Cambiare lo sguardo, cambiare la realtà. Il Rapporto tematico sul 41-bis del Garante nazionale di Riccardo De Vito* questionegiustizia.it, 7 aprile 2023 Il 3 aprile 2023 è stato presentato il Rapporto tematico del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale sul regime speciale ex articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario. Il documento - che aggiorna il precedente, presentato a febbraio 2019 - assume quest’anno un duplice valore. Da un lato consente all’opinione pubblica, anche qualificata, di mettere il naso dentro i reparti destinati al 41-bis e di avere conoscenza del loro funzionamento in the facts, per usare un’espressione cara alla criminologia critica. Un diverso modo di vedere le cose che sollecita anche lo sguardo del giurista positivo, avvezzo a categorie astratte che a volte lo distraggono dalla prospettiva empirica. Sotto altro profilo, il merito del Rapporto è quello di riportare il dibattito sul 41-bis a una corretta grammatica giuridica e di politica del diritto: mai come quest’anno, con la discussione sul regime accesa dal caso Cospito, se ne sentiva il bisogno. Iniziamo dalla fotografia delle condizioni detentive, alla quale è dedicata la seconda parte del rapporto. Non senza osservare, per prima cosa, quanto sia meticoloso il lavoro di vigilanza democratica che il Garante, anche quale meccanismo nazionale di prevenzione della tortura ai sensi del Protocollo opzionale ONU alla Convenzione contro la tortura, esercita sui luoghi del 41-bis: come si legge nell’introduzione del Rapporto, il Garante nazionale, nella sua composizione collegiale, “ha visitato tutte le Sezioni a regime detentivo speciale”. Una finestra aperta verso l’interno di importanza strategica, dal momento che la fisiologica opacità del carcere tende a ispessirsi quando ci si confronta con una misura finalizzata a interrompere i canali di comunicazione con l’esterno. Nonostante qualche miglioramento - reso possibile soprattutto dalla collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria (in tutte le sue componenti) e la magistratura di sorveglianza -, le parole sulla vita nei reparti suonano amare e allarmanti: “Anche nelle recenti visite, il Garante nazionale ha riscontrato condizioni materiali e scelte edilizie che per la loro configurazione possono comportare una ricaduta sulle capacità psico-fisiche delle persone ristrette, rischiando di assumere di fatto una connotazione di “pena corporale”, non consentita dal nostro ordinamento”. Il lettore potrà trovare rappresentazioni analitiche della situazione di tutti gli Istituti che ospitano sezioni speciali, ma i termini utilizzati impressionano sin dalla premessa generale: “La miseria di molti cortili, la presenza ossessiva di grate e coperture degli stessi e le mancate soluzioni, anche di facile adozione, per dare maggiore aria naturale alle stanze riscontrate in taluni Istituti, lasciano realmente perplessi e stridono con analoghe situazioni riscontrate in altri, pur sempre nelle sezioni a regime speciale”. Sono immagini che vanno assimilate partendo dalla considerazione, più volte ribadita nel Rapporto, che in quegli ambienti i detenuti trascorrono l’intera quotidianità: 21 ore in cella, 2 ore nei cortili (quando va bene), 1 ora in saletta di “socialità”. Balza agli occhi, peraltro, una disomogeneità delle condizioni detentive sul territorio nazionale alla quale non ha fatto fronte l’ultima circolare regolatrice del potere discrezionale che l’art. 41-bis assegna all’Amministrazione per “completare” il regime: nel codice numerico della burocrazia è la circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, ridondante di minuziose disposizioni di dettaglio che, ad avviso del Garante - l’esperienza della giurisprudenza dei magistrati di sorveglianza lo conferma -, si prestano a interpretazioni distorsive delle finalità preventiva del regime speciale. Significativa, pertanto, la raccomandazione del Rapporto sul punto: riscrivere la circolare e ipotizzare linee guida generali idonee a modellare il regime speciale, adeguarlo alle ultime pronunce della Corte costituzionale sulla la facoltà di cuocere cibi e di scambiare oggetti con le persone del medesimo gruppo di socialità (con tutte le correlate esigenze), aggiornarlo agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sui tempi di permanenza all’aria aperta (due ore per ciascuna persona, salvo esigenze da motivare con procedura rafforzata). Nuovi principi generali che, ad avviso dell’autorità di garanzia, dovrebbero anche ampliare le possibilità di esercizio del diritto dell’informazione, con superamento dei limiti all’uso degli apparecchi televisivi e alla ricezione della stampa nazionale e implementazione degli strumenti tecnologici a disposizione dei ristretti. Leggendo a contrario la raccomandazione, e sulla scorta delle osservazioni contenute nel Rapporto, ci si fa un’idea della vita detentiva di una persona ristretta in regime speciale: massimo due ore all’aria aperta, che troppo spesso si riducono a una sola, difficoltà ad accedere ad alcuni quotidiani nazionali a diffusione minore (Il Domani, Il Manifesto, Avvenire, Il Dubbio), impossibilità di utilizzare in maniera effettiva computer e lettori elettronici offline, televisione che si spegne alle 24 e si riaccende alle 7, impedendo anche l’ascolto della radio incorporata nell’unico apparecchio. E soprattutto: assenza pressoché totale di programmi individualizzati di trattamento e di attività riabilitative. Su questo ultimo punto la denuncia del Garante si fa netta. Se è vero che la Consulta e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno ribadito la legittimità costituzionale e convenzionale del regime speciale - il Rapporto è anche una approfondita ricognizione delle decisioni di quelle Corti -, è indubbio che lo abbiano fatto ponendo indiscutibili paletti, il primo dei quali è rappresentato dalla necessità di salvaguardare il finalismo rieducativo che deve accompagnare ogni esecuzione della pena. Ecco perché - prosegue il Rapporto - “la sospensione delle regole di trattamento prevista dall’art. 41-bis co. 2 e 2 quater o.p. si riferisce alla disciplina della vita detentiva e non al trattamento finalizzato al reinserimento contemplato dall’art. 13 o.p., la cui eventuale esclusione - o sospensione - si porrebbe senza dubbio in frizione con la Costituzione”. Allo stesso tempo, molte misure integranti la sospensione delle regole, siano esse tipizzate dalla legge o plasmate dall’Amministrazione, evidenziano una pericolosa eccedenza rispetto allo scopo di prevenire contatti con le organizzazioni criminali all’interno e all’esterno del carcere, manifestando soltanto un carattere di maggior afflizione - il “carcere nel carcere” - che deforma la logica preventiva sottesa all’istituto. Le carenze si acuiscono in maniera esponenziale se si tiene conto di un altro dato messo a nudo dal Rapporto: nel 41-bis si entra, ma non si esce. È quello che la dottrina più approfondita (Della Bella, 2016) aveva definito il “carattere imbutiforme” del regime speciale, spietatamente disvelato dalla logica dei numeri: “l’analisi condotta sugli anni compresi tra il 2012 e il 2022 attesta, infatti, una media di 731 persone detenute nel regime speciale” (nel 2022 sono 740, di cui 12 donne, tutti di criminalità organizzata, eccetto tre terroristi e un anarchico: dato che dovrebbe indurre a meditare sulla vicenda Cospito). Nel corso delle visite effettuate nei reparti, il Garante “ha riscontrato un considerevole numero di casi di persone soggette costantemente al regime dell’art. 41-bis comma 2 o.p. da oltre 20 anni, a volte dall’inizio della detenzione”. Del resto, a leggere i rilevamenti per fasce d’età, ci si accorge che su 740 detenuti ben 522 hanno più di cinquanta anni, 87 più di settanta. Da cosa deriva la perpetuazione del regime? Anche su questo profilo indaga il rapporto, ponendo l’accento su una formulazione della norma che limita il contenuto della proroga all’accertamento del non venir meno (probatio diabolica) di un elemento potenziale e soggettivo, vale a dire la “capacità di mantenere collegamenti”. L’analisi, tuttavia, si sofferma anche sull’apparato motivazionale dei singoli provvedimenti di proroga: incentrato spesso soltanto sul reato iniziale e sulla perdurante esistenza sul territorio dell’organizzazione di riferimento, finisce per disattendere le prescrizioni di attualizzazione delle particolari esigenze preventive espresse costantemente dalla Corte costituzionale. Il 41-bis, reiterato così in modo quasi automatico, finisce “per configurare inevitabilmente una ‘tipologia speciale e irreversibile’ di detenuto”. Da questo ordine di ragionamenti scaturiscono due riflessioni del Garante: una inerente alla necessità di verificare concretamente la pericolosità qualificata di tutti i 740 detenuti sottoposti al regime speciale, perché da tale verifica è legittimo ritenere che “il numero delle persone attualmente soggette al regime previsto dall’art. 41-bis co. 2 o.p. sia suscettibile di una profonda revisione”; un’altra, viceversa, che non si nasconde l’irriverente e necessario interrogativo sull’efficacia concreta del regime: “se il rischio del mantenimento dei collegamenti con la criminalità organizzata di provenienza viene ritenuto sussistente anche a distanza di oltre 20 anni dalla prima applicazione, quando non dall’inizio della detenzione, il dubbio sull’efficacia del sistema preventivo risulta legittimo, soprattutto considerando l’invariabilità nel tempo del numero delle persone alle quali è applicato”. La lettura offre altri spunti di interesse attuale, dal permanere della logica delle aree riservate alla contraddittorietà - non sciolta dalla Corte costituzionale - dell’applicazione del regime applicato agli internati in Casa di Lavoro: 20 minuti di lavoro al giorno riservato a persone spesso in età di pensione. Di notevole spessore è la riflessione sulle pene temporanee: 250 persone stanno attualmente espiando in regime di 41-bis pene temporanee: “Nello scorso anno (2022) 28 persone detenute sono state scarcerate (il sottolineato è nel testo del rapporto, n.d.e) direttamente dal regime speciale ex articolo 41-bis o.p. Nell’anno in corso, tra aprile e dicembre, almeno 9 di queste 250 persone usciranno dal carcere, dalla sezione del 41-bis o.p., per il termine dell’esecuzione della pena inflitta”. Sono detenuti che, da un giorno all’altro e in maniera paradossale, passano dalla totale chiusura al mondo al recupero pieno della libertà di movimento e di contatto. È un dato che, tra le altre cose, la dice lunga sull’automatismo delle proroghe, racconta di persone restituite alla libertà senza alcuno strumento di possibile reintegrazione e rafforza la necessità di ripensare il 41-bis in maniera laica e matura. Dal tenore complessivo del rapporto, infatti, affiora l’urgenza di una “riflessione integrale sulla legge”, al fine di assicurare la compatibilità del regime con il finalismo rieducativo della pena e di evitare il cedimento a logiche di simbolismo afflittivo e di legittimazione consensuale che tradiscono i criteri di legalità e di pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona. Un percorso critico, quindi, che pone il problema di emancipare il 41-bis almeno da quello che lo stesso Rapporto definisce “il retrogusto” delle origini, quel retaggio emergenziale che troppo spesso tradisce, dietro la maschera della misura di prevenzione, un sistema punitivo assoluto e informale, non sufficientemente trattenuto dal principio di legalità. Ecco, in sintesi, il valore del Rapporto: un modo diverso di vedere le cose; un tentativo di non rassegnarsi a una casistica a volte non all’altezza della Costituzione. Il rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è consultabile qui: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/81392cecb9caabacb60ff014573ca074.pdf *Giudice del Tribunale di Nuoro Ergastolo ostativo, la Cedu ci guarda ancora di Antonella Mascia* Il Riformista, 7 aprile 2023 Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno forza vincolante e gli Stati aderenti alla Convenzione, tra cui Italia, si sono impegnati a conformarsi alle sue pronunce. La fase esecutiva diventa dunque decisiva in quanto lo Stato convenuto è sollecitato, sotto il controllo e la sorveglianza del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, a rimediare alle violazioni accertate nei suoi confronti e ad adottare misure individuali, in grado di assicurare che la violazione rilevata cessi nei confronti della parte lesa, in modo che questa sia posta nella misura del possibile in una situazione antecedente alla violazione, ovvero misure generali, in grado di prevenire nuove violazioni simili a quelle constatate ovvero di porre termine a violazioni continue. Nella sentenza Marcello Viola c. Italia del 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, la Corte europea, nell’accertare che la pena dell’ergastolo “ostativo” vìola l’articolo 3 della Convenzione, ha evidenziato che nell’ordinamento interno sussiste un problema strutturale e di conseguenza ha chiamato lo Stato italiano ad adottare delle misure idonee al suo superamento. A quattro anni dalla sentenza “Viola”, l’auspicato intervento legislativo per il superamento strutturale dell’impossibilità per le persone condannate all’ergastolo “ostativo” di accedere a benefici penitenziari e misure alternative e in particolare alla liberazione condizionale sollecitato dal Comitato dei Ministri si è finalmente concretizzato nella legge n. 199 del 30 dicembre 2022 che ha modificato il regime previsto dall’articolo 4bis O.P., trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa a qualsivoglia concessione. Le condizioni stringenti e concomitanti ora richieste per determinare la mancanza di attualità dei collegamenti con la criminalità ovvero il pericolo di un loro ripristino sembrano tuttavia favorire maggiormente le esigenze social-preventive rispetto al criterio della rieducazione del reo indicato dalla Corte di Strasburgo e peraltro da sempre sancito dall’articolo 27 comma 3 della Costituzione. In particolare, riguardo alle misure generali, il Comitato dei Ministri ha evidenziato che la riforma legislativa ha introdotto la possibilità per i detenuti che non collaborano utilmente con la giustizia di presentare l’istanza di liberazione condizionale, conformemente alle indicazioni della Corte. Ha inoltre sottolineato l’importanza di un suo controllo affinché il sistema messo in atto sia pratico ed effettivo e permetta una reale valutazione dei progressi dei detenuti in materia di riabilitazione e di ragionevoli prospettive di soddisfare le severe condizioni ora richieste. In altri termini, il Comitato dei Ministri si è riservato di valutare se quelle condizioni stringenti e concomitanti previste dal legislatore, nella loro applicazione, permettano in concreto una reale valutazione del percorso di cambiamento intrapreso dalle persone condannate all’ergastolo “ostativo” non collaboranti con la giustizia. Di conseguenza, il Comitato dei Ministri ha invitato le autorità italiane a fornire informazioni sul funzionamento pratico del meccanismo di valutazione e, in particolare, di sottoporre alla sua attenzione, entro il 30 settembre 2023, una giurisprudenza rilevante e specifica in modo da fugare le perplessità sollevate nel corso della fase esecutiva dalla società civile. Fino a oggi nel corso dell’esecuzione della sentenza “Viola” solo l’associazione Nessuno tocchi Caino è intervenuta, sempre e tempestivamente, con aggiornamenti scientifici. Infine, il Comitato dei Ministri ha espresso fiducia nel fatto che le nuove disposizioni legislative possano essere applicate e interpretate dalle giurisdizioni nazionali conformemente ai requisiti della Convenzione e alla giurisprudenza rilevante della Corte europea. Ora le voci del mondo civile, gli studiosi, i giuristi e le associazioni che credono che la funzione centrale della pena sia la risocializzazione e che essa debba essere riconosciuta a livello normativo e poi attuata nella fase concreta di esecuzione, sono spronate a intervenire a livello internazionale come parti terze per dare il loro tempestivo e fondamentale contributo scientifico. Sarà di fondamentale importanza poter fornire e ragionare sulla giurisprudenza elaborata in tema di concessione o di diniego dei benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione. *Avvocato, Direttivo di Nessuno tocchi Caino Cedu, troppi i casi e le decisioni ancora in attesa di esecuzione di Monica Musso Il Dubbio, 7 aprile 2023 Il Consiglio d’Europa “bacchetta” tutti i Paesi del Vecchio Continente: “Il rispetto delle sentenze è essenziale per lo Stato di diritto”. In Italia 49 vicende “attenzionate”. “Il rispetto delle sentenze dei tribunali è essenziale per lo Stato di diritto. Nel corso degli anni, i nostri Stati membri hanno compiuto progressi costanti nell’attuazione pratica delle sentenze della Corte europea, ma ora la Corte si occupa di un numero sempre maggiore di casi di crescente complessità. In tutta Europa, la convenzione sui diritti umani ha progressivamente cambiato in meglio la vita delle persone. Affinché questo impatto positivo continui, i nostri Stati membri devono dimostrare la volontà politica di attuare le sentenze in modo completo e coerente”. A dirlo è il segretario generale del Consiglio d’Europa Marija Pejcinovic Buric, che ha esortato gli Stati membri a mostrare una maggiore volontà politica di attuare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e a migliorare la loro capacità di farlo. Secondo l’ultimo rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’esecuzione delle sentenze della Cedu, nel 2022 sono stati trasferiti 1.459 nuovi casi dalla Corte europea al Comitato dei ministri, che ne supervisiona l’attuazione da parte degli Stati membri. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2022 il Comitato dei Ministri ha ricevuto dalla Corte europea 49 cause contro il nostro Paese per la supervisione della loro esecuzione, dieci in meno rispetto al 2021, mentre nel 2020 erano 28. Al 31 dicembre 2022, l’Italia aveva 187 cause pendenti (contro le 170 del 2021 e le 184 del 2020), di cui 23 cause principali classificate con procedura rafforzata (le stesse del 2021 e del 2020) e 35 cause principali classificate con procedura standard. Dei principali casi sottoposti a procedura rafforzata, 13 sono pendenti da cinque anni o più. Allo stesso modo, 15 dei principali casi sottoposti a procedura standard sono pendenti da cinque anni o più (rispetto ai 16 nel 2021 e ai 15 nel 2020). Il carico pendente include in particolare casi o gruppi di casi riguardanti questioni relative all’irriducibilità delle pene detentive a vita in assenza di cooperazione con le autorità giudiziarie, la mancata reazione delle autorità all’inquinamento atmosferico a scapito della salute della popolazione circostante, l’inefficace e ritardata gestione delle denunce di violenza domestica e il rispetto del diritto di visita dei genitori. Tra le nuove violazioni rilevate dalla Corte nel 2022, una di esse riguardava la detenzione di persone con problemi di salute mentale nelle carceri ordinarie e la mancanza di una capacità sufficiente negli istituti specializzati per ospitarle. Nel corso del 2022, il Comitato dei Ministri ha esaminato e adottato decisioni in relazione a sei principali cause o gruppi di cause con procedura rafforzata. Il Comitato ha chiuso 32 casi, inclusi due casi principali sotto supervisione rafforzata e due casi principali sotto supervisione standard. Anche l’arretrato delle cause amministrative è stato ridotto. Più in generale, è stata migliorata l’efficacia del rimedio risarcitorio per procedimenti irragionevolmente lunghi (Legge Pinto) in quanto sono state garantite le risorse di bilancio necessarie e sono stati accelerati i procedimenti. In particolare, è stato possibile chiudere un gruppo di cause in procedura rafforzata riguardanti diverse carenze nel rimedio risarcitorio disponibile dal 2001 per le vittime di procedimenti giudiziari eccessivamente lunghi. Un caso di primo piano in rito ordinario è stato archiviato a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale italiana che ha dichiarato incostituzionale l’automatica attribuzione, alla nascita o all’atto dell’adozione, del cognome del padre. Un altro caso di primo piano, sul principio ne bis in idem, è stato archiviato sulla base dell’incorporazione da parte dei tribunali interni della pertinente giurisprudenza della Corte europea. Inoltre, 12 casi ripetuti sono stati archiviati perché non erano necessarie o possibili ulteriori misure individuali. Le autorità hanno presentato un piano d’azione, 27 relazioni d’azione e 22 comunicazioni. I primi piani d’azione/ relazioni d’azione erano attesi in relazione a tre casi/ gruppi principali nonostante la scadenza del termine prorogato a tale riguardo. Si attendevano piani d’azione/ rapporti d’azione aggiornati o comunicazioni contenenti ulteriori informazioni in relazione a 18 casi/ gruppi principali, in cui il termine fissato dal Comitato dei Ministri a tale riguardo è scaduto (cinque casi/ gruppi) o il feedback è stato inviato dal Dej prima del 1° gennaio 2022 (13 casi/ gruppi). Nel 2022, infine, si è registrato l’integrale pagamento dell’equa soddisfazione concessa dal Tribunale in 23 cause, mentre si attendeva la conferma dell’integrale pagamento e/ o degli interessi moratori in 31 cause per le quali il termine indicato nella sentenza della Corte è decorso da più di sei mesi. Gherardo Colombo: “Il 41-bis è incostituzionale” di Federica Farina Left, 7 aprile 2023 “Tenere una persona in prigione per tutta la vita è inumano e contrasta con l’articolo 27 della Costituzione”. Dagli aspetti inumani del carcere duro al principio di uguaglianza non rispettato, l’ex magistrato Gherardo Colombo nel nuovo saggio “Anti Costituzione” passa in rassegna i tradimenti dei principi della Carta, “la nostra prima legge”. È un’opera che rende chiaro a tutti quanta distanza ci sia tra quello che scrissero i Costituenti e la prassi odierna. È il nuovo libro del giurista ed ex magistrato Gherardo Colombo, “Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società” (Garzanti). Ne abbiamo parlato con l’autore. Gherardo Colombo, la Costituzione è un tema fondamentale che ricorre nei suoi scritti ma sono in pochi a conoscerla davvero. Perché è così importante conoscere la Carta? Perché è la nostra prima legge e se non la si conosce non la si può osservare. La Costituzione ci parla delle relazioni tra gli esseri umani, si riferisce - direttamente o meno - a tutto quel che facciamo. E non consente che le altre leggi la trasgrediscano, perché in caso contrario il loro destino consiste nell’essere espulse dall’ordinamento. Sarebbe necessario conoscerla, ma non avviene. No, infatti a scuola non si studia. Non fa parte del programma di diritto... Dovrebbe essere insegnata a cominciare dalle elementari, non si tratta solo del programma di diritto. La Costituzione può essere insegnata anche senza citarla, ma facendo riferimento al suo contenuto, in qualsiasi disciplina, soprattutto in quelle umanistiche: c’è tanto della Costituzione nei Promessi Sposi, o nella filosofia di Socrate, per dire. Un’occasione importante per dedicarsi ad essa direttamente è l’introduzione, come materia a sé, dell’educazione civica. Ma, a parte il fatto che l’oggetto della nuova disciplina è troppo vasto - comprende perfino l’educazione alla tutela delle “eccellenze territoriali e agroalimentari” - dipende poi sempre da come il tema viene affrontato: per capire la Costituzione occorre entrare nel suo “spirito”, vederla per quel che è: un sistema di vita piuttosto che una serie di articoli dei quali non si capiscono collegamenti e interrelazioni. E se ai docenti non si dà una mano perché la facciano propria, è difficile che le cose possano cambiare. Non ci si rende conto quindi di come quel testo sia qualcosa di estremamente concreto e che, come ha detto lei, riguarda proprio le relazioni tra gli esseri umani? Sì, ribadisco, si riferisce alle relazioni umane, avendo come punto di partenza il riconoscimento della pari dignità di ogni persona e conseguentemente della possibilità, per ciascuno, di avere opportunità per la propria realizzazione. Uguaglianza davanti alla legge vuol dire questo: nessuna caratteristica personale deve penalizzare, nessuno può essere discriminato. Il principio di uguaglianza, come lei dice, è il “caposaldo”, la “pietra angolare” della Costituzione, ma nella pratica non viene rispettato. Vediamo ogni giorno discriminazioni verso le donne, i migranti, verso chi ha minori possibilità economiche. Perché? Vorrei sottolineare che il principio di uguaglianza non contraddice il fatto che siamo tutti diversi, lei per esempio è donna e io uomo, lei è giovane e io vecchio. Riguarda però le possibilità, i diritti e i doveri. L’ostacolo al riconoscimento della stessa dignità a ciascuna persona, qualunque sia la sua specificità, credo sia soprattutto culturale: fino a un attimo prima dell’entrata in vigore della Costituzione, salvo rarissime eccezioni, il principio fondamentale dell’aggregazione sociale era costituito dalla discriminazione. Pensiamo alla legge che escludeva dalle scuole i bambini ebrei: precede di soli otto anni l’elezione di chi avrebbe scritto la Costituzione. E l’elezione è stata la prima occasione in cui le donne hanno potuto votare. La discriminazione, purtroppo però è proseguita anche dopo: ci sono voluti 27 anni dall’entrata in vigore della Costituzione perché venisse riconosciuta la parità di genere in famiglia. Fino al 1975 infatti il codice civile diceva che “il marito è il capo della famiglia; la moglie... è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza” (articolo 144). Solo da allora la legge ha messo i coniugi sullo stesso piano. Perché questo ritardo? Perché il modo di pensare della gente faceva resistenza al cambiamento: hanno giocato un ruolo pesante la tradizione, il passato che ci ha educati per millenni, ma anche l’attaccamento al potere da parte di chi lo detiene. Quindi il principio di uguaglianza non viene applicato perché a tanti non conviene? A chi si trova in una posizione superiore sulla scala sociale non conviene distribuire equamente i diritti tra tutti. Ma solo apparentemente. Se siamo sull’orlo di una guerra nucleare è proprio per via della discriminazione, del non riconoscere i diritti degli altri. La soluzione - insisto - sta nell’educazione, nella conoscenza, nella consapevolezza: la cultura si cambia nel momento in cui si capisce che sarebbe meglio fare diversamente. Bisognerebbe partire dalle scuole anche perché per gli adulti cambiare è più difficile, dovrebbero mettere in crisi parti consistenti del proprio passato. Si può sempre cambiare ma è più facile per chi ha una storia personale breve dietro le spalle. A proposito di difficoltà, sembra che sia diventato molto difficile per gli italiani andare a votare. Lei a proposito dell’articolo 1 scrive: “La sovranità appartiene al popolo che tende ad evitare di esercitarla per non essere chiamato a risponderne”. Perché non si esercita più la sovranità? È dovuto alla perdita di un ideale? La gente non vuole esercitare la sovranità perché è comodo, perché la responsabilità fa paura. Molto meglio lamentarsi di quel che fanno gli altri piuttosto che essere chiamati a dare le ragioni delle proprie decisioni. Pigrizia e viltà sono le ragioni per cui tanta parte dell’umanità rimarrebbe volentieri minorenne a vita, sostiene Kant in Che cos’è l’illuminismo. Se c’è la mamma che decide per me, io non devo preoccuparmi di farlo. Ma se al mio posto pensa e agisce qualcun altro, la democrazia non esiste. Per riattivare la partecipazione è necessario innanzitutto comprendere il legame che esiste tra l’impegno, la partecipazione e l’esercizio effettivo della democrazia. Abbiamo visto quanto vasto sia stato l’astensionismo alle regionali del Lazio e della Lombardia. Ci sarà stato qualcuno che non è andato a votare perché ha preferito fare altro, ma sicuramente in tanti non hanno votato perché hanno ritenuto di non essere rappresentati da nessuno dei candidati in lizza. Queste persone sono state confuse con gli indifferenti, e chi fa politica può tranquillamente non tenerne conto. Pensi che differenza se invece di astenersi milioni di persone avessero messo nell’urna una scheda bianca! La politica avrebbe dovuto tenerne conto. Un altro articolo su cui si è concentrato nel libro e in cui ha messo in evidenza quanto la prassi oggi sia diversa da quello che aveva previsto la Costituzione è l’articolo 27... Quello che scrivo arriva dalla mia esperienza. Se si legge la Costituzione e poi si entra in carcere, si vede subito che quello che succede nei fatti è completamente diverso da quel che sta scritto nella Carta. Se si rispettasse, ci guadagneremmo tutti perché avremmo più sicurezza e coloro che escono dal carcere sarebbero più spesso capaci di vivere positivamente con gli altri. Ma non è la sicurezza che ci interessa, vogliamo soltanto essere rassicurati, e la rassicurazione riguarda la pancia e non la testa. Se i colpevoli stanno in carcere noi siamo innocenti, e se il lupo sta in gabbia non può farmi male. Ma in gabbia deve soffrire, perché voglio vendicarmi di quello che ha fatto. Solo che però, salvo che per reati gravissimi, ad un certo punto esce, ed esce più rancoroso di quando ci è entrato (e più preparato “professionalmente”). Sembra che ci sia un po’ una morale religiosa in questa logica punitiva. Pensa che sia anche la matrice cattolica ad alimentare questa cultura? Spesso le religioni raffigurano Dio come colui che punisce, magari applicando la regola “occhio per occhio, dente per dente”. Nel cristianesimo c’era la cosiddetta santa Inquisizione che bruciava vivi gli eretici sulle pubbliche piazze, e chi assisteva ai roghi era generalmente contento. Bisogna lavorare perché le persone non vengano degradate a cose, scrive nel suo libro, e questo pensiero mi sembra esprima bene l’essenza del garantismo. Può dirci di più? Le garanzie sono la forma attraverso la quale si tutela la sostanza. La sostanza è il rispetto della persona, che deve valere sia prima che dopo la condanna. Il garantismo spesso non viene capito, viene associato al buonismo. Perché? La “cattiveria” ora va molto di moda, una volta a scuola ci insegnavano ad essere buoni. La parola cattiveria, “disposizione a far male al prossimo”, ovvero “atto provocato da malvagità o malanimo” (cito dal dizionario Devoto-Oli online) è apprezzata al punto da sostituire altre parole: i commentatori sportivi usano “cattivo” al posto di “determinato”, per esempio. Ed allora, per dispregio, bontà diventa buonismo. Le parole sono importanti, contribuiscono a creare la cultura, ad influenzare i comportamenti. Se ci si abitua a pensare che la “cattiveria” è giusta, può essere esercitata senza limiti. La situazione nelle carceri appare in netto contrasto con quanto disposto dalla Costituzione. Oggi si parla molto di ergastolo e di 41-bis. Cosa pensa di questi istituti e della vicenda Cospito? Credo che tenere in prigione una persona per tutta la vita, a prescindere dalla verifica della sua attuale pericolosità, sia inumano e contrasti con l’articolo 27 della Costituzione. Credo anche che per poter parlare dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario si dovrebbe sapere in che cosa consiste, bisognerebbe almeno leggerlo. È lo stesso problema che riguarda la Costituzione: se ne parla, ma si conosce poco o per nulla. Per sintetizzare: l’articolo stabilisce che le garanzie dell’ordinamento penitenziario possono essere disapplicate per gravi motivi di ordine e sicurezza, o per impedire i collegamenti con l’associazione criminosa di cui si fa parte. Ora, credo sia giusto impedire i contatti con l’esterno quando questi potrebbero essere indirizzati a far male a qualcuno. Il boss della mafia non deve poter dare ordini ai suoi accoliti. Però mi sembrano in contrasto con la Costituzione tutte le misure che l’articolo dispone - o non impedisce che siano adottate - rendendo più afflittivo il carcere senza che esista un nesso tra tali misure e l’esigenza di impedire i contatti. Non capisco cosa c’entri con i contatti esterni il divieto di tenere più di quattro libri in cella, di appendere alle pareti più di una fotografia, per esempio. Mi pare che siano previsioni dirette soltanto a far soffrire La riflessione, peraltro, deve riguardare il carcere nel suo complesso. A me pare che sia dimostrato scientificamente che non si educa - se non, eventualmente, a obbedire - attraverso la minaccia di una pena o la sua applicazione: quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ci ritornano per aver commesso nuovi reati. Ho smesso di fare il magistrato anche per questo motivo. Penso che si debba fare in modo che le persone osservino le regole perché le condividono, non perché hanno paura, e la strada è quella dell’educazione, dell’agire sulla cultura. Cospito, stop allo sciopero della fame: assume bustine di parmigiano e integratori di Michela Allegri Il Messaggero, 7 aprile 2023 Il 55enne, condannato al 41bis, da settimane è ricoverato nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo di Milano per via delle sue condizioni di salute precarie. Dopo quasi 6 mesi di sciopero della fame Alfredo Cospito ha ripreso ad alimentarsi. L’ideologo della Federazione anarchica informale, condannato al 41bis, è tornato a nutrirsi mangiando delle bustine di parmigiano e assumendo degli integratori. Lo si apprende da fonti ospedaliere e giudiziarie. Il 55enne, da settimane ricoverato nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo di Milano per via delle sue condizioni di salute precarie ma stabili dovute al digiuno prolungato, già nei giorni scorsi, come si era saputo, aveva allentato lo sciopero della fame ricominciando ad assumere, oltre ad acqua con zucchero o sale, caffè d’orzo, tè con limone, multivitaminici e latte. Nei giorni scorsi Cospito si è visto rigettare dai Tribunali di Sorveglianza di Milano e Sassari le istanze presentate, tramite i suoi difensori, per chiedere il differimento della pena e la detenzione domiciliare per motivi di salute. Ora la prossima mossa dei suoi legali è rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E l’anarchico confida anche nell’udienza della Consulta del 18 aprile: la Corte Costituzionale dovrà decidere se è legittima la norma che, per il reato di strage politica (a lui contestato nel processo di Torino), impedisce sconti di pena in casi, come quello di Cospito, di recidiva aggravata. Il Papa tra i detenuti: “Ognuno di noi può scivolare” di Serena Sartini Il Giornale, 7 aprile 2023 La cerimonia della lavanda dei piedi. E ai sacerdoti dice: “Non sporcate la Chiesa con le cordate”. Si china e bacia i piedi a dodici giovani detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo, alla periferia di Roma. Sono dieci ragazzi e due ragazze. Il Papa dà avvio al Triduo Pasquale celebrando il Giovedì Santo e la messa in Coena Domini tornando nel luogo dove era stato il primo anno di pontificato. E scherza sulle sue difficoltà fisiche: “Spero di cavarmela, perché non posso camminare bene”, esordisce. “Ognuno di noi può scivolare”, sottolinea Bergoglio, arrivato con la sedia a rotelle ma facendosi forza sul bastone. La cappella del carcere minorile è “affollata”, un centinaio di persone presenti, molti i ragazzi che si trovano nell’istituto per scontare la pena, ma anche operatori e volontari che li assistono. “Gesù sa le cose che abbiamo nel cuore e ci ama così come siamo e ci lava i piedi a tutti noi. Gesù non si spaventa mai delle nostre debolezze”, sottolinea Bergoglio. “Se noi ascoltassimo Gesù, la vita sarebbe così bella. Ci affretteremmo ad aiutarci l’un l’altro. Invece di come ci insegnano i furbi a fregare l’uno l’altro, approfittare l’uno dell’altro”, prosegue ancora il Papa. Francesco si china verso i ragazzi, lava e bacia i piedi, ripetendo quel gesto “da schiavi” che Gesù compì nelle sue ultime ore di vita. Tra i dodici giovani detenuti scelti per la lavanda dei piedi ci sono anche un ragazzo russo e un musulmano del Senegal, oltre a un croato, un rumeno e un ragazzo di origine sinti. Poi arriva anche il momento dello scambio di doni: Francesco regala rosari e uova di cioccolato, mentre i ragazzi ricambiano donando al Papa i prodotti del loro lavoro, fatto nei laboratori del carcere, una croce di legno, biscotti e pasta. Ieri mattina, invece, il Pontefice argentino aveva celebrato la messa crismale del giovedì santo nella Basilica Vaticana, quella in cui si benedicono gli oli che serviranno per le celebrazioni dell’anno. All’omelia Francesco aveva lanciato un monito di fronte ai sacerdoti romani: “Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Santa Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione”, aveva detto. Questa sera il Papa sarà al Colosseo per presiedere la tradizionale Via Crucis trasmessa in mondovisione. Tra due settimane pronto il ddl Nordio su abuso d’ufficio e traffico d’influenze di Errico Novi Il Dubbio, 7 aprile 2023 Via Arenula prepara un testo che circoscrive i due reati, da presentare subito alla Camera. Non più di due settimane. È il tempo che serve a Carlo Nordio per definire la propria proposta su abuso d’ufficio e traffico d’influenze. Delle riforme messe in cantiere e annunciate negli ultimi giorni dal ministro - prima con un’intervista al Foglio e poi nell’incontro della scorsa settimana col presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza - la revisione dei due reati che paralizzano sindaci e amministratori è la più vicina alla rampa di lancio. Scelta necessaria anche considerato che sulle due “famigerate” fattispecie penali è già in corso un iter in commissione Giustizia alla Camera. Ma, spiegano da via Arenula, l’articolato del guardasigilli non sarà coincidente con i testi già incardinati da Forza Italia e Azione a Montecitorio, altrimenti non sarebbe neppure necessaria l’iniziativa del ministero. Si punta in ogni caso non all’abrogazione tout court dei reati (come pure ipotizzato in un primo momento da Nordio) ma ad un loro “restringimento”. Anche in una logica di coerenza con gli obiettivi del Pnrr: limitare il campo d’applicazione di abuso d’ufficio e traffico d’influenze significa anche scongiurare l’avvio di indagini a carico di migliaia di grandi o piccoli amministratori, indagini che statisticamente finiscono per tradursi in poche condanne. Si tratta insomma di far risparmiare energie a una già sovraccarica macchina giudiziaria. E ovviamente di evitare sofferenze e danni alla carriera per frotte di sindaci e politici non solo locali che vivono nell’incubo dell’avviso di garanzia (e che spesso in quell’incubo precipitano). Proprio per mettere un punto chiaro su abuso d’ufficio, traffico d’influenze e altri interventi di diritto penale sostanziale, Nordio ha ingaggiato uno dei più autorevoli esponenti dell’accademia, il professore dell’Università di Palermo Bartolomeo Romano, nominato alcune settimane fa consigliere giuridico del guardasigilli e al lavoro insieme con l’Ufficio legislativo del ministero. Va chiarito che l’approdo ormai prossimo a un testo “vistato” da Nordio non prelude automaticamente a un’immediata presentazione alla Camera: esito che sarebbe utile, certo, per non dover poi riallineare in corso d’opera l’iniziativa di via Arenula con le proposte dei deputati. Ma sui tempi, si tratta di prendere una decisione politica: non è escluso che alla fine prevalga l’ipotesi avanzata tra l’altro dal viceministro Francesco Paolo Sisto in alcune recenti interviste, secondo la quale i reati contro la Pa potrebbero confluire in un unico primo maxi- ddl con dentro anche riforma della prescrizione, interventi sulla giustizia minorile e altre modifiche. Dettagli: di sicuro c’è la conferma che la macchina di Nordio è avviata e comincia a produrre le riforme annunciate dal guardasigilli fin dal giorno del giuramento. Sembra ormai superata l’iniziale surplace dell’esecutivo sulle leggi garantiste. Nei ragionamenti che il ministro della Giustizia fa, in sintonia con la premier Giorgia Meloni, sul “cronoprogramma”, pesa anche la considerazione per cui proposte come quelle su abuso d’ufficio e traffico d’influenze dovrebbero scontare limitatissimi rischi di attacco dall’opposizione. Acquisita la sintonia, in questo campo, fra maggioranza e Terzo polo, va detto che non sono pochi gli amministratori del Pd da tempo in pressing sui vertici del loro partito per ottenere sollievo dalla “paura della firma”: è questo il discorso che viene fatto a via Arenula. Dove si ha ben presente, viceversa, come il Movimento 5 Stelle di sindaci ne abbia pochissimi e resti dunque una “minaccia” persino su riforme così ampiamente condivise. Ma è stato proprio l’allora premier Giuseppe Conte a intervenire, tre anni fa, sull’abuso d’ufficio, si fa notare ancora dal ministero della Giustizia. Certo pensare che un atto contro il dogma panpenalista possa passare senza scuotere la solita contraerea giustizialista sarebbe un’illusione. Sentenza Via D’Amelio: “Le bugie su Contrada diversivo per depistare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2023 Esce di scena la trattativa Stato-mafia, sfatata anche la presenza dei “man in black” sul luogo della strage. Per i giudici di Caltanissetta il depistaggio c’è stato, e viene ribadita la pista mafia-appalti. Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Non solo. Decostruita totalmente la testimonianza di un ex poliziotto che dice di aver visto un gruppo di uomini in giacca e cravatta rovistare nel luogo della strage di Via D’Amelio, mentre ancora c’erano addirittura le fiamme. In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio. Tre elementi, quelli evidenziati dai giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che azzerano le narrazioni mass mediatiche su un tema tuttora rimasto pieno di buchi neri. E che sicuramente, riempiendoli di racconti romanzeschi, non aiutano alla verità. Ma dopo trent’anni dai fatti, e dopo averli sprecati a causa delle prime indagini che portarono all’arresto, con tanto di condanna sigillata dalla Cassazione, di persone totalmente innocenti, il diritto alla verità è menomata. E sono proprio i giudici di Caltanissetta che aprono le motivazioni con una premessa a tal proposito, sottolineando che questo procedimento si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di Via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti più è difficile “recuperare” il tempo perduto. Così come, evidenziano sempre i giudici, il decorso di questo lungo lasso temporale ha comportato il venir meno di fonti dichiarative (le persone invecchiano e muoiono) come i decessi dell’allora capo procuratore nisseno Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, capo della squadra “Falcone Borsellino” che condusse le prime indagini. Senza contare che il tempo ha logorato anche i ricordi delle fonti dichiarative ancora in vita. Secondo i giudici, la matrice dell’attentato non è esclusivamente mafiosa e il depistaggio è servito ad allontanare anche l’altra verità, ovvero la complicità di soggetti istituzionali. Ma nel contempo, risultano forme di depistaggio anche l’aver messo in mezzo persone istituzionali, ma totalmente estranee ai fatti. Primo tra tutti l’asserita presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage poco dopo la deflagrazione. Per i giudici della corte è un elemento significativo. Partono dalle dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo che all’epoca raccolse quelle testimonianze, poi rivelatesi totalmente prive di veridicità. Tutto nasce, ha raccontato Di Matteo, “dalla deposizione e i verbali di alcuni magistrati, Antonio Ingroia era uno di questi, la rappresentazione di un dato, che era stato detto da alcuni ufficiali del Ros, e in particolare, se non ricordo male, dal capitano Sinico, ai magistrati che la prima pattuglia intervenuta subito dopo l’esplosione in via D’Amelio aveva notato il dottore Contrada allontanarsi dal luogo dell’esplosione”. Bruno Contrada era “il diversivo giusto” - Lo stesso Di Matteo racconta che nel ‘95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D’Amelio il 19 luglio ‘92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento. I giudici, nelle odierne motivazioni, osservano che rimangono dei quesiti che - ci si rende conto (allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti - “ma non por(se)li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti”. Segnatamente i giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. “Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”. Sfatata anche la presenza dei “man in black” - Emerge anche la decostruzione di un’altra narrazione. Nei programmi in prima serata, podcast, giornali e anche nei convegni pubblici, viene data per certa la storia della presenza di persone vestite come i “man in black”, a 40 gradi all’ombra, rovistare senza una goccia di sudore nell’auto ancora in fiamme di Borsellino. Questo è il racconto dato da Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage. Ebbene i giudici sono chiari a tal proposito: non può essere credibile il racconto. “Inoltre - scrivono nelle motivazioni -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati”. Non solo. I giudici ricordano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. “Rimane il dubbio se si tratti di una “negligenza” nella tecnica investigativa - l’ennesima accertata in questo processo - o se vi sia di più”, chiosano i giudici. Osservano che non è possibile aggiungere altro senza scivolare nel rischio di fallacia causato “dalla pletora delle possibili ricostruzioni alternative anche in considerazione del fatto che non sono state acquisite nell’odierno procedimento tutte le precedenti dichiarazioni rese da Maggi prima della deposizione nell’odierno dibattimento”. Rimangono però delle certezze per la corte. Che il depistaggio c’è stato, le indagini svolte dalla squadra mobile capitanata da La Barbera sono costellate da forzature e abusi, che la mafia ha agito con la complicità di altri settori esterni. Tra le casuali della strage, non è contemplata la trattativa Stato-mafia, ma viene ad esempio ribadita la pista mafia-appalti come causa preventiva riportando le argomentazioni delle sentenze precedenti. Così come vengono riportate le dichiarazioni del pentito Giuffrè, il quale parla dei sondaggi pre attento che la mafia fece con personaggi del mondo politico e imprenditoriale. Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ‘ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco (deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell’assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo. “L’agenda rossa rubata non da Cosa nostra. Troppe amnesie nelle istituzioni” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 7 aprile 2023 Borsellino, i giudici del processo sul depistaggio. Depositate le motivazioni della sentenza, il tribunale stigmatizza i troppi non ricordo di chi era chiamato a fare le indagini. Ma per i giudici l’ex questore La Barbera non era diretto dalla mafia, piuttosto costruì il falso pentito Scarantino per fare carriera. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”. Non hanno dubbi i giudici del tribunale di Caltanissetta che si sono occupati del processo per il depistaggio nell’inchiesta sulla strage Borsellino. “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze - scrive il collegio presieduto da Francesco D’Arrigo (giudici a latere estensori della sentenza Santi Bologna e Giulia Calafiore) - In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre”. “In secondo luogo - concludono i giudici - un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già 1992 - il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio”. Nel luglio dell’anno scorso, il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato la prescrizione per due componenti del Gruppo di indagine Falcone e Borsellino, chiamato a indagare sulle stragi: l’ex dirigente Mario Bo e l’ex ispettore Fabrizio Mattei, è stato invece assolto l’ex ispettore Michele Ribaduto. Erano accusati di concorso in calunnia, per aver contribuito a creare il falso pentito Vincenzo Scarantino, che depistò le indagini. I silenzi istituzionali - I giudici del tribunale di Caltanissetta mettono in risalto anche “l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi - non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame - a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti”. Sotto accusa ci sono i poliziotti del gruppo Falcone Borsellino: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della polizia di Stato) - spiegano - e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato”. La borsa scomparsa - “Quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile - la sentenza ricostruisce in maniera precisa cosa non fu fatto quel 19 luglio 1992 -. Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico scaturito”. È un altro passaggio della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il collegio riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni come il capitano Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa. I giudici sottolineando pure che “appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Giuseppe Ayala pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato”. Ad avviso del collegio “Solo (se e) quando si potrà stabilire al fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia dopo mesi ndr) - soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa - si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. “Sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, - concludono - tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto”. Il ruolo di La Barbera - Ma perché accadde tutto questo? Dice la sentenza: “Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere - al di là di ogni dubbio ragionevole - che Arnaldo La Barbera (l’ex capo della squadra mobile e poi questore di Palermo - ndr) fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. “Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e - dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada - una volta rientrato nel circuito abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo”, spiegano. Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti “non può ritenersi - aggiungono - che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera (ex capo della Mobile ndr) o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio ndr)”. “Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera”, proseguono. “Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza” concludono i giudici che parlano di una “disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione”. La strage di Bologna era parte di un piano di Miguel Gotor* La Repubblica, 7 aprile 2023 Quarantatré anni dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980 le motivazioni della sentenza dei giudici della Corte d’Assise consentono di mettere meglio a fuoco quel tragico evento che ha segnato di sangue il corso della storia repubblicana. I giudici argomentano con “prove granitiche” che a Bologna quella mattina era presente anche il neofascista Paolo Bellini, il quinto uomo della strage dopo Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, condannati in via definitiva, e Gilberto Cavallini, riconosciuto colpevole per ora soltanto in primo grado come appunto Bellini. La giustizia, dunque, continuerà a fare il suo corso prima di arrivare a una sentenza definitiva. In attesa di potere non solo leggere, ma anche studiare le quasi mille e ottocento pagine delle motivazioni, alcuni punti interpretativi appaiono ormai acquisiti almeno dal punto di vista giudiziario. In primo luogo, la strage di Bologna non appare più un’escrescenza isolata ed eccezionale nella storia dell’Italia repubblicana ma, come già sostenuto dalla storiografia più avvertita, deve essere inserita nei meccanismi propri della strategia della tensione, che ha avviato la sua dinamica stragista dal 25 aprile 1969 in poi. Tale strategia ha avuto una duplice intenzione. Per un verso la manovalanza neofascista che ha messo le bombe si poneva l’obiettivo di realizzare una svolta autoritaria in Italia; per un altro i loro ispiratori - “gli strateghi della strategia della tensione” come li definì Aldo Moro nel 1978 nel suo memoriale dalla prigionia - volevano destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico così da favorire una svolta in senso moderato, evitando uno scivolamento a sinistra del quadro democratico. Inoltre, le motivazioni confermano e amplificano fino a renderlo “eclatante” il ruolo eversivo del piduista Licio Gelli, processato da morto in un inedito “concilio cadaverico” repubblicano dal sapore medievale. Il materassaio di Arezzo era già stato condannato con sentenza definitiva per calunnia aggravata nel 1995, ma ora assurge al ben più impegnativo ruolo di finanziatore e di organizzatore della strage insieme con altri due piduisti di rango: il banchiere Umberto Ortolani e il giornalista, ex senatore del Movimento sociale e direttore della rivista “Il Borghese”, Mario Tedeschi. Anche il dominus dell’Ufficio affari Riservati, il piduista Federico Umberto D’Amato si vede riconosciuta una funzione analoga in quanto sarebbe stato il punto di riferimento in ambito atlantico ed europeo di un servizio segreto occulto. In terzo luogo, la sentenza smonta il mito estetizzante dello spontaneismo armato che sarebbe stato tipico dei Nar già condannati per la strage. Il coinvolgimento di Bellini, una personalità a cavallo tra neofascismo e apparati dello Stato che lo hanno usato in qualità di informatore come quel Maurizio Tramonte condannato all’ergastolo con sentenza definitiva per la strage di Brescia di sei anni prima, estenderebbe in modo persuasivo sul piano storico un’azione tanto efferata a una galassia neofascista composta anche da militanti di Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e Terza Posizione, alcuni dei quali, condannati nel primo grado di giudizio nel 1988 sono poi riusciti a sfuggire alle maglie della giustizia. Del resto, lo stesso ideologo Franco Freda, legato a Ordine Nuovo, il quale aveva 28 anni nel 1968 e 39 anni nel 1980, sentenziò precocemente che “la giustizia è come il timone: dove la si gira, va”. Alla luce della condanna di Bellini e in attesa di approfondire queste motivazioni si è curiosi di conoscere le pagine che i giudici di Bologna avranno sicuramente dedicato al procuratore della Repubblica della città felsinea Ugo Sisti che il giorno dopo la strage di Bologna - su cui indagava - dimorò proprio nell’albergo dei genitori di Bellini alla Mucciatella in provincia di Reggio Emilia. Lo stesso alto magistrato che, a partire da una semplice agenzia del 19 settembre 1980, sovrapponendosi all’attività dei suoi sostituti, partì lancia in resta già il giorno seguente per cavalcare la prima delle tante piste inquinanti, quella libanese poi affiancata da quella palestinese. Depistaggi orditi dai vertici dei servizi segreti e da Gelli per disorientare gli inquirenti così da allontanare i sospetti dalla destra neofascista, contro cui erano stati emessi i primi mandati di cattura. Il tema dei depistaggi e degli impistaggi è centrale per ragionare invece sugli autentici mandanti internazionali della strage di Bologna, segnatamente la Libia di Gheddafi, che aveva rapporti politici, militari ed economici comprovati con la destra neofascista, con i vertici dei servizi e appunto con Gelli. Proprio in quella torrida estate del 1980, tra la strage di Ustica del 27 giugno 1980 e quella di Bologna del 2 agosto successivo, le relazioni italo-libiche vissero una spaventosa crisi dovuta anche alla concomitante questione maltese. Ma forse per approfondire questi aspetti di contesto è consigliabile leggere un libro di storia perché è giusto che ciascuno faccia il proprio mestiere. *Storico, assessore alla cultura di Roma Le 1.472 pagine di motivazioni del processo Bellini e il solito doppio stato smentito dai fatti di Maurizio Crippa Il Foglio, 7 aprile 2023 La trama ipotetica che lega l’attentato alla stazione di Bologna, Piersanti Mattarella e il rapimento di Aldo Moro. Emanuela Orlandi non c’è. Una mancanza persino notevole, visto che nelle 1.472 pagine delle motivazioni per il “processo Bellini” relativo alla strage di Bologna, i giudici della Corte d’assise di Bologna non si sono fatti mancare nulla dello storytelling del “doppio stato”: da Moro all’omicidio di Piersanti Mattarella, da Ustica a Pecorelli, da Sindona a Pinelli. Il Grande Disegno Eversivo all’italiana, tutto spiegato (finalmente). Tranne la povera Emanuela. Il processo Bellini (sono stati condannati anche altri due imputati per depistaggio) è il quinto per la strage. Le condanne sono chiare e definitive, ma attorno aleggia il famoso occulto, il non detto, che è la passione degli estensori di motivazioni. Sia chiaro, non c’è motivo per dubitare che sia giusta la condanna all’ergastolo per il “quinto uomo” della strage, Paolo Bellini. E se i giudici hanno ottenuto anche la “precisa ed eclatante prova” della responsabilità di Licio Gelli (et alii) quale mandante - il riferimento è al “Documento Bologna” emerso anni dopo nel processo per l’Ambrosiano - non c’è che da rallegrarsi: per la giustizia e per la verità storica. A questo servono i tribunali. Ma come capita spesso nel nostro paese, soprattutto in sede “narrativa” delle motivazioni (laddove dovrebbe essere esplicativa) c’è un’incontenibile tendenza a trasformare gli atti in una rilettura della storia nazionale. E qui più che in altri casi prevale la volontà, per nulla necessaria, scopo del processo era giudicare l’ultimo degli esecutori materiali, di spiegare decenni di storia come un unico romanzo criminale. Titolo: “Il doppiofondo della Repubblica”. Dunque storytelling, con nuove trame: anzi sono trame vecchie e smontate in precedenti processi, ma episodi da meritarsi i titoli dei giornali. Cosa c’è di più intrigante di legare la strage di Bologna all’omicidio di Piersanti Mattarella e a quello di Aldo Moro? L’omicidio del presidente della regione Sicilia, 6 gennaio 1980, fu uno dei più gravi attentati dell’intera storia della guerra tra mafia e istituzioni. Nel 1995 furono condannati, come mandanti, tutti i principali boss di Cosa nostra. Nonostante piste e sottopiste, furono invece assolti Valerio Fioravanti e Massimo Carminati, terroristi neri. Ma che importa? È l’intreccio tra Nar, P2 e banda della Magliana che conta: “Come non ricordare, anche se i processi si sono conclusi con sentenze assolutorie, i delitti Pecorelli e Mattarella… per i quali diverse testimonianze hanno indicato tra i responsabili Fioravanti e Carminati (peraltro assolti)”. Peraltro. Gran parte delle motivazioni raccontano il contesto, il sottotesto. Si utilizzano le ricostruzioni di consulenti, si torna alle “nuove” piste sul delitto Mattarella, per concludere poi che “in definitiva il proscioglimento dei due Nar” deriva dal fatto “che quegli stessi collaboratori sono stati smentiti in relazione alle accuse ad Andreotti per l’omicidio Pecorelli”. Che senso ha dunque ricamarci sopra, in sede di motivazioni di una sentenza? Invece, scrivono i giudici, “al di là dell’assoluzione, è corretto recuperare in questo processo gli elementi (plurimi e gravi) che esistevano a carico degli imputati”, perché “l’eliminazione di Mattarella dopo quella di Moro… era indispensabile per eliminare un irriducibile ostacolo ai piani della P2 e di Cosa nostra”. Nulla o quasi che abbia una conferma processuale, e forse per dei magistrati dovrebbe significare qualcosa. Ma nello storytelling non manca niente, nemmeno il “collegamento tra gli uomini del gruppo palermitano di Terza posizione e ambienti dell’esoterismo paramassonico”; si dà conto dell’ordine martinista e di quello teutonico, del “rito di Memphis e Misrai”. Tutto concorre a unire i fili di un racconto ipotetico che, prima di giungere alla stazione di Bologna, doveva per forza passare per via Fani. Che ovviamente è trama dello stesso Gelli. È straordinario, un lapsus davvero straordinario, che quando i giudici si avvicinano all’argomento (e siamo ancora a pagina 480) appaia l’espressione “questo terrorismo ‘rosso’”, scritto tra virgolette, mentre “terrorismo di destra”, poche righe sotto, è senza virgolette. Ma è “del tutto evidente” in questa narrazione che la strage di Bologna diventi “il consueto tentativo, questa volta riuscito definitivamente, di influire sulla politica nazionale attraverso la strage indiscriminata per chiudere definitivamente con il passato resistenziale del nostro paese”. Un piano che a Palermo e Bologna era stato affidato alla manovalanza dei terroristi neri, mentre in via Fani “il terrorismo rosso aveva contribuito con l’operazione Moro”. Letterale: il terrorismo rosso “aveva contribuito”. Per il caso Moro ci sono state cinque inchieste e quattro processi a sentenza definitiva, furono condannati pressoché tutti i capi delle Br. Questo, per dei giudici, dovrebbe pur dire qualcosa, qualcosa in più di “un contributo”. Ma lo storytelling della Corte d’assise di Bologna vola alto. Oltre. Assolto dopo tre anni di carcerazione preventiva: non era mafioso di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 aprile 2023 L’incredibile storia dell’imprenditore calabrese Antonio Rodà, arrestato nel 2019 con accuse di mafia. Lo scorso 24 marzo il tribunale di Locri lo ha assolto, disponendo la sua scarcerazione. “Chi mi ridarà gli anni persi?”, dice al Foglio. Ha trascorso tre anni, tre mesi e dodici giorni in custodia cautelare in carcere, accusato di far parte di un’associazione mafiosa. Al termine del processo i pm avevano chiesto per lui una condanna a 15 anni di reclusione. Lo scorso 24 marzo il tribunale di Locri lo ha assolto da ogni accusa (insieme ad altri sei imputati), disponendo la sua scarcerazione. Protagonista dell’incredibile vicenda è Antonio Rodà, originario della Calabria ma residente da quasi trent’anni in Umbria, nel piccolo comune di Sansepolcro (Arezzo). La colpa di Rodà, imprenditore nel settore florovivaistico, è stata quella di aver avuto contatti, per motivi di lavoro, con alcuni corregionali nel mirino della Direzione distrettuale di Reggio Calabria per possibili legami con la ‘ndrangheta. Rodà fu arrestato il 12 dicembre 2019. “Vennero a prendermi a casa alle tre e mezza del mattino”, racconta ora al Foglio. “Mi stavo preparando per andare al lavoro, al mercato. Le forze dell’ordine hanno pensato che io mi fossi tenuto pronto perché sapevo che mi avrebbero arrestato. Semplicemente nella mia vita ho sempre solo pensato a lavorare”. L’arresto di Rodà e di tutti gli altri imputati venne annunciato in una conferenza stampa congiunta tenuta dal procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, insieme al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. In coordinamento tra loro, gli uffici avevano infatti lanciato operazioni contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Umbria. Quella catanzarese venne denominata “Infection”, quella reggina “Core Business”. In tutto venne data esecuzione a 27 provvedimenti restrittivi e al sequestro di beni per un valore di circa 10 milioni di euro. Il nome di Rodà finì sui principali organi di informazione nazionali. Tre anni e tre mesi dopo lo sputtanamento e la carcerazione, ecco l’assoluzione, nel silenzio generale. “La domanda che mi facevo costantemente in carcere era: perché? Perché sono qui?”, afferma Rodà. “Per far sì che la detenzione fosse meno afflittiva - aggiunge - mi sono iscritto all’università in scienze gastronomiche. Mi tenevo impegnato con un terreno che avevamo in dotazione, producevamo ortaggi, zafferano, prodotti di stagione”. L’imprenditore ha sempre creduto che la verità prima o poi sarebbe emersa, ma ha dovuto attendere più di tre anni, con tutto ciò che ne consegue. “La mia attività commerciale è stata pesantemente danneggiata dalla vicenda, se è rimasta in piedi è solo grazie ai miei famigliari”, afferma Rodà. “Io so solo che avevo 66 anni, oggi ne ho 70, chi mi ridarà gli anni che non ho potuto vivere e trascorrere con la mia famiglia?”, si chiede. Qualora la sentenza di assoluzione non venisse impugnata dalla procura e passasse in giudicato, Rodà - difeso dagli avvocati Lucio Massimo Zanelli e Francesco Calabrese, che hanno lavorato assieme al collega Mario Mazza, difensore dei coimputati - valuterà la richiesta di un indennizzo per l’ingiusta detenzione subita. “Se come legale non posso che rallegrarmi della decisione del tribunale di Locri - dichiara l’avvocato Zanelli - come cittadino non posso che rammaricarmi del fatto che dei connazionali hanno subito l’onta di un processo penale per fatti non costituenti reato. Procedimento penale che ha avuto e avrà anche nel futuro ripercussioni sulla dignità, l’onore degli imputati e delle loro famiglie, senza dimenticare che tre dei sette imputati sono stati oggetto di detenzione cautelare in carcere”. Per il legale di Rodà, “il caso in esame deve far riflettere la politica sul fatto di considerare prioritaria una riforma in ordine all’utilizzo da parte della magistratura delle misure cautelari detentive, quale forma idonea a combattere ogni tipo di associazione a delinquere”. “Combattere la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita ecc., a colpi di decreti di carcerazione preventiva, se non utilizzati in maniera oculata sulla base di seri, gravi e fondati indizi di reità, può produrre l’effetto inverso a quello auspicato e cioè avvicinare le persone indagate, imputate e poi assolte all’ambiente di quelle associazioni a delinquere che si vogliono combattere”, conclude Zanelli. Detenuto con il reddito di cittadinanza, il giudice lo assolve: “Non è più reato” di Massimo Coppero La Stampa, 7 aprile 2023 Abolito il sussidio, svaniscono i relativi raggiri. Anche quelli già commessi prima della rivoluzione imposta dal governo di Giorgia Meloni. Era una delle criticità già emerse, e segnalate dalle opposizioni, durante il dibattito parlamentare sulla nuova legge di bilancio nella quale è stata disposta l’abolizione del Reddito di cittadinanza. Con l’abrogazione del famigerato sussidio, che partì nel 2019 con il governo gialloverde, il Parlamento a maggioranza di destra lo scorso autunno ha cancellato anche le sanzioni per gli imputati di truffe sulla misura assistenziale. E ieri in tribunale ad Asti vi è stata una delle prime applicazioni della legge. Un pregiudicato di 40 anni residente a Carmagnola, Alessio Ghia, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” dal giudice Alberto Giannone. Per le motivazioni bisognerà attendere 60 giorni. L’imputazione era di violazione di uno degli articoli della legge istitutiva del Reddito, quello che impone ai beneficiari di comunicare ogni variazione della propria condizione personale indicata come rilevante per l’ottenimento della provvidenza pubblica. Ghia non aveva segnalato all’Inps di essere stato arrestato nel maggio 2020, e di essere stato recluso nella casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino per scontare una condanna definitiva ad un anno per lesioni e porto abusivo di oggetti atti ad offendere. Fatto commesso nel 2014. La carcerazione è una delle cause di perdita del beneficio. La tessera per gli acquisti mensili sarebbe rimasta nelle mani dei suoi familiari fino alla scadenza dei 18 mesi, nell’ottobre 2020. Per gli ultimi cinque mesi di presunta “indebita percezione”, la procura aveva contestato la violazione della norma. La qualificazione giuridica non era però, come negli altri casi di presunti raggiri ad enti pubblici, di truffa ai danni dello Stato. Un dettaglio non da poco, visto che il Parlamento, sempre nel 2019, approvando il Reddito aveva infatti previsto un reato “autonomo” per coloro che non comunicano correttamente all’Inps i dati personali determinanti per la concessione del sussidio. La conseguenza di questa decisione? Abrogando in fretta e furia il Reddito, il nuovo Parlamento di destra ha abolito anche gli articoli di legge con le relative sanzioni. La cancellazione totale della legge istitutiva del Reddito decorrerà dal gennaio 2024. Ma autorevoli giuristi, e parlamentari d’opposizione, si sono chiesti se sia possibile pronunciare una condanna per un fatto non più previsto dalla legge come reato, anche se in modo “posticipato”. Un guazzabuglio giuridico che costituisce un inedito nella pur tribolata e raffazzonata produzione legislativa italiana. Un particolare fatto notare dall’avvocato Claudia Cristofori, legale di Ghia, ieri in una brevissima arringa al processo. E il giudice Giannone, al termine di una camera di consiglio pre-dibattimentale, vale a dire prima ancora della richiesta di pena della procura ha pronunciato la sentenza di assoluzione. L’avvocato Cristofori aveva anche proposto di assolvere l’imputato per mancanza di dolo: rinchiuso in carcere, non avrebbe avuto la possibilità concreta di segnalare all’Inps la propria nuova condizione di detenuto. Un’incombenza che sarebbe toccata all’Amministrazione penitenziaria. “È stata riconosciuta una causa di non punibilità evitando in questo modo di svolgere tutto il processo - sottolinea l’avvocato Cristofori - Leggeremo le motivazioni, ma ritengo sia stata stabilita dal giudice l’applicabilità della legge penale più favorevole all’imputato, cioè quella del 2022 che ha abrogato reddito e sanzioni”. 41-bis, Nadia Lioce non può ricevere posta dagli altri esponenti delle nuove Br di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2023 È corretta la decisione di trattenere la lettera, diretta all’esponente delle nuove Brigate rosse Nadia Desdemona Lioce, sottoposta al regime del 41-bis, nella quale i suoi “compagni” parlano “dell’atteggiamento rispetto allo Stato”. L’esigenza di fermare la missiva non nasce solo dal contenuto criptico dello scritto, dal quale è comunque lecito desumere un pericolo per l’ordine pubblico - ma anche dall’identità dei mittenti, appartenenti allo stesso gruppo terroristico della irriducibile esponente delle cosiddette Nuove Brigate rosse che, dal 2004, sta scontando le condanne a vita per l’omicidio del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri e per aver partecipato all’uccisione dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi. La Cassazione ha respinto il suo ricorso contro la mancata consegna della lettera, ritenendo la decisione del Tribunale di sorveglianza in linea con l’esigenza di bilanciare i diritti del detenuto al regime speciale, con la necessità di tutelare l’ordine pubblico. La Lioce, 64 anni ristretta al carcere dell’Aquila, è stata una pioniera della via giudiziaria contro il cosiddetto carcere duro, che le è stato imposto per il rischio di contatti con l’organizzazione terroristica di appartenenza. Ma la Suprema corte ha sempre respinto i suoi ricorsi. Torino. Il Garante: “Detenuti come animali in gabbia”. La relazione dopo i suicidi in carcere di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 7 aprile 2023 Sono quattro i detenuti che si sono tolti la vita nella casa circondariale Lorusso e Cutugno nel 2022. Monica Cristina Gallo, garante delle persone private della libertà, li ha citati all’inizio della sua relazione annuale perché i suicidi (solo a Foggia si registra un numero più elevato) rappresentano una delle tante criticità evidenziate nelle strutture carcerarie torinese. Lo scorso anno ci sono stati altri 35 tentati suicidi, 143 gesti di autolesionismo e 3.761 eventi critici. “L’apparato carcerario è stato certamente corresponsabile”, si legge nel rapporto, per non aver sostenuto i fragili. “Muhammad Zubair, Alessandro Gaffoglio, Tecca Gambe, Antonio Rondella. Sono i nomi dei 4 detenuti che si sono tolti la vita nella casa circondariale Lorusso e Cutugno nel 2022. Monica Cristina Gallo, garante delle persone private della libertà, li ha citati all’inizio della sua relazione annuale perché i suicidi (solo a Foggia si registra un numero più elevato) rappresentano una delle tante criticità evidenziate nelle strutture carcerarie torinese. Lo scorso anno ci sono stati altri 35 tentati suicidi, 143 gesti di autolesionismo e 3.761 eventi critici. “L’apparato carcerario è stato certamente corresponsabile - si legge nel rapporto -, per non aver creato i presupposti di una presa in carico sensibile e capace di sostenere le persone più fragili”. La relazione fotografa impietosamente tutte le altre problematiche (sovraffollamento, carenza nell’accesso alle cure mediche, strutture fatiscenti e crescita esponenziale dei Tso) che hanno interessato il Lorusso e Cutugno, l’istituto minorile Ferrante Aporti e il Cpr di corso Brunelleschi. E il sindaco Stefano Lo Russo ha parlato di “emergenza carceraria per il nostro territorio”. Nel 2022 sono entrate nel penitenziario torinese 2.741 persone, 195 ogni mese e 50 vengono rilasciate subito: “Un dato che evidenzia il malfunzionamento delle camere di sicurezza - ha commentato Gallo -. La capienza regolamentare è di 1.042 persone, ma nel 2022 la media era superiore a 1.350. Per tali condizioni negli ultimi anni sono stati accolti dai giudici più di 400 reclami”. Negli ultimi tempi la popolazione carceraria torinese è però diminuita: “Trasferire i detenuti non porta ai risultati sperati - continua Gallo -. Si deve intervenire sulla carcerazione preventiva che rappresenta un terzo delle presenze e sulle 530 persone detenute con condanna definitiva sotto i 2 anni che potrebbero beneficiare di misure alternative”. Come se non bastasse la direttrice del carcere tra poche settimane lascerà l’incarico e i ruoli di vertice della polizia penitenziaria sono ancora insufficienti. “Le criticità riguardano anche le strutture - conclude Gallo -. Le camere della decima sezione del Padiglione B devono essere chiuse. Gli ispettori del Comitato prevenzione tortura ha parlato di “celle sporche” e “persone lasciate sole come animali in una gabbia per essere guardate”. Da segnalare anche che il 30% del totale delle spese sanitarie nel Cpr è rappresentato da psicofarmaci, mentre il 118 ha segnalato che i tempi di intervento superano del doppio quelli previsti dalla legge. I Tso sono saliti nell’ultimo anno a 258 con un aumento del 35%, mentre una delle poche note liete è l’incremento dei detenuti iscritti ai corsi universitari che nel 2022 sono stati 94 a fronte dei 66 del 2021. Busto Arsizio. “Occorre insistere sul riagganciarsi alla vita. Relazioni umane, abitazione, lavoro” di Stefano Tosi informazioneonline.it, 7 aprile 2023 Intervista al nuovo Garante dei detenuti, Pietro Roncari. Il giornalista, decenni di volontariato con i ristretti, subentra a Matteo Tosi. Che cos’è il carcere? “Per certi aspetti assomiglia a un ospedale. È un luogo di sofferenza per un’umanità ferita. Dovrebbe anche essere luogo di cura”. Pietro Roncari è il nuovo garante per i diritti dei detenuti a Busto Arsizio. Giornalista a “La Prealpina”, sensibile alle tematiche sociali, 30 anni di conoscenza e frequentazione della casa circondariale, come volontario dell’associazione Detenuti e famiglie di Gallarate. Il garante è figura di nomina comunale, formalizzata dal sindaco, Emanuele Antonelli. L’albo dei garanti annovera due predecessori: Luca Cirigliano e Matteo Tosi. Persone che si sono spese, nel collegare “dentro” e “fuori”, ma che non hanno nascosto le difficoltà nel promuovere un salto culturale: fare accettare che il carcere è parte di Busto, non un oggetto estraneo materializzatosi in via per Cassano. Nonostante l’impegno di cappellani e volontari, la casa circondariale è una sorta di rimosso. Come si approccia, Roncari, al ruolo? Onestamente avevo titubanze. Ho scritto tanto sul carcere, pur non avendo incombenze specifiche. Alla fine ho accettato di proporre la mia candidatura. Mi è stato chiesto. Da operatori che sapevano della mia conoscenza. Come interpretare il ruolo di garante? Tutelare i diritti delle persone in carcere significa salvaguardare il loro futuro. Significa offrire una chance in più nell’ottica dell’uscire. Dunque il carcere come fase… È così e non potrebbe essere diversamente. Le persone, dal carcere, cercano comunque interlocutori. Hanno perso il mondo, hanno perso un convoglio, gli sono scappati di mano. Per colpa. Ma vivono pur sempre un episodio della vita. Su cosa occorre insistere? Sul riagganciarsi alla vita. Relazioni umane, abitazione, lavoro. Talenti da mettere a frutto. Il concreto delle carceri italiane, però, pone questioni molto concrete. E Busto non fa eccezione… Ovviamente approfondirò. Prenderò contatto con il mio predecessore. Terrò presente il tema, noto, del sovraffollamento e quello della notevole percentuale di detenuti stranieri. Sapendo per esperienza, però, che chi opera, oggi, già affronta problemi. E li conosce. Senza contare che, nella società, ci sono esistenze carcerate anche senza restrizioni. Come definirebbe il carcere? Per certi aspetti, è simile a un ospedale. È un luogo di sofferenza per un’umanità ferita. Dovrebbe anche essere luogo di cura. Il tipo di struttura e schemi mentali diffusi creano barriere. Ma occorre andare oltre. Catanzaro. Giustizia riparativa, il programma e le modalità di sviluppo calabria7.it, 7 aprile 2023 Il Garante dei detenuti del capoluogo: “L’esito riparativo può essere sia simbolico o materiale”. Nel chiedere al Garante dei detenuti di Catanzaro cosa si intende per Giustizia riparativa, Giacobbe ci spiega che “la giustizia riparativa è un programma il cui obiettivo è il raggiungimento di un esito riparativo, ovvero un accordo finalizzato alla riparazione dell’offesa, idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco - inteso come riconoscimento della vittima e responsabilizzazione del soggetto indicato come reo - nonché la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti. L’esito riparativo può essere sia simbolico, come ad esempio delle scuse formali, o materiale, come ad esempio un risarcimento del danno”. Il Garante evidenzia che alla giustizia riparativa è possibile accedere per tutte le fattispecie di reato, a prescindere dalla gravità, in ogni stato e grado del procedimento penale. Ovviamente il programma di giustizia riparativa è possibile qualora il Giudicante ritenga che lo svolgimento di tale programma possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato per cui si procede, e qualora ciò non comporti un pericolo concreto per gli interessati e/o per l’accertamento dei fatti. Esito riparativo - Una volta terminato il programma, il Giudice acquisisce la relazione trasmessa dal mediatore, contenente la descrizione delle attività svolte nonché l’esito riparativo. Qualora il programma sia stato svolto e vi sia stato esito riparativo, il Giudice potrà valutarlo ai fini dell’articolo 133 codice penale come circostanza attenuante ex articolo 62 comma 1 n. 6 codice penale, ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena o come remissione tacita della querela. A riguardo, per quanto concerne le tempistiche di attuazione della normativa circa la Giustizia Riparativa, Giacobbe evidenzia che la disciplina del d.lgs. 150/2022 è entrata in vigore il 30 dicembre 2022 ma entro il 30 giugno 2023 debbono essere adottati ancora due decreti attuativi. La normativa di riferimento, per quanto concerne i profili di interesse, si trova agli articoli 59 (formazione), 60 (requisiti per l’iscrizione all’albo dei mediatori), 63 (centri), 67 (finanziamento) e 92 e 93 (norme transitorie) del d.lgs. n. 150/2022. Il Garante ci spiega che è prevista la nomina di una Conferenza nazionale presieduta dal Ministro della Giustizia e una serie di Conferenze locali con competenza legata al distretto della Corte d’Appello. I costituendi centri verranno istituiti presso gli enti locali e saranno le Conferenze locali ad individuare, mediante Protocolli di intesa, uno o più enti locali cui affidare l’istituzione e la gestione dei centri. Quindi un coordinamento a livello nazionale, ma poi vi sarà un’articolazione a livello locale. Ecco che il Garante comunale delle persone private della libertà personale di Catanzaro si fa promotore affinché le conferenze a livello locale vengano costituite e si attivino nel breve periodo quantomeno per la ricognizione dell’esistente. Giacobbe ritiene che le Conferenze locali, prima ancora di interessarsi della costituzione dei centri, debbano fare un primo passo fondamentale, anche in assenza dei decreti attuativi, per portare avanti in prima battuta un’opera di ricognizione dei servizi di giustizia riparativa rispetto alle realtà già esistenti nell’individuazione dei mediatori. Si tratta di mappare l’esistente, sostiene Giacobbe, anche questa attività deve intervenire entro giugno 2023 in quanto funzionale a individuare i soggetti già dotati di esperienza. Essi confluiranno in un primo elenco di nomi da iscriversi nel costituendo albo dei mediatori di cui all’articolo 60, da cui gli enti locali potranno attingere per la prima apertura dei centri. È l’articolo 93 ad individuare tre diverse situazioni: soggetti con: a) una formazione di RJ e esperienza almeno quinquennale presso soggetti specializzati; b) una formazione teorica e pratica, seguita da tirocinio (equivalente o superiore a quella di quella richiesta dal decreto n.150) con necessità di una prova pratica valutativa; c) dipendenti presso ussm e uepe con adeguata esperienza quinquennale. I due decreti - I due decreti da adottarsi entro fine giugno riguardano, spiega Giacobbe: 1. l’istituzione dell’albo dei mediatori e la definizione dei criteri per l’iscrizione e la cancellazione dall’albo; le cosiddette incompatibilità e i requisiti di onorabilità; quelli che sono i criteri per i cosiddetti formatori dei centri che dovranno svolgere la formazione pratica che il decreto fissa a 2/3 della formazione complessiva (il restante terzo è formazione teorica e spetterà alle Università). 2. La definizione delle forme e dei tempi della formazione pratica e teorica dei nuovi mediatori nonché le modalità della prova finale teorico-pratica del corso di formazione. È importante, sostiene Giacobbe, che le persone detenute abbiano piena informazione al possibile accesso ai programmi riparativi (di RJ) anche attraverso attività di sensibilizzazione e in collaborazione con le direzioni delle strutture di pena. Trento. Carceri Spini: approvata l’offerta formativa per il prossimo anno scolastico lavocedeltrentino.it, 7 aprile 2023 La Giunta provinciale ha approvato ieri la proposta formativa rivolta ai detenuti della Casa Circondariale di Trento per l’anno scolastico 2023/2024. L’offerta formativa proposta tiene conto della specificità della struttura che è caratterizzata dalla presenza di detenuti ordinari e “protetti”, tutti con pene detentive generalmente inferiori ai cinque anni, e di una sezione femminile. I principali obiettivi della proposta sono: l’attivazione di percorsi sostenibili e coerenti con il tempo di permanenza dei detenuti e con la tipologia degli stessi e l’attivazione di percorsi spendibili o eventualmente completabili anche fuori dal carcere. L’offerta formativa è gestita dal liceo delle scienze umane “A. Rosmini” di Trento, anche in collaborazione con IeFP Alberghiero di Levico Terme per il percorso integrato con il liceo e alcuni corsi di carattere specialistico e con l’IeFP Pertini per altri corsi di carattere professionale. Prosegue l’attività di coordinamento tra la Provincia autonoma di Trento e la Casa Circondariale del capoluogo per ciò che concerne l’offerta formativa rivolta ai detenuti. Per il prossimo anno scolastico 2023-2024 sono previsti i seguenti percorsi: a) un percorso di alfabetizzazione; b) un percorso propedeutico di scuola secondaria di primo grado per studenti che saranno inseriti in moduli di alfabetizzazione e/o in moduli di scuola media con l’obiettivo di recuperare competenze per poi essere inseriti definitivamente a frequentare il percorso di scuola media; c) un percorso di scuola secondaria di primo grado per detenuti “ordinari” e detenuti “protetti”; d) un percorso pluriclasse anche con finalità di conseguimento del titolo conclusivo del primo ciclo, presso la sezione femminile in cui possono essere inserite delle studentesse anche solo su singole materie a discrezione dei docenti del consiglio di classe; e) un percorso di primo periodo misto tra Liceo Economico Sociale e percorso professionale alberghiero per le parti comuni che poi si differenzia a seconda delle propensioni dello studente o nella prosecuzione verso la maturità liceale o verso la qualifica professionale alberghiero/cucina. Per ciò che concerne il Piano pluriennale della Formazione Professionale, in continuità con l’anno formativo precedente, vengono inoltre programmati ulteriori interventi quantificati in complessive 280 ore suddivise in: moduli a favore delle detenute della sezione femminile per un totale di 40 ore di “tecniche di estetica”, affidati all’Istituto di formazione professionale provinciale Servizi alla persona e del legno “Sandro Pertini”; 80 ore di corso nel campo della panificazione e della pasticceria per la popolazione femminile e maschile affidato all’Istituto Alberghiero di Levico Terme; 160 ore di corso di pizzeria articolato in 4 moduli di 40 ore a favore dei detenuti “ordinari” e “protetti” affidato all’Istituto Alberghiero di Levico Terme, che potranno sfociare in accertamento di competenze nei nuovi profili professionali di aiuto pizzaiolo. Infine, per quanto riguarda il periodo estivo, l’offerta formativa per la Casa circondariale di Trento proposta dal Liceo “Antonio Rosmini” di Trento prevede corsi sia per i detenuti ordinari sia per i detenuti protetti e per la sezione femminile, su varie tematiche: dalla lettura e scrittura, alle lingue straniere, alle espressioni artistico-musicali, allo studio assistito per chi ha frequentato la scuola superiore. L’offerta ricomprende anche attività di carattere sportivo al fine di promuovere il benessere psico-fisico dei detenuti sia della sezione maschile che femminile. Le attività sportive saranno realizzate con la collaborazione del CST di Trento, già a partire dal corrente mese con prosecuzione nel periodo estivo. Piacenza. L’Aiga alle Novate: “Quadro positivo nonostante le criticità” ilpiacenza.it, 7 aprile 2023 L’Associazione Italiana Giovani Avvocati ha partecipato all’evento dell’Osservatorio Nazionale Aiga Carceri alle Novate per monitorare la situazione delle carceri italiane e recepire utili spunti per una riforma organica, da più parti auspicata, del sistema penitenziario. Il 5 aprile anche la sezione piacentina dell’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) ha partecipato all’evento dell’Onac (Osservatorio Nazionale Aiga Carceri), autorizzato dal Ministero della Giustizia, che ha coinvolto ben 18 Regioni italiane. Lo scopo è quello di monitorare la situazione delle carceri italiane e recepire utili spunti per una riforma organica, da più parti auspicata, del sistema penitenziario. La delegazione piacentina composta dalla locale referente Onac nonché vice presidente di sezione, avvocato Alida Liardo, dalla presidente di sezione, avvocato Giovanflora Marifoglou, e dal consigliere avvocato Filippo Maria Caprioli, è stata accolta dalla Direttrice del carcere Maria Gabriella Lusi, da Vincenza Zichichi, corpo area trattamentale e dall’ispettore Santo Guercio. “Le domande - si legge in una nota - formulate dalla delegazione Aiga hanno trovato ampie risposte, date con collaborazione e trasparenza. Ne è emerso un quadro positivo, seppur nella valutazione anche delle criticità. Nonostante le varie difficoltà, tra cui, ad esempio le carenze di organico nei ruoli dei funzionari e dirigenti del Corpo di Polizia Penitenziaria, l’impegno e la forte determinazione e sinergia dell’amministrazione carceraria hanno portato ad una maggiore “umanizzazione” della struttura, sia per chi la vive come luogo di lavoro sia per chi invece la vive quale realtà di costrizione”. La Spezia. La bellezza salva il mondo, anche dentro al carcere di Marco Magi La Nazione, 7 aprile 2023 Si avvia a conclusione la quinta edizione dell’iniziativa “Per Aspera ad Astra”. Coinvolti oltre mille detenuti. A Villa Andreino un laboratorio con gli studenti. Sulla lunga via Fontevivo, alla Spezia, si affacciano due edifici a pochissima distanza l’uno dall’altro dove vivono due gruppi di persone: studenti in uno e detenuti nell’altro. I due edifici si guardano da anni e le persone che li vivono e li abitano non sanno chi c’è dall’altra parte o, forse, possono solo immaginare chi siano i dirimpettai. Si avvia anche sul territorio spezzino la conclusione della quinta edizione di ‘Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza’, un progetto che sta realizzando in 15 carceri italiane percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, che riguardano attori, drammaturghi, scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Dal 2018 il progetto, promosso da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria tra cui Fondazione Carispezia, ha coinvolto in tutta Italia oltre mille detenuti. Quest’anno Gli Scarti - Centro di produzione teatrale d’innovazione, che porta avanti la direzione artistica del progetto a Villa Andreino, per la prima volta ha unito un gruppo di detenuti e uno di studenti delle scuole superiori, partecipanti al laboratorio “No Recess!” guidato dagli Scarti stessi: oltre 60 persone, con diverse età e percorsi di vita, si mescoleranno per dare vita a ‘Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada’, lo spettacolo finale in programma il 6 e 7 maggio al Dialma di Fossitermi (due replche giornaliere alle 18.30 e alle 21.15); inoltre, domenica 7, dalle 11 alle 12.30 sempre al Dialma, verrà proiettato il documentario ‘Tutto quel che sono. Un percorso teatrale nel carcere della Spezia’ e si terrà l’incontro sul tema ‘Teatro-Carcere-Comunità’. “Per Aspera ad Astra, sostenuto sul territorio spezzino dalla nostra Fondazione fin dalla prima edizione - dichiara Andrea Corradino, presidente della Fondazione Carispezia - prosegue nell’intento di creare un dialogo tra ‘dentro’ e ‘fuori’, che può contribuire a scardinare pregiudizi e paure. Quest’anno questo dialogo sì è ampliato con il confronto tra gli attori detenuti e gli attori studenti, testimoniando come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, facendo sì che essa possa incidere sulla rigenerazione degli individui, favorendo il riscatto personale e il reinserimento del detenuto nel mondo esterno”. Aggiunge Enrico Casale, direttore artistico del progetto per Gli Scarti: “Se mai ci fosse una lezione da imparare da questa nuova esperienza nel carcere della Spezia sarebbe il monito che da molti anni sentiamo ripetere da Armando Punzo, il regista che opera da oltre 30 anni nel carcere di Volterra: ‘Nulla è impossibile’”. Info e prenotazioni al 333 2489192. Torino. Una storia di resurrezione di G.R. La Voce e il Tempo, 7 aprile 2023 “L’opportunità di studiare e laurearmi durante la detenzione mi ha regalato una seconda vita, oggi opero come volontario presso la Caritas diocesana. Ero un narcotrafficante, la Provvidenza si presentò con il volto degli uomini che mi fermarono, mi catturarono, mi chiusero in prigione”. Il gruppo operativo antidroga del nucleo centrale di Polizia Tributaria di Roma, in collaborazione con la Guardia di Finanza di Fiumicino, mi arrestò a Roma in un noto Hotel del centro. Ero di ritorno dalla Spagna dove mi ero rifugiato dal 1996 per sfuggire al primo arresto. Una decina di uomini in borghese mi afferrarono, mi portarono in una saletta dell’Hotel e chiusero la porta. Dopo essersi dichiarati poliziotti, venni fatto distendere a terra con la faccia in giù e perquisito. Un agente mi colpì con un calcio ai fianchi, ma venne subito rimproverato aspramente da un suo collega. Trascorsi una notte intera davanti alla scrivania di un commissariato romano, parlando pochissimo e stranamente sempre sveglio. A una certa ora del mattino, con le mani legate dietro la schiena, feci il mio ingresso nel carcere di “Regina Coeli”. Fui perquisito con accuratezza in tutti gli anfratti corporali possibili, rivestito e spedito dal medico, il quale mi dichiarò sano in un batti-baleno. Ripreso dagli agenti, venni gettato in uno stanzone super affollato in attesa di non so che. Dopo 48 ore il cervello riprese a funzionare. Lo stanzone aveva sei letti a castello posti su due file di tre e un materasso per terra. Avrei dormito per terra molte altre volte nei miei trasferimenti. Le pareti lerce e scrostate, il piccolo bagno nauseabondo. Un detenuto alto dagli occhi tristi mi diede la mano e mi cedette il suo posto nei letti a castello, poi con una certa ironia mi disse: “Hai perso la libertà, ma oggi sei un cittadino romano a tutti gli effetti, infatti qui a Roma abbiamo un detto: a via de la Lungara (l’indirizzo del carcere, ndr) ce sta ‘n gradino; chi nun salisce quelo nun è romano, e né trasteverino”. Al sopraggiungere della notte la nuova realtà cominciò con insistenza ad attirare la mia attenzione. Non ero preoccupato per me, ero tormentato dall’idea della incredulità e disperazione in cui avrei gettato i miei famigliari alla notizia della mia carcerazione. Le conseguenze del mio reato le stavo vedendo in due dei miei compagni di cella, che in evidente stato di astinenza da droga picchiavano furiosamente sul blindato per poter essere portati in infermeria. La mia prima tormentata notte in cella fu un susseguirsi di immagini sgradevoli sulle conseguenze delle mie azioni passate. Nato e cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, ultimo nato di sei figli, fin da piccolo avevo manifestato insofferenza e irrequietezza ai consigli e alle raccomandazioni dei miei genitori. Mamma mi diceva che, appena avevo imparato a camminare, scappavo sempre da casa in cerca di “quello che non avevo perso”. Ero colpevole e non avevo nessun tipo di giustificazioni a cui aggrapparmi per dare la colpa a qualcun altro del mio stato. I primi mesi di detenzione li ho trascorsi facendo “turismo carcerario”. Mi svegliavano alle tre e mezza del mattino, mi davano un sacco nero (della spazzatura), lo riempivo con le mie cose e si partiva con la tradotta blindata dei carabinieri, con gli schiavettoni ai polsi, per raggiungere di volta in volta i Tribunali dove si svolgevano i miei processi: Vicenza, Como, Milano e ritorno a Roma. Alla fine, con una pena definitiva di ventun anni per narcotraffico venni collocato presso il carcere “Mammagialla” di Viterbo. A Viterbo, ormai consapevole che la mia insofferenza e irrequietezza erano definitivamente imbrigliate e rinchiuse in una scatola di sardine, feci mio il consiglio di Giuseppe Ferraro in “Filosofia fuori le mura” che afferma: “Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni”. Padre Cristoforo, un francescano che allora era cappellano del carcere, mi chiamò per aiutarlo nella cappella e mentre gli parlavo del mio destino mi parlò della Provvidenza Divina. Mi spiegò che Dio, tra i suoi disegni imperscrutabili, si serviva della Provvidenza in maniera singolare e immutabile di quello che doveva essere fatto e poi mediante il destino sovrintendeva nel tempo le cose che aveva preordinato. Non capii molto, lì per lì, ma mi fece intendere bene che Dio stesso aveva posto un freno alla mia disordinata vita e che era tempo che guardassi dentro me stesso. A quel punto espressi a padre Cristoforo il desiderio di studiare e con il suo aiuto e con il benestare della direzione mi iscrissi al Liceo Classico Mariano Buratti di Viterbo. Era la prima volta che un detenuto si iscriveva al Liceo Classico ed erano tutti molto scettici sulla mia possibilità di arrivare alla fine. A quel tempo avevo capito abbastanza rapidamente che la logica della detenzione era quella di contenere le persone senza stabilire relazioni con la nostra vita, con la nostra esistenza e con il nostro destino. Cioè mi era stato dato un tempo che si sarebbe consumato per nulla. Così come ero entrato così sarei uscito. Sarei stato preda di una subcultura carceraria e avrei passato il mio tempo nel fare gli stessi progetti per cui ero stato condannato. Nel 2003 sostenni gli esami di Stato con l’intera commissione del Liceo, che venne autorizzata ad entrare: venni promosso. Nello stesso anno venni a sapere che a Torino l’Università degli Studi, primo esperimento in Italia e penso in Europa, aveva aperto nel carcere due corsi di laurea in Giurisprudenza e Scienze Politiche e feci domanda di iscrizione, che venne accettata: mi trovai studente universitario nel carcere torinese. La situazione abitativa cambiò radicalmente. A Viterbo eravamo in due in una cella striminzita con un bagno lillipuziano e sempre chiusa. A Torino una cella per ogni studente aperta tutto il giorno per le lezioni in aula. Devo ringraziare i miei compagni di cella di Viterbo che guardavano la televisione senza audio per lasciarmi il tempo di studiare. A Torino mi sono laureato in Scienze Politiche con una tesi in latino “De potestate regia et Papali di Jean Quidort”. Sono più che mai convinto che lo studio in carcere sia una alternativa importante per condurre una persona a riflettere sul suo passato, a riprendere autostima di se stessa e questo percorso produce una recidiva insignificante. Dal 2008 sono in Caritas, prima come autore della rassegna stampa regionale, poi come volontario. Il pensiero di padre Cristoforo sulla Provvidenza ha dato i suoi frutti. Torino. L’Arcivescovo in carcere, commozione alla Messa di Pasqua di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 7 aprile 2023 Le celebrazioni della Settimana Santa per l’Arcivescovo sono iniziate mercoledì 5 nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”: è la seconda volta dal suo ingresso in diocesi che mons. Roberto Repole presiede la Messa nella cappella del penitenziario con i detenuti e le detenute. Il 20 dicembre scorso, in occasione delle festività natalizie, “aveva cresimato tre nostri compagni”, ci ricorda un detenuto, mentre il coro guidato dai cappellani don Silvio Grosso e don Guido Bolgiani prova i canti per la celebrazione, “ci fa piacere che sia tornato, anche per Pasqua: per noi qui le festività sono i momenti peggiori. Siamo lontani dalle nostre famiglie, ci sentiamo più soli”. “Io non l’ho mai visto”, ci dice il suo vicino, “sono entrato da pochi mesi, mi hanno detto che è giovane”. Inizia la Messa, partecipano la direttrice Cosima Buccoliero che ha accolto l’Arcivescovo, la responsabile dell’Area Trattamentale Arianna Balma Tivola, gli agenti penitenziari, i volontari. “Sono molto contento di essere qui con voi a iniziare le celebrazioni della Settimana Santa”, esordisce mons. Repole. “La Passione e la morte di Gesù non sono la fine di tutto e ci dicono che anche in un luogo come questo, dove si può perdere la speranza, la morte non è la fine, Gesù risorge”. Mons. Repole ha commentato il Vangelo di Matteo, l’ultima cena di Gesù con i dodici discepoli, tra cui Giuda che lo tradirà: “Rabbì, sono forse io?”. “L’amicizia - ha detto l’Arcivescovo - è una delle cose più belle della nostra vita. Un amico è la certezza di non essere solo, di essere importante per qualcuno, di avere un punto di riferimento nelle difficoltà” dice l’Arcivescovo nell’omelia. “Un amico che ti tradisce - forse è un’esperienza che abbiamo provato tutti - è una ferita profonda, viene tradita la tua fiducia, ti senti perso, sei di nuovo solo”. Anche Gesù aveva amici intimi che per tre anni condividono la sua vita. “Uno di loro lo tradisce”, prosegue l’Arcivescovo, “nel modo peggiore che si possa tradire: lo vende. Quando vendi una persona la tratti come una cosa, una merce. Anche Gesù, che si è fatto uomo come noi, ha provato la solitudine del tradimento. È stato ucciso ingiustamente e tradito da un amico che lo consegna per denaro ai suoi aguzzini”. Giuda lo tradisce, ma attraverso il tradimento ce lo consegna perché l’umanità non sia più sola. “Quando siamo traditi, delusi, soli, guardando alla Passione e morte di Gesù proviamo a riflettere che attraverso le esperienze negative, le ferite della vita, il Signore ci dona Gesù. Dovunque ci troviamo, anche qui in carcere, nessuno ci toglie la dignità perché Dio ci ama, ad ognuno di noi ha donato suo Figlio per salvarci”. Un’omelia breve, che entra nel profondo perché parla alla vita di ciascuno dei presenti. E scoppia un applauso spontaneo. Un grazie commosso. Al termine della Messa i cappellani ringraziano e invitano l’Arcivescovo a tornare. La visita di mons. Repole prosegue in due sezioni del carcere per gli auguri e una parola di conforto per chi non è sceso in cappella. Anche per i reclusi che lo desidereranno, avvisano i cappellani, ci sarà la possibilità di partecipare al Triduo pasquale e alla Messa di Pasqua. E tra i prossimi appuntamenti, come ci annuncia Beppe Bordello, “storico” volontario del “Lorusso e Cutugno”, catechista e padrino di uno dei detenuti cresimati a Natale, nel mese di aprile verrà battezzato un detenuto albanese e cresimati due compagni italiani perché “per molti ristretti il tempo della pena è occasione di riflessione sulla propria vita e accade che leggendo insieme il Vangelo si scopra (o si riscopra) in quelle pagine il senso della vita”. Quando la Speranza ci viene a trovare di Andreina Corso Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2023 “Speranza”, questo il titolo del libro del filosofo Giuseppe Goisis a inoltrarci in un cammino del pensiero che abbraccia e accarezza l’anima disorientata dell’uomo, per seminare la terra di un sacro sentire che avvolge l’affanno della vita, con le sue paure, le sue ansie e insieme per intravedere la luce della speranza. Una luce con i suoi chiaroscuri e le sue illusioni, una stella per un cuore pietrificato da una speranza morta, senza apparente futuro. L’autore nella postfazione ci affida un sentimento struggente e intraducibile quando scrive: “Questo libro è stato concepito e scritto nei mesi precedenti all’emergenza Covid 19 e arriva in libreria quando ancora le tenebre di questa sorta d’incubo non si sono dissipate, ma si manifesta solo un timido risveglio (...) Quel che è avvenuto ribadisce l’estrema necessità della speranza come virtù, come virtù che implica, nei travagli quotidiani, la pazienza e il coraggio”. Il libro, fin dalle prime pagine rivela l’incontro con un universo variegato di sentimenti e di turbamenti che premono sulle emozioni umane. Attraverso una rigorosa rivisitazione della storia del pensiero filosofico, religioso, artistico e storico, la Speranza ci viene a trovare, diventa corpo, possiamo toccarla, darle voce e ascolto. La sua è una dialettica della concordia, il linguaggio e la ricerca non implicano il giudizio e ancor meno il pregiudizio. Non sapevamo che la Speranza fosse così vicina al cuore e tuttavia legata alla ragione: si è ripresentata proprio in queste difficili giornate che ci costringono a implorarla, che ci inducono a resistere, a opporci al male e alla malattia. Il virus, come la civetta di Hegel ha iniziato il suo volo al crepuscolo e l’uccello sacro di Minerva, dea della sapienza osserva il declino delle coscienze esposte alla malattia e alla morte. Le osserva dall’alto, le vede mentre cercano una via di fuga, un rifugio per consolare la paura, un ripostiglio lontano dal contagio. La Speranza dell’autore, veste abiti semplici, essenziali, dà voce ai deboli, agli sconfitti, si occupa degli invisibili, degli ultimi della terra. Nell’affresco’ Scuola di Atene’, Raffaello nel ‘500 volle dipingere Diogene semi sdraiato sui gradini: indossa un abito lacero, azzurro e ha con sé una ciotola che secondo un famoso aneddoto era l’unico bene che aveva tenuto dopo essersi disfatto di tutto il resto ma che non esitò a buttare via quando vide un bambino bere con le mani. Si coglie un significativo legame artistico ed esistenziale fra Diogene e la Speranza vissuta dal prof. Giuseppe Goisis. La semplicità come necessità del vivere, la coerenza, la fede limpida e fiduciosa verso l’altro. Dare speranza, essere speranza, perché ci dice l’autore, in ogni lingua e cultura esistono termini che indicano la speranza, a comprovare l’universalità di tale dimensione. È la vita che vuole se stessa a dirsi speranza, perché essa è un robusto sostegno ai fili fragili dell’esistere. La speranza non è una chimera, un sogno, essa è fatica, impegno, coscienza del perché dell’esistere. Interpella il sacro che in noi si cela, quando non si rivela. La speranza come passione del possibile, ma anche aspirazione dell’impossibile. L’autore ci suggerisce la cura di un’energia virtuosa, percorre periodi storici e pensatori di ogni tempo, cita papa Francesco e la sua raccomandazione “Non fatevi rubare la speranza”. Le pagine dedicate al Cristianesimo, al Padre Nostro, al pane come nutrimento del corpo e dell’anima dell’uomo e quel doloroso ‘non ancora’ che precede sconosciuto il languore della speranza. E noi tutti dentro questo ‘non ancora’ quando l’attesa resiste e la trepidazione ci spinge verso il bene per coglierne la bellezza e l’universalità. L’autore cita, fra i tanti pensatori di ogni epoca, la filosofa Maria Zambrano che introduce la metafora del ponte, capace di innalzarsi sopra ogni situazione: “C’è una speranza infatti che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza, la speranza creatrice, quella che estrae la sua forza dal vuoto, dall’avversità, dall’opposizione. È la speranza che crea stando sospesa, quella che fa emergere la realtà ancora inedita: la speranza rivelatrice, sostanza di cose sperate”. Eppure la speranza è anche un faro per una barca che affronta la tempesta. Come affrontare il mare e giungere a terra? Il cuore dell’autore si apre e sembra prenderci per mano quando scrive: “Lascerei al lettore di esplorare i luoghi in cui quotidianamente avviene il naufragio della speranza, mi limito a segnalare alcuni di questi luoghi: dove c’è miseria e degrado, dove c’è dipendenza, nelle carceri, usate drammaticamente come discarica sociale. E ancora (...) dove i migranti provenienti da mondi lontani e in fuga dalla miseria e dalla guerra vengono odiati e umiliati, invece che accolti e ospitati”. Per dar credito al futuro, perseveriamo nel credere e pensare che anche la speranza sia figlia dell’amore e che nel suo nome, l’impossibile diventi possibile. Nell’attesa sappiamo che il virus ci verrà ancora a trovare e sarà opportuno interrogarci, chiederci chi eravamo prima della sua venuta e chi siamo ora, che la minaccia ci ha interpellati. Siamo umanamente migliorati? Cosa è cambiato in noi, per noi e per gli altri? Il mondo ha fame di spiritualità, scrive Goisis nella postfazione: “C’è chi dice che conosceremo l’alba fulgente di una nuova umanità, di quella fratellanza che si era più o meno smarrita, e chi dice che ne usciremo ancora più spietati, curvi ognuno sul proprio istinto di sopravvivenza”. La Speranza persegue instancabile il suo cammino anche quando nel cielo muto non brillano le stelle. “Speranza” di Giuseppe Goisis - Collana: Parole allo specchio. Giugno 2020. Edizioni Messaggero Padova. Giuseppe Goisis, già docente ordinario di filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è impegnato sul versante dei diritti umani, collaborando con il Centro studi diritti dell’uomo e con l’Ateneo Veneto. È autore di monografie su temi e autori di diritto politico: Sorel e i soreliani (1983); Mounier il labirinto personalista (1989); Eirène (2000); Il pensiero politico di Rosmini (2010); I volti moderni di Gesù (a cura - 2013); Dioniso e l’ebbrezza della modernità (2016); Hitler e il nazismo 2016 e Tommaso Moro 2019, distribuiti con il Corriere della Sera. La povertà come destino è inaccettabile: ripartire dalla scuola contro le diseguaglianze di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 7 aprile 2023 Il rapporto di Fondazione Cariplo sulle disparità sociali: decisivi i primi anni di vita, il recupero è costosissimo (spesso impossibile). La povertà come destino. Non nel “terzo mondo”, come lo abbiamo a lungo chiamato forse per suggellare una distanza di sicurezza e sentirci così protetti, noi “primi”, grazie al cuscinetto del “secondo mondo”. Non nei Paesi “in via di sviluppo” come abbiamo poi cominciato a dire per esprimere fiducia in quella “via”, con i lavori perennemente in corso, che prometteva destinazioni migliori. No, non altrove, non lontano. Qui. La povertà - economica, educativa - come prospettiva per milioni di persone che nascono/crescono nel nostro Paese. Come è possibile che la diseguaglianza diventi sempre più - e non sempre meno - una ferita per i singoli e la collettività? Come possiamo rassegnarci davanti alle prove statistiche che dimostrano quanto il solco tra i ragazzi, cittadini e lavoratori di domani, si stia approfondendo invece di colmarsi e permettere a ciascuno una corsa senza dislivelli o steccati? È l’interrogativo che ci pone il primo Rapporto Disuguaglianze (voluto da Fondazione Cariplo e curato da Federico Fubini con un team di otto autori) alla vigilia di questa Pasqua che porta sempre con sé una speranza di ripartenza, per credenti e non credenti. I dati sono moltissimi, e coerenti. Rivelano un aumento della frammentazione sociale. Persone che vivono vicine e tuttavia sono lontane, già dai primi anni di vita, a causa di un’asimmetria nelle opportunità. Che presto si tramuta in un’asimmetria delle capacità. Il divario nelle condizioni di partenza genera, di fatto, disparità di futuri possibili. Dei tanti riscontri che il Rapporto propone, proviamo a metterne a fuoco due. Il primo. Guardando ad altri Paesi, l’Italia ha rappresentato a lungo un’eccezione se consideriamo “la dinamica del rapporto tra il valore del patrimonio e il reddito”. Vuol dire che la ricchezza dei privati, finanziaria e immobiliare, ha tenuto. Ma ora la bassa crescita sta intaccando questa sponda. E nell’affanno prolungato della “permacrisi”, lo Stato, con i suoi interventi di politica redistributiva, fatica a compensare l’allargamento della forbice sociale. Anzi, ci riesce meno rispetto ai decenni che hanno chiuso il secolo scorso. L’incidenza della “povertà assoluta” è di conseguenza “decisamente aumentata” dal 2005. Il secondo punto di osservazione è strategico. Se questa è la situazione, accelerata ma non generata dalla pandemia, che cosa sta facendo la scuola - la leva più potente verso l’uguaglianza - per contrastare gli squilibri? In un mondo precario, al di là di carriera o non carriera, chi raggiunge “competenze elevate” ha più chance di svolgere un ruolo attivo nella società. Ma se le origini familiari, le differenze di genere e la provenienza geografica non vengono appianate durante il percorso educativo, chi potrà mai garantire che il merito dei singoli potrà attraversare un sistema bloccato e uscirne vincente? Un potenziale umano sempre più vasto rischia di disperdersi. E recuperarlo dopo sarà costosissimo, se non impossibile. Non è andata sempre così, in Italia. Lo raccontano i nostri genitori o nonni. C’è stata una stagione felice, o almeno promettente felicità, durante la quale i giovani italiani non avevano paura di muoversi e scommettere. La scuola, per quelle generazioni di padri e madri, rappresentava una garanzia: i figli e le figlie, se accolti e motivati, avrebbero potuto raggiungere almeno un piano superiore e da lì costruire ancora. Se questo meccanismo è inceppato, se non saliamo insieme, stiamo perdendo tutti. Non solo i poveri, non solo i “meno fortunati” delle periferie. Le diseguaglianze non riguardano esclusivamente chi ne subisce le conseguenze più gravi e immediate: il confine tra equità ed efficacia non è tracciabile. È un inganno. Più equità tra gli individui genera un sistema più efficace. Che è giusto e conviene allo stesso tempo, che farà bene a tutti. Perché la povertà non può essere il nostro destino. Inversione di tendenza in Italia: un giovane su 4 è a rischio povertà di Massimo Taddei Il Domani, 7 aprile 2023 I nuovi dati Eurostat sulle persone a rischio di povertà confermano una tendenza ormai in atto da tempo. Per la prima volta nella storia, almeno da quando si è sviluppata un’economia di mercato, i giovani hanno in media una maggiore probabilità di essere poveri rispetto agli anziani. Nel 2021, infatti, in Italia il 24,6 per cento dei giovani tra 15 e 29 anni era a rischio di povertà, circa 1 su 4. Il dato scende al 20,1 per cento per la popolazione in generale e al 15,7 per cento per gli over-60, quasi 10 punti percentuali in meno rispetto agli under-30. Una persona è a rischio di povertà (o in povertà relativa) quando il suo reddito è inferiore al 60 per cento del reddito mediano, ossia il reddito percepito da chi si trova a metà della distribuzione: metà della popolazione guadagna di più, metà guadagna di meno. Il reddito mediano è una misura migliore rispetto al reddito medio, che tende a essere sovrastimato dal peso dei redditi molto alti. Se si guarda a questo indicatore, dunque, una persona in Italia si trova in povertà relativa quando ha entrate annue inferiori a 10 mila euro circa, poco più di 850 euro al mese. Il grafico mostra chiaramente come nei maggiori paesi europei il rischio di povertà sia sempre più alto per i giovani rispetto agli anziani. Per l’Italia spicca però sia il livello (1 under 30 su 4, contro una media Ue di 1 su 5), sia la distanza decisamente più elevata rispetto alla media europea. Non è un caso, ma il risultato di decenni di politiche a favore solamente delle fasce di popolazione più anziane. Sia chiaro, nessuno si augura un livello di povertà tra gli anziani più alto per poter “pareggiare i conti”, ma questi dati mostrano quello che la politica e una buona parte della popolazione vogliono negare: gli anziani, i pensionati, non sono la fascia di popolazione più in difficoltà, anzi, sono quelli che rischiano meno di trovarsi in povertà. L’inversione di tendenza nella povertà - Da alcuni anni, le persone in povertà assoluta, ossia non in grado di acquistare una certa quantità di beni e servizi ritenuti fondamentali per la sussistenza, sono soprattutto giovani, mentre al crescere dell’età la percentuale cala. Non è sempre stato così. Nel 2006, gli under-35 in povertà assoluta erano il 9,5 per cento del totale, contro il 13,8 per cento degli over-65. In passato, le persone anziane risultavano economicamente più deboli perché, diventando sempre meno abili al lavoro, non avevano la possibilità di migliorare la propria condizione economica. Gli importi delle pensioni e dei sussidi, inoltre, risultavano più bassi rispetto alla situazione attuale. Nel tempo le tutele a favore dalla popolazione anziana sono giustamente aumentate, ma nel frattempo l’evoluzione del mercato del lavoro ha reso sempre meno protette le persone più giovani. Oggi, l’incidenza della povertà assoluta tra i 18-34enni è doppia rispetto a quella degli over-65. Le difficoltà delle persone in età genitoriale hanno anche avuto un impatto sui figli: i minori che si trovano in povertà assoluta sono il 14,2 per cento del totale, quasi 1 su 6. Eppure, le proposte politiche della maggioranza, ma spesso anche dell’opposizione, si concentrano molto sulle fasce più anziane della popolazione. Il motivo è evidente: l’affluenza al voto tende ad aumentare al crescere dell’età e i partiti seguono gli interessi di chi vota. Sarebbe però il caso di smettere di dipingere i pensionati come una fascia di popolazione più debole dal punto di vista economico. Tensione al Senato, dl migranti rinviato di una settimana di Alessandro Di Matteo La Stampa, 7 aprile 2023 Nuovo scontro sul provvedimento che abroga la “protezione speciale”. L’opposizione denuncia: il governo forza la mano sugli emendamenti. È scontro tra maggioranza e opposizione sul decreto-migranti, il provvedimento varato dal governo dopo il naufragio di Cutro a febbraio e che, tra le altre cose, abroga la fattispecie della “protezione speciale” che finora impediva l’espulsione delle persone che rischiano persecuzioni o che potrebbero essere in pericolo di vita nei paesi di origine. Mercoledì notte, in commissione Affari costituzionali al Senato, è scoppiato il caos quando il governo ha insistito per iniziare a votare. Tutti i gruppi di minoranza si sono ribellati per la riformulazione di un emendamento da parte dell’esecutivo, anche se solo i senatori del Pd e di Verdi-Sinistra hanno abbandonato i lavori della commissione, mentre M5s e centristi sono comunque rimasti. Attaccano i senatori di opposizione in una nota congiunta: “Questo governo e questa maggioranza, consapevoli di aver scritto un decreto sbagliato, cercano di modificarne parti importanti impedendo però alle opposizioni di svolgere la propria funzione. Se il governo vuole riscrivere e integrare il decreto Cutro ne presenti uno nuovo”. E Andrea Giorgis del Pd: “Vengono conculcate le prerogative dei parlamentari e delle opposizioni”. A replicare è il presidente della commissione Alberto Balboni (FdI), che se la prende in particolare con i democratici: “La sceneggiata messa in atto in Commissione dal Pd è stata deprimente. Un atteggiamento così irritante che le altre opposizioni rappresentate dal M5s con il senatore Cataldi e da Italia viva con la senatrice Gelmini non hanno seguito l’esempio del Pd e sono rimaste”. Lo scontro è stato soprattutto sul metodo della maggioranza. Al presidente è stata contestata la scelta di avviare le votazioni nonostante il governo avesse fornito i pareri solo sui primi tre articoli del provvedimento. E, soprattutto, è stata contestata la scelta di riformulare tre emendamenti sostanzialmente identici - due delle opposizioni e uno di FI - che chiedevano di inserire anche apolidi e rifugiati nelle quote del decreto flussi. La maggioranza ha riformulato il testo aggiungendo la possibilità di prevedere ulteriori quote per consentire l’ingresso di lavoratori anche stagionali che provengono da Paesi con i quali sono stati stipulati accordi di rimpatrio. Si riprenderà la prossima settimana, quando verranno esaminati gli articoli più contestati, a cominciare appunto da quello sulla protezione speciale. Senza un accordo con le opposizioni almeno sul metodo, il governo rischia di dover usare la “tagliola” sugli emendamenti per portare il testo in aula il 18 aprile, come da calendario. Migranti. Psicofarmaci per risparmiare sul cibo nelle galere degli stranieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 aprile 2023 Inchiesta di “AltraEconomia” sui Centri per il rimpatrio. “Abuso di medicine arbitrario quotidiano che permette all’ente gestore maggiori guadagni”. Antiepilettici, antipsicotici, antidepressivi e metadone: sono gli psicofarmaci lo strumento principale di gestione delle persone recluse nei Centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti. “Servono per stordire donne e uomini in modo che mangino di meno, restino più tranquilli e resistano di più al sovraffollamento, nelle gabbie in cui vengono stipati. All’ente gestore gli psicofarmaci costano meno del cibo e permettono di riempire maggiormente i Cpr e allungare il tempo di permanenza di ciascun migrante nella struttura, in modo da aumentare i guadagni”. È una fotografia agghiacciante, indegna di un Paese civile, quella scattata dai giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni nell’inchiesta pubblicata nell’ultimo numero del mensile Altraeconomia, diretta da Duccio Facchini, e presentata ieri alla Camera dei deputati in una conferenza organizzata dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e della senatrice Ilaria Cucchi (Avs). Proprio mentre nella legge di Bilancio sono stati previsti più di 42,5 milioni di euro per l’ampliamento entro il 2025 della rete dei Cpr al fine di costruirne uno per regione, con le procedure di costruzione semplificate dal nuovo decreto sull’immigrazione. Mesi di lavoro, per i due giornalisti, dati reperiti tra estreme difficoltà, risposte parziali, rimpalli tra prefetture (che hanno compiti di vigilanza sui Cpr e conferiscono l’appalto agli enti gestori) e Asl di competenza, per raccontare l’abuso di psicofarmaci cui vengono sottoposti cittadini inermi reclusi nelle galere per stranieri, da Torino a Trapani, da Milano a Roma, Brindisi e Gorizia. Nei nove Cpr italiani attivi, a fronte di 744 posti totali disponibili, nel 2021 sono transitate quasi 6 mila persone con una permanenza media di 36 giorni (da 15 giorni a 3 mesi). Lo scopo di questi centri sarebbe il rimpatrio ma avviene in meno del 50% dei casi. Mentre a conti fatti gli psicofarmaci hanno inciso per il 31% sulla spesa totale dei farmaci. È tanto? È poco? Per capirlo Rondi e Figoni, in collaborazione con l’associazione Naga e l’Asgi, hanno lavorato sui dati forniti dal Ssn e controllato migliaia di fatture e scontrini perché “in alcuni casi le amministrazioni non hanno questo tipo di dati, in altri casi non li elaborano”. E siccome “da ottobre 2021 a dicembre 2022 sono state effettuate solo otto visite psichiatriche nei Cpr”, Altraeconomia ha deciso di confrontare la spesa in psicofarmaci nei Cpr con quella effettuata al “Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio delle Asl che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno (non iscrivili quindi al sistema sanitario nazionale) e segue una popolazione simile a quella dei trattenuti del Cpr anche per età (15-45 anni), provenienza e condizione di “irregolarità”“. Ebbene, “a Vercelli la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale: al Cpr di via Corelli a Milano, invece, questa cifra è 160 volte più alta (il 64%), al “Brunelleschi” di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%), a Caltanissetta Pian del Lago 30 (12%) e a Macomer 25 (10%)”, scrivono i cronisti nell’inchiesta. Benzodiazepine come il Tavor, antiepilettici come il Rivotril, antidepressivi come il Zoloft e perfino metadone vengono somministrati in grandi quantità e, secondo le testimonianze raccolte anche tra gli operatori, in modo “troppo spesso arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico e sulla cura degli individui trattenuti”. “A Roma in tre anni (dal 2019 al 2021) sono state acquistate 3.480 compresse di Tavor su un totale di 2.812 trattenuti, cui si aggiungono, tra gli altri, 270 flaconi di Tranquirit da 20 millilitri e 185 fiale intramuscolo di Valium”. E poi, una volta usciti, dopo essere stati sedati per settimane, a volte per mesi, questi migranti vengono abbandonati a loro stessi. “Spesso - concludono i due giornalisti - devono continuare a prendere psicofarmaci, perché ne sono ormai dipendenti, e diventano insicuri per se stessi e per gli altri”. Tra guerre e migranti. Servono pragmatismo e solidarietà di Regina Catrambone huffingtonpost.it, 7 aprile 2023 Le rotte migratorie del Mediterraneo, la crisi tunisina, il conflitto in Ucraina: in questa Pasqua c’è bisogno di sostituire l’odio con l’amore, la distruzione con la costruzione, la guerra fratricida con la solidarietà tra esseri umani. Dall’inizio dell’anno a oggi le rotte migratorie del Mediterraneo, in particolare quelle che partono dalle coste libiche e tunisine, sono tornate al centro dell’attenzione della stampa e dell’agenda politica europea. Ma a crescere drammaticamente, purtroppo, non sono state soltanto le partenze e gli arrivi ma anche i naufragi e le persone che hanno perso la vita in mare, talvolta a due passi dalle nostre coste, altre alla deriva, lontane dai nostri occhi. Alle crisi che ben conosciamo e che negli ultimi anni hanno costretto tantissime persone ad abbandonare tutto e fuggire si aggiunge la complessa situazione economica, politica e sociale che sta attraversando la Tunisia. Un Paese che, oltre a essere diventato il principale porto di partenza delle persone migranti in fuga dall’Africa subsahariana verso l’Europa, assistente al continuo aumento di popolazione locale che decide di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la sponda settentrionale. Alla vigilia della Pasqua ci troviamo di fronte a una situazione complessa, che va gestita con pragmatismo e solidarietà, con la consapevolezza che si tratti di una questione strutturale e non emergenziale. In questo periodo di riflessione e introspezione il mio pensiero non può non andare a tutti bambini, le donne e gli uomini che trascorreranno questi giorni nel pericoloso tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sebbene in molti territori del mondo la Pasqua non appartenga alle tradizioni religiose e culturali locali, non possiamo ignorare che molti trascorreranno questo momento attraversando tante altre pericolose rotte migratorie del mondo, tentando di oltrepassare i confini più pericolosi, negli affollati centri di accoglienza o negli alloggi di fortuna nei campi profughi, dalla Libia ai confini dell’est Europa, dal Myanmar al confine con gli Stati Uniti. Come non rivolgere le proprie preghiere e speranze al dramma che si sta consumando in Ucraina dove, per il secondo anno consecutivo, questa festività sarà celebrata sotto l’assordante rumore dei combattimenti, nella paura di un presente e un futuro avvolto da un conflitto del quale non si vede la fine? Richiamando l’incubo di un altro Paese destabilizzato da un conflitto che dura da 12 anni, la Siria, dove la grave situazione di crisi protratta, unita ai danni causati dal terremoto, sta provocando una crisi economica, sociale e umanitaria senza paragoni. In questa Pasqua di resurrezione, sentiamo con forza la necessità di rinnovare la resilienza e la speranza di orizzonti di pace nel nostro spirito e in quello di chi si trova a vivere in condizioni di vita inimmaginabili. La rinascita diventa speranza e, al tempo stesso, certezza che dalle ceneri possa tornare la luce. Abbiamo bisogno di luce negli angoli di questo mondo dove è calato il buio, nei territori dimenticati, dove intere comunità hanno difficoltà a sfamare i propri figli malnutriti e ammalati, dove ragazze e donne vengono rapite, violentate e uccise, dove si viene privati della propria cittadinanza e dei più basilari diritti a seconda della comunità di appartenenza. Non possiamo tollerare che questo possa continuare in un mondo in cui tutto è interconnesso, raggiungibile, palpabile, dove le merci possono spostarsi in maniera sicura a differenza degli esseri umani costretti a fuggire da dove si fa fatica a definire “vita” la propria esistenza per la mancanza di vie migratorie sicure e legali. C’è bisogno di sostituire l’odio con l’amore, la distruzione con la costruzione, la guerra fratricida con la solidarietà tra esseri umani. La mia riflessione, in occasione della Pasqua, è soltanto un piccolo contributo che intende dare voce a chi non ne ha, una preghiera affinché le tenebre della guerra, della povertà e della violenza possano lasciare spazio alla luce, un invito affinché ciascuno di noi possa contribuire, con piccole e con grandi azioni, a costruire un mondo migliore. Buona Pasqua a tutti noi! Un “fantasma” si aggira per l’Europa: parla di qualità della vita di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2023 Un fantasma si aggira per l’Europa. Un fantasma che parla di vita e di persone. Di tempo riconquistato per crescere, studiare, divertirsi, amare, fantasticare, leggere, guardare un film, giocare a carte, allevare i propri figli, occuparsi di se stessi, fare sport, accudire gli altri, riposare. Un fantasma che parla di tempo per vivere e non di tempo per morire. Perché la nostra esistenza non può e non deve essere fatta solo di lavoro. E il lavoro non può essere sempre più precario e malpagato. Se vai in questi giorni a Parigi, il fantasma lo senti che ti sfiora nelle piazze perché lì la gente manifesta contro l’innalzamento dell’età pensionabile e intanto coltiva il sogno. Lo vedi che aleggia tra i cassonetti della spazzatura bruciati, le cariche della polizia, i manganelli, gli slogan e i lacrimogeni. Lo respiri pure in Germania, dove la scorsa settimana per chiedere aumenti superiori al 10 per cento (che in Italia sarebbero eresia) si sono fermati treni, metropolitane, autobus, porti e aeroporti. Lo spettro, poi, lo scorgi nelle scuole e nelle università. Anche in quelle italiane, dove in tanti scoprono che qualcosa non funziona. “La laurea, la corona d’alloro non deve significare competizione sfrenata. Deve essere simbolo del completamento di un percorso di liberazione attraverso il sapere. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono conto del bisogno umano di procedere con i propri tempi e i propri modi. Viviamo in un sistema che baratta la persona con la performance” dice durante l’inaugurazione dell’anno accademico Alessandra De Fazio, la rappresentante degli studenti all’Università di Ferrara. Così il fantasma si alza, volteggia, si eleva ancora, cambia colore, forma, dimensione, ma è lì. Sempre lì. È in mezzo a loro e a tutti noi. È un fantasma che ci ripete: “La vita è breve, la vita è breve, la vita è breve”. Troppo breve perché tutti debbano e vogliano spenderla lavorando dalla mattina alla sera, fino alla vecchiaia, anche quando il loro mestiere spezza la schiena ed è noioso e odioso. Perché il fantasma racconta come altri modelli siano possibili. Spiega quanto sia falso ripetere che non ci sono alternative perché l’economia ti impone di essere competitivo e quindi di tener bassi i salari e precari i posti di lavoro. Dice: è falso che le cose possano andare solo così; non è vero che non ci siano altre strade. Le strade ci sono. Ma ci sono pure persone, in genere ai posti di comando, che non hanno il coraggio o la convenienza di provare a percorrerle. Perché la vita è breve pure per loro e loro non possono e non vogliono mettere a rischio ciò che già hanno. Per questo ogni soluzione diversa che si proponga di discutere lo status quo per andare incontro ai desideri e ai bisogni della maggioranza dei cittadini viene bollata per utopistica, irrealizzabile, populista o peggio ancora comunista. Mentre tutto ciò che mantiene l’attuale sistema viene definito di buon senso, compatibile con i bilanci dello Stato, doveroso per far fronte ai mercati. Noi qui non sappiamo come andrà finire. Quello che sappiamo però è che lo spettro esiste. E che il contagio delle idee tra i cittadini delle varie nazioni democratiche è inevitabile. La pandemia ha dimostrato a tutti quanto le nostre esistenze siano effimere. Quanto le nostre vite vadano vissute tutte e fino in fondo. Chi, non solo in Italia, è pro tempore al governo farebbe bene a non scordarlo mai. Perché il fantasma c’è e prima poi chiederà a tutti loro il conto.