Quei detenuti che finiscono di scontare il 41 bis, ma ci restano perché internati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2023 Sono sei gli ex detenuti che restano in regime speciale dopo aver finito di scontare la pena. La denuncia del Garante: dovrebbero avere un trattamento diverso, come ha ribadito la Consulta, ma vivono con la durezza di prima e senza un vero lavoro. Hanno finito di scontare la pena al 41 bis, ma vengono raggiunte da una misura di sicurezza e rimangono nello stesso regime speciale. Non vengono più definiti detenuti, ma internati. Ce ne sono centinaia, ma di internati al 41 bis attualmente ne risultano 6, e sono reclusi al carcere di Tolmezzo che teoricamente è una casa lavoro. Il Dubbio se ne è occupato spesso, ma ora il Garante nazionale delle persone private della libertà, nel suo ultimo rapporto tematico, dedica un capitolo molto significativo. Il Garante sottolinea che non cessa lo stupore nel ritrovare persone che hanno concluso l’esecuzione penale e che sono soggette a misura di sicurezza, sulla base della persistente previsione del cosiddetto “doppio binario” nel nostro codice penale e che eseguono tale misura in regime del 41 bis. È vero - osserva nel rapporto - che le formulazioni restrittive elencate nei diversi commi di tale articolo si riferiscono lessicalmente sempre - o quasi - a “detenuti e internati”. Così come, è altrettanto vero che la Corte costituzionale chiamata a esprimersi su tale ipotesi ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Prima sezione della Corte di Cassazione relativamente alla possibilità di applicazione delle misure di restrizione e controllo indicate al comma 2-quater dell’articolo 41-bis, anche nei confronti di persone internate per l’esecuzione di una misura di sicurezza detentiva. Tutto vero, ma il Garante nazionale sottolinea che “non può esimersi dal manifestare l’incongruenza di una misura di sicurezza formalmente definita come “assegnazione a una Casa di lavoro”, adottata anche nei confronti di persone che hanno anagraficamente superato l’età lavorativa e, soprattutto, priva di contenuto che possa essere classificato come “lavoro”“. E denuncia che alle sei persone destinatarie di tale misura e ristrette nell’Istituto di Tolmezzo non viene proposta alcuna attività configurabile, appunto, come lavoro, se si esclude l’impiego solo di alcuni di loro all’interno di una serra per un totale al più di un’ora al giorno. “Il tutto - si legge sempre nel rapporto tematico - in un contesto in cui la materialità della giornata si svolge in modo strutturalmente identico a quello delle persone detenute e non internate in tale regime, con l’aggravante dell’indeterminatezza della fine non solo dell’applicazione del regime speciale, ma anche della misura di sicurezza in sé”. Ricordando nuovamente che la Consulta ha dichiarato inammissibile il ricorso sulla questione di legittimità costituzionale, nel contempo però riconosce che il trattamento delle persone internate deve essere diverso da quello delle persone detenute. Ciò significa che le restrizioni imposte agli internati devono essere limitate a quelle effettivamente necessarie per garantire l’ordine e la sicurezza pubblica, tenendo sempre presente la finalità risocializzante del trattamento. Proprio a partire da questa stessa sottolineatura della Corte, il Garante nazionale aveva richiesto (lo fece con il precedente rapporto tematico sul 41 bis) e torna a richiedere che per le persone internate, pur sottoposte a tale regime, vengano individuate sistemazioni idonee e confacenti alla misura e che vengano definite le regole che, sulla base del criterio complessivo di sicurezza e della finalità di preclusione di rapporti di comunicazione con le organizzazioni criminali che caratterizzano il regime speciale, tengano pienamente presente la specificità della caratteristica di persone internate e non detenute che connota chi è sottoposto a tale misura. Ciò al fine di evitare, al termine dell’esecuzione penale, “il replicarsi di una pena, eseguita con identiche modalità e in un posto configurato in modo identico, non modulabile peraltro con misure alternative e soggetta al rischio di indefinitezza”. Nel caso in particolare delle sei internati, il Garante denuncia che “non è possibile celare l’assurdità di una finzione di lavoro per due di esse, svolto in una parte minima della giornata all’interno di una serra e la parallela inesistenza di attività lavorativa per le altre persone internate, salvo alcune mansioni interne, per un totale di una ventina di minuti al giorno (le retribuzioni sono conseguenti)”. La situazione attuale riconferma quanto già osservato nel precedente Rapporto: l’assegnazione alla “Casa di lavoro” ridotta a una mera questione nominativa, senza alcuna concreta offerta di attività o lavoro volta al futuro reinserimento, finisce nel consistere in una anomala prosecuzione della detenzione. Il 41bis può essere difeso se rispetta la Costituzione di Franco Mirabelli IL Riformista, 8 aprile 2023 Strumento fondamentale per la lotta alle mafie, va però utilizzato per come è stato pensato e non come “carcere duro”. Il rapporto del Garante mette in luce anomalie su cui occorre intervenire. L’istituto del 41 bis è stato ed è uno strumento fondamentale per la lotta alle mafie. Impedire che i boss possano continuare a dirigere la propria organizzazione dal carcere, come avveniva in precedenza, continua ad essere una necessità se si vuole spezzare la catena di comando delle cosche. Il 41 bis è uno strumento che ha funzionato e funziona, che deve essere difeso e preservato ma, per farlo nel modo migliore, serve fare i conti con le osservazioni fatte recentemente dal Garante dei diritti dei detenuti. Innanzitutto si tratta di riportare l’istituto alla dimensione che gli è propria. Il 41bis è nato per impedire la possibilità per i capimafia di comunicare con l’esterno, questa è la sua funzione. L’isolamento, le limitazioni rigide ai contatti con l’esterno ma anche all’interno del carcere hanno questa finalità. Troppo spesso, invece, sentiamo dalla politica, e persino dagli operatori penitenziari, definire il 41bis come “carcere duro”, quasi servisse a rendere più afflittiva la pena e non a impedire le comunicazioni con l’esterno. Se passasse l’idea di un regime semplicemente finalizzato a rendere la detenzione più gravosa, sia pure di fronte a reati molto gravi, è chiaro che si darebbe un argomento a chi attacca il 41bis ritenendolo un trattamento contrario alla finalità rieducativa della pena che la nostra stessa Costituzione stabilisce. Allo stesso modo Mauro Palma ha ragione quando sollecita una riflessione sul numero di detenuti al 41bis. Il dato di oltre 700 persone recluse con quel regime è, certamente, un dato sproporzionato rispetto alla sua finalità e può, anch’esso, avvalorare l’idea di uno strumento che viene utilizzato per scopi diversi. Quindi per difendere il 41bis è necessario utilizzarlo per come è stato pensato: un regime straordinario che serve a impedire che i capi delle mafie e del terrorismo comunichino coi loro sodali all’esterno e per evitare che gli stessi controllino la vita del carcere. Ma se bisogna prendere atto che la reclusione di oltre 700 mafiosi costituisce una anomalia per risolverla occorre intervenire sulle cause che portano i magistrati a moltiplicare le richieste di detenzione in regime di 41bis. È evidente che manca una soluzione alternativa per chi, comunque, dovrebbe avere più limitazioni durante la reclusione. Il tema è quello della necessità di migliorare il funzionamento delle sezioni di alta sicurezza e aumentarne la capienza. Si potrebbero così fornire le garanzie di controllo necessarie e consentire di limitare il ricorso al 41bis. Da tempo il nostro Paese è sotto osservazione degli organismi internazionali ed europei proprio per il ricorso a quel regime detentivo. Periodicamente emergono accuse che intravedono in esso violazioni dei diritti umani e dei detenuti a cui è possibile e giusto rispondere difendendo un istituto che, in una realtà in cui il radicamento delle mafie è ancora purtroppo alto, consente di impedire ai boss di proseguire la propria attività dalla reclusione. Ma questo è possibile se continuiamo a poter dimostrare che il 41bis garantisce il rispetto della persona e non costituisce un trattamento pensato per essere più afflittivo e se resta evidente la sua eccezionalità circoscritta alla funzione che l’ordinamento attribuisce a quel regime. “Report” e il ruolo degli avvocati: quando il servizio pubblico devia di Michele Passione* Il Dubbio, 8 aprile 2023 Si è sovrapposto il ruolo del difensore a quello dell’assistito al 41 bis. Un silenzio assordante; attorno al profluvio di populismo e di false informazioni messe in onda da Report sul regime differenziato del 41 bis, che ha messo alla berlina la Cedu, la magistratura di sorveglianza e la stessa Corte costituzionale, solo poche voci (tra queste, meritoriamente, l’Ucpi e la Camera Penale di Napoli) hanno preso posizione in proposito. Impossibile riassumere in poche righe quanto il servizio pubblico sia stato deviato dai suoi fini; per chi scrive, la più eversiva considerazione svolta in quella sede è quella secondo la quale dovrebbe riflettersi (auspicando una modifica normativa) sulla possibilità che un Avvocato assuma la difesa di più persone sottoposte al 41 bis. Neanche troppo velatamente, si è così sovrapposto il ruolo del Difensore a quello del proprio assistito, quasi che il primo possa farsi postino di messaggi (pizzini) a favore di altri. Viene da chiedersi che idea si abbia della Difesa (senza che possa escludersi, com’è ovvio per ogni categoria professionale, che vi sia chi sporchi la toga per portare all’esterno informazioni) quale assurda ed impraticabile pretesa si avanzi; una scelta dei Difensori da parte delle Procure? Un numero chiuso? Un click day? Naturalmente, non è mancata la sapiente regia giornalistica, con veloce esposizione dei nominativi di chi ha il torto di difendere gli indifendibili, marchiati a fuoco per sempre (più di cento i presunti innocenti) e come tali irredimibili. Da ultimo, l’intervista all’Avvocata col “record di assistiti al 41 bis”, definita “una star” dal ridente giornalista. Secondo il Consigliere Ardita la richiesta del cliente al suo Difensore di rivolgere una informazione “naturalmente può metterlo in imbarazzo”, anche se poi “naturalmente lui rifiuterà”. In effetti si sa, i detenuti al 41 bis non sono “i cadetti dell’Accademia di Modena”, e neanche clienti “solo sulla carta” (vuoi mettere, che qualcuno si prenda la briga di incontrarli e difenderli?). A quando un bel decreto legge? *Avvocato L’attacco agli avvocati: Report ha superato il limite della decenza di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 aprile 2023 L’idea grottesca della trasmissione è che se un legale difende più ristretti al 41bis, può solo rendersi strumento di indebite comunicazioni tra detenuti. L’intangibilità del diritto alla difesa è guardata con sospetto, disprezzata. Così accendono il ventilatore e ci buttano dentro il fango. La trasmissione di Rai 3 Report ha davvero superato sé stessa nell’ultima puntata, e sì che non era per niente facile. Non è certo la prima volta che quella trasmissione, idolatrata dai suoi fanatici sostenitori come esempio fulgido di “giornalismo di inchiesta”, adotti quella tecnica narrativa che gli anglosassoni definirebbero “shit in the fan”, e che qui sobriamente traduciamo in “fango nel ventilatore”. Ma il servizio dedicato agli “avvocati difensori dei detenuti al 41 bis” ha superato, davvero, ogni limite di (in)decenza. Auspico, ed anzi sono certo, che i colleghi loro malgrado coinvolti in questa incredibile, inaudita, incivile messa all’indice, adottino senza esitazione tutte le iniziative che riterranno utili a tutela della propria reputazione personale e professionale, per le quali avranno l’Unione Camere Penali al loro fianco. In sostanza, la trasmissione ruotava intorno ad una premessa la cui ideazione può nascere solo nelle menti di persone da un lato ossessionate -ormai quasi patologicamente dal tema dell’antimafia brandita come un manganello da una sorta di autoproclamatasi ronda dei “Guardiani della legalità”; dall’altro, prigioniere di un irredimibile analfabetismo costituzionale, che fa loro percepire con viscerale avversione alcuni fondamentali principi della nostra Costituzione, considerati alla stregua di un piede di porco adoperato cinicamente (dagli avvocati in particolare) per scardinare il becero ordine morale ed etico che costoro coltivano ed idolatrano. L’idea grottesca è che se un avvocato difende più detenuti ristretti al 41 bis (un tema, quello del buttare la chiave, che eccita costoro smodatamente), questi può per ciò solo rendersi docile strumento di indebite comunicazioni illecite tra i detenuti, facendo leva (ecco il “piede di porco”) sulla inviolabilità del diritto di difesa, che postula il divieto di ascolto delle conversazioni tra avvocato e detenuto. Quindi, poiché costoro, come dicevo, detestano e guardano con sospetto e disprezzo quisquilie come la assoluta intangibilità del diritto di difesa, ma sanno di non poter richiedere apertis verbis l’ascolto di quelle conversazioni, ecco che puntano la questione per una via traversa. Sicché accendono il ventilatore e ci buttano dentro il fango del sospetto: se un avvocato difende un numero eccessivo di detenuti tutti contemporaneamente al 41 bis, non è forse un potenziale strumento di aggiramento dell’isolamento voluto da quella norma dell’ordinamento penitenziario? Per carità, fanno dire all’immancabile dott. Sebastiano Ardita mentre ronza (“inesausto”, direbbe Paolo Conte) il ventilatore, non diciamo mica che questo accada con certezza! Anzi, sia ben chiaro -precisa Ardita, tuttavia più minaccioso che rassicurante- la deontologia professionale glielo impedisce, sicché, in linea di massima, siamo certi che il professionista si rifiuti. E però (senti le pale come ronzano, vedi il guano come schizza incontrollabile) l’avvocato può divenirne piuttosto una vittima (si intenerisce il dott. Ardita, che ora sembra il Lupo travestito da nonna di Cappuccetto rosso), dobbiamo difenderlo da questa esposizione, da questi rischi incombenti sulla sua correttezza professionale, che giammai mettiamo in discussione ma che la debolezza umana e la feroce astuzia dei mafiosi potrebbe infine travolgere. Facciamo qualcosa, interveniamo, regoliamo, limitiamo. E così questi galantuomini, soi-disant giornalisti d’inchiesta, pubblicano un elenco (probabilmente non divulgabile, ma lo stiamo accertando) di avvocati con il maggior numero di assistiti al 41 bis, nomi e cognomi, così, tanto per gradire. Non tutti, per di più, ma tanto basta, così funziona il metodo del ventilatore, a chi tocca non si ingrugna, come si dice a Roma. E, non paghi, attirano con l’inganno una nostra collega, che ne difende molti perché nel carcere della sua città vi è forse il più alto numero di detenuti al 41 bis d’Italia, la quale, da persona per bene quale è, risponde immaginando una chiacchierata amichevole, ignara di essere ripresa, registrata ed esposta, senza il proprio consenso, al pubblico ludibrio della setta di fanatici (non di rado pericolosi) che amano frequentare questi angiporti televisivi. Naturalmente, poiché il fanatismo si accompagna alla ignoranza, costoro ignorano che i detenuti al 41 bis sono raccolti solo in alcune carceri italiane, e dunque si concentrano solo su quei Fori; che l’assistenza difensiva nella fase della esecuzione è iper-specialistica, e quella relativa al 41 bis ancora di più, ed è dunque naturale che quei detenuti selezionino un ristrettissimo numero di avvocati dello stesso Foro territorialmente legato al luogo di detenzione. Insomma, nessun piano, nessuna strategia, nessun grande attentato alla Legalità: semplice specializzazione. Sarebbe come volgarmente e del tutto gratuitamente insinuare che, essendo i magistrati antimafia sempre gli stessi per anni ed anni, essi sono più facilmente esposti alla corruzione da parte dei loro stessi indagati, sicché sarebbe meglio ruotarli in continuazione. Non perché noi sospettiamo che essi siano corruttibili, ma - come direbbe Ardita - per proteggerli da quel pericolo. Che ne dice, dott. Ardita? E Lei, dott. Ranucci? Guardi che bella idea per un’altra delle vostre fantastiche inchieste, attendiamo fiduciosi. Però spegnetelo ogni tanto, quel ventilatore, rischiate di bruciare il motore. Don Grimaldi: “Gesù dalla croce ci invita ad avere uno sguardo di misericordia verso i detenuti” di Gigliola Alfaro agensir.it, 8 aprile 2023 “C’è un dolore che si nasconde nelle celle. Il compito della Chiesa è di dare speranza. Dall’altra parte, ovviamente, è necessario il pentimento e intraprendere un cammino di conversione”, ci dice l’ispettore generale dei cappellani delle carceri. In Gesù Crocifisso è riassunto il dolore del mondo: di chi soffre in ospedale, di chi vive un lutto, di chi è solo, di chi è costretto a lasciare la propria patria, di chi è chiuso in una cella. Ma in quel Crocifisso troviamo anche la misericordia e il perdono e nella Risurrezione del giorno di Pasqua una possibilità di vita nuova che Dio sempre ci concede. Di tutto questo parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Don Raffaele, il Venerdì Santo è il giorno del dolore… Nella Settimana Santa il Venerdì Santo, in modo particolare, richiama il dolore di tutta l’umanità: il dolore di coloro che sono colpiti dalla guerra, di coloro che perdono i loro familiari e coloro che perdono le loro sicurezze umane, il dolore di chi è costretto a migrare e tante volte perde la vita alla ricerca di una vita migliore, il dolore dei malati che in ospedale stanno vivendo il loro calvario, il dolore dai tanti luoghi di solitudine, come gli ospizi dove sono abbandonati tanti anziani. Tra i luoghi di sofferenza non possiamo dimenticare le carceri, questi luoghi di abbandono, sofferenza, angoscia, che fanno intravedere quella Passione stessa di Gesù che si incarna in questi nostri fratelli... Nel Giudizio universale, infatti, Gesù ci dirà: “Ero in carcere e mi avete visitato, qualunque cosa avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me”. Il dolore è compagno di viaggio dei detenuti che hanno commesso reati, che stanno scontando una pena, ma che vivono un percorso di rinascita spirituale, di conversione e di comprensione dei propri errori nel commettere i reati. Sono due dolori diversi: quello dei detenuti, privati della loro libertà personale, che fanno i conti con il male compiuto, ma questo non li deve portare alla disperazione. Nei testi liturgici del Venerdì Santo, Gesù è il servo obbediente che ha donato la vita, un agnello muto condotto al macello. Nei nostri istituti penitenziari c’è un dolore silenzioso, che non si riesce a esprimere in tutta la sua crudezza. C’è un dolore che si nasconde nelle celle: solo noi operatori, che incontriamo i detenuti, possiamo asciugare le loro lacrime, capire il dolore nascosto che vivono. Sono tanti i drammi vissuti all’interno dei nostri istituti e tante volte il peso di quel dolore per i reati commessi è così insopportabile da portare al suicidio i detenuti, sopraffatti dalla disperazione. Il compito della Chiesa è di dare speranza, di far uscire fuori il dolore per poterlo consolare. I volontari, soprattutto i cappellani e la Chiesa tutta provano a rialzare la persona che ha commesso dei reati consegnando nel loro cuore, nella loro mente, nelle loro mani l’abbraccio della misericordia di Dio, che perdona tutti. Dall’altra parte, ovviamente, è necessario il pentimento. Poi c’è anche l’altra faccia del dolore, che non possiamo dimenticare: la sofferenza delle famiglie che hanno vissuto la tragica morte di un loro caro per colpa di chi sta ora in carcere. E come aiutare i familiari delle vittime di reati a superare il Venerdì Santo? Ai familiari delle vittime bisogna porre una maggiore attenzione aiutandoli a vivere percorsi di rinascita. Il dolore e il rancore imprigionano l’uomo. Per chi ha subito un torto, chi ha subito la morte di un caro non è facile umanamente dimenticare e perdonare. Per questo bisogna accompagnare le vittime a una loro rinascita, una loro risurrezione affinché anche loro possano avere nel cuore l’atteggiamento di Dio che è sempre pronto al perdono e non alla condanna. Tutto questo ha bisogno di una cultura della misericordia, di un cammino di misericordia: se viviamo un cammino di fede possiamo superare questo scoglio e anche risorgere. Infatti, anche le vittime hanno bisogno di una risurrezione, di una nuova vita, di essere aiutate a uscire dalle tombe del rancore, della rabbia, del dolore che talvolta imprigionano più loro che i detenuti. Qual è oggi l’atteggiamento verso i detenuti? Anche qui il Venerdì Santo ci può aiutare a riflettere. Davanti a Gesù c’è un popolo che si rivolge a Pilato gridando: “Crocifiggilo”. Ancora oggi c’è attorno a noi una mentalità chiusa alla misericordia che continuamente inveisce contro i detenuti, che certamente hanno sbagliato, stanno scontando la loro pena, ma, come ci invita a fare Papa Francesco, non chiudiamo la finestra della speranza a coloro che si sono macchiati anche di gravi reati. Il “Crocifiggilo” rivolto a Gesù diventa oggi un buttare le chiavi delle celle dei detenuti che hanno commesso gravi reati. Quello che è avvenuto a Gesù duemila anni fa può avvenire anche oggi verso chi ha sbagliato - e anche molto - ma vuole cambiare la propria vita. Pensando al Venerdì Santo mi viene in mente anche l’immagine di quando Gesù è stato spogliato delle sue vesti ed è stato inchiodato nudo sulla croce. Quel Gesù a cui tolgono le vesti nei nostri istituti può significare che molte persone pensano che agli uomini che hanno commesso gravi reati bisogna togliere anche la dignità, ma la dignità è impressa nel cuore dell’uomo e non può essere cancellata, perché l’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Gesù muore per tutti, buoni e “cattivi”: questo può aiutare a cambiare lo sguardo? Certo, la morte di Gesù in Croce è per tutti, per i sani e per i malati. Ma in croce Gesù ci dice anche altro. Rivolgendosi al Padre celeste dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Gesù, oltre a perdonare Lui stesso per la sua tragica uccisione, ci invita a perdonare coloro che possono commettere anche gravi errori, considerando anche il contesto da cui provengono: familiare, sociale, ambientale, amicale. Gesù dalla croce ci aiuta a leggere gli errori degli altri con uno sguardo diverso, con lo sguardo stesso di Dio. “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”: molti detenuti commettono reati sotto l’effetto di droghe e davvero non sanno quello che fanno, non sono padroni di sé. Davanti alla fragilità, davanti alle periferie esistenziali, l’umanità deve offrire delle risposte non abbandonando coloro che hanno potuto commettere il male nella fossa della disperazione, ma tendendo loro le mani, attraverso risposte positive che non siano “buttiamo le chiavi”, ma “apriamo i cancelli”, cercando cioè di offrire opportunità nuove a coloro che hanno sbagliato. Alla vigilia di Pasqua la Cei ha deciso di donare 8mila Bibbie ai detenuti… L’iniziativa della Cei di donare le Bibbie ai detenuti con la visita del segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, a Paliano per la consegna simbolica delle Bibbie, che poi saranno consegnate a circa cento istituti penitenziari, non è altro che un segno di fiducia e di speranza: vuole mostrare quel Signore Gesù che viene a portare la sua parola di salvezza anche nelle celle buie dove si nasconde l’uomo ferito dal peccato. La Bibbia non è solo il libro della consolazione, ma è anche il libro che ci scuote, ci rimette in cammino, ci invita alla speranza e, al tempo stesso, ci invita alla conversione. Questo è il messaggio dei vescovi italiani che attraverso il dono della Bibbia ai detenuti: un invito alla conversione, al cambiamento, a percorrere strade diverse rispetto al passato, le strade della legalità. Ventidue decreti per attuare il Pnrr, l’altra giustizia targata Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 8 aprile 2023 Sono i provvedimenti che hanno imposto il rinvio sul Csm. Priorità a digitalizzazione e edilizia. Ci sono sempre due piani, nella giustizia. Quello ordinario, affidato all’impegno di oltre 200mila avvocati, migliaia di magistrati e un esercito di amministrativi. C’è poi lo straordinario, che ha proiezione mediatica: le riforme, i casi eclatanti e drammatici come la vicenda di Cospito, le vere e proprie tragedie che si consumano nelle carceri. Pare non esista una terra di mezzo che reclami l’impegno del guardasigilli. Ma è una ricostruzione fuorviante. E ormai le analisi circolate per alcune settimane sul cosiddetto stallo di via Arenula cominciano a sgretolarsi. Non solo perché, come riferito negli ultimi giorni su queste pagine, si moltiplicano le attività preliminari alla presentazione dei ddl sul penale e su alcune aspetti della detenzione, sia per l’ambito minorile che per i reclusi con tossicodipendenza. Non si tratta solo si questo. Perché nei mesi trascorsi dal 22 ottobre, giorno del giuramento al Quirinale, Nordio è stato in realtà assorbito da una mole di impegni forse persino sottovalutata. Via Arenula ha infatti messo al lavoro non solo il proprio Ufficio legislativo ma tutte le risorse tecniche di cui dispone per elaborare provvedimenti e atti di normazione secondaria, meno “glamour”, meno mediaticamente spendibili, ma pure necessari per rispettare gli impegni presi con l’Europa. Al di là dei decreti legislativi che attuano le leggi delega di Cartabia sul civile e sul penale, e che sono stati emanati dall’esecutivo Draghi nella fase conclusiva del mandato, si contano qualcosa come 22 provvedimenti di diverso livello che dovranno attuare il Pnrr, innanzitutto sul versante organizzativo e infrastrutturale. È la notevole mole di lavoro che il ministero della Giustizia ha tuttora in agenda, e che dovrà concludersi nel giro di poche settimane, per portare a compimento ulteriori step innanzitutto nella digitalizzazione della macchina giudiziaria. Ed è questo carico di impegni normativi e amministrativi che, nei giorni scorsi, ha costretto Nordio e il suo vice Francesco Paolo Sisto a battersi affinché nel decreto “Pnrr 3” fosse inserito, con un emendamento, il rinvio al 31 dicembre del termine per emanare i decreti attuativi della riforma su Csm e ordinamento giudiziario. Nel caso del civile, la priorità è digitalizzare l’arretrato, gli atti che non hanno beneficiato della rivoluzione portata dal processo telematico. Un lavoro immane, che si svolge in parallelo con la piena implementazione del processo penale telematico: altra materia per la quale non basta certo un’attività di ordinaria amministrazione e che va definita anche sul piano normativo. Una parte notevole del “Pnrr giustizia” riguarda, com’è noto fin dall’epoca in cui a via Arenula c’era Alfonso Bonafede, l’edilizia giudiziaria. Quella penitenziaria in particolare, con una decina di interventi di ampliamento e recupero, e altre decine di cantieri di grandi, medie e piccole dimensioni nei tribunali, per dare strutture decorose alla giustizia, spesso costretta a fare i conti con un drammatico degrado strutturale. C’è poi il capitolo delle assunzioni. Con un doppio binario. Da una parte il reclutamento del secondo contingente di giovani giuristi nell’Ufficio per il processo, che è lo strumento più direttamente mirato allo smaltimento delle vecchie pendenze, presupposto per cogliere l’obiettivo principale, la riduzione dei tempi (del 40% nel civile e del 25% nel penale, entro il 2026), del “disposition time”. Negli “Upp” sono già entrate 8.000 unità, dovrebbero esserne ingaggiate altrettante (con prospettive di stabilizzarne una parte). Dall’altro lato ci sono le assunzioni nella pianta organica vera e propria: solo sul fronte del personale amministrativo, il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria ha previsto, con il Piano triennale dei fabbisogni per il periodo 2023- 2025, presentato a fine marzo, un totale di 9.204 nuove unità. È un ritorno ai concorsi e al rinnovo dell’organico avviato anche in questo caso già da Bonafede, proseguito con Cartabia e ora destinato ad ampliarsi in vista degli impegnativi target concordati con l’Europa Con la rete di lavori preparatori che via Arenula ha messo in piedi, e che è destinata a tradursi anche in attività normativa, si incrocia il rapporto “politico” con i protagonisti della giurisdizione, avvocatura e magistratura. Un confronto a cui Nordio tiene molto, come ha dimostrato il tavolo sul penale aperto martedì scorso dal ministro a Ucpi e Anm. In questo quadro si inserisce l’insediamento del nuovo Consiglio nazionale forense, interlocutore decisivo per il guardasigilli, che mercoledì ha eletto il presidente Francesco Greco e gli altri vertici per il quadriennio 2023- 2026. La nuova guida del Cnf continua a raccogliere messaggi di auguri dal mondo politico e istituzionale. Ieri è stato, fra gli altri, il deputato di Forza Italia e vicepresidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis a diffondere una nota per rivolgere “le congratulazioni a Francesco Greco, nuovo presidente del Consiglio nazionale, e un augurio di buon lavoro a tutti i consiglieri. A loro”, ricorda il parlamentare azzutto, “spetterà il compito di continuare a contribuire alla stagione delle riforme sulla giustizia che il governo ha avviato. Noi di Forza Italia saremo sempre attenti alle richieste e segnalazioni che arrivano dall’avvocatura italiana e al tema della giustizia per renderla sempre più efficiente e al passo con i tempi”. Un obiettivo che non consente pause nell’attività sulla giustizia, a dispetto dell’idea di immobilismo in cui nelle scorse settimane si è finito per deformare l’avvio del mandato di Nordio a via Arenula. Progetto Polis, la giustizia va incontro al cittadino di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 aprile 2023 L’accordo tra Via Arenula e Poste Italiane: negli uffici di otto Comuni sarà possibile accedere ai servizi di volontaria giurisdizione. Se i cittadini non possono raggiungere i Tribunali, sono questi ultimi che vanno incontro ai cittadini offrendo loro alcuni servizi. È questo il filo conduttore del progetto Polis, che vede impegnato direttamente il ministero della Giustizia con Poste italiane e il ministero delle Imprese e del Made in Italy. Da giovedì è partita la sperimentazione negli uffici postali di otto Comuni nei quali è possibile accedere allo sportello per accedere ad alcuni servizi riguardanti la volontaria giurisdizione. Per la precisione si potranno proporre ricorso per l’istituzione dell’amministratore di sostegno e inoltrare il rendiconto dello stato patrimoniale della persona sottoposta ad amministrazione di sostegno o a tutela. I cittadini potranno recarsi direttamente negli uffici postali dei centri prescelti nella fase pilota ed evitare lunghi spostamenti per gli adempimenti nei Tribunali competenti. I Comuni coinvolti nella fase di sperimentazione sono: Chiusa (Bolzano), Candelo (Biella), Alberobello (Bari), Tolmezzo (Udine), Candiana (Padova), San Felice al Circeo (Latina), Collecchio (Parma) e Aragona (Agrigento). Il progetto Polis intende aprire una nuova fase - potremmo definirla di riavvicinamento -, dopo le scelte fatte negli anni passati con la soppressione di decine di Tribunali e sezioni distaccate da Nord a Sud. Chiusure indiscriminate frutto della rivisitazione della geografia giudiziaria. Scelte che si sono rivelate nella maggior parte dei casi poco attente alle esigenze dei territori e dei cittadini, con ulteriori ritardi sui tempi di intervento della giustizia. “Il ministero - ha commentato il guardasigilli Carlo Nordio - è impegnato in più direzioni per portare il servizio giustizia il più possibile vicino ai cittadini e alle loro esigenze. In questa prospettiva, abbiamo aderito al progetto Polis e in questa stessa prospettiva stiamo accelerando tout court sulla digitalizzazione”. Il ministro ha anticipato, inoltre, l’attivazione di altri “progetti nei quali stiamo investendo, come il Tribunale online, oltre ovviamente alle novità normative che sono in cantiere attraverso le quali la giustizia deve contribuire a fronteggiare la crisi economica e favorire gli investimenti, semplificando l’accesso e il riconoscimento dei diritti”. Dunque, grande risalto da parte di via Arenula alla giustizia di prossimità, che affiora molto spesso nei ragionamenti del ministro Carlo Nordio. Una giustizia, che, a suo dire, intende presentare un volto più umano, meno burocratico, in grado di migliorare la vita delle persone e degli operatori del diritto. Il progetto Polis verte su tre linee di intervento. A partire dalla creazione di “sportelli unici” di prossimità in Comuni con popolazione inferiore a 15mila abitanti, in grado di facilitare l’accesso dei cittadini residenti ai servizi pubblici in modalità digitale, attraverso una piattaforma di servizio multicanale di Poste Italiane. L’intervento comporterà la trasformazione di circa 6.900 Uffici Postali ubicati nei piccoli comuni, dotandoli di una infrastruttura digitale e tecnologica all’avanguardia. Il depistaggio su Paolo Borsellino, una giustizia che non fa giustizia di Attilio Bolzoni Il Domani, 8 aprile 2023 La vicenda del procuratore di Palermo sembra la replica di tante altre storie politico criminali italiane. La strage di piazza Fontana a Milano, quella di piazza della Loggia a Brescia, l’attentato al Rapido 904, le bombe ai Georgofili di Firenze. Grandi inchieste giudiziarie, processi infiniti, bis, ter, quater, grande rumore e poi niente, nulla, il vuoto. Per il caso Borsellino sono usciti dal reticolato delle accuse - il reato era di calunnia aggravata per avere favorito la mafia - anche i pesci piccoli, tre poliziotti. Le ovvietà nei commenti: “Non c’è solo zampino di Cosa nostra”, “L’agenda rossa non l’ha sottratta la mafia”, le rivelazioni sui “soggetti terzi”. Ma quando è stata scritta questa sentenza sul “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”? Nel 2023 o nel 1993? Oggi o trent’anni fa? Sfogliando i giornali degli ultimi giorni sembra di rivedere gli stessi titoli di allora, lo stesso contenuto degli articoli, fra le righe si rintracciano gli stessi dubbi e gli stessi sospetti di sempre. Eppure di tempo ne è trascorso, e anche tanto. Ma la “verità”, parola grossa, su chi ha deviato le indagini sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino si è smarrita in un diluvio di frasi che dicono tutto e niente, che ci catapultano in un passato eterno. Le “rivelazioni” clamorose - “Non fu solo la mafia”. È questa la prima clamorosa rivelazione, così clamorosa che è venuta in mente a ogni siciliano in età adulta e in grado di intendere e volere già la notte fra il 19 e il 20 luglio del 1992, quando ancora non si erano spenti i piccoli roghi fra le lamiere di via Mariano D’Amelio e i parà della Folgore si stavano lanciando sul carcere dell’Ucciardone per deportare i boss della Cupola nelle isole del diavolo di Pianosa e Asinara. Ci volevano davvero trenta e passa anni per “svelarci” che non è stata solo la mafia a far saltare in aria un magistrato come Borsellino, appena cinquantasei giorni dopo la strage di Capaci? E poi la famosa agenda rossa, un totem, una sorta di scatola nera che contiene ogni mistero dei massacri siciliani. Testuale, dalle motivazioni della sentenza: “Può ritenersi certo che la sua sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”. Un’altra sorpresa, un’altra grande scoperta. Come se qualcuno, allora come oggi avesse mai pensato che a sottrarre la borsa del procuratore con dentro l’agenda fosse stato Totò Riina o Giovanni Brusca, o qualcuno degli altri macellai che dopo avere acceso la miccia era ancora lì ad aggirarsi sulla scena del crimine aspettando il momento più propizio per afferrare la borsa. Non possiamo (e non vogliamo) gettare la croce addosso ai magistrati giudicanti, e tantomeno ai pubblici ministeri di Caltanissetta che una decina di anni fa hanno avuto il grande merito di sbugiardare falsi pentiti come Vincenzo Scarantino e arrivare alla revisione del processo Borsellino - e questo sì che è stato clamoroso - ma francamente venire a sapere via sentenza ciò che già sapevamo anche trent’anni fa non è una vittoria e neanche un sollievo. Al contrario, è la conferma che oltre un certo livello la giustizia italiana non fa giustizia perché probabilmente non la può fare. La replica di altre vicende - La vicenda del procuratore Borsellino sembra la fotocopia, la replica di tante altre storie politico criminali, strategia della tensione prima sul fronte nord e poi strategia della tensione dall’altro capo dell’Italia. La strage di piazza Fontana del dicembre 1969 a Milano, quella di piazza della Loggia a Brescia del maggio 1974, l’attentato al Rapido 904 nelle gallerie dell’Appennino tosco-emiliano del dicembre 1984, le bombe ai Georgofili di Firenze del maggio 1993. Grandi inchieste giudiziarie, mandanti sempre presunti, processi infiniti, bis, ter, quater, grande rumore e poi niente, nulla, il vuoto. Per il caso Borsellino sono usciti dal reticolato delle accuse - il reato era di calunnia aggravata per avere favorito la mafia - anche i pesci piccoli, tre poliziotti, uno assolto e due salvati dalla prescrizione. Ma non è certo questo il punto. Fanno impressione piuttosto le ovvietà che si rincorrono a commento della sentenza. Come questo: “Non c’è solo lo zampino della mafia”. Verissimo, c’è lo zampone di qualcun altro che non è stato trovato. O come questo: “Bugie e silenzi di stato, amnesie di molti appartenenti alle istituzioni”. Ancora più vero. Se ne prende atto, come se fosse inevitabile fermarsi lì. Basta lo slogan per placare gli animi: Borsellino, strage di mafia e strage di stato. Basta un verdetto che accerti la presenza o l’ingerenza di “terzi soggetti” nella strage di via D’Amelio, che importa poi che siano rimasti ignoti, come se fosse solo un dettaglio secondario, insignificante. Gli stessi “terzi soggetti” che sono intervenuti per alterare il quadro delle investigazioni “evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio”. Ombre, dopo trent’anni sono solo ombre che si allungano per l’Italia. La sentenza su via D’Amelio è il trionfo della dietrologia antimafia di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 aprile 2023 Anziché cercare di capire come sia stato possibile che decine di magistrati abbiano abboccato ai depistaggi di Scarantino, i giudici di Caltanissetta alimentano lo storytelling della “strage di stato”. Giovedì non sono state depositate soltanto le motivazioni del “processo Bellini” relativo alla strage di Bologna (1.472 pagine in cui i giudici della Corte d’assise di Bologna si sono sbizzarriti attorno allo storytelling del “doppio stato”: da Moro all’omicidio di Piersanti Mattarella, da Ustica a Pecorelli, da Sindona a Pinelli), ma anche le motivazioni della sentenza del tribunale di Caltanissetta, emessa lo scorso luglio, sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Anche in questo caso i giudici hanno dato sfogo a tutta la loro vocazione narrativa, vergando 1.434 pagine di motivazioni, anche qui lanciandosi in considerazioni che vanno ben oltre la valutazione della condotta degli imputati, cioè i tre ex poliziotti assolti dall’accusa di aver indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino per depistare le indagini sulla strage costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Anziché impiegare questa vena narrativa per cercare di capire come sia stato possibile che decine di magistrati abbiano abboccato alle bugie di un picciotto semianalfabeta come Scarantino (pm come Giovanni Tinebra, Ilda Boccassini, Carmelo Petralia, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo e Annamaria Palma, e tutti i vari giudici che hanno avallato le tesi dei pm dal primo grado alla Cassazione), i giudici di Caltanissetta hanno rivolto la propria attenzione ai soggetti che si celerebbero dietro alla strage, finendo per alimentare lo storytelling della “strage di stato”. Per i giudici tutto ruota attorno alla scomparsa della famosa agenda rossa di Borsellino nei momenti successivi alla strage del 19 luglio 1992 (sempre che l’agenda non sia andata distrutta a causa dell’attentato). “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”, scrivono i giudici, aggiungendo che da qui discenderebbero “due logiche conseguenze”. Vediamole. In primo luogo, “l’appartenenza ‘istituzionale’ di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda”: “Gli elementi in campo - scrivono le toghe - non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse, sapeva cosa era necessario/opportuno sottrarre”. Da ciò deriva la seconda conclusione: “Un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già 1992 - il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio”. Siamo di fronte a una scoperta incredibile per la storia italiana, riassumibile così: se l’agenda rossa di Borsellino non è stata ritrovata, allora è stata certamente prelevata da qualcuno dopo la strage; quel qualcuno non può che essere un rappresentante delle istituzioni; l’intervento così tempestivo di uomini delle istituzioni conferma che la strage non ha natura soltanto mafiosa, ma dietro si celano anche soggetti istituzionali, cioè appartenenti allo stato. Ecco confermato il teorema della “strage di stato”, tanto amato dall’antimafia mediatica ed editoriale. Il tutto grazie a semplici ragionamenti logici, mica prove. A saperlo che bastava così poco. La Consulta: improcedibilità anche in caso di infermità psicofisica Il Dubbio, 8 aprile 2023 Per la Corte è incostituzionale l’articolo 71-bis del codice di procedura penale, laddove esclude la partecipazione dell’imputato al processo solo in caso di malattie mentali. È incostituzionale il riferimento dell’improcedibilità ex articolo 72-bis del codice di procedura penale alle sole malattie mentali, anziché a qualunque stato psicofisico che impedisca l’attiva partecipazione dell’imputato al processo. “Seppure corrisponde a una classificazione tradizionale”, la rigida distinzione tra infermità mentale e infermità fisica “postula che sia sempre possibile analizzare le manifestazioni patologiche in termini rigorosamente binari, il che non tiene conto della diffusione delle malattie degenerative”, le quali “hanno origine fisica e tuttavia possono determinare ugualmente l’impossibilità di una partecipazione attiva al processo”. È uno dei passaggi centrali della sentenza numero 65 del 2023 (redattore Stefano Petitti), con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 72-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui, stabilendo l’improcedibilità nei confronti dell’imputato che non possa partecipare al processo per una condizione irreversibile, si riferisce al suo stato “mentale”, anziché a quello “psicofisico”. Si tratta nella specie di una persona affetta da Sla, il cui processo per reati edilizi ha subito continui rinvii fin dal 2016, essendo la stessa impedita a parteciparvi per l’irreversibilità del suo stato psicofisico, caratterizzato da paralisi progressiva, perdita del linguaggio e incapacità di respirare in autonomia. La Corte ha dichiarato illegittimi in via consequenziale gli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale, nella parte in cui anch’essi impiegano l’aggettivo “mentale”, anziché quello “psicofisico”. Torino. Emergenza carceri, la Garante dei detenuti: “Degrado, carenze e scarse cure sanitarie” di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 8 aprile 2023 Nelle carceri e nel Cpr, chiuso da circa un mese, sono cresciuti gli interventi di soccorso del 118. Un andamento che mette in discussione l’efficienza dei servizi sanitari interni alle strutture. Al punto da indurre il sindaco a parlare di “emergenza carceraria”. Ecco cosa emerge dalla relazione annuale della garante dei diritti delle persone private delle libertà personale del Comune di Torino, Monica Gallo, che ieri a Palazzo civico ha parlato dello stato dei penitenziari cittadini nel 2022. A saltare all’occhio è il numero di interventi del 118, in aumento rispetto all’anno precedente, e in crescita verticale rispetto a dieci anni fa. Al Ferrante-Aporti, il peniteniziario minorile, nel 2022 sono stati effettuati 62 interventi, contro i 19 del 2021 e i 12 del 2014. Al Lorusso e Cutugno 155 in lievissima diminuzione rispetto al 2021, ma in un aumento vertiginoso rispetto al 2014. Va peggio al Centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi: 201 interventi nel 2022, 192 nel 2021 e 5 nel 2012. In un altro punto della relazione si mette in luce un altro problema: la carenza di contatti con gli operatori. “Dall’accurata visita nelle sezioni - si legge - è emerso che all’interno le visite del personale educativo, sanitario, amministrativo sono rarissime ad eccezione del direttore: gli operatori e i sanitari non entrano, gli infermieri distribuiscono la terapia dal cancello all’ingresso”. Alla garante lo scorso anno sono arrivate 128 segnalazioni allarmanti sulle modalità con cui vengono erogati i servizi a tutela della salute. Nel rapporto si ribadisce una “totale assenza di dialogo con tutti gli operatori sanitari”. Un’analisi a parte merita il Padiglione B del Lorusso e Cutugno. Il Comitato prevenzione tortura boccia quell’area del carcere: le quattro celle che lo compongono vengono definite “sporche” e le persone “lasciate sole come animali in una gabbia per essere guardate a bocca aperta dagli altri detenuti e dal personale dinnanzi alla grata metallica della cella”. Certo, anche il resto della struttura non gode di buoni giudizi: nel 2022 sono arrivati 329 reclami per le condizioni generali, il triplo rispetto a quelle inviate l’anno precedente. In totale, tra Lorusso e Cutugno, ex Cpr e Ferrante Aporti lo scorso anno si sono registrati 35 tentati suicidi, 143 gesti di autolesionismo e 3.761 eventi critici. Ma in questo quadro fosco c’è un altro piatto della bilancia, sul quale si misurano alcuni aspetti positivi. Ad esempio il “notevole incremento di iscrizioni ai corsi universitari: dai 66 del 2021/22 ai 94 dell’anno accademico in corso”. Per altro verso si registra anche una diminuzione del sovraffollamento, ma ciò è dovuto al flusso di trasferimenti in altre carceri, “spesso pianificati in modo casuale, senza attenzione ai percorsi intrapresi dai detenuti” prosegue Gallo. Delle 1.350 persone recluse circa 480 devono scontare pene inferiori ai due anni. Un terzo del totale è in regime di carcerazione preventiva: detenuti che in teoria potrebbero accedere a misure meno afflittive, al di fuori dal Lorusso e Cutugno. Il sindaco Stefano Lo Russo, commentando il rapporto, appare preoccupato. “Purtroppo - afferma - i dati non sono soddisfacenti, il tasso di recidiva soprattutto nei giovani è troppo alto e la questione investe anche il Centro per il rimpatrio”. Milano. Il carcere minorile dove si mangia coi piatti sulle ginocchia di Manuela D’Alessandro agi.it, 8 aprile 2023 Il report del Garante dei detenuti che ha visitato il Beccaria, struttura milanese teatro della clamorosa evasione di sette giovanissimi nel Natale scorso. E le comunità rifiutano i giovani “ospiti” che tentano un reinserimento nella società. È “sempre emergenza” al carcere minorile Beccaria di Milano dove sette ragazzi evasero il giorno di Natale dell’anno scorso con una clamorosa fuga che evidenziò i problemi della struttura e, in generale, dei giovani detenuti ai quali ieri Papa Francesco ha dedicato il rito della lavanda dei piedi. Lo certifica il report di una visita svolta dal Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto accompagnato, tra gli altri, da don Gino Rigoldi. Dal documento letto dall’AGI emergono molti problemi. L’immagine più forte è quella dei ragazzi in isolamento che “pranzano coi piatti sulle ginocchia” perché il refettorio non funziona e non sono stati messi i tavolini nelle celle. Si è pensato di risolvere il problema con tavoli di plastica o a ribalta che però non sono adeguati per ragioni di sicurezza. Mancano un progetto educativo, la stabilità delle figure del direttore, del Comandante e gli agenti che sono sempre pronti ad andare altrove e spesso le comunità contattate dove dovrebbero essere collocati alcuni degli arrestati non vogliono questi giovani. “I ragazzi che arrivano al Beccaria hanno delle modalità relazionali molto aggressive, spesso con problematiche non solo nella condotta ma anche legate all’uso della droga e a problemi psichiatrici”. Ci sono sette provvedimenti di collocamento in comunità ma non si trovano i posti, le comunità rifiutano in tutta Italia. Sono 70 i ‘no’ registrati nell’ultimo periodo. Una situazione, viene spiegato nel dossier, comune e motivata dal fatto che non hanno posto, i casi sono molto problematici e non se la sentono di accollarseli e talvolta si tratta di minori non accompagnati. Da considerare anche “la difficoltà a reperire gli educatori perché le paghe sono basse”. Attualmente sono 31 gli ospiti, negli ultimi 25 giorni sono stati ben 33 i minorenni arrestati. Numeri elevati che spiegano la presenza di 7 giovanissimi in più rispetto alla capienza. Tre sono in isolamento, di cui due per il Covid e uno in attesa di una comunità che non si trova. La buona notizia è che i lavori di ristrutturazione sono finiti e presto saranno pronti i nuovi spazi definiti dal Garante “estremamente necessari”. Maisto, accompagnato nella vista anche dalla vicedirettrice Raffaella Messina e dalla collaboratrice Anna Abatematteo, chiede “più educatori che possano accogliere i ragazzi appena arrivati e una maggiore organizzazione e gestione degli spazi”. Milano. “Troppi minori reclusi per errore nei Centri per il rimpatrio” di Giorgia Venturini fanpage.it, 8 aprile 2023 La denuncia dei consiglieri comunali. Il presidente e vice presidente della Sottocommissione Carceri di Milano hanno fatto un sopralluogo al centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano per verificare le condizioni del centro e la sua utilità: “Un fallimento completo”. Nella mattinata di oggi venerdì 7 aprile Daniele Nahum e Alessandro Giungi, rispettivamente presidente e vice presidente della Sottocommissione Carceri di Milano, hanno fatto un sopralluogo al centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano. Insieme ai membri della commissione c’erano altri quattro componenti del Consiglio comunale sia di maggioranza che di minoranza. L’obiettivo era quello di verificare le condizioni del centro e la sua utilità. E alla fine Daniele Nahum ha precisato: “Abbiamo toccato con mano la totale inutilità dei CPR e il fallimento completo della legge Bossi-Fini”. Le condizioni del centro per il rimpatrio di Milano - In una nota i consiglieri hanno spiegato quello che hanno visto durante la loro visita: “Nel centro attualmente si trovano 28 persone detenute in via amministrativa. Due delle tre sezioni sono chiuse per lavori di sistemazione, a seguito di due recenti proteste che le hanno rese inagibili”. Al centro delle loro considerazione ci sono i minori che vengono accompagnanti del centro in attesa di essere rimpatriati: “Siamo stati informati - denunciano i consiglieri - che è già successo in diverse occasioni che minorenni siano stati portati al CPR e poi solo a seguito di un esame radiologico portati in altra struttura. Questo passaggio in un CPR da parte di minorenni è qualcosa di ovviamente inaccettabile e che deve essere in tutti i modi evitato”. Il presidente e vicepresidente in una nota hanno sottolineato come non mancano casi di autolesionismo: in un anno ci sono almeno una decina di casi di tentati suicidi. “Vi è poi - continua la nota - una altissima presenza di persone detenute che dichiarano di avere problemi psicologici e psichiatrici, assolutamente aggravati dalla permanenza all’interno di un CPR”. “L’inutilità del centro” - La denuncia si concentra contro il sistema di espulsione: “È sconcertante come alcune delle persone ristrette al CPR abbiano passato diversi anni in carcere senza che venisse attivato l’iter dell’espulsione: se non si è proceduto all’espulsione dopo anni di carcere, come si pensa che ai possa farlo tramite la permanenza al CPR? All’interno della struttura vi sono anche persone residenti in Italia da 20 anni e che si vorrebbe rimandare in Paesi in cui non hanno più alcun legame e di cui, magari, neppure parlano la lingua”. Per il gruppo di consiglieri non vi è dubbio della “totale inutilità del centro di via Corelli a Milano”. Oristano. Stefano Dal Carso, morto in cella: una finta consegna Amazon riapre il caso di Andrea Ossino La Repubblica, 8 aprile 2023 “Non si è suicidato”. Nuovi inquietanti dettagli sulla fine del 42enne romano. Recapitato alla sorella un libro con le parole “morte” e “confessione” sottolineate. Il giallo del cappio, gli orari sballati e i testimoni si contraddicono. Un libro, una coppia di finti fattorini Amazon. Due parole sottolineate a pagina 7. Prima “confessione”. Poi “morte”. Una serie di dettagli inquietanti. Sufficienti a riaprire il caso della morte di Stefano Dal Carso, detenuto trovato impiccato in cella nel carcere di Oristano a ottobre, e a farlo diventare un vero giallo. La svolta è datata 8 marzo. Quel giorno, a distanza di cinque mesi dalla morte del 42enne del Tufello, dietro le sbarre per una tentata estorsione, due corrieri bussano alla porta della sorella della vittima. Si chiama Marisa e di lei i fattorini sembrano sapere tutto: conoscono il suo numero di telefono, sanno del citofono rotto, dicono di essere due corrieri di Amazon. Così non è. Non indossavano neanche la divisa. E, dopo aver bussato alla porta, si limitano a consegnare una scatola alla donna. Un’epifania inattesa che, come detto, riapre il caso Dal Carso. Il libro dei finti fattorini era diretto proprio al detenuto scomparso a fine 2022. All’interno del volume firmato da una mistica austriaca (altro particolare inquietante) ecco una doppia sottolineatura. Forse un messaggio in codice: “La confessione” e “La morte”. Come se qualcuno volesse comunicare qualcosa. Basterebbe raccontare questo episodio per capire che c’è qualcosa di strano intorno alla morte del 42enne romano. Ma in questa storia, subito catalogata dalla procura di Oristano come un suicidio in cella e chiusa senza nemmeno un’autopsia, emergono anche altri elementi oscuri. Dettagli che, se presi in considerazione, potrebbero finalmente permettere ai familiari della vittima e all’avvocato Armida Decina di chiarire ogni aspetto di questa vicenda. Per decifrare questa storia occorre partire dall’inizio, da quando Stefano da Rebibbia è arrivato nella cella numero 8 del carcere di Oristano. Era il 4 ottobre, un paio di giorni prima dell’udienza di un processo che sta affrontando in Sardegna. Una condanna per tentata estorsione, una vita trascorsa oltre i limiti e problemi di tossicodipendenza non hanno scalfito il morale del ragazzo. Con la psicologa del carcere “si mostra disponibile e collaborante”, spiega di non voler avere più niente a che fare con la droga e “nega attuali intenti autolesivi”, annota la dottoressa. Stefano dice di voler ricominciare una nuova vita anche alla ex compagna, quando la incontra assieme alla figlia di 7 anni. Lo ribadisce ancora in un paio di lettere inviate dal carcere pochi giorni prima di morire. Parla di progetti per il futuro, di lavoro e famiglia. Insomma, nulla che potesse far pensare a un suicidio. Dal Carso aveva anche chiesto di essere trasferito definitivamente nel carcere di Oristano per stare vicino alla sua famiglia. Ma il 12 ottobre, il giorno prima di tornare a Roma, quando ormai mancavano pochi mesi alla sua scarcerazione, Stefano viene trovato morto. Si parla subito di suicidio. Un agente della penitenziaria racconta di averlo trovato impiccato alla finestra della cella. Il medico del carcere e firma una “diagnosi di morte per la rottura del collo”. Vengono sentiti infermieri, detenuti e agenti. “Non ci sono ipotesi alternative”, dice il pm. Stefano si è suicidato. È così evidente, per la procura, che non occorre neanche l’autopsia. “Qui i fatti prendono una piega anomala ed incomprensibile”, sottolinea l’avvocato Decina. Perché, come riferisce un medico legale dell’università di Milano, è impossibile stabilire le cause della morte senza un’autopsia. Tanto meno accertare se si sia rotto “l’osso del collo”. C’è di più: le testimonianze non sono omogenee. Il medico dice di aver trovato Stefano alle 14,40 e di essere sicuro dell’orario perché avrebbe visto l’orologio prima di effettuare le manovre cardiache. L’agente che per primo ha visto il ragazzo privo di sensi invece si contraddice: prima fissa l’orario del ritrovamento alle 14,40, poi alle 14,50, sottolineando che 10 minuti prima è sicuro che Stefano fosse ancora vivo. La psicologa invece è “assolutamente certa che fossero le 14”. Anche sulla presenza di altri detenuti nelle celle vicine ci sono dei dubbi. I testimoni prima le ricordano vuote, per poi correggersi. C’era un altro carcerato. Ma è stato trasferito. Poi c’è il cappio. Per il pm, Stefano lo avrebbe realizzato tagliando con una lama alcuni pezzi delle sue lenzuola. Stoffa mai mostrata all’avvocato della difesa: il tessuto appare diverso da quello delle lenzuola dell’unico letto della cella, perfettamente rifatto. Elementi da approfondire per chiarire come sia morto Dal Carso mentre era nelle mani dello Stato. Salerno. I giovani avvocati visitano i detenuti: pronti alla collaborazione con il carcere Il Mattino, 8 aprile 2023 I giovani avvocati dell’Aiga visitano i detenuti e il carcere: incontro interessante per una futura collaborazione. I giovani avvocati in visita al carcere di Salerno nell’ambito del progetto di sensibilizzazione e confronto promosso dall’Onac - Osservatorio AIGA sulle carceri. La delegazione della sezione di Salerno dell’Aiga, formata dagli avvocati Andrea Annunziata, Cristian Manniello, Mario D’Amato e Giuseppe Di Vietri, accompagnata dalla direttrice Rita Romano e dalla dottoressa Monica Innamorato, responsabile dell’area educativa, ha potuto raccogliere i dati relativi alla struttura penitenziaria. Sovraffollamento della popolazione carceraria e sottodimensionamento dell’organico restano le problematiche irrisolte. Durante la visita la delegazione ha avuto modo di entrare a contatto con i detenuti e con la loro realtà quotidiana, accedendo alle celle e all’area didattica dove i ristretti hanno la possibilità di seguire corsi, frequentare l’istituto alberghiero e la scuola secondaria di primo grado, oltre che dedicarsi svariate attività formative e culturali. “Un’esperienza significativa e costruttiva - ha dichiarato l’avvocato Andrea Annunziata, referente Onac di Salerno - sia dal punto di vista umano che professionale. Abbiamo potuto constatare in prima persona le condizioni di vita dei detenuti e le difficoltà affrontate quotidianamente dal personale di polizia penitenziaria. Solo un incessante lavoro, portato avanti in primis dalla direttrice Rita Romano, riesce ad attenuare le innegabili carenze strutturali e di organico dell’istituto”. L’iniziativa è stata un’occasione certamente importante per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni dei detenuti e porre l’attenzione sulle criticità che coinvolgono gli istituti penitenziari, secondo le finalità perseguite dell’Osservatorio Nazionale Aiga sulle carceri. “Auspico che l’iniziativa - ha affermato l’avvocato Ugo Bisogno, presidente della sezione Aiga di Salerno - possa costituire un punto di partenza per una collaborazione costante tra l’amministrazione penitenziaria e la giovane avvocatura, che può essere una vera e propria cassa di risonanza delle esigenze e delle proposte di modifica sugli ordinamenti penitenziari e sugli istituti carcerari”. “The Good Mothers”: chi è Giuseppina Pesce, che vuole bloccare la nuova serie tv di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2023 La vera storia della pentita di ‘ndrangheta. Ad appena due giorni dall’uscita della serie tv, la collaboratrice di giustizia di Rosarno Giuseppina Pesce prende le distanze e denuncia la messa in onda di The Good Mothers, trasmessa sul canale Disney+. Stando al legale della pentita di ‘Ndrangheta, l’avvocato Michela Scafetta, nessuno prima ha chiesto e acquisito il consenso della collaboratrice di giustizia. “A ciò si aggiunga - è scritto in una nota dell’avvocato - che la signora Pesce si dissocia dalla narrazione della vicenda, in particolar modo per quel che attiene al contenuto dei primi 3 episodi, ove viene riprodotto un personaggio che nulla ha a che vedere con la storia reale della protagonista e con il suo vissuto all’interno della sua famiglia di origine. Peraltro, il padre della signora Pesce viene descritto come un orco e ciò non corrisponde al vero, essendo lo stesso stato sempre amorevole con la figlia e figura di riferimento per la stessa. Atteso il contenuto della serie, la mia assistita ha già diffidato le case di produzione e l’emittente dalla messa in onda della serie tv ed in ogni caso si riserva di agire nelle opportune sedi per il ristoro dei diritti ingiustamente violati”. Se questo è il comunicato stampa, sui social l’avvocato Scafetta rincara la dose: “Mi trovo a difendere i diritti di Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia, unica rimasta in vita, che da anni si nasconde per sfuggire a chi vorrebbe vederla morta. La difendo non dalla sua famiglia d’origine ma da Disney+ che ha messo in onda, senza alcuna autorizzazione, The Good Mothers che ha raccontato una storia che in parte distorce la realtà ma che soprattutto, in maniera grave, mette a rischio la vita della donna e dei suoi figli”. Ma chi è Giuseppina Pesce? Appartenente alla cosca Pesce di Rosarno, una delle più temute famiglie di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, è stata arrestata nell’aprile 2010 su richiesta della Dda di Reggio Calabria nell’ambito maxi-operazione All inside, coordinata prima dal sostituto procuratore Roberto Di Palma e poi dal pm Alessandra Cerreti. Detenuta nel carcere di San Vittore, a Milano, sei mesi più tardi Giuseppina Pesce è crollata. Il 14 ottobre 2010 ha iniziato a collaborare con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria all’epoca guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone. Sposata con tre figli, la pentita ha confessato ai pm di aver svolto il delicato ruolo di collegamento tra il padre detenuto, il boss Salvatore Pesce, il fratello Francesco, e gli affiliati ai quali dava indicazioni sulle estorsioni e sulle modalità che la cosca adottava per nascondere il patrimonio acquisito con le attività illecite. Con le sue dichiarazioni, presto la donna ha fatto scattare l’operazione All inside 2: ha ricostruito, infatti, l’organigramma della famiglia d’origine indicando nel cugino, all’epoca latitante, Francesco Pesce detto Testuni (e figlio del boss Nino Pesce) il più pericoloso tra i rampolli del clan. Pochi mesi più tardi, il 2 aprile 2011, quando era già ai domiciliari in una località protetta, ha scritto al Tribunale manifestando la volontà di interrompere la collaborazione e sostenendo di essere stata indotta a rendere dichiarazioni false dagli organi inquirenti. Pochi giorni dopo, inoltre, Giuseppina Pesce si è rifiutata di sottoscrivere il verbale illustrativo della sua collaborazione avvalendosi della facoltà di non rispondere alla domanda del pm che le chiedeva se quanto dichiarato nei precedenti interrogatori corrispondesse o meno alla verità. Chiesta la revoca del programma di protezione, la donna è rimasta ai domiciliari per poi essere arrestata il 10 giugno 2011 per evasione. Meno di un mese, però, ha ripreso a collaborare con la giustizia e al pm Cerreti ha spiegato che quella lettera, con cui aveva ritrattato, l’ha scritta di suo pugno per paura. Se non l’avesse fatto, c’è scritto nel verbale del 2 agosto 2011, “sarei stata esposta, come ripeto, al fatto che… insomma, che me l’avrebbero fatta pagare… questa lettera e? stata, tipo fatta per… per pensare… insomma, per farmi da scudo per la gente, insomma, per i miei famigliari che… cioè? che sono stati”. Quella lettera è stata pubblicata da Calabria Ora, il giornale locale all’epoca diretto da Piero Sansonetti che polemizzò con l’allora procuratore Pignatone al quale il giornalista ha chiesto spiegazioni sull’operato del suo ufficio, lanciando il sospetto che i pm di Reggio Calabria avessero utilizzato i figli di Giuseppina Pesce per esercitare “una pressione psicologica” sulla stessa e per indurla “a parlare”. Così non è stato e lo ha spiegato la stessa collaboratrice nell’interrogatorio reso il 21 maggio 2012 davanti al Tribunale di Palmi. Collegata dall’aula bunker di Roma, infatti, Giuseppina Pesce confermò che la copia di quella lettera e? stata inviata ad un giornale: “Adesso non ricordo a quale, - sono le sue parole - pero? e? stata inviata pure ai giornali perché dicevano che questa cosa doveva venir fuori, doveva essere resa pubblica. Tutti dovevano sapere che io non ero una collaboratrice. Cioè quella sarebbe stata la prova che io non stavo collaborando più. Prima di quella lettera c’e? stata una pressione che mi facevano continuamente di scrivere questa lettera, di scriverla… Mio cognato Palaia Gianluca, mia cognata Palaia Angela… dicevano che fino a che io non avessi scritto quella lettera… dicevano che i miei familiari non erano tranquilli, che dopo quelle lettere avrebbero capito che io effettivamente facevo sul serio, che volevo tornare indietro”. In realtà la storia giudiziaria di Giuseppina Pesce dimostra che, dopo quel tentativo di ritrattare, non è mai tornata indietro e anzi le sue dichiarazioni si sono rivelate importanti per le indagini della Dda di Reggio Calabria sulla cosca Pesce di Rosarno, la cittadina della Piana di Gioia Tauro dove in quel periodo aveva deciso di collaborare con la giustizia pure Maria Concetta Cacciola. Le due donne avevano la stessa età, si conoscevano sin da bambine, da quando avevano 8-9 anni, e avevano alle spalle un vissuto simile: erano diventate amiche, frequentavano gli stessi posti ed entrambe avevano i mariti in carcere. Dopo aver saltato il fosso, Cacciola si è allontanata dalla località protetta ed era ritornata a Rosarno dove la sua famiglia è organica della cosca Bellocco. Voleva rivedere i figli. Aveva paura per loro che, ancora, si trovavano con i nonni nella cittadina della Piana di Gioia Tauro. Tornata a Rosarno, il 20 agosto 2011 è morta bevendo acido muriatico. “Una ragazza solare”. È il ricordo che Giuseppina Pesce ha dell’amica Maria Concetta Cacciola. Due storie parallele che dimostrano come la ‘ndrangheta non perdona. Nemmeno le donne. Educare ai sentimenti nella scuola per ridurre ansie, violenze, abbandoni di Vanna Iori huffingtonpost.it, 8 aprile 2023 Stiamo affrontando un’emergenza senza precedenti. Ma le famiglie e le scuole sono povere (o prive) di risposte. Occorre investire sul versante della vita emotiva e delle comunità educanti. I recenti abbandoni del liceo da parte di molti studenti stressati, spaventati e non più in grado di gestire le proprie paure ed emozioni ci interrogano profondamente sui cambiamenti antropologici, sociali e relazionali che stanno attraversando la loro vita e la nostra società. Stiamo affrontando un’emergenza senza precedenti. Ma le famiglie e le scuole sono povere (o prive) di risposte. Occorre investire sul versante della vita emotiva e delle comunità educanti, strumenti indispensabili per creare una rete di supporto in grado di offrire ai ragazzi un sostegno articolato fondato sulla relazione tra scuola, enti territoriali, famiglie, terzo settore, parrocchie, associazioni sportive, artistiche, con l’ausilio di pedagogisti, educatori e psicologi, in grado di lavorare in équipe per garantire risposte mirate e multidisciplinari che si integrino a quelle offerte dalle scuole. È indispensabile tornare a parlare di alfabeti emotivi ed è urgente lavorare su un processo di alfabetizzazione emotiva che aiuti i ragazzi a comprendere e leggere le proprie emozioni e quelle degli altri. Un “esercizio” che comporta il riconoscimento dell’aspetto e delle sensazioni associate alle nostre emozioni e, contestualmente, l’uso di questa capacità/abilità per comprendere meglio cosa si muove dentro il “trambusto” dell’anima per riconoscere anche ciò che accade negli altri. I ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati e di essere aiutati a comprendere come affrontare la complessità della loro vita emotiva di cui non conoscono gli alfabeti. Imparare ad ascoltare la complessità della vita emotiva migliora la nostra capacità di stare al mondo ma anche la qualità delle relazioni in famiglia e con gli altri ragazzi o ragazze. Ed è proprio la scuola il luogo dove iniziare a coltivare questa alfabetizzazione: insegnare ai ragazzi cosa sono le emozioni, a cosa servono, come si esprimono e come si possono gestire. Si tratta di una competenza fondamentale per l’adattamento sociale e relazionale di ogni essere umano, in quanto permette di sviluppare strategie per far fronte allo stress e di stabilire relazioni sociali positive. Non possiamo lasciare i giovani liceali in preda al disordine emotivo di cui ogni giorno la cronaca ci presenta episodi sconcertanti. Grazie a una più strutturata alfabetizzazione emotiva - che è il frutto di dell’interazione tra diversi sistemi che si intrecciano tra loro, a partire da quello familiare e scolastico- possono affrontare i comportamenti di dolore, stress, paura, aggressività o conflitti nelle relazioni interpersonali con maggiori strumenti e più consapevolezza. L’educazione emotiva diventa poi decisiva perché consente di promuovere lo sviluppo emotivo come un complemento indispensabile dello sviluppo cognitivo. Perché la crescita emotiva e cognitiva sono entrambe elementi indispensabili nella costruzione della personalità. Ce lo insegnano le neuroscienze. Antonio Damasio afferma che “La capacità di esprimere e sentire emozioni è indispensabile per attuare comportamenti razionali”. Le emozioni sono sempre collegate alla ragione: cuore e cervello, pathos e logos. Anche se l’intelligenza cognitiva è molto importante e concepita come elemento prioritario nella riuscita scolastica, l’intelligenza emotiva è altrettanto indispensabile per operare scelte di vita, usando la consapevolezza di sé, l’empatia e le abilità sociali per la prevenzione del disagio. Oggi la grande sfida dei sistemi educativi è proprio questa: tenere insieme le competenze emotive con quelle cognitive. Fare scuola oggi non può prescindere da questo. Cosa sono le competenze se non la capacità di usare consapevolmente e efficacemente le conoscenze e le attitudini in rapporto ai contesti? Mi auguro che nei prossimi mesi, abbandonata la propaganda, si possa tornare a investire profondamente sugli strumenti di sensibilizzazione, di educazione all’affettività e di lotta agli stereotipi. In Italia si affida questo compito alla capacità di iniziativa di singoli dirigenti scolastici o docenti che, nell’ambito dell’autonomia concessa a ogni scuola, decidono -con il consenso e la collaborazione delle famiglie- di avviare dei percorsi specifici. Dobbiamo farla diventare una sfida di tutti gli adulti nei contesti educativi. Chiusi in gabbia e storditi con gli psicofarmaci: l’inferno dei migranti nei Centri per il rimpatrio di Romina Marceca La Repubblica, 8 aprile 2023 L’inchiesta di Altraeconomia: dai dati sulla spesa sanitaria si evince l’uso abnorme di antiepilettici, antipsicotici e antidepressivi. Per Riccardo Magi di +Europa e Ilaria Cucchi di Sinistra italiana i Cpr “vanno chiusi, sono incostituzionali e peggio delle carceri”. Rinchiusi in gabbie come allo zoo e sedati tanto da sembrare zombie. È l’immagine dei migranti che passano nei nove Centri per il rimpatrio d’Italia, vere carceri super sorvegliate dove l’abuso di psicofarmaci emerge da un’inchiesta del mensile Altreconomia. Fonti incrociate hanno messo in luce l’uso diffuso di antiepilettici, antipsicotici e antidepressivi. Il dato shock arriva da Milano. Nel Cpr di via Corelli l’acquisto di psicofarmaci è pari al 64 per cento della spesa sanitaria totale. Una cifra 160 volte più alta di quella del Centro salute immigrati di Vercelli che accoglie tutti i migranti irregolari in Piemonte. I dati sono riferiti al periodo tra ottobre del 2021 e febbraio 2022 ma si fatica molto a pensare che l’andamento sia cambiato nel tempo. Soprattutto se si ascoltano le parole di chi nei Cpr è riuscito a entrare. Come Riccardo Magi, segretario di +Europa, e la senatrice Ilaria Cucchi di Sinistra italiana. “Vanno chiusi, sono incostituzionali e peggio delle carceri”, sono state le loro parole presentando alla Camera l’inchiesta di Altreconomia. Non si tratta esattamente delle stesse che aveva utilizzato qualche settimana fa il ministro dell’Interno, che aveva descritto i Cpr come “luoghi poco gradevoli”. I Cpr per i quali è stato possibile avere i dati riferiti alla spesa sanitaria sono stati cinque su nove: Milano, Torino, Roma, Nuoro, Caltanissetta. E nella classifica delle pasticche facili al secondo posto c’è Roma. Nella capitale gli psicofarmaci incidono del 51 per cento sulla spesa totale sanitaria (a Torino del 44 per cento). Tra il 2019 e il 2021 sono state acquistate 3.480 compresse di Tavor, 270 flaconi di Tranquirit e 185 fiale di Valium per una popolazione di 2.812 migranti. A Macomer, in Sardegna, l’acquisto di psicofarmaci incide del 16 per cento. Al sud la percentuale scende, a Caltanissetta la spesa di psicofarmaci incide del 10 per cento. Ma colpisce che le compresse di Rivotril acquistate tra il 2021 e 2022 sono state 57.040 a fronte di 574 trattenuti. Cioè 37 pasticche a testa. Al Cpr di Torino sono stati spesi, tra il 2017 e il 2019, 3.348 euro in Rivotril: circa il 15 per cento della spesa sanitaria totale. Riccardo Magi ha annunciato un’interpellanza urgente al ministro dell’Interno Piantedosi. “Dovrebbe rispondere subito, già adesso, davanti a questi dati”, ha detto Magi. Una richiesta che arriva quando proprio nell’ultima legge di Bilancio sono stati previsti oltre 42,5 milioni di euro per l’ampliamento della rete dei Cpr in Italia che dovrebbero arrivare a 20, uno per regione. Ancora una volta i dati esprimono il malessere dentro ai centri. Negli ultimi cinque anni al Cpr di Ponte Galeria sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan per i 4.200 migranti transitati. Il calcolo è di una media di 36 pastiglie a testa quando un ciclo normale ne prevede 15. Ilaria Cucchi, al fianco di Repubblica, sta seguendo gli sviluppi per la morte del migrante tunisino Wissem Ben Abdel Latif. Ha ripercorso le sue tappe prima di morire legato e sedato a un letto di ospedale. E’ entrata nel Cpr di Ponte Galeria a Roma dove Wissem era stato destinato e non usa mezzi termini nel descriverlo: “Sembravano zombie e storditi, ed erano pochi: 93. Oggi la situazione è peggio di dieci anni fa, sembra di stare allo zoo. Tutto questo succede nel disinteresse totale, con violazione dei diritti e spesso con la morte”. Nel 2021 sono state circa 6mila le persone transitate nei Cpr, per un periodo compreso tra 15 giorni a oltre due mesi. Il rimpatrio è avvenuto in meno del 50 per cento dei casi. Per questo, spiegano gli autori del’inchiesta Luca Rondi e Lorenzo Figoni: “Il ricorso agli psicofarmaci è il modo per stordire i detenuti e evitare che rivendichino i loro diritti. Oltretutto, l’assistenza sanitaria non è affidata a figure specialistiche della Asl ma a personale assunto dagli enti gestori”. Migranti. “Il ministro Piantedosi spieghi l’abuso di psicofarmaci sui migranti nei Cpr” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2023 L’inchiesta di “Altraeconomia”. Parla Riccardo Magi, segretario di +Europa. “In mancanza di consenso informato firmato, si configura anche un reato penale a carico di chi somministra i farmaci. Ora va rivisto il servizio sanitario interno ai centri”. “Di fronte alla gravità dei dati riportati per la prima volta nell’inchiesta pubblicata dalla rivista Altraeconomia, che dimostrano l’abuso arbitrario e senza alcun criterio di psicofarmaci somministrati ai migranti rinchiusi nei Centri di permanenza per il rimpatrio, il ministro Piantedosi avrebbe dovuto immediatamente intervenire per fare chiarezza”. E invece, preso atto del silenzio del Viminale, il giorno dopo della presentazione alla Camera dell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” realizzata dai giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni, al segretario di +Europa Riccardo Magi, promotore dell’iniziativa insieme alla senatrice di Avs Ilaria Cucchi, non rimane che depositare un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno e a quello della Salute Schillaci, così come faranno anche il deputato del Pd Emiliano Fossi e il senatore di Azione-Iv, Ivan Scalfarotto. Lei ha visitato varie volte i Cpr italiani: si era mai accorto di questo abuso di psicofarmaci? Chi come noi parlamentari è potuto entrare nei Cpr ha sempre avuto l’impressione che le persone rinchiuse fossero spesso in uno stato di semi incoscienza. In questi luoghi, che sono volti all’annullamento totale della dignità umana, dove uomini e donne sono stipati in gabbie vere e proprie, con anche il tetto fatto di sbarre, come negli zoo di qualche decennio fa, non si può fare a meno di notare queste persone stordite, sotto il palese effetto di sostanze. Oggi però abbiamo l’evidenza dei dati: il numero impressionante di psicofarmaci che viene consumato in questi centri in Italia. È evidente che ne viene fatto un uso sistematico e smodato. E la cosa più grave è che queste somministrazioni avvengono al di fuori di qualunque piano terapeutico. Secondo Altraeconomia, le visite psichiatriche sono rarissime... Delle due l’una: o le persone recluse nei Cpr sono affette da patologie gravi che richiedono antiepilettici, antipsicotici e antidepressivi, e allora non dovrebbero stare in quei luoghi, oppure se vengono ammesse, perché risultano sane alla visita di ingresso - che è l’unica volta in cui vengono viste da un medico della Asl -, allora non dovrebbero assumere questi farmaci. In mancanza di consenso informato firmato dai pazienti, si configura anche un reato penale a carico di chi somministra i farmaci. Nelle carceri, la sanità è gestita direttamente dalla Asl di riferimento. E nei Cpr? Il servizio sanitario interno alla struttura dipende dall’ente gestore che ha rapporti con medici privati, a volte presenti e a volte chiamati al bisogno. Un servizio che andrebbe completamente rivisto alla luce di ciò che è emerso da questa inchiesta. Qual è il Cpr che ricorda di più? All’inizio del 2020 andai a visitare il Centro di Gradisca d’Isonzo dove era da poco morto un giovane georgiano, Vakhtang Enukidz. Parlai con molte persone, mi riferirono di pestaggi, e vidi chiaramente che molti erano sedati, o sotto effetto di sostanze. Denunciai tutto in procura. Venne fatta un’autopsia che rivelò come causa della morte un edema polmonare dovuto ad un mix di psicofarmaci. All’inizio di quest’anno si è aperto il processo a carico dell’allora direttore e di un operatore interno, accusati di omicidio colposo. Il governo vuole invece allargare entro il 2025 la rete dei Cpr, per averne uno in ogni regione. E allo scopo sono già stati previsti in Bilancio 42,5 milioni di euro... Questi migranti - che sono in uno stato di “detenzione amministrativa”, ed già è una bestemmia dal punto di vista giuridico - vengono reclusi per essere identificati e poi espulsi. La follia di questi posti è ancora maggiore se consideriamo che la maggior parte di quelle persone non verranno mai espulse perché i rimpatri sono possibili davvero solo se c’è un accordo bilaterale, e comunque è sempre difficoltoso e costoso. Piantedosi non è il primo che vuole arrivare a 20 Cpr (oggi ce ne sono nove attivi, perché quello di Torino è stato momentaneamente chiuso dopo le rivolte): la primogenitura è di Minniti. Ma questa è un’involuzione del nostro Paese: una decina di anni fa si era arrivati alla conclusione che questi luoghi andassero chiusi. Perché stavano anche sfuggendo al controllo dello Stato. Cosa che oggi quest’inchiesta dimostra nuovamente. Congo. Sei ergastoli (e zero prove) per l’omicidio di Attanasio-Iacovacci-Milambo di Matteo Giusti Il Manifesto, 8 aprile 2023 La sentenza della corte militare di Kinshasa. Il pubblico ministero aveva chiesto la pena di morte. Ma restano troppi punti oscuri, in attesa del processo romano per omesse cautele ai funzionari Onu del World Food Programme. La corte militare di Kinshasa-Gombe ha condannato all’ergastolo i sei imputati a processo per l’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del World Food Programme Mustapha Milambo anneuto nel Nord Kivu il 22 febbraio 2021. Il pubblico ministero aveva chiesto la pena di morte per tutti e sei, ma i giudici hanno deciso di comminare il carcere a vita. In aula sono apparsi soltanto cinque dei presunti membri del commando omicida: Shimiyimana Prince Marco, Murwanashaka Mushahara André, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu detto Ombeni Samuel e Issa Seba Nyani, mentre un sesto è stato condannato in contumacia alla stessa pena. La richiesta di pena di morte aveva fatto molto scalpore, perché nella Repubblica democratica del Congo non viene applicata da oltre vent’anni, anche se resta presente nell’ordinamento giudiziario, ma una specie di moratoria ufficiosa l’ha messa da parte. In questa decisione ha avuto sicuramente un peso anche il ruolo dell’Italia che, dopo essersi costituita parte civile, si era subito opposta alla pena di morte. Anche la famiglia Attanasio aveva espresso contrarietà alla pena capitale, sottolineando come anche Luca fosse sempre stato contrario. L’accusa contro i sei era di omicidio, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni da guerra e proprio per la presenza di questa tipologia di armi il processo è stato affidato a un tribunale militare, scelta sempre contestata dalla difesa che riteneva che dei civili non potessero essere processati da una corte militare. La corte marziale ha sposato la tesi di un’esecuzione delle vittime, ma restano tanti i punti oscuri di questa vicenda, a cominciare dagli imputati che nel gennaio scorso erano completamente diversi. La polizia congolese aveva gettato letteralmente in pasto alla stampa una decina di uomini scalzi e ammanettati, dicendo che fra questi erano presenti anche gli assalitori del convoglio del World Food Programme. Poi questi arrestati erano misteriosamente scomparsi ed era iniziato un processo ad altre persone. Di questi nuovi imputati erano state presentate delle confessioni, dove ammettevano di aver assaltato le auto del World Food Programme e assassinato Attanasio, Iacovacci e Milambo. Poi, durante le udienze, queste confessioni erano state ritrattate perché, secondo la difesa, erano state estorte con la forza dopo giorni di torture. Le argomentazioni degli avvocati difensori non erano però bastate ed è arrivata la condanna, ma sembra difficile di poter parlare di giustizia, vista la mancanza di prove contro gli imputati. Nessuno si aspettava troppo dal filone congolese e per questo motivo sarà importante capire come la Procura di Roma, che ha due fascicoli aperti sul caso, uno per terrorismo e omicidio e l’altro per omesse cautele contro i funzionari del World Food Programme, riuscirà a muoversi. Il 25 maggio è prevista la prima udienza a Roma per l’accusa di omesse cautele ai membri dell’agenzia delle Nazioni unite, accusati di aver falsificato i documenti per non segnalare la presenza dell’ambasciatore Attanasio. Il World Food Programme chiede l’immunità processuale per i suoi dirigenti per quella che ha tutta l’aria di diventare una lunga battaglia legale e che probabilmente non scoprirà mai nemmeno ciò che è veramente accaduto quel maledetto 22 febbraio del 2021 su una polverosa strada nel Kivu del Nord, la provincia più orientale e disperata della Repubblica democratica del Congo. Messico. Ayotzinapa, il crimine di stato coperto dall’omertà dei militari di Andrea Cegna Il Manifesto, 8 aprile 2023 Un nuovo rapporto accusa l’esercito messicano di nascondere informazioni sui 43 studenti scomparsi nel 2014. Gli infiltrati nella scuola, i legami con i narcos, le prove alterate: “Mancano 70-80 documenti”. Il Gruppo indipendente di Esperti interdisciplinari (Giei) ha presentato il 31 marzo - il giorno in cui sarebbe dovuto terminare il suo lavoro d’indagine - il suo quinto report intitolato Una visión global sobre los hechos, los responsables y la situación del caso Ayotzinapa. Ciò che accadde a Iguala, la scomparsa di 43 studenti messicani, nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, fu un crimine di stato. Angela Maria Buitrago e Carlos Martin Beristan hanno mostrato prove secondo cui “l’esercito messicano continua a negare l’esistenza di documenti e non risponde agli ordini presidenziali”. I due rappresentati del Giei hanno anche ribadito che a causa della paura non si riesce a rompere il muro di silenzio necessario a risolvere il caso e così, nonostante ci siano “tante persone che sanno cose”, non si trovano a ora nuove testimonianze. Il rapporto sostanzia maggiormente quanto rivelato nell’ultimo anno. Il documento, presentato in conferenza stampa nella sede della Commissione dei diritti umani di Città del Messico, ripercorre tutto quello che gli esperti indipendenti hanno potuto verificare dopo essere tornati operativi nel paese. Viene evidenziato che “diversi membri dell’esercito erano legati a (il cartello) Guerreros Unidos” e che “allo stesso modo ci sono prove documentali recenti, del secondo semestre del 2022, in cui il ministero della difesa nazionale dispone che le risposte da fornire sul caso devono “essere concordate” tra le diverse realtà e “concesse nei termini che sono stati concordati”. Ci sono evidenti “prove tecniche che molti (militari, ndr) abbiano mentito sui loro movimenti”, si legge nel punto 10 del rapporto, assieme a “ufficiali dell’esercito del Battaglione 27 e del Battaglione 41 che erano collusi con il traffico di stupefacenti, come si evince dalle intercettazioni telefoniche da Chicago, Usa, che indicano pagamenti e rapporti con almeno un comandante e un capitano e da dichiarazioni di testimoni protetti che hanno raccontato di come ricevevano denaro periodicamente in modo da permettere ai Guerreros Unidos di muoversi indisturbati, il che spiega, in parte, il ruolo avuto nella notte di Iguala, l’occultamento e la mancanza di protezione dei giovani nonostante le informazioni che erano in loro possesso”. Beristan ha aggiunto: “Sappiamo che ci sono almeno 80 o 90 documenti mancanti. Lo sappiamo perché abbiamo ricevuto documentazione delle intercettazioni che le autorità ricevevano quotidianamente dai tre infiltrati tra gli studenti”. “Abbiamo avuto accesso a documenti che testimoniano la decisione interna di non dare altre informazioni, di dare come risposta che non c’è di più. Il Giei ha un documento che prova questo. È inaccettabile”, ha aggiunto Beristan. Questi documenti e queste prove non solo potrebbero determinare, secondo i due portavoce del Giei, le responsabilità sul caso ma potrebbero aiutare a capire dove i 43 siano finiti. La scuola normale rurale di Ayotzinapa fu infiltrata da almeno tre militari, uno è tra gli scomparsi, un altro - come si legge nel rapporto - il 27 settembre 2014 ha deciso di sospendere l’operazione perché “non più al sicuro”. I tre davano informazioni giornalmente e nella notte del 26 settembre comunicavano in tempo reale con i propri superiori. Il Giei continuerà a investigare fino al 10 giugno, quando presenterà le conclusioni di un lavoro portato avanti superando ostacoli istituzionali, al servizio dei genitori dei 43 desaparecidos e dialogando costantemente con la commissione Per la Verità su Ayotzinapa. Un’indagine che ha obbligato le istituzioni a parlare di “crimine di stato”, mostrando le responsabilità dell’esercito - e le sue compromissioni con il crimine organizzato -, del ministero della difesa e della procura, impegnati tra le altre cose ad alterare la scena del crimine nella discarica di Cocula, così come delle polizie e della politica anche a causa del loro “dialogo” con i gruppi criminali. Il fantasma della notte di Iguala, senza la reale possibilità di un’indagine approfondita, aleggerà sopra il paese lasciando più di un dubbio sulla democrazia in Messico. Ecuador. “Armi per tutti”: la risposta del presidente alla criminalità di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 8 aprile 2023 Il discusso decreto di Lasso. Basta avere 25 anni, un certificato psicologico e uno tossicologico rilasciato dal ministero della Salute. In 18 mesi il Paese si è trasformato nel nuovo hub del narcotraffico a causa dell’arrivo dei cartelli messicani. “Basta, armi per tutti”. Il presidente dell’Ecuador getta la spugna nella sua battaglia contro la criminalità sempre più aggressiva e affida ai cittadini stessi la loro sicurezza. “Abbiamo un nemico comune: la delinquenza, il narcotraffico e la criminalità organizzata”, ha detto il presidente Guillermo Lasso in un drammatico messaggio trasmesso in tv prima di annunciare il decreto che già solleva un vespaio di polemiche ma soprattutto diffonde un clima di vera paura. L’arrivo dei cartelli messicani - Finora solo la polizia e i militari erano autorizzati a girare con delle armi, oltre a singoli imprenditori che subivano pesanti minacce. L’arrivo a sud dei Cartelli messicani decisi a conquistare tutta la filiera del grande business della droga, dalla coltivazione al trasporto fino alla distribuzione, ha rotto l’equilibrio tra le gang locali. Le proposte di alleanza e le imposizioni, a suon di esecuzioni sommarie, hanno convinto alcuni gruppi ad allearsi con i narcos e a conquistare fette sempre più larghe di territorio. La resa dei conti si è consumata nelle carceri dove erano rinchiusi i capi delle diverse bande. In meno di un anno ci sono state cinque rivolte con decine di omicidi, alcuni efferati con torture e decapitazioni. In 18 mesi l’Ecuador si è trasformato nel nuovo hub del narcotraffico e i cartelli messicani sono riusciti ad allargare il loro giro di affari senza dover più ricorrere ai boss colombiani per i rifornimenti. Trattano sul posto le produzioni, organizzano i carichi, gestiscono le spedizioni, controllano le rotte verso gli Usa, l’Asia e l’Europa. Lo stato di emergenza - Ma la lotta è ancora in corso e le conseguenze si riflettono, come sempre, sulla popolazione civile, che assiste impotente alla violenza sempre più diffusa e feroce. Il presidente Lasso, in evidente difficoltà di consensi, ha tamponato la situazione proclamando uno stato di emergenza che doveva durare un mese. È ancora in vigore: è stato prorogato 14 volte in due anni di mandato. Questo significa coprifuoco, abolizione di alcuni diritti basilari, limiti nella circolazione dei cittadini nella città più colpite dalla violenza, come Guayaquil, Durán, Samborondón e nelle province di Santa Elena e Los Ríos. Le misure sono servite a poco. Lasso nei fatti ha abdicato al crimine. Ha ammesso di non essere più in grado di garantire la sicurezza alla popolazione e ha dato il via libera alla vendita e al possesso delle armi. A tutti. Basta avere 25 anni, un certificato di valutazione psicologica e uno tossicologico rilasciato dal ministero della Salute. In una corrispondenza da Guayaquil, El Pais racconta del clima di paura che si è creato anche tra chi è legittimato a imbracciare un’arma. Come le guardie giurate o gli addetti alla sicurezza privata. Ammettono di essere impreparati. “Non siamo stati addestrati per questo”, spiegano al quotidiano spagnolo, “come può darci questa responsabilità se avevamo già paura di uscire per lavorare con tanta insicurezza. Ora sarà peggio se ci costringono ad agire di fronte a qualsiasi attacco”. C’è molta apprensione anche tra la gente che teme di vedere trasformare l’Ecuador in un campo di battaglia. Tutti armati che reagiscono al primo accenno di rapina o qualsiasi litigio per un problema di traffico. Il mondo accademico e quello dei diritti umani insorgono. Criticano la misura che, dicono, “evita di affrontare le cause alla base della violenza legate alla disuguaglianza, alla discriminazione e alla povertà”. Il rischio è spingersi gli stessi minorenni ad armarsi. I dati ufficiali confermano una tendenza che lo stesso Lasso si era impegnato a invertire. Nel 2022 in Ecuador sono state sequestrate 9.553 armi illegali, secondo la Direzione degli studi sulla sicurezza. Nei soli mesi di gennaio e febbraio di quest’anno ne hanno sequestrate 1.722. Cadaveri appesi - Ma la tensione e il vero caos in cui è sprofondato il Paese, con scene viste solo in Messico, come cadaveri appesi dai cavalcavia, decine di teste mozzate ritrovate nei cassonetti, cadaveri squartati abbandonati sul ciglio delle strade, fino all’omicidio di amministratori di ospedali pubblici che rifiutavano di accogliere i sicari coinvolti nelle sparatorie hanno spinto la maggioranza della popolazione a invocare misure più drastiche. “Elementi che hanno creato un’atmosfera di violenza incontrollata”, osserva Luis Carlos Córdova, analista contattato da El Pais, “di paura soprattutto tra le élites sociali e gli strati benestanti che hanno premuto per questa soluzione”. Il presidente ha dovuto cedere perché debole nella stessa coalizione di governo che gli garantisce la maggioranza al Congresso. È pronta da mesi una seconda richiesta di impeachment; la prima era stata respinta per un pugno di voti. Cerca di salvarsi distribuendo armi a tutti.