anche quella di bilancio, in modo da limitare l’aumento dei tassi di interesse (se a frenare si è in due, ognuno dovrà frenare di meno). Essi aggiungono tuttavia che, sia pure in un contesto restrittivo, trasferimenti mirati potrebbero proteggere i più vulnerabili e far gravare il costo dell’aggiustamento principalmente sulle classi più agiate. I lettori del Diario Europeo sanno che chi scrive non condivide l’idea che sia necessaria una compressione della domanda per controllare l’inflazione. Tuttavia, il Fiscal Monitor è istruttivo. In primo luogo, perché mette al centro dell’analisi gli effetti redistributivi sia dell’inflazione che delle politiche volte a contrastarla; in secondo luogo, perché sottolinea come se la politica monetaria è una mazza, che spazza tutto sul suo cammino, la politica di bilancio è un fioretto che può contare su una pluralità di strumenti (tassazione, spesa, incentivi e sussidi, etc.) potendo calibrare meglio le politiche economiche e controllarne gli effetti a breve e a lungo termine. La spirale profitti-prezzi - Mettere la distribuzione del reddito al centro delle politiche pubbliche di rientro dall’inflazione pone inevitabilmente il tema dei salari e dei profitti. A lungo, nei mesi scorsi, le banche centrali e molti economisti hanno giustificato un ingiustificabile aumento dei tassi di interesse con il rischio di una spirale prezzi-salari: aspettative di inflazione avrebbero portato a rivendicazioni salariali, quindi ad aumenti dei costi, dei prezzi, aspettative di ulteriore inflazione, ancora rivendicazioni salariali e via di seguito. Questa spirale non si è materializzata: anche nei paesi dove il mercato del lavoro è stato più effervescente, come gli Stati Uniti, gli aumenti salariali non hanno tenuto il passo dell’inflazione e i salariati hanno visto il loro potere d’acquisto ridursi. Al contrario, come mostra uno studio della Banca Centrale Europea di qualche giorno fa, i profitti sono cresciuti considerevolmente, dato che molte imprese sono riuscite ad aumentare i margini di profitto soprattutto nei settori in cui la domanda è poco sensibile al prezzo (l’alimentare) o in cui si sono verificate strozzature della domanda (semiconduttori, ad esempio). Gli aumenti dei costi sono insomma in molti casi stati scaricati in modo più che proporzionale sui prezzi, gonfiando i profitti in modo ingiustificato. Addirittura, come notato recentemente dal membro del Comitato esecutivo della BCE Fabio Panetta, in molti casi i prezzi al dettaglio hanno continuato ad aumentare mentre quelli all’ingrosso calavano. Se di spirale si tratta, insomma, non è tra prezzi e salari, ma tra profitti e prezzi. Le politiche pubbliche, in particolar modo le politiche fiscali e di bilancio, devono trovare un modo di spezzare questa spirale. In primo luogo, per tenere sotto controllo l’inflazione, visto che la politica monetaria non può fare nulla contro rendite e comportamenti opportunistici. Anzi, l’aumento dei tassi, raffreddando l’economia e i mercati del lavoro rischia di aumentare il potere contrattuale delle imprese e quindi esacerbare il problema di margini di profitto eccessivi. In secondo luogo, almeno altrettanto importante, per porre un freno all’aumento della forchetta tra profitti e salari. La disuguaglianza è ormai il problema principale delle società occidentali, ed è arrivata a livelli tali da mettere in pericolo quel che resta del contratto sociale. Tassare le rendite, non i profitti - Nell’autunno scorso i paesi dell’UE hanno cercato di darsi delle politiche coordinate sulla tassazione degli extra profitti delle compagnie energetiche, che hanno preso forme diverse, pur essendo quasi ovunque temporanee (un “contributo di solidarietà”) e condizionali all’aumento dei prezzi oltre una certa soglia. Queste misure hanno due problemi: il primo è che probabilmente non daranno un gettito significativo e non consentiranno di redistribuire risorse ai contribuenti che più hanno sofferto dell’inflazione energetica. Per ovviare a questo problema basterebbe riformulare questo contributo eccezionale svincolandolo dall’andamento dei prezzi. I profitti, infatti hanno continuato a crescere anche quando i prezzi sono passati sotto alla soglia che fa scattare il contributo di solidarietà. Il secondo problema è più strutturale: le misure introdotte dai paesi europei penalizzano anche le energie rinnovabili e sono approssimative nel distinguere tra le normali variazioni cicliche dei profitti, che non dovrebbero essere tassate, e l’accumularsi di rendite. Ancora il FMI, in uno studio recente indica una serie di strumenti per tassare le rendite e non i profitti “normali”, così evitando di penalizzare investimento e crescita della produttività. La conclusione interessante dello studio è che questi strumenti dovrebbero essere permanenti e non temporanei, in modo da ridurre l’incertezza per le imprese, e che per accelerare la transizione ecologica dovrebbero essere concentrati sulle energie fossili ed evitare di inseguire le rendite (che pure esistono) dei produttori di rinnovabili. Se i margini di profitto sono a livelli eccezionalmente elevati, possono essere riportati verso i valori normali senza infliggere danni all’economia; al contrario, questo consentirebbe prezzi più bassi, minore disuguaglianza, e un margine di manovra per aumentare i salari senza effetti inflazionistici, consentendo ai lavoratori di recuperare il potere d’acquisto perduto (almeno) dal 2021. *Economista “Sono inconcludente e inutile”, un altro studente si toglie la vita di Chiara Sgreccia L’Espresso, 9 aprile 2023 Frequentava la facoltà di medicina, era fuoricorso. Il 6 aprile a Chieti un ragazzo di 29 anni si è suicidato. “Non possiamo più restare fermi davanti a tutto questo. Non si può morire di università”. È successo di nuovo: un altro studente universitario si è tolto la vita. Anche perché si è sentito inadeguato rispetto al percorso di formazione che aveva intrapreso. Aveva 29 anni, studiava medicina all’Università degli Studi G. D’annunzio, viveva a Chieti, in un’abitazione che condivideva con la sorella più grande, non lontana dalla facoltà. Su un block notes ha scritto un lungo messaggio, più di 40 pagine, per descrivere anche le motivazioni che non gli permettevano di stare bene: definisce la sua vita “inconcludente e inutile”, parla di un esame di Anatomia patologica che non riusciva a superare. Scrive di “bugie”, forse a proposito di esami non sostenuti. Si è tolto la vita il 6 aprile, ha ritrovato il suo corpo la sorella verso le 15 quando è rientrata a casa. “Gli studenti di medicina sono in piena sessione di esame. Che terminerà dopo le vacanze di Pasqua”, spiega Carmela Santulli, presidente dell’associazione studentesca dell’università D’annunzio “360 gradi” e rappresentante della consulta degli studenti. “È un periodo molto stressante, in tanti si scrivono agli esami per tirarsi, invece, all’ultimo perché non si sentono pronti”. Santulli racconta che gli studenti avevano già manifestato al Rettore la necessità di implementare i servizi per il benessere individuale. “Tra questi anche l’attività di counseling psicologico, che al momento procede con difficoltà per le tante richieste e la mancanza di personale”. “Siamo sconvolti”, ripete più volte Santulli con tono flebile. “Abbiamo saputo questa notte che uno studente di medicina si è tolto la vita. Purtroppo, però, non si tratta di un caso isolato: solo nell’ultimo mese sono venuta a conoscenza che ci sono stati altri due tentativi di suicidio. Il disagio tra gli studenti è evidente, non capisco perché se ne parli così poco. Perché non si cerca di risolvere il problema a monte: in tanti sono sotto stress. I disturbi alimentari e gli episodi di autolesionismo sono molto diffusi. Come l’uso degli psicofarmaci soprattutto per dormire”. L’università dovrebbe essere uno spazio creativo di crescita personale e culturale: “Una fucina di idee. E invece no. Pressione sociale, paura di fallire, sensi di colpa, bugie, il mondo universitario è diventato sempre più un luogo di depressione e ansia”, scrive l’Unione degli universitari che dalla Pandemia porta avanti un’intensa battaglia per la tutela della salute mentale. Tra le aule delle scuole e degli istituti universitari e anche in Parlamento grazie a una proposta di legge presentata il mese scorso. “Merito, depressione, suicidi: ora l’università va cambiata” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 9 aprile 2023 Intervista. Parla Alessandra De Fazio, studentessa di medicina e presidente del Consiglio degli studenti dell’università di Ferrara, che ha denunciato gli effetti drammatici del sistema neoliberale dell’istruzione davanti al presidente della Repubblica Mattarella: “Il diritto allo studio va veramente finanziato. E va creato un reddito di formazione che possa permettere a tutti di studiare e vivere. L’università dovrebbe virare da un sistema classista a uno accessibile, gratuito e garantito. Alle componenti studentesche consapevoli dico di non fermarsi davanti a una società che ha consumato tutto quello che poteva consumare”. Alessandra De Fazio, studentessa al quarto anno di medicina, presiede il consiglio degli studenti dell’università di Ferrara, durante l’inaugurazione dell’anno accademico alla presenza del presidente della Repubblica lei ha denunciato l’”università neoliberale” e gli effetti che produce sugli studenti. Quali sono? Senso di inadeguatezza, depressione, persino il suicidio. E questo vale specialmente per i più poveri, esclusi da un Welfare degno di questo nome e da un’idea di emancipazione. Questo è l’esito di un sistema governato sulla base di parametri che spingono gli atenei a mettere pressione sugli studenti a laurearsi in tempi brevi, ad essere “performativi”. Tutto ciò incide anche sul benessere psicologico dell’individuo. Com’è organizzata l’università neoliberale? È l’esito di un ciclo di riforme culminate con quella Gelmini nel 2010. L’università è gestita come un’azienda. Lo si vede dalla suddivisione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). La gestione della cosiddetta “quota premiale” ha trasformato i finanziamenti in premi per gli atenei più numerosi e performanti. Quelli piccoli ne ricevono una quota minore e sono considerati improduttivi. Si trovano costretti a decidere se alzare le tasse degli studenti o aumentare gli iscritti per concorrere ai “premi”. E hanno trasformato radicalmente la didattica e la ricerca che rispondono ai parametri stabiliti da un’agenzia chiamata “Anvur”. Noi studenti siamo bombardati da un sistema che ci sbatte in faccia i successi degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuna fallisce al posto nostro. “Sono un fallimento, non merito di vivere”. “La mia vita è inconcludente e inutile” dicono alcuni studenti, talvolta protagonisti di atti tragici. A cosa è dovuta una simile disperazione? Ci stanno insegnando che la legittimazione sociale è definita dalla realizzazione personale. È legittimato socialmente chi raggiunge i traguardi che la società impone. Questa idea è fondata su una falsa equivalenza per cui la realizzazione professionale di una persona coincide con l’utilità della stessa. Ma quando è stato deciso che per vivere bisogna essere solo e semplicemente utili? Lo studente non è più libero di seguire il proprio percorso, è costretto a agire più come una macchina o si sente trattato come un oggetto. In questa università l’obiettivo non è la formazione, ma l’essere legittimati socialmente attraverso il successo. Ma noi siamo già legittimati socialmente dal fatto che siamo persone autonome. Nel suo discorso ha detto che il sistema universitario è classista. Cosa significa? Le faccio l’esempio delle borse di studio. Sono un sussidio per chi non può accedere all’università. Però c’è una grande differenza tra chi ha genitori facoltosi e chi no. I primi possono pagare l’università per tanti anni i secondi no. Quando si prende la borsa si è obbligati a maturare crediti in un determinato tempo. Ma questo può anche non avvenire. Ho conosciuto studenti che piangevano perché, per un solo credito (Cfu), non hanno perso solo la borsa, hanno dovuto restituire tutto l’importo. E non hanno potuto più pagarsi l’affitto. Può immaginarsi gli effetti devastanti su queste persone, e sulle loro famiglie, dopo tanti anni di crisi. Quali soluzioni ci sono? Finanziare veramente il diritto allo studio. Creare un reddito di formazione che possa permettere a tutti di studiare e vivere. L’università dovrebbe virare da un sistema classista a uno accessibile, gratuito e garantito. La formazione non si merita, va garantita in maniera universale. Al ministero dell’Istruzione è stato aggiunto il concetto di “merito”. Che cosa significa per lei? Mi sembra un’idea distopica, forse l’hanno presa dal libro di Michael Young che ha immaginato un paese governato dalla “meritocrazia” nel 2033. Denominare così un ministero che non trova una soluzione ai problemi degli studenti, significa aumentarli. La meritocrazia è la versione ipocrita del privilegio. È una giustificazione della competizione in nome di un’uguaglianza fittizia. Luigi Marattin (Italia Viva) ha scritto che i concetti che lei sta usando anche in questa intervista “sembrano essere sostenuti anche da persone che hanno il doppio o triplo della sua età”. Cosa risponde? Non conosce il modo in cui si parla nelle aule universitarie in Italia. Non c’è nessuno meglio degli studenti che può parlare della propria condizione. Io ho 24 anni e mi assumo la responsabilità di ciò che dico. Ha chiesto alle autorità accademiche di “restituirci un mondo che possa davvero appartenerci”. E se non lo restituiscono pensa sia possibile andarselo a prendere? Io faccio parte degli studenti di Link e invito tutte le componenti studentesche consapevoli a non fermarsi davanti a questa società che ha consumato tutto quello che poteva consumare. E si è impadronita anche delle nostre soggettività. Cercheremo di fare sentire la nostra voce in qualsiasi momento. Non ci fermeremo. Questo è sicuro. “Borseggiatrici rom”… altro che inclusione: è campagna d’odio conto gli “zingari” di Dijana Pavlovic* Il Riformista, 9 aprile 2023 L’8 aprile è una data fondamentale per il popolo romanì. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e lo sterminio di rom e sinti da parte dei nazifascisti nacque in Europa un movimento che nel 1971 promosse il primo congresso mondiale, nel quale intellettuali e attivisti rom hanno definito le basi della nostra autodefinizione: non siamo zingari, siamo Rom, cioè uomini, un popolo con una bandiera e un inno. Da quel congresso nacque la Romani Union, riconosciuta nel 1979 dall’Onu. Da allora si celebra la Giornata internazionale del popolo rom, il Romano Dives, il giorno dell’autodeterminazione, orgoglio e unità di un popolo che solo in Europa conta più di 12 milioni di persone. Da allora molti lavorano, superando le barriere del pregiudizio e dell’odio, nell’idea che la nostra storia e la nostra identità devono essere raccontate da noi stessi, che la nostra identità è nelle nostre mani e soprattutto che la nostra “causa” è la liberazione dall’oppressione secolare attraverso la lotta e la rappresentazione politica. E ora, nel 2023 in Italia e in Europa, guardando le nostre comunità cosa vedo? L’Europa affronta contemporaneamente molteplici crisi - post pandemia, guerra in Ucraina e crisi economica e energetica - che mettono alla prova i valori dell’Unione europea, in particolare quelli che la differenziano da altri soggetti, come Russia e Cina. Se 12 milioni di rom e sinti rappresentano ancora il peggiore e il più drastico caso di esclusione e di disuguaglianza in Europa, la credibilità dell’Ue è alla prova, sia come sistema democratico che include le proprie diverse voci, sia come sistema economico che dovrebbe investire nella capacità di tutti per poter prosperare. L’antizigarismo, questa forma specifica di razzismo produce una diffusa discriminazione con conseguenze molto pesanti sull’inclusione sociale e civile di rom e sinti in Europa, determinando una disparità di opportunità, con effetti negativi per tutti, non solo sul piano dei diritti sociali, ma anche sul piano economico. Alcuni esempi concreti. La Banca mondiale dimostra che l’emarginazione sociale dei rom provoca reali perdite economiche: in Bulgaria, la perdita annua di produttività vale 526 milioni di euro e in Romania 887 milioni; le perdite fiscali annue vanno dai 202 milioni in Romania ai 370 in Bulgaria. Il riferimento è a Paesi con un’alta percentuale di popolazione romanì, ma questo effetto ha ricadute, in proporzione, in ogni Stato, compresa l’Italia. Altro esempio. In Europa preoccupa la dinamica demografica e del mercato del lavoro: entro il 2025, la domanda di lavoro supererà l’offerta in Paesi come Repubblica Ceca, Bulgaria, Germania, Ungheria e Slovacchia (Rapporto dell’Istituto di Vienna per gli studi economici internazionali). Entro il 2050 la popolazione in età lavorativa diminuirà di circa il 10% in tutta l’Unione europea (del 30% nell’Europa centrale, dati Eurostat). In un mondo sovraffollato forse si dovrebbe considerare non così grave la riduzione delle popolazioni dell’Europa bianca guardando alle grandi migrazioni provocate da guerre e miseria e tanto più guardando all’esclusione di 12 milioni di rom e sinti cittadini europei, una popolazione europea in grande crescita demografica, la cui esclusione produce un danno economico nell’immediato e tanto più in prospettiva. Non ci sono dati e statistiche su quanto l’esclusione di rom e sinti in Italia costa dal punto di vista economico allo stato, ma sappiamo invece che il livello di discriminazione nei confronti dei diversi gruppi etnico-linguistici in Italia ci confermano che i Rom sono il gruppo più discriminato ed emarginato del Paese. A causa di questa esclusione e discriminazione, le condizioni di vita delle comunità Rom e Sinti sono drammatiche. La disoccupazione “formale” supera il 50%; circa il 20% vive senza accesso ai servizi primari (acqua, elettricità, rete fognaria); l’aspettativa di vita media in Italia è, come a livello europeo, di 10 anni inferiore alla media nazionale e l’abbandono scolastico nel corso del ciclo primario e secondario di secondo grado supera il 20%. Questa situazione è stata ulteriormente esasperata dalla pandemia. L’Italia rinuncia con consapevolezza al potenziale economico, lavorativo, intellettuale e culturale delle nostre comunità, investendo malissimo e con spirito sbagliato, sperperando le poche risorse e aumentando l’esclusione sociale con un costo rilevante per le nostre comunità a cui si aggiungono ciclicamente campagne di odio. Esemplare da questo punto di vista è la campagna sulle cosiddette “borseggiatrici rom” che vede impegnate tutte le reti Mediaset da oltre un mese. La sovrapposizione tra la categoria borseggiatrici e la categoria rom costituisce una vera e propria campagna di odio e di criminalizzazione che va ben oltre la denuncia che una decina di ragazze rom borseggiano sui mezzi pubblici di Milano e Roma. Si glorificano azioni della “giustizia fai da te”, si provocano aggressioni fisiche e linciaggi di chiunque viene percepito come rom, perché si propaganda l’idea che rom è uguale a ladro. Inutile dire quanto questo incide sul livello di discriminazione e di odio che secondo l’Swg in Italia arrivava già al 78% della popolazione. Poi ci sono quelli che ci considerano solo bande di pezzenti che nella migliore delle ipotesi se non delinquono chiedono la carità, in ogni caso molestano i bravi cittadini, e chi invece con l’aria di chi ci tende una mano caritatevole ci dice che siamo senza storia, senza cultura e senza identità ma solo poveri da accudire. In tutti i casi nessuno vuole riconoscerci per quello che siamo. E questo avviene in barba alla Costituzione (art.3 e 6), alla Convenzione-quadro sulle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa (art.5 e relativa specificazione del Comitato degli esperti a proposito della minoranza di rom e sinti), legittimando la discriminazione anche a livello istituzionale, permettendo all’antizigarismo di assumere dimensioni pervasive nella società italiana. In questo quadro, a cui si aggiunge il mutamento del clima politico con un governo di estrema destra, il crescere dell’intolleranza e del rancore sociale, cosa ci aspetta? Una certezza c’è: chi sfida ogni giorno le persecuzioni e le discriminazioni della cultura maggioritaria e le conseguenze che queste hanno su di noi e sul nostro modo di vedere noi stessi, continuerà a combattere, a lavorare e a proporre soluzioni, avendo sempre davanti a sé la propria gente, la bellezza, la saggezza e la resistenza del popolo Romanì. *Portavoce del Movimento Kethane La legge Schlein sui diritti gay agita i cattolici dem di Alessandro Di Matteo La Stampa, 9 aprile 2023 Il Pd prepara una proposta. Zan: “La destra contro le famiglie arcobaleno. Sì alle adozioni e al riconoscimento dei figli”. Lepri: “Non si risolve così”. È stata una delle prime iniziative di Elly Schlein da segretaria e a breve diventerà una proposta di legge vera e propria: il Pd va avanti con la battaglia sui diritti per le famiglie arcobaleno, impegno preso dalla leader dem alla manifestazione di Milano a marzo. Tanto più di fronte a quello che Alessandro Zan definisce una “criminalizzazione delle famiglie omogenitoriali da parte del governo della destra, che fa come Orbàn in Ungheria”. Ma il tema è delicato, non solo a destra, visto che l’Europa intima a tutti gli stati di “tutelare i figli delle coppie gay”, come diceva venerdì a La Stampa il presidente della Corte di Giustizia Ue, Koen Lenaerts. Anche nel nuovo Pd i apre una faglia: l’ala cattolica del partito - che già da settimane ha fissato alcuni paletti - ora è ancora più in allerta dopo il varo di una segreteria molto a sinistra su questi temi. Già diversi esponenti di primo piano del Pd, nelle scorse settimane, hanno invitato a tener conto del pluralismo interno: Graziano Delrio, Pierluigi Castagnetti, lo stesso Romano Prodi. I cattolici chiedono pari dignità. Nella composizione della segreteria “un pizzico di attenzione in più sarebbe stata utile”, dice Alfredo Bazoli, deputato. E Stefano Lepri, membro della direzione e ideatore dell’assegno familiare unico, aggiunge: “La scelta della segretaria è legittima. Continuiamo certamente ad essere nel Pd. L’importante è che nel partito plurale siano rappresentate tutte le voci… Se venisse meno l’agibilità politica dovremmo riflettere”. Di certo, il tema dei diritti delle famiglie arcobaleno è nel Dna della nuova segretaria e la posizione del governo Meloni su questo argomento è un motivo in più per rilanciare la battaglia. Dice Zan: “La proposta di legge della maggioranza per rendere “reato universale” la “gestazione per altri” è solo un’ulteriore mossa della destra per colpire le famiglie omogenitoriali”. Il Pd non lo accetterà: “Nessuno di noi propone la legalizzazione della maternità surrogata. La nostra proposta prevede matrimonio egualitario, adozioni e riconoscimento dei figli alla nascita”. Precisazione non è sufficiente per i cattolici. Dice Lepri: “Che non si voglia legalizzare la maternità surrogata lo apprezziamo, vuol dire che ha fatto effetto la discussione sui limiti e sulla mercificazione del corpo della donna. Su tutto il resto però non si risolve così la questione. C’è un salto logico nel dire no alla maternità surrogata, però registriamo i figli...”. È questa la linea dei cattolici: no ad “automatismi”, l’adozione del figlio del partner si deve valutare “caso per caso”. Zan assicura che il confronto “ci sarà”, ma aggiunge: “Però c’è anche una linea chiara che è uscita da questo congresso. Si discute, ma poi si fa sintesi e si deve rispettare quello che hanno deciso gli elettori del Pd”. Buio sui diritti. I muri del mondo di Daniele Mastrogiacomo L’Espresso, 9 aprile 2023 “I diritti nel mondo sono sotto attacco”, ci dice Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, di cui fa parte dal 1980. Un osservatore attento e puntuale su una tendenza che mette a rischio i valori fondamentali della democrazia. Il rapporto appena pubblicato sul biennio 2022-202310 conferma. In che modo vengono attaccati? “Quest’anno ricorrono i 75 anni, della dichiarazione dei Diritti umani. Sono passati quasi inosservati. Il principale era il diritto alla protesta. Nel 2022 ce ne sono state in 87 Paesi. All’inizio pacifiche, sono poi scivolate nella violenza. E in quasi tutte è stata usata una forza eccessiva per reprimerle. Questo si traduce nel restringere sempre più ampi spazi di libertà. Si sopprimono perché producono richieste di cambiamenti. Guardiamo cosa è successo in Israele e cosa sta accadendo in questi giorni in Francia. È preoccupante”. Debolezza dei governi o rinuncia al confronto? “Negli ultimi 15 anni ci sono stati due momenti chiave per capire l’attuale crisi. Nel 2010 con l’avvio delle occupy, le primavere arabe, le tendopoli allestite in tutto il mondo. Avevano le stesse parole d’ordine: libertà, fine della corruzione, soprattutto riconquista della dignità. Quindi, il gelo. Fino al 2018 le persone erano convinte di potersi esprimere con un click o un like. Nel 2019 scatta la scintilla di cui non conosciamo l’origine. Il mondo intero, di colpo, ha capito che per ottenere delle conquiste bisognava impegnarsi. Con la testa e con il cuore. Milioni di persone sono scese in piazza chiedendo libertà e cambiamenti. Pensiamo a Hong Kong, al Cile, alla Colombia”. La crisi del voto, si è persa fiducia nella democrazia? “È entrata in crisi la rappresentazione più che la democrazia. Si è parlato poco dell’Algeria. È nato un movimento, I’Hirak, che è riuscito a dare una spallata a una parvenza di potere gestita da una persona espressione dei militari. Un movimento imponente che ha trascinato mezzo Paese per le strade. Lo Stato ha reagito con una repressione feroce”. Per paura? “Per paura del cambiamento. Le persone hanno capito che dovevano mobilitarsi perché nei Palazzi non trovavano una sponda. L’Iran è esemplare. Ha vissuto e vive una rivolta nuova. Non sono più le donne che si ribellano a 44 anni di discriminazione. La novità sono gli uomini che le affiancano nelle proteste. Questo terrorizza il potere. Le autorità hanno rinunciato alla mediazione. Sparano sulle folle per fare più male possibile. Non c’è dialogo, confronto. Si uccide. Con tattiche che abbiamo visto adottare sempre più spesso dal 2019: proiettili di gomma all’altezza degli occhi per gli uomini e agli organi genitali per le donne, fino alle granate usate in Iraq”. Stessa tendenza con la criminalità? Il Salvador sembra diventato una prigione… “Per combattere la violenza diffusa assistiamo alla normalizzazione dello stato di emergenza. Quando verrà abrogato, i codici ordinari saranno così intrisi di norme illiberali che nessuno ci farà più caso. Il caso Bukele, presidente del Salvador, ha tutte le premesse per diventare il vero emblema del 2022. L’1,5 per cento della popolazione è in carcere, 132 detenuti sono morti sotto tortura. Meno diritti e più sicurezza”. Ma Bukele ha enorme consenso… “Deve però tenere in carcere per tutta la vita chi arresta perché quando esce è più infuriato di prima; crea delle zone franche e altre totalmente impoverite. Molte delle persone finite dentro, magari solo per un tatuaggio al polso, erano quelle che davano da mangiare alle famiglie che ora si trovano senza più sostegno”. Pugno duro anche con i migranti. Frustati o deportati, bruciati nei centri, morti in mare... “L’approccio è diverso. È più sottile. Dopo i muri si usano i Paesi di partenza come dighe umane”. Accade con il Messico. “Non dimentichiamoci che questa pratica è iniziata con l’Australia. Per fronteggiare l’ondata migratoria si sono pagate la Papua Nuova Guinea e l’isola di Nauru. In Europa si è applicata con la Turchia nel 2016 e l’Italia con la Libia nel 2017. Stessa cosa accade nelle Americhe. È il gioco delle palline da ping pong. Da Nord a Sud. Tra Usa e Canada è stato aggiunto un protocollo su un accordo vecchio di 15 anni. Accolto soltanto chi arriva da un Paese sicuro. E il Canada considera tale solo gli Usa. Tutti gli altri trovano un muro e vengono spediti indietro. Dagli Usa tornano in Messico che a sua volta li respinge fino ai Paesi del Triangolo della morte e poi ancora in Venezuela o ad Haiti. La strategia è chiara: respingere e logorare. Lo vediamo nei Balcani”. Ma l’emergenza resta. Perché è un fenomeno epocale… “Non c’è nulla di nuovo in questa strategia. Spostare progressivamente le frontiere meridionali e orientali nei Paesi di partenza è una vecchia tesi. Oggi è applicata in modo più spregiudicato. L’Italia coopera con gruppi di persone che gestiscono pezzetti di territorio in Libia. È gente che a più riprese è stata denunciata per crimini contro l’umanità e che è sotto indagine da parte della Corte penale internazionale. Collaboriamo con dei criminali per frenare il flusso migratorio. Lo dice l’Onu, non Amnesty”. A quale prezzo? “A qualsiasi prezzo. Mutare un Paese come la Tunisia perché rischia il default in cambio di un blocco delle partenze fa parte della cooperazione. Può sembrare un accordo cinico ma ci può stare. L’errore è non rimuovere le cause che spingono le persone a fuggire: l’odio razzista instillato da chi governa nei confronti delle popolazioni subsahariane. Se non affronti questa verità non risolvi il problema. Non fai altro che dare soldi a un sistema che alimenta ciò per cui stai finanziando”. Medio Oriente. La tripla crisi che mina Israele di Stefano Stefanini La Stampa, 9 aprile 2023 Israele affronta la tempesta perfetta. Largamente autoinflitta. Il governo di estrema intolleranza, che Benjamin Netanyahu ha messo insieme per tornare al potere, ne ha creato le condizioni. Questa la differenza rispetto al passato. I nemici di Israele, che non mancano, ne approfittano. Per esistere e prosperare, lo Stato di Israele ha imparato a convivere col rischio. Dalla proclamazione, nel 1948, il neo-Stato indipendente è cresciuto in un campo minato. Per non saltare per aria ha dovuto proteggersi dagli scoppi quando avvenivano, disinnescare le mine quando possibile e trovare i passaggi per attraversare il territorio ostile che lo circondava. Ha fatto guerra e pace e tenuto a bada il terrorismo. Tutto questo preservando la democrazia su cui è stato fondato. Difesa e sicurezza fanno parte della quotidianità israeliana, ma senza minimizzazione dei rischi non sarebbero bastate a fare di Israele una storia di successo politico, economico e di alta tecnologia. L’attuale governo ha capovolto il paradigma. Per un misto di ideologia e di opportunismo, gioca d’azzardo ignorando i campanelli d’allarme. Ha inasprito ed esasperato l’irrisolto problema palestinese, e in parallelo dei rapporti interni con la minoranza arabo-israeliana; così facendo si è alienato le simpatie dei Paesi arabi con i quali si stava costruendo un’architettura strategica regionale; ha spaccato la società israeliana con una proposta di riforma illiberale che incrinerebbe una delle fondamenta della democrazia, la divisione dei poteri. I Territori occupati - la “Palestina” - sono l’epicentro delle tensioni. I palestinesi sono stanchi di aspettare il secondo Stato che da trent’anni (dagli accordi di Oslo, 13 settembre 1993) non arriva. Il processo di pace è ormai storia, per responsabilità in gran parte loro, senza però soluzione alternativa ai due Stati che in teoria rimane l’obiettivo. Intanto, lo status quo è un compromesso di convenienza: lascia una vecchia e stanca Autorità palestinese al potere a Ramallah, senza elezioni, in cambio della collaborazione nella sicurezza, essenziale per gli israeliani. Queta (relativamente) non movere. Il nuovo governo israeliano ha sconvolto il fragile equilibrio. Punta ad un ulteriore espansione delle colonie e non nasconde velleità di annessione. I palestinesi, specie le giovani generazioni, cercano altre soluzioni, anche violente. La protesta contagia la minoranza arabo-israeliana che vede Ministri di governo apertamente ostili. La contesa spianata di Al-Aqsa si infiamma. La polizia e le forze armate israeliane rispondono con durezza. Vittime da entrambe le parti. Hamas da Gaza e Hezbollah da Libano meridionale ci vanno a nozze con gli immancabili razzi e, peggio, ispirando il terrorismo “fai da te”, come l’attentato di cui è rimasto vittima a Tel Aviv, città cosmopolita e aperta, Alessandro Parini. Dai razzi Israele sa proteggersi, contro un’auto omicida non c’è difesa. Per Netanyahu è ora difficile spezzare il ciclo di violenza. Tolleranza zero sul terrorismo è fuori discussione, e non solo in Israele. Il problema di fondo però è il connotato fortemente antiarabo e pan-ebraico di molti suoi alleati di governo. La loro politica antipalestinese gli sta già creando difficoltà con i Paesi del Golfo, specie con l’Arabia Saudita che invece sta ricucendo con l’Iran. Questo metterebbe in forse l’intera strategia degli Accordi di Abramo che puntavano anche al contenimento di Teheran. Ma la sfida principale è interna: la società israeliana è in rivolta, pacifica ma vibrante, contro la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu - anche per proteggere sé stesso. Sono scesi in piazza militari, imprenditori e funzionari dello Stato. Ne va della democrazia israeliana. La riforma è per il momento ‘sospesa” ma non ritirata. Se si divide nel momento del bisogno, Israele entra in una vulnerabilità senza precedenti. Hamas e Hezbollah non aspettano altro. Medio Oriente. La scomparsa del sogno palestinese di libertà è una questione globale di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 aprile 2023 Intifada popolari, diplomazia a perdere, lotta armata dalla vita breve, attacchi individuali: nulla ha scalfito il sistema di segregazione israeliano. Perché questi “fallimenti” hanno un responsabile: la complicità internazionale verso il colonialismo d’insediamento, di cui oggi sono volto sia il governo di estrema destra sia le proteste israeliane contro Bibi. Venerdì sera le notizie si inseguivano confuse. Un attentato a Tel Aviv, una sparatoria, poi un’auto lanciata sulla folla. Quattro feriti, sette, un morto, un italiano, Alessandro Parini. Ieri i dubbi sulla terribile vicenda non si erano dissipati, neppure per la polizia israeliana: attentato, dunque atto volontario, o drammatico incidente. Resta una certezza: la questione israelo-palestinese non è relegata a quel pezzo di terra, ha conseguenze nella regione e nel mondo. Non è la prima volta che un cittadino italiano le subisce. Nel marzo 2002 il fotoreporter Raffaele Ciriello fu abbattuto da una raffica di mitra dell’esercito israeliano durante l’assedio di Ramallah, in piena Seconda Intifada. Nell’agosto 2006 Angelo Frammartino, volontario, morì accoltellato da un palestinese nella Città Vecchia di Gerusalemme. E nell’aprile 2011 l’attivista Vittorio Arrigoni fu rapito e ucciso da una banda di islamisti nella Gaza diventata sua seconda casa. Non solo italiani, una su tutti la statunitense Rachel Corrie schiacciata da un bulldozer israeliano a Rafah, venti anni fa. La questione palestinese è globale. Lo è per l’effetto destabilizzante che continua ad avere in Medio Oriente ma soprattutto per le contraddizioni che squarcia in un Occidente che non sa chiamarla con il suo nome: un colonialismo d’insediamento che da 75 anni impedisce l’autodeterminazione di un popolo in diaspora continua. Gli effetti, rivoli di violenze e ingiustizie, colpiscono in crescendo dentro i suoi confini (solo nel 2023, 94 i palestinesi uccisi da esercito israeliano o coloni, 17 gli israeliani) e oltre. E spingono ad analizzare le ragioni dietro atti che da anni ormai definiscono il perimetro della reazione palestinese a un orizzonte che non c’è. Attacchi individuali, spesso commessi da giovani e persone estranee a partiti o movimenti strutturati, che assumono su di sé la dolorosa incapacità di dare forma a una resistenza politica organica. Poco conta la rivendicazione che sempre segue, il cappello che ci mettono le sigle più note, sia Hamas o la Jihad Islami. Dalla fine della Seconda Intifada, il popolo palestinese è caduto in un buco nero. L’assenza di una leadership politica, l’ingombro di un guscio vuoto istituzionale (l’Autorità nazionale palestinese), la crescita degli islamisti, la morte cerebrale dell’Olp, l’indifferenza dei paesi arabi hanno aperto un divario sempre più incolmabile tra i vertici e la base. Le conseguenze le vediamo: oltre agli atti individuali, a emergere in questi mesi è una nuova forma di lotta armata in Cisgiordania che ha vita breve come quella dei suoi combattenti, seguiti e “neutralizzati” uno a uno dalle incursioni sempre più violente dell’esercito. Non è un caso che siano le iniziative popolari, apartitiche ma profondamente politiche, le sole in grado di generare un reale coinvolgimento di massa in ogni enclave della Palestina storica. Come la Grande Marcia del Ritorno, lanciata a Gaza nel marzo 2018, o la mobilitazione contro gli sgomberi di decine di famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella primavera del 2021. Cos’è cambiato nella percezione internazionale della questione palestinese o nella reazione israeliana? Nulla. Due Intifada popolari, con la loro portata di disobbedienza civile e partecipazione totale, di classe e di genere, non sono riuscite nemmeno a intaccare il sistema di segregazione israeliano. Non c’è riuscita l’Olp di Arafat, calpestando i sogni di libertà palestinesi pur di ottenere un pezzo di terra da chiamare Stato. Non ci riesce, ovviamente, l’Anp di Abu Mazen che in cambio di una bandiera e di una distribuzione elitaria di ricchezze ha abdicato a qualsiasi forma di movimento di liberazione. Cosa può mai nascere da folli atti di violenza di singoli, mossi non dalla speranza di libertà ma dalla disperazione per la scomparsa non solo di un futuro, ma anche della capacità di immaginarlo? Perché questi fallimenti hanno un responsabile: la complicità della comunità internazionale verso un colonialismo d’insediamento che nei decenni si è radicato fino a tramutarsi in ciò che organizzazioni internazionali, palestinesi e israeliane non temono di chiamare apartheid. Etnocrazia, il termine che usano in tanti e che appare il più consono di fronte sia alla radicalizzazione nazionalistico-religiosa assunta dagli ultimi governi israeliani sia alle proteste di questi mesi. Un’apparente contraddizione, viene da pensare vedendo un’ampia fetta della popolazione israeliana, di diversa appartenenza sociale e politica, ribellarsi alla riforma della giustizia teorizzata dal premier Netanyahu e dall’estrema destra. Non lo è. Quella mobilitazione, storica, è una mobilitazione conservativa, volta cioè al mantenimento dello status quo e che finge di non vedere il vulnus che da 75 anni impedisce di definire Israele una democrazia (e di cui il sistema giudiziario è uno dei fautori): l’esistenza di sei milioni e mezzo di palestinesi, di qua e di là dal Muro, sottoposti a identica autorità nello stesso territorio ma privi dei diritti di sei milioni e mezzo di israeliani ebrei. Lo dice il modo in cui la mobilitazione si è per ora spenta, sopravvivendo in numeri ristretti e discontinui: per fargli digerire il rinvio della riforma, Netanyahu ha promesso al ministro razzista Ben Gvir una milizia anti-palestinese, fuori da ogni diritto. Le piazze si sono svuotate, nessuno ha fiatato. Afghanistan. Dai talebani stop alle donne nell’Onu di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 aprile 2023 In segno di solidarietà per l’ennesima discriminazione si fermano anche gli uomini. Resteranno a casa in segno di solidarietà. Gli uomini afghani che lavorano per le Nazioni Unite a Kabul si asterranno dal lavoro per mostrare il loro sostegno alle colleghe dopo che i talebani hanno proibito alle donne afghane di lavorare per l’organizzazione. Il personale internazionale delle Nazioni Unite in Afghanistan rimarrà al proprio posto ovviamente ma l’Onu ha condannato fermamente questo provvedimento che altro non è che un’estensione di un precedente divieto, applicato lo scorso dicembre, che proibisce alle donne afghane di lavorare per organizzazioni non governative nazionali e internazionali. “Nella storia delle Nazioni Unite, nessun altro regime ha mai cercato di vietare alle donne di lavorare per l’Organizzazione solo perché sono donne. Questa decisione rappresenta un attacco contro le donne, i principi fondamentali delle Nazioni Unite e il diritto internazionale”, ha spiegato Roza Otunbayeva, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan. Oltre alla palese violazione dei diritti umani, il danno economico è evidente. Dopo che i talebani hanno bandito le operatrici umanitarie a dicembre, almeno una mezza dozzina di importanti gruppi umanitari stranieri hanno temporaneamente sospeso le loro operazioni in Afghanistan, diminuendo le già scarse risorse a disposizione di un Paese che ne ha un disperato bisogno. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno congelato circa 7 miliardi di dollari delle riserve estere e tagliato i finanziamenti internazionali, paralizzando un’economia fortemente dipendente dagli aiuti esteri. Più di 28 milioni di persone in Afghanistan - circa due terzi della popolazione - hanno bisogno di assistenza umanitaria. Molte famiglie stanno affrontando una “fame catastrofica” e il rischio di carestia, con le scorte di cibo che si esauriscono mesi prima del prossimo raccolto. L’ultima cosa di cui ha bisogno l’Afghanistan dunque è che le donne stiano a casa.