“Il 41 bis non è quello raccontato dalla trasmissione Report” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2023 L’avvocato Maria Teresa Pintus oltre a essere uno dei legali di Alfredo Cospito è anche nel Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino, da anni in prima linea per l’umanizzazione della pena. Avvocato, ha visto la puntata di Report sul 41 bis? Che ne pensa? Ho seguito la puntata, ma sono rimasta alquanto delusa dalla stessa per una serie di inesattezze divulgate. Uno spettatore estraneo alla materia penserà che nel regime detentivo speciale si stia bene, si goda di ogni confort, ci si possa dilettare tanto nello studio quanto nella bella vita, si diventi genitore come niente fosse: la realtà è completamente e terribilmente diversa. Lei ha molti clienti al 41 bis e la trasmissione ipotizza che gli avvocati possano essere messaggeri tra i vari clienti. Come commenta? Sono un avvocato che difende prevalentemente persone ristrette in regimi detentivi di alta sicurezza nello specifico AS 1 e 3 e soprattutto al 41 bis. Tra i miei assistiti vi sono persone ritenute appartenenti a varie realtà criminali: mafia, ‘ ndrangheta, camorra, sacra corona unita, nuove mafie, ma questo non fa di me come di nessuno dei miei colleghi che assume le medesime difese, una persona collusa o dedita ad attività illecite. Dalla trasmissione è emerso il contrario ed evidentemente ciò non risponde al vero. Identificare il difensore con l’assistito è un gravissimo errore. Cosa non va nell’attuale applicazione del 41 bis? Può farci degli esempi concreti? Tante cose non vanno: dalla modalità di applicazione e di proroga all’applicazione delle regole dettate dalle circolari del Dap che vanno oltre il dettato normativo dell’art 41 bis, ovvero lo scopo di recidere legami e rapporti tra i soggetti ristretti in tale regime e coloro che all’esterno farebbero parte dell’associazione criminale. Le limitazioni imposte toccano vari diritti fondamentali: si passa da quello alla salute, all’affettività, all’istruzione, fino ad arrivare al diritto alla difesa. In tale regime questi diritti sono compressi come si fa con i file zippati se non del tutto esclusi. Il divieto di abbracciare un familiare al colloquio, quello di poter acquistare libri, riviste per adulti o addirittura di usare il lievito, di sentire le canzoni neomelodiche o frequenze radio nazionali diverse dalla Rai, sono evidentemente vessazioni che vanno oltre ogni ragione di sicurezza interna ed esterna agli istituti penitenziari. Come andrebbe modificato? Limitando il tempo di applicazione; demandando al tribunale del distretto del recluso la decisione sulla revoca; riscrivendo la circolare Dap del 2017; vietando le impugnazioni dell’amministrazione ed imponendo l’immediata applicazione delle ordinanze favorevoli; prevedendo un periodo di transizione da scontare presso sezioni meno rigide per coloro che hanno da scontare gli ultimi due anni di pena. L’abolizione totale sarebbe un grande passo di civiltà ovviamente. Vietato leggere Il Dubbio al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2023 Il detenuto aveva presentato ricorso per poter acquistare il nostro quotidiano dopo il rifiuto del carcere di Sassari. Ma nel frattempo è stato trasferito a Viterbo, dove resta il divieto. Un problema che riguarda tutti i detenuti al carcere “speciale”, come scrive il Garante nel suo ultimo rapporto. Un detenuto al 41 bis, Filippo Griner, quando era recluso al carcere di Sassari, ha fatto istanza alla direzione del carcere per l’acquisto di alcuni giornali, in particolar modo Il Dubbio e Il Riformista. Ma gli è stata respinta. Tramite il suo avvocato difensore Giangregorio De Pascalis del foro di Trani, ha fatto ricorso al magistrato di Sorveglianza di Sassari. Quest’ultimo, con l’ordinanza emessa il 2021, ha accolto la richiesta del detenuto, ordinando alla direzione di acconsentire l’acquisto dei giornali, anche se non compresi fra quelli inseriti nel sopravvitto. Nel frattempo, però, Griner è stato trasferito alla sezione del 41 bis del carcere di Viterbo. Nonostante l’ordinanza sia stata trasmessa al penitenziario dove si trova attualmente, la direzione non gli consente l’acquisto. “Alla data odierna, al Griner non è ancora consentito fruire degli anzidetti quotidiani il cui acquisto risulta evidentemente inibito in totale spregio del fondamentale diritto del detenuto all’informazione, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero di cui costituisce una precondizione”, denuncia l’avvocato De Pascalis. Eppure le argomentazioni del magistrato di sorveglianza sono chiare, sottolineando che “non appaiono sussistere esigenze di prevenzione giustificanti il divieto d’acquisto dei quotidiani e delle riviste indicati dal detenuto (Il Dubbio e Il Riformista, ndr) - purché a tiratura e a diffusione nazionali - giacche gli stessi saranno acquistati tramite l’impresa di mantenimento e sottoposti al visto di controllo”. Pertanto - prosegue il magistrato di sorveglianza nell’ordinanza - “con riguardo ai fondamentali criteri di valutazione indicati dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 143/2013, alla soppressione di un diritto soggettivo non fa riscontro un incremento della sicurezza”. L’ordinanza accoglie la parziale disapplicazione della circolare del Dap del 2017 che aveva unificato le regole per tutti i 41 bis. Un problema che ai tempi sollevò proprio questo giornale. A pagina 51 della circolare emanata dal Dap, in fatti, c’è la tabella dove vengono riportati nero su bianco tutti i quotidiani nazionali e le riviste consentite. In tal modo, al 41 bis, i detenuti possono acquistare La Repubblica, Il Corriere della sera, Il Giornale, Il Giorno, Il Messaggero, Il Sole 24ore, il Fatto Quotidiano e Italia Oggi. Però vengono esclusi Avvenire, il manifesto, Il Foglio, Il Dubbio e Il Mattino, quotidiani a tiratura nazionale che, seppur diversi tra loro, portano avanti delle critiche riguardante il nostro sistema penale. Per quanto riguarda le riviste, i detenuti al 41 bis hanno varie scelte: da Chi, Di Più, passando per Diva, la Settimana Enigmistica, Panorama e l’Espresso. Mentre non compare Ristretti Orizzonti, una rivista - conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori e giornalisti che si occupano di questi temi - realizzata in carcere a Padova e che informa sulla giustizia e sull’esecuzione della pena. Nel recente rapporto sul 41 bis, anche il Garante Nazionale ha sollevato il problema, osservando che i limiti dettati all’acquisto di quotidiani, sia per la tipologia consentita, “a più ampia diffusione nazionale”, sia per la possibilità di ricezione, connessa al turno della distribuzione degli articoli acquistati al sopravvitto, “ne determinano la compressione, senza alcuna ragionevole connessione alle esigenze preventive che stanno a fondamento del regime speciale”. E fa l’esempio del carcere di Novara, dove non è consentito l’acquisto di quotidiani come appunto Il Dubbio, ma anche il Domani o il manifesto, evidentemente ritenuti di diffusione limitata. Eppure recenti ordinanze della magistratura di sorveglianza, come il caso di Griner, hanno acconsentito all’acquisto. Però alcune direzioni, come al carcere di Viterbo, continuano a disattenderle. Decreto Cartabia, exit strategy di Francesco Cerisano Italia Oggi, 6 aprile 2023 Il Dlgs va oltre i dettami Ue sulla presunzione d’innocenza. Passa attraverso la Consulta l’exit strategy dal decreto Cartabia, il Dlgs 188/2021 che affida al giudizio insindacabile dei procuratori della Repubblica l’individuazione delle notizie di interesse pubblico da diffondere alla stampa. Avvocati, magistrati e docenti universitari sono concordi nell’evidenziare tutti i limiti del decreto, entrato in vigore il 14 dicembre 2021 in attuazione della direttiva comunitaria 2016/343 sulla presunzione d’innocenza di indagati e imputati in procedimenti penali. Un provvedimento che in realtà va molto al di là dei principi stabiliti dall’Ue, perché nel nostro ordinamento sono già presenti norme e istituti, pienamente conformi alla direttiva, che contemperano la libertà di informare e essere informati con il diritto a non essere considerati colpevoli fino a sentenza passata in giudicato. Sarebbe bastato per l’Italia dichiarare tale conformità (come ha fatto per esempio la Francia) senza la necessità di approvare ulteriori norme restrittive. E invece, affidando ai magistrati il compito di decidere cosa sia una notizia di interesse pubblico, si è violato il principio di bilanciamento dei diritti costituzionalmente tutelati, dando vita a una disciplina a forte rischio di essere spazzata via dalla Consulta alla prima occasione utile. E’ quanto emerso nel corso di un incontro organizzato a Milano dall’Associazione lombarda giornalisti (Alg) e dal Gruppo cronisti lombardi per fare il punto sugli effetti di una normativa che di fatto comprime il diritto di cronaca soprattutto nella fase delle indagini preliminari. L’exit strategy dal decreto, dunque, passa necessariamente attraverso la Consulta, sul cui tavolo sarà necessario far arrivare il provvedimento. Come? Le strade sono tre e le ha indicate Giulio Enea Vigevani, avvocato e docente di diritto costituzionale all’Università Bicocca di Milano. La prima strada chiama in causa i giudici: un eventuale procedimento disciplinare aperto dal Csm a carico di un pubblico ministero che abbia violato il divieto di parlare con i giornalisti potrebbe portare all’impugnativa della sanzione disciplinare davanti alle sezioni unite della Cassazione. E a quel punto toccherebbe agli Ermellini sollevare questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. La seconda strada invece coinvolge i giornalisti che dovrebbero presentare al Procuratore della Repubblica istanza di accesso a informazioni specifiche su una vicenda. “Il rifiuto o il silenzio-rifiuto alla richiesta sarà impugnabile al Tar assieme alla direttiva che ciascun procuratore della Repubblica ha emanato per dettare ai propri giudici le istruzioni applicative sull’attuazione del decreto”, ha spiegato. A quel punto il Tar potrebbe sollevare la questione di legittimità alla Consulta. La terza via potrebbe passare da un esposto delle toghe al Csm sulla discrezionalità incontrollata dei procuratori della Repubblica. Un’ipotesi non remota visto che, come emerso dal convegno di Milano, i giudici sembrano essere i primi a rifiutare l’ingrato compito di decidere cosa sia o meno una notizia da diffondere alla stampa. “L’interesse pubblico lo deve valutare il giornalista non il magistrato”, ha osservato Fabio Roia, presidente del tribunale di Milano. “Il decreto Cartabia ha un connotato inutilmente sanzionatorio e comprime la libertà di critica e cronaca dopo una serie di abusi che però sono stati già contenuti con molti interventi: dalle sanzioni ai pubblici ministeri, per i quali è considerato illecito disciplinare intrattenere rapporti preferenziali con un determinato giornalista, alla legge Orlando che ha regolato molto bene l’uso delle intercettazioni telefoniche”, ha proseguito Roia. “Finché c’è un’indagine è giusto che ci sia un segreto istruttorio ma nel momento in cui le indagini sono chiuse non deve esserci un filtro da parte del procuratore. Una volta che un provvedimento è stato notificato all’interessato e al difensore, esso deve essere istituzionalmente comunicato agli organi di informazione a cui spetta individuare le più appropriate modalità di diffusione della notizia (per esempio omettendo particolari non utili ai fini dell’articolo o le generalità della vittima)”. Insomma, per tutelare la presunzione d’innocenza non servono norme bavaglio ma basterebbe la deontologia, come auspicato anche dal presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino e dal presidente Alg Paolo Perucchini. E invece il legislatore dimostra di non fidarsi dei cronisti ma soprattutto delle toghe. “La prova è nell’art. 4 del decreto Cartabia nella parte in cui, vietando di indicare come colpevole l’imputato o l’indagato fino alla sentenza definitiva, con esclusione degli atti del pm volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato, sembra prendere per mano i giudici per guidarli su cosa scrivere”, ha concluso l’avvocato Carlo Melzi d’Eril. Una prospettiva che non solo i giornalisti, ma in primis le toghe rifiutano. Pd contro Delmastro: “Non si è mai scusato sul caso Cospito, se c’è lui non entriamo più in Commissione” di Serenella Mattera La Repubblica, 6 aprile 2023 L’esponente di FdI sia ieri sera che questa mattina in commissione Giustizia al Senato. Ed entrambe le volte i dem Rossomando, Verini e Bazoli sono usciti. Entra Delmastro, esce il Pd. È l’Aventino dei Dem contro il sottosegretario alla giustizia di FdI. Se per il governo la vicenda Cospito è chiusa, per il Partito democratico non lo è affatto. Andrea Delmastro, autore con Giovanni Donzelli dell’attacco in Aula alla Camera ai parlamentari Dem andati in visita in carcere all’anarchico al 41bis, non si è mai scusato per avere accusato gli esponenti di opposizione di aver fatto “un inchino ai mafiosi”. Ecco perché, al netto dell’inchiesta ancora aperta presso la procura di Roma per la divulgazione di atti riservati su Cospito, il partito di Schlein non intende considerare il caso archiviato. Delmastro era stato tenuto lontano dai lavori parlamentari dal ministro Carlo Nordio conscio, come raccontato da Repubblica, delle minacce di Aventino Dem. Passati due mesi, il Guardasigilli ha forse pensato che la vicenda fosse dimenticata e ha rimesso il sottosegretario nel ruolino del governo, per coprire le presenze necessarie in Parlamento. L’esponente di FdI si è presentato sia ieri sera che stamattina in commissione Giustizia al Senato. Ed entrambe le volte i Dem Anna Rossomando, Walter Verini e Alfredo Bazoli sono usciti. Anzi, stamane quando lo hanno visto seduto al suo scranno non sono neanche entrati. È successo ieri, oggi e si ripeterà a ogni successiva seduta, nella commissione presieduta dalla leghista Giulia Bongiorno così come in Aula. Una bella grana per il governo. Quelle “Mani Pulite” ma non troppo che spazzarono via la prima Repubblica di Francesco Damato Il Dubbio, 6 aprile 2023 Come denunciato dal Riformista, nel 1993 fu offerta agli imputati di Tangentopoli la salvezza giudiziaria in cambio del ritiro dalla vita politica. Per il clamore anche grafico dell’annuncio, su tutta la prima pagina di ieri del Riformista, con quella foto di Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro nella Galleria di Milano, il titolo sul “colpo di Stato” nel 1992 e “la trattativa illegale” raccontata fra i magistrati e la classe politica investita dalle loro indagini sul finanziamento illegale della politica, qualcuno sarà stato portato a pensare ad una sortita paradossale e un po’ troppo arbitraria dell’amico direttore Piero Sansonetti, che ci ha messo tanto di firma e di faccia. O ad una sua lettura forzata dell’introduzione scritta da Gherardo Colombo al libro postumo di Enzo Carra, il portavoce di Arnaldo Forlani e della Dc esibito nei corridoi del tribunale di Milano con gli schiavettoni ai polsi nel 1993. Non c’è invece nulla di paradossale, di arbitrario, esagerato e quant’altro. Se proprio un rilievo può essere mosso a Piero è di avere rappresentato quello di Gherardo Colombo - uno dei magistrati di punta del pool milanese di “Mani pulite” - come “un aspetto finora sconosciuto e sconvolgente di quella stagione” sfociata nella decapitazione, fine e quant’altro della cosiddetta prima Repubblica. Molti erano, anzi eravamo consapevoli che dietro le quinte degli arresti clamorosi, delle file dei pentiti o simili davanti alla Procura di Milano per scoperchiare Tangentopoli, dei cortei inneggianti alle manette si svolgessero non le vere e proprie trattative gridate da Piero evocando la minaccia a corpo politico, come quella poi contestata per i rapporti fra mafia e politica nella stagione stagista, ma qualcosa che molto assomigliava. Si svolgevano addirittura incontri di studio per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, consistente in una sostanziale confessione degli imputati o imputabili e in un loro impegno al ritiro della politica in cambio della salvezza giudiziaria, o penale, se preferite. D’altronde, fu proprio da quel traffico di incontri, consultazioni, progettazioni che nel marzo del 1993 uscì, in un “pacchetto” di misure del governo allora presieduto da Giuliano Amato, il famoso decreto legge che fu intestato al guardasigilli Giovanni Conso. Il quale peraltro ebbe la cortesia di telefonarmi per chiedermi di non continuare anch’io ad attribuirgli in modo così diretto ed esclusivo quel provvedimento, che depenalizzava il reato di finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. Rileggete qui con me, per favore la sintesi apposta sull’Unità di sabato 6 marzo 1993 ad un articolo di Fabrizio Rondolino sul parto del governo: “La “risposta politica” a Tangentopoli si chiama depenalizzazione (retroattiva) del reato di violazione del finanziamento pubblico. Superando le incertezze dc e le perplessità di Conso, Amato impone la riforma per decreto. Ora tocca al Parlamento convertirlo in legge. E i tempi coincidono con la campagna referendaria. Il futuro del governo è insomma pieno di insidie”. La campagna referendaria era quella per l’abolizione della legge sul finanziamento pubblico, appunto, dei partiti. E quella coincidenza fu tra le cause, se non l’unica invocata più esplicitamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per rifiutare la firma al decreto per la depenalizzazione del reato di violazione di quella legge: una firma che invece molti, a cominciare da Giuliano Amato, che poi se ne sarebbe pure lamentato pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera, davano per scontata. Scontata perché la riunione del Consiglio dei ministri dedicata al provvedimento era stata ripetutamente interrotta per consultazioni col Quirinale. I primi commenti a caldo al decreto legge, a cominciare da quello del fondatore e ancora direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, furono comprensivi, nella convinzione che il provvedimento rispondesse anche ai pareri espressi, raccolti e quant’altro nell’ambiente giudiziario più direttamente interessato alle indagini con quel nome altisonante, ripeto, di “Mani pulite”, ma forse non troppo, se non addirittura accompagnate, come qualcuno titolò, alle “coscienze sporche”. Fu proprio per contestare l’impressione di un accordo stipulato dietro le quinte con gli inquirenti, insomma della “trattativa” evocata da Sansonetti usando la prefazione di Gherardo Colombo al libro di Carra, che Borrelli in persona si pronunciò pubblicamente contro il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri, facendo cambiare idea a quelli che ne avevano dato una lettura sostanzialmente favorevole o accettabile, a cominciare dal capo dello Stato. Che, guarda caso, dopo e non prima della sortita clamorosa del capo della Procura di Milano annunciò il rifiuto di firmarlo cambiando per la seconda volta le abitudini del Quirinale, o la prassi come preferiscono dire gli esperti. La volta precedente era stata quella del 1992, quando le consultazioni del capo dello Stato per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne delle elezioni ordinarie erano state allargate, a dir poco, dai gruppi parlamentari e rispettivi partiti proprio a Borrelli. Che dovette riferire sulle indagini in corso - sempre quelle di “Mani pulite” - in modo tale che poi Scalfaro non ritenne di poter conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Bettino Craxi, che la Dc guidata da Arnaldo Forlani si accingeva a proporgli formalmente. Il capo dello Stato riuscì a convincere il leader socialista, del quale era stato ministro dell’Interno nella prima esperienza di presidente del Consiglio, a rinunciare spontaneamente e a proporre lui stesso il compagno di partito da preferire. Giuliano Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli, rispose Craxi aggiungendo: “In ordine non solo alfabetico”. Non è più cronaca, ma storia. Da Mani Pulite a Trump, passando per Chirac e Lula: trent’anni di guerra tra giustizia e politica di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 aprile 2023 L’incriminazione di Donald Trump, accusato di 34 reati dalla procura di New York, è solo l’ultimo capitolo in ordine di tempo di un conflitto ad alta intensità che da oltre trent’anni e a tutte le latitudini vede opposte la politica e la magistratura. Il tycoon ha parlato di “repubblica delle banane”, sostenendo che la gran parte delle toghe statunitense è di cultura progressista, animata da un pregiudizio nei suoi confronti e contigua al partito democratico. Sono accuse fondate? Di certo i giudici che fin qui si sono occupati dell’ex presidente Usa non sono dei conservatori vicini ai repubblicani, quanto piuttosto di cultura liberal, ma anche il caso Trump fa parte di un fenomeno più generale, che va al di là delle simpatie politiche del singolo magistrato e che riguarda il funzionamento stesso delle democrazie (e non solo). Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Contee all’ex ministro speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Nel “vecchio mondo” questo era impensabile. Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro del terremoto fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via i partiti della prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica. L’onda lunga di Tangentopoli ci ha poi regalato negli anni una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm che si è disputato lungo 36 processi penali (con una sola condanna per il Cavaliere). Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio. Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta. Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean- Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese ha subire un verdetto di condanna. Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi “da spioni” per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi. Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo. Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico-giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false? Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo. rima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Chissà a chi toccherà in futuro. Marche. Autolesionismo e patologie psichiatriche. L’affanno delle carceri di Andrea Alfieri Padiglioni etvmarche.it, 6 aprile 2023 Terzo focus del Garante regionale, Giancarlo Giulianelli, questa volta dedicato alla situazione sanitaria negli istituti penitenziari marchigiani. “Una problematica molto complessa - come spiega lo stesso Garante - che crea inevitabili ripercussioni sull’intero sistema. Nel corso del tempo le patologie hanno subito una sostanziale modifica, ma a questo non è seguita un’inversione di rotta per quanto riguarda gli interventi da mettere in atto, il potenziamento delle figure sanitarie e l’individuazione di nuove professionalità, la rivisitazione dei luoghi non più idonei per affrontare la situazione”. Quelle che destano maggiore preoccupazione sono le patologie di tipo psichiatrico, che riguarderebbero, con riferimento ai dati del 2022, 174 detenuti a Villa Fastiggi di Pesaro, 95 a Montacuto, 32 a Barcaglione, 18 a Marino del Tronto e 8 a Fermo. “Gli istituti - prosegue il Garante - fanno fatica a sostenere questo stato di cose. Esiste una struttura deputata ad affrontare il problema psichiatrico, ma da sola la Rems di Macerata Feltria, per altro con una ventina di posti a disposizione, non può soddisfare le esigenze del momento attuale”. Risultano numerosi anche gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi con 12 a Villa Fastiggi, 16 a Montacuto, 21 a Marino del Tronto, che annovera anche due tentativi portati a compimento. Sempre alto il numero delle tossicodipendenze, non indifferenti i casi di epatite C e Hiv e si registrano ancora alcuni casi di positività al Covid. “Da questo quadro - sostiene Giulianelli - si evince la necessità che chi di competenza metta in campo azioni decise e che le istituzioni nel loro insieme prestino una nuova attenzione, anche nelle Marche, alla realtà carceraria”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze in carcere: “Agenti reticenti, ho visto lividi e ferite” di L.M. Corriere del Mezzogiorno, 6 aprile 2023 La testimonianza del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, primo giudice ad entrare nel carcere dopo le violenze: “Mi negarono anche la penna e vidi detenuti con lividi, magliette insanguinate e privati di vestiario e lenzuola”. Detenuti feriti “con evidenti lividi ed escoriazioni, privati di vestiario, biancheria intima e lenzuola, impauriti e sporchi perché lasciati senza doccia”; e agenti penitenziari “non collaboranti, che mi rifiutarono persino una penna”. Fu questo lo scenario che si è trovato di fronte il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, primo giudice ad entrare nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo le violenze sui detenuti avvenute il 6 aprile 2020, e primo a parlare con alcune delle vittime, stilando una relazione che è stata la base per l’avvio delle indagini da parte della Procura che ha poi portato alle misure cautelari del giugno 2021 e al processo attualmente in corso all’aula bunker del carcere. La ricostruzione del magistrato di sorveglianza - È stata una testimonianza importante e di “prima mano” quella resa oggi dal magistrato al dibattimento, 105 gli imputati tra agenti penitenziari, funzionari del Dap e medici dell’Asl. Rispondendo alle domande dei pm Alessandra Pinto e Alessandro Milita, Puglia ha ricostruito cronologicamente quei giorni partendo dalla mattina del 6 aprile quando si recò al carcere dopo la protesta scoppiata per la positività al Covid di un detenuto. Quando andò via, iniziò la perquisizione straordinaria durante la quale avvennero le violenze sui detenuti. Proseguendo, Puglia ha raccontato che la sera del 6 aprile, verso le 22, gli arrivarono i messaggi dell’allora capo della polizia penitenziaria del carcere (imputato). “Mi parlò di una perquisizione straordinaria durante la quale erano stati trovati nelle celle olio bollente e oggetti contundenti, e che i detenuti avevano chiesto di parlare con me”. Puglia decide così di tenere l’8 aprile dei colloqui in video, tramite la piattaforma Teams, con delegazioni di detenuti dei vari reparti del carcere, ma riesce a parlare con tutti i reclusi meno quelli del reparto Nilo e nessuno tra gli agenti, né il vicedirettore del carcere (la direttrice era assente per malattia) o funzionari del Dap Campania fa trapelare qualcosa sulle violenze al Nilo. “Mi venne detto - ricorda Puglia - che non c’era personale per accompagnare i detenuti del Nilo nella saletta dove si facevano i colloqui in video”. Solo nel pomeriggio dell’8 aprile Puglia apprende le prime notizie, in particolare “dal collega Nicola Russo, che mi inviò un link con l’audio di un detenuto che raccontava le violenze subite e da alcuni amici che mi mandarono altri link con un video di lividi rimediati da un altro detenuto”. “Incontrai pure Hakimi, ma non ci ho parlato” - Il 9 aprile Puglia parla in video con il detenuto Emanuele Irollo (costituitosi parte civile). “Mi raccontò di essere stato picchiato da tanti agenti, che non gli veniva permesso di lavarsi e vestirsi dal 6 aprile, così lo interruppi e decisi di registrare la telefonata. In seguito al suo racconto decisi di mettermi in auto e recarmi al carcere, dove arrivai verso le 20.40. Gli agenti furono sorpresi di vedermi e non furono collaboranti, tanto che chiesi una penna e non me la diedero, così decisi di scrivere sul mio cellulare. Al reparto Nilo incontrai Irollo e altri detenuti che mi fecero vedere i lividi e le ferite, tra cui uno che aveva la maglietta insanguinata. Mi dissero che era stato vietato loro anche di parlare con i familiari. Vidi che nelle celle non c’erano lenzuola e altra biancheria, né oggetti per l’igiene intima dei reclusi, ma gli agenti mi dissero che queste cose sarebbero state consegnate ai detenuti di lì a poco. Incrociai anche Hakimi (il detenuto algerino deceduto un mese dopo i fatti, ndr), ma non ci parlai”. La relazione 4 giorni dopo i fatti - Il 10 aprile, Puglia sente altri detenuti del Nilo che confermano le accuse, e redige una relazione che viene condivisa anche dagli altri tre magistrati di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, tra cui il coordinatore Giuseppe Provitera. Quella relazione viene inviata al direttore del carcere, all’allora provveditore campano delle carceri Antonio Fullone (imputato) e per conoscenza alla Procura di Santa Maria Capua Vetere, che qualche giorno dopo sente Puglia come persona informata dei fatti. “Detenuti tenuti in isolamento” - Puglia scrive un’altra relazione il 30 aprile, in cui ordina alla direzione del carcere di far cessare l’isolamento per quei detenuti ritenuti responsabili della protesta del 5 aprile, ma ciò non avviene. “Telefonai alla direttrice del carcere e mi arrabbiai perché i reclusi erano ancora al Danubio in isolamento, lei disse che non erano in isolamento ma che non potevano essere trasferiti altrove per lavori di ristrutturazione in corso”. Tensioni tra pm e avvocati - Scintille durante l’udienza, tra pm e avvocati, con il presidente della Corte costretto più volte a richiamare il pm Milita a “non ripetere le domande già poste e a coordinarsi con gli altri sostituti”. Gli agenti del Nilo: “Non siamo torturatori” - E intanto sono in stato di agitazione gli agenti del Reparto Nilo del carcere di Santa Maria, lo comunicano la Fp Cgil e il Sindacato di Polizia Penitenzia. La mobilitazione è iniziata ieri con “l’autoconsegna”, ovvero gli agenti non smontano a fine turno ma restano in servizio oltre l’orario di lavoro. “La Sezione Nilo del carcere - dice Scocca della Fp Cgil - è diventata al di fuori del regolamento penitenziario. Si moltiplicano le manifestazioni violente da parte dei detenuti senza alcun provvedimento, sia disciplinare che di spostamento in altre carceri. Per questo è importante l’incontro, attualmente in corso, tra i poliziotti e il provveditore regionale”. Per Di Giacomo del Sindacato di Polizia Penitenzia “la protesta tocca anche la problematica della nota carenza di personale, strumentazioni e mezzi. Ma gli agenti vogliono innanzitutto liberarsi del cliché di torturatori seriali e rivendicano il riconoscimento dei diritti loro negati. Da qualche tempo sono rientrati in servizio agenti imputati nel processo sospesi per un anno e mezzo, sono stati reintegrati in sedici”. Pescara. “Condannai un mafioso, ci scriviamo lettere da 35 anni e siamo amici” di Pietro Lambertini Il Centro, 6 aprile 2023 Il giudice Elvio Fassone, premiato dalla onlus Allegrino, si racconta “Nella vita si può cambiare, ma il destino non esiste: ognuno sceglie”. “Più o meno testualmente gli scrissi così: Lei deve affrontare un periodo molto difficile, quasi insopportabile. Può resistere se ricorderà che le sono rimaste due cose che nessuno le potrà togliere: la dignità e la speranza”. A scrivere la lettera, 35 anni fa, fu il magistrato torinese Elvio Fassone; a ricevere quei fogli di carta in carcere, Salvatore, condannato all’ergastolo negli anni 80 per reati di mafia proprio da Fassone. Da allora, tra il giudice torinese e il detenuto siciliano c’è un rapporto di corrispondenza: un patto di solidarietà. Di questa strana amicizia, il magistrato di 85 anni ha parlato nel libro “Fine pena: ora”. Il giudice sostiene il mafioso che vuole cambiare, anche se sa che non potrà mai più uscire dal carcere; da parte sua, il detenuto si impegna a essere un altro uomo. Fassone è il vincitore della 16esima edizione premio “Sì all’uomo” messo in palio dall’associazione Domenico Allegrino: un premio destinato “a figure che si sono distinte per aver curato, a proprio modo, le ferite di persone fragili, mettendo in pratica i valori dell’accoglienza e della solidarietà”. E il giudice in pensione ha teso la mano quando altri l’avrebbero ritirata. Non è un gesto di folle e cieca fiducia: Fassone non ammette la scusa del destino ma dice che, dopo aver sbagliato, si può cambiare. Come? Anche con l’esempio degli altri. Lei ha detto che era “inquieto e insoddisfatto” dopo la sentenza e per questo decise di scrivere al condannato: cosa scrisse? “Gli scrissi: “La dignità ce l’abbiamo tutti, ed è il rispetto che è dovuto a ogni uomo in quanto tale, per il fatto stesso che è un uomo: e tocca a lei difenderla. La speranza, invece, è la convinzione che l’ultima parola non spetti soltanto alla brutalità dei fatti, ma ci sia un posto anche per la buona volontà del singolo, contro ogni evidenza: e questo è molto difficile, ma la legge lo consente, e lei deve dimostrare la sua volontà. Anzi, siccome in questa impresa è bene non essere lasciati soli, io sarò il tuo compagno se vorrai”. Salvatore raccolse l’invito: fece un patto e lo osservò. Per oltre trent’anni”. Ha detto anche che “l’uomo non è mai tutto nell’atto che compie, per orrendo che sia”: è una frase da leggere con speranza? “Per la legge penale l’uomo è il reato che ha commesso e come tale deve essere valutato. La legge oscilla tra un minimo e massimo, ma nel caso dei reati puniti con l’ergastolo la sanzione è rigida. E tuttavia sappiamo che l’autore di un reato, per quanto grave, non è mai tutto nel gesto compiuto, per quanto orribile sia; l’autore di un gesto violento può essere capace di generosità inaspettate, il ladro incallito può soccorrere il derubato, e similmente. La legge considera queste situazioni, ma entro certi limiti: per cui nei casi di ergastolo, la flessibilità non è possibile, essa deve essere esercitata con attenzione nella fase dell’esecuzione della pena”. “L’uomo cambia col trascorrere del tempo, è plasmato dal susseguirsi dei giorni”: ma, secondo lei, si cambia in meglio o in peggio? “È esperienza comune che il tempo trascorso modifica anche profondamente le persone, soprattutto se il periodo è lungo. Non di rado incomincia qualche volta una vera e propria revisione della vita, cioè una messa in discussione del modo di intendere la propria esistenza, il rapporto con gli altri, gli obiettivi che ci si pone. E importante in questo caso la vicinanza di una figura di riferimento, che può essere il “volontario”, il cappellano (ma ormai molti detenuti sono di religione diversa dalla nostra) o l’amico di penna. È essenziale che ci sia qualcuno di esterno al carcere che possa essere inteso dal detenuto come soggetto non facente parte formale dell’istituzione. È una felice intuizione quella di fare appello alla comunità dei cittadini perché affianchino il carcere nel sostenere coloro che prima o poi dovranno essere ammessi nella società libera”. “Nella lotteria della vita, non siamo noi a scegliere il biglietto fortunato”: il destino si subisce o si sceglie? “Dobbiamo continuare a pensare che non esiste un destino (cioè il fato, secondo gli antichi) che regge le nostre azioni e ci deresponsabilizza: non tutti coloro che sono nati dove è nato Salvatore finiscono dietro le sbarre. Certo, si può riconoscere che le grandi sventure - come un lutto, una infermità, un evento che ci privi di tutto - possono influire pesantemente sulla persona, ma sono eventi particolari, estranei alla nozione propria della scelta. Insomma, ognuno nelle sue scelte è artefice della sua fortuna. Semmai, conviene non dimenticare che quel che si suole attribuire al destino in realtà siamo noi, la società umana, a incarnarlo con i nostri comportamenti collettivi, che a poco a poco smantellano le difese e diventano modello dominante, all’insegna del “così fan tutti”. La società odierna è ricca di reati, anche cruenti: come legge la società di questi tempi? “Le statistiche ci dicono che i delitti cruenti non sono aumentati rispetto al passato, fatta eccezione per i femminicidi; ma è cresciuto il risalto che a essi viene dato. Ciò può essere interpretato come un sintomo della mutazione delle società moderne, cioè il passaggio dal sangue al denaro, dalla soppressione fisica alla corruzione, dall’eliminazione del nemico alla sua trasformazione in alleato. È certo un vantaggio per la comunità, ma pagato con l’indebolimento del senso civile di appartenenza”. Che cos’è l’amicizia per lei? “Cito un frammento di Emily Dickinson che vede l’amicizia dal lato di chi la riceve: “Il paradiso non è più lontano/dalla contigua stanza,/se un amico in quella stanza attenda/felicità o sventura./Quale forza è nell’anima se può/sopportare così/l’accenno d’un passo che s’accosta/l’aprirsi d’una porta”“. Si è mai pentito di quella sentenza? “No. In questo caso si trattava di una sanzione dovuta e inevitabile per un giudice. Se tornassi a essere un magistrato, sarei costretto a ripetermi”. La funzione di rieducazione della pena in Italia è possibile? “Ri-educare significa che l’educazione primaria, non solo scolastica, è mancata o ha fallito. Bisogna supplire a questa mancanza e ciò lo può fare sia l’istituzione sia la società esterna: tenendo presente che mai come in questo caso vale soprattutto l’esempio”. Busto Arsizio. Nominato il nuovo Garante dei diritti dei detenuti: è Pietro Roncari di Andrea Aliverti malpensa24.it, 6 aprile 2023 Il carcere di via per Cassano ha un nuovo garante dei detenuti: è Pietro Roncari, storico volontario dell’Associazione Detenuti e Famiglie di Gallarate e già giornalista del quotidiano “La Prealpina”. Lo ha nominato il sindaco Emanuele Antonelli sulla base di una terna di candidature che avevano risposto al bando varato alla fine di gennaio. Roncari succede a Matteo Tosi, ex consigliere comunale che era in carica dal 2017. L’incarico - Il “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale” - questa la indicazione precisa della figura che opera nella Casa circondariale di Busto Arsizio - ha come obiettivo quello di “migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale” dei detenuti del carcere di via per Cassano. Quello di Pietro Roncari è stato ritenuto il profilo più idoneo in quanto ha svolto numerose attività di volontariato e ha maturato esperienza presso la Casa circondariale di Busto, essendo da trent’anni volontario presso l’Associazione Detenuti e Famiglie di Gallarate. Il nuovo regolamento - Roncari rimarrà in carica per tre anni a titolo gratuito. Ma rispetto ai suoi predecessori avrà il compito di applicare il nuovo regolamento del garante, varato nei mesi scorsi dal consiglio comunale con l’obiettivo di rilanciare e rafforzare il ruolo di questa figura. In base alle regole stabilite, il nuovo garante avrà a disposizione un rimborso spese annuale (fino a 1500 euro) e un mini-budget (un fondo spese da 2.000 euro) da utilizzare per piccoli acquisti di beni di prima necessità per i carcerati in difficoltà. Avrà quindi maggiore opportunità di incidere concretamente sulle situazioni dei detenuti. Roma. Carcere di Rebibbia vietato alla onlus Gruppo Idee di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2023 Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha emesso un provvedimento straordinario con il quale impedisce l’ingresso nel carcere di Rebibbia agli operatori del Gruppo Idee, associazione che si occupa di diritti dei detenuti e che è diretta da Luigi Ciavardini, ex Nar condannato per l’omicidio del giudice Mario Amato e per la strage di Bologna. La disposizione è valida almeno fino all’esito degli accertamenti disposti dal Tribunale. La decisione arriva dopo la puntata di Report, dal titolo “Ombre Nere”, in cui si riportavano alcune intercettazioni riguardanti Federico Vespa, figlio di Bruno e direttore del giornale carcerario Dietro il cancello, e Giacoma Chiarelli, moglie di Totò Cuffarò, l’ex presidente della Regione Siciliana in quel momento recluso nel penitenziario di via Tiburtina. Nelle conversazioni contenute in un fascicolo d’inchiesta della Procura di Roma, finito archiviato, Vespa jr (che non è mai stato indagato) rassicura Chiarelli sulla possibilità di far recapitare al marito alcuni fogli. “Le metto dentro… un modo si trova sempre. Io ho l’articolo 17, quindi non mi fanno molte storie se entro con un quaderno”, dice il giornalista. All’esito degli approfondimenti, il Tribunale di Sorveglianza si riserva di inviare il dossier in Procura. Già a gennaio 2019, l’associazione Gruppo Idee era stata diffidata dall’allora garante dei detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, in quanto utilizzava proprio la dicitura “garante dei detenuti” nelle attività portate avanti all’interno del carcere, specie nella sezione femminile. Una “anomalia” poi parzialmente sanata quando uno dei dirigenti, Manuel Cartella, è stato nominato vice-garante regionale del Lazio, in quota centrodestra, alle spalle del titolare Stefano Anastasia. Le vicende del Gruppo Idee e dei rapporti tra Ciavardini e l’ex parlamentare della Lega, Claudio Barbaro, erano già state oggetto di inchieste giornalistiche, tra cui quella di Roma Today del giugno 2022. “L’ottimo servizio di Report racconta fatti non segreti che erano nelle disponibilità delle autorità - dice al Fatto Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria - Eppure i componenti dell’associazione hanno continuato a operare indisturbati. Se ci sono state omissioni, è giusto che qualcuno paghi”. In risposta alle polemiche, ieri sulla pagina Facebook del Gruppo Idee è apparso un articolo del quotidiano Il Riformista dal titolo “Più che ombre nere, giornalismo del fango”. Cagliari. In carcere a 90 anni: uccise due nipoti durante una lite per l’eredità Il Dubbio, 6 aprile 2023 L’uomo torna in cella per scontare una pena a 30 anni di reclusione. La difesa: “La sua condizione è incompatibile con la detenzione”. Compirà 90 anni in cella l’uomo che questa mattina ha varcato la soglia del carcere di Uta (Cagliari) per scontare una pena a 30 anni di reclusione. Anzi, 29 anni e quattro giorni: undici mesi e 26 giorni Giuseppe Doa li ha già trascorsi in parte nel carcere di Lanusei, nel 2016, e in parte ai domiciliari, nella località balneare di Costa Rei, una frazione di Muravera, nel Sud Sardegna. L’uomo è stato arrestato dai carabinieri della Stazione di Castiadas a Costa Rei, dove era domiciliato ed era sottoposto all’obbligo di dimora. Sette anni fa, il 10 agosto del 2016, aveva ucciso a colpi di fucile due nipoti, rispettivamente di 43 e 46 anni, per una questione di eredità. La difesa aveva sostenuto che l’omicidio sarebbe scaturito da un eccesso di legittima difesa. Doa era scappato dopo aver sparato per poi costituirsi solo qualche giorno dopo il duplice omicidio commesso nel suo paese, Arzana, nel nuorese. I militari dell’Arma hanno eseguito nei suoi confronti un ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale di Cagliari, in esecuzione della sentenza numero del 2022 emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Cagliari in riforma di una precedente sentenza del 2020 della Corte di Assise del capoluogo. L’età avanzata non ha evitato il carcere all’uomo, che aveva presentato ricorso in Cassazione, rigettato dalla Suprema Corte. La condanna per duplice omicidio è dunque definitiva. Come scrive il Corriere della Sera, il difensore Stefano Murgia, ha depositato un’istanza al magistrato di sorveglianza affinché valuti le condizioni di salute del detenuto e le consideri incompatibili con il carcere. “Non c’è conversione diretta tra l’età e il carcere - spiega il legale - ma bisogna rivolgersi al magistrato di sorveglianza prima e al Tribunale di sorveglianza poi, affinché valuti attraverso la consulenza di un medico le condizioni di salute di Doa e le giudichi incompatibili con il carcere”. Cagliari. Novantenne condannato a 29 anni, parla l’esperta: “Atto dovuto secondo legge” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 6 aprile 2023 Paola Sechi insegna diritto penitenziario alla facoltà di giurisprudenza di Sassari. “L’età avanzata non può considerarsi di per sé un ostacolo alla detenzione”. Non basta essere anziani per salvarsi dal carcere, se la pena da scontare è riferita a una serie di reati ostativi come l’omicidio, l’eversione armata, l’associazione mafiosa e la violenza sessuale. L’alternativa alla reclusione scatta se le condizioni di salute del detenuto risultano all’esame clinico incompatibili con la detenzione. L’ultima parola spetta al giudice di sorveglianza, che decide in base alle valutazioni del medico. Nessun dubbio quindi, come conferma Paola Sechi, docente di diritto penitenziario alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Sassari: “L’ordine di carcerazione notificato dalla Procura generale a Peppuccio Doa è un atto dovuto e secondo legge”. Una legge che protegge dalla pena più afflittiva chi ha più di settant’anni, ma solo quando la pericolosità sociale dell’imputato o detenuto possa essere ragionevolmente considerata sotto controllo: “La nostra Costituzione - spiega la docente - prevede che la carcerazione sia rivolta al recupero sociale della persona che ha commesso un crimine, ma il legislatore ha inteso tener conto del tipo di reato commesso e il ritorno appena un anno fa dell’ergastolo ostativo conferma quest’orientamento”. Come dire: va bene andare incontro a chi sbaglia, purché a pagarne le conseguenze non sia la collettività. Nel caso di Peppuccio Doa aveva prevalso fino a ieri la volontà di tenerlo a bada ma fuori dalle prigioni. Ora si tratterà di capire se a prevalere saranno le considerazioni di carattere umanitario o quelle strettamente giudiziarie. Per quanto, nel campo carcerario, l’Italia non sia un paese modello, non tanto per l’impianto legislativo quanto per le modalità di esecuzione della pena. Neppure la celebratissima Europa sembra essere all’avanguardia in quanto a trattamento di detenuti anziani come Doa, la cui offensività sarebbe da dimostrare: “A leggere la Raccomandazione sui diritti procedurali degli indagati e imputati sottoposti a custodia cautelare e sulle condizioni materiali di detenzione, adottata l’8 dicembre 2022 dalla Commissione europea - spiega ancora Paola Sechi - non si fa cenno alla questione di compatibilità dello stato di detenzione con l’età avanzata. Ma a guardare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani su questo tema emerge come l’età avanzata non possa considerarsi un ostacolo di per sé alla detenzione, posto che nessuna norma europea proibisce di incarcerare una persona molto anziana. L’età può venire in rilievo, come lo stato di salute e altri fattori, con riferimento alla valutazione della compatibilità con la situazione della persona”. Napoli. La movida, “terreno neutro” per la sfida di potere tra i clan della camorra di Dario del Porto La Repubblica, 6 aprile 2023 La morte dell’innocente Francesco Pio Maimone è solo l’ultima vicenda legata agli scontri tra i rampolli dell’organizzazione criminale. “Azione dimostrative eclatanti, efferate - sostengono i magistrati - che dimostrano il senso di impunità e il desiderio di appropriazione del territorio da parte di gruppi criminali”. Scarpe firmate al piede e pistola nella tasca dei pantaloni. Durante le notti della movida, i rampolli di camorra si riversano nel centro di Napoli. Il resto lo fanno le provocazioni reciproche, gli sguardi, le sfide social accompagnate sempre da allusioni al potere camorrista nel quartiere di provenienza. In mezzo a famiglie con bambini e tra ragazzi che desiderano solo trascorrere qualche ora di svago, loro escono con altre intenzioni: sfidarsi in “campo neutro” e occupare il territorio. Con la violenza, se serve. Poi succede che qualcuno perde la vita senza neanche sapere perché, come l’incolpevole Francesco Pio Maimone, vittima innocente degli spari esplosi la notte tra il 19 e il 20 marzo davanti agli chalet di Mergellina e un fenomeno che, prima ancora di essere sociale, è innanzitutto criminale, si manifesta in tutta la sua gravità. La situazione appare chiarissima agli occhi della Procura napoletana che ha contestato l’aggravante del metodo mafioso al ventenne arrestato per l’omicidio del lungomare, Francesco Pio Valda, un padre ammazzato in un agguato di camorra, il fratello detenuto per tentato omicidio, la nonna condannata in primo grado per associazione camorristica. “Si tratta di un’azione dimostrativa eclatante, efferata, che dimostra il senso di impunità e il desiderio di appropriazione del territorio da parte di gruppi criminali a discapito dei residenti e degli altri avventori degli chalet di Mergellina”, scrivono i pm Antonella Fratello e Claudio Onorati nelle carte dell’inchiesta condotta dalla squadra mobile diretta da Alfredo Fabbrocini. I magistrati ricordano “i contesti criminali cui appartengono i protagonisti della vicenda”: la rissa scoppia fra due gruppi, uno proveniente dalla periferia orientale, di cui fa parte Valda, l’altro dal Rione Traiano e insieme ai ragazzi c’è anche un cinquantenne scarcerato da tre mesi dopo aver trascorso in carcere quasi sette anni per droga. Il pretesto è una macchia sulla scarpa, poi però spunta la Revolver calibro 38 che colpirà Maimone, tranquillamente seduto al tavolino a venti metri di distanza insieme agli amici. I pm parlano di gruppi criminali che si scontrano in “zona neutrale, sulla quale intendono operare una sorta di controllo”, senza preoccuparsi del rischio di colpire persone estranee alle loro dinamiche e ai loro interessi. Qualche anno fa, nel 2017, in un’altra frequentatissima area della movida, i “Baretti” di Chiaia, si era verificata una lite con sparatoria fra il figlio di un boss del quartiere Fuorigrotta e un altro ragazzo ritenuto legato a un clan della zona orientale. L’imputato, alla fine, è stato condannato solo per la rissa. Ma sviluppi giudiziari a parte, a molti l’episodio ha ricordato quello del lungomare. Il contesto è allarmante. Anche perché pure le faide tra clan rischiano di sbarcare in centro: solo sette giorni prima dell’omicidio Maimone, sempre davanti agli chalet di Mergellina, è stato ferito in un agguato un ragazzo di 19 anni, Antonio Gaetano. Pur giovanissimo, era indicato dagli investigatori come un esponente di spicco di uno dei gruppi camorristici che, sul territorio del quartiere Pianura, si contende il controllo delle attività illecite, compreso il “pizzo” sulle bancarelle degli ambulanti che in questi giorni espongono soprattutto gadget ispirati al calcio Napoli. Gaetano è morto dopo 12 giorni di agonia. Per ammazzarlo, non lo hanno affrontato sotto casa o lungo il percorso. I killer hanno aspettato che la sua auto si fermasse sul lungomare, per sparargli. Un delitto di camorra, nel traffico della movida. Roma. Carcere minorile, con il Papa e il rapper Kento, protagonisti i ragazzi detenuti redattoresociale.it, 6 aprile 2023 Il pontefice inizierà dall’istituto minorile di Casal del Marmo il Triduo pasquale. Ci sarà anche Kento, che ai giovani detenuti insegna il rap. L’intervista: “Loro non sono quasi mai dalla parte di coloro che dicono, ma sempre dalla parte di coloro ai quali viene detto”. Ci sarà papa Francesco, domani, a inaugurare qui il Triduo pasquale, tra i ragazzi detenuti nell’Istituto minorile di Casal del Marmo. Ci sarà anche Francesco Carlo, in arte Kento, domani a Casal del Marmo: il rapper calabrese da anni porta avanti, proprio negli istituti minorili, laboratori per questi giovani che spesso “non sanno di avere il diritto di essere ascoltati”. E’ attraverso il rap, che Kento prova a tirar fuori il mondo che questi ragazzi hanno dentro. E’ a lui che Redattore Sociale ha chiesto di raccontare, dal suo punto di vista, le storie e soprattutto i bisogni e le richieste di questi ragazzi. Un Papa e un rapper che si incontrano in un carcere minorile. Cosa significa e cosa può significare una storia simile? In effetti, la storia, messa così, è divertente. Ma i protagonisti sono i ragazzi detenuti: sono loro che incontrano il papa, ed è il papa che incontra loro. Io sarò in disparte, questo è il momento dei ragazzi. Trovo molto positiva non solo la visita, ma soprattutto l’attenzione che inevitabilmente questa sta portando e porterà alla condizione delle carceri minorili. Pur essendo un laico, non mi sfugge l’attenzione di Bergoglio alla questione sociale: gli adolescenti rinchiusi in cella ne sono una parte dolorosa e imprescindibile. Chi sono questi ragazzi? Per la maggior parte, quelli che ho incontrato vengono da situazioni familiari e sociali molto difficili, in cui spesso è stata la strada a crescerli e a fare la parte che avrebbe dovuto fare la società di noi adulti. Sia chiaro: se sono rinchiusi è perché i reati li hanno fatti, non sono angioletti! Ma in generale è difficile guardare il carcere minorile e non vedere riflesso il classismo della nostra società in generale. Molti hanno difficoltà ad esprimersi, molti non sanno di avere il diritto di essere ascoltati. C’è qualcosa che accomuna le storie di questi ragazzi e di queste ragazze? Come ti dicevo prima, sicuramente non troverai molti ragazzi che abbiano una famiglia sana e funzionale alle spalle. Ciò non significa che siano tutti figli di criminali, beninteso! Ci sono anche i figli di bravissime persone che, magari, lavorano 16 ore al giorno. E quindi, appunto, è la strada che li cresce, e non la famiglia. Il rap ha la capacità di tirar fuori ciò che i ragazzi hanno dentro? Oggi il rap è il genere più facile e accessibile. Da un lato lo conoscono già, ne sono “nativi”, quindi non devo spiegare nulla. E poi non serve saper suonare uno strumento, o cantare, o leggere la musica. Addirittura, a volte mi trovo a lavorare con dei ragazzi analfabeti, che fanno rap alla grande: l’unica cosa che ti serve è avere un cervello e una bocca che funzionano. Ormai sono tanti anni che frequento le carceri, conosco i codici e le chiavi espressive per far aprire i ragazzi. La difficoltà principale è di ordine concettuale: è difficile farli passare dalla parte della capsula del microfono, perché loro non sono quasi mai dalla parte di coloro che “dicono” ma sempre dalla parte di coloro ai quali “viene detto”. Per tutto il giorno ricevono ordini, consigli, indicazioni. Essere loro i mittenti della comunicazione, capire che le loro parole e i loro pensieri sono importanti: è questo il passaggio chiave di tutto il mio lavoro. Negli ultimi mesi, nelle carceri minorili ci sono stati disordini e rivolte. Secondo te, e dalle storie che raccogli, cos’è che non va in questi posti? E cosa invece ti pare che funzioni? Non mi permetto di generalizzare né di parlare di situazioni che non conosco. Sicuramente mi pare che funzionino le misure alternative alla detenzione, alle quali peraltro il nostro ordinamento riconosce una nettissima prevalenza rispetto alla reclusione in carcere. Dall’altro lato, mi ha impressionato - lavorando in tante carceri - vedere la differenza di atteggiamento, di procedure, e quindi di risultati con i ragazzi. E la differenza, ovviamente, non la fanno i giovani detenuti né la struttura architettonica del carcere: la fanno i professionisti, che possono scegliere di fare semplicemente il proprio lavoro, oppure di fare qualcosa in più, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche magari beccandosi delle ramanzine da parte dei superiori o un ‘ma chi te lo fa fare’ dai colleghi. Sono queste le persone che riescono ad avere un impatto forte, positivo e duraturo con i nostri “ragazzacci”. Cosa succede, durante i tuoi laboratori? Quand’è che i ragazzi ti danno fiducia? La cosa che succede sempre, ad ogni mio laboratorio, è che c’è uno dei ragazzi che rimane in disparte e mi guarda male, con l’aria del grande criminale, come a dirmi “non me ne frega niente di te”. E già questa cosa fa ridere, perché la partecipazione ai miei laboratori è volontaria, quindi se non te ne fregava niente potevi restartene in cella! Comunque… io continuo a lavorare con gli altri, lui continua a guardarmi male. Poi arriva il momento della pausa sigaretta (perché in carcere fumano quasi tutti…) e, quando il gruppo si allontana, il solitario si avvicina con l’aria circospetta di chi mi deve dare una coltellata. A quel punto abbassa la voce e mi sussurra: “Mi aiuti a scrivere una canzone per la mia fidanzata che mi aspetta fuori?” E poi aggiunge: “Però non lo deve sapere nessuno!” A quel punto io sorrido, assicuro la mia discrezione, e chiedo a mia volta: “Io ti aiuto se tu mi aiuti… dimmi qualcosa di questa ragazza! Dove vi siete conosciuti, quando vi siete dati il primo bacio, che tempo faceva quel giorno…” E, se sono stato abbastanza bravo a stimolare il giovane innamorato, vengono fuori cose bellissime. Qualcuno dice che il carcere dovrebbe essere abilito, tanto più quello minorile. Che ne pensi? Penso che il carcere minorile sia un’istituzione anacronistica e che i ragazzi che hanno sbagliato non vadano comunque rinchiusi dietro le sbarre. Quindi sì, andrebbe abolito. Ma sarebbe stupido e poco realistico chiedere di aprire i cancelli e buttarli tutti fuori adesso, anche perché non è detto che fuori ci siano tali e tante strutture che facciano al loro caso e siano pronte ad accoglierli. Ci vuole una convergenza della politica e della società civile, convergenza che purtroppo oggi vedo ancora lontana. Nel mio piccolo, darò sempre il mio contributo alla costruzione di un percorso abolizionista concreto, realistico e duraturo. Cosa servirebbe, secondo te, perché nessun ragazzo debba più entrare in carcere? La risposta non è semplice. Di sicuro ti posso dire che un ragazzo che ha una famiglia funzionale, il cibo sulla tavola, va a scuola e ha una buona socialità è molto ma molto improbabile che finisca dietro le sbarre. Quindi serve una maggior cura da parte della nostra società nel prevenire la marginalità e la vergognosa ingiustizia sociale di cui ancora troppo spesso si macchia. Quindi direi che questo serve: una società che sia capace di cura. Così il carcere minorile potrà serenamente scomparire. Casal del Marmo (Rm). Il cappellano: il Papa in carcere, per i miei ragazzi un raggio di sole di Mimmo Muolo Avvenire, 6 aprile 2023 Tutto pronto. Compresa l’adrenalina che aumenta con il passare delle ore. “L’attesa dei ragazzi e di tutti noi è ai livelli massimi”, dice don Nicolò Ceccolini, classe 1987, dal 2017 cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, ?dove questa sera il Papa farà la lavanda dei piedi durante la Messa in Coena Domini?. Dodici giovani, dieci maschi e due femmine. Uno dei ragazzi è di religione islamica. “Hanno accettato tutti prontamente e con gioia, anche al di là delle mie aspettative - ricorda il sacerdote, che fa parte della Fraternità di San Carlo -. E da quando si è diffusa la notizia, qui a Casal del Marmo si respira un’atmosfera particolare”. Don Nicolò, che cosa è cambiato rispetto a dieci anni fa, quando il Papa venne per la prima volta il Giovedì del Santo in questo carcere? Sono cambiati i ragazzi, ovviamente. Io c’ero, perché allora ero diacono e vissi la preparazione e la celebrazione al fianco del cappellano di allora, padre Gaetano Greco, terziario cappuccino dell’Addolorata, che oggi sta a San Giovanni Rotondo. Mi sembra di poter dire che non è cambiato l’entusiasmo, la fibrillazione in attesa del Papa. Perché anche chi non è cristiano si rende conto dell’importanza del Papa e tutti sono colpiti dal fatto che una persona così importante dedichi il suo tempo a visitarli. Ci può riferire qualche commento ascoltato tra i ragazzi e le ragazze nei giorni scorsi? Uno in particolare mi ha confidato che questa presenza del Papa significa che nella vita tutto è possibile, che c’è davanti tutta la vita per riparare agli errori fatti e che questa vita è bella, anche se si sono smarriti. Un altro mi ha detto che si è sentito valorizzato per quello che è. Due testimonianze semplici e toccanti, al tempo stesso, che probabilmente rifluiranno anche nel messaggio dei ragazzi al Papa, prima della Messa. Proviamo a metterci nella prospettiva di chi, alla loro età (sono tutti minorenni), fa l’esperienza del carcere. La vicinanza del Papa è come un raggio di sole, un messaggio di incoraggiamento e un segno di attenzione verso chi, dopo aver sbagliato (a volte anche per colpa di altri), è ora alla ricerca di un senso della vita e di figure di adulti affidabili e di riferimento. Chi sono i ragazzi e le ragazze di Casal del Marmo? Attualmente abbiamo una cinquantina di minori, maschi e femmine. Italiani, arabi, rom. Una quindicina di loro sta facendo il Ramadan. Ma, lo ripeto, tutti hanno espresso gioia per questo incontro con il Papa. Come vi siete preparati? Io personalmente ho vissuto l’annuncio come un “dono immeritato”, ma da accogliere e valorizzare al massimo. Ho cercato di spiegare ai ragazzi il significato del gesto che il Papa verrà a compiere, ricordando che al tempo di Gesù la lavanda dei piedi era un servizio dell’ultimo dei servi. E che dunque Gesù compiendolo voleva dire che metteva tutta la sua vita a servizio degli altri, come ha dimostrato con la morte in croce. Lo stesso fa il Papa, si mette a disposizione di questi ragazzi e invita tutta la Chiesa a fare altrettanto. Tra l’altro mi piace sottolineare il momento particolare in cui tutto questo avviene. E cioè? Papa Francesco arriva da noi pochi giorni dopo essere stato dimesso dal Policlinico “Gemelli”. Mi piace vedere in questa circostanza l’incontro tra due fragilità, quella sua - di carattere fisico - e quella dei ragazzi, con i loro problemi esistenziali e le ferite che si portano dietro. Ma proprio in questo incontro di fragilità c’è un bellissimo messaggio di speranza. Quale? Il messaggio che non abbiamo bisogno di supereroi, ma di adulti che non si sottraggano ai loro doveri educativi. E questo messaggio è soprattutto per noi, che spesso di questo ruolo ci dimentichiamo. Vivendo con i ragazzi e le ragazze di Casal del Marmo, mi sto rendendo conto di quanto bisogno abbiamo di figure di riferimento, che li aiutino a superare i momenti difficili. Com’è la giornata tipo dei ragazzi nel carcere? Hanno la scuola al mattino. Alfabetizzazione, media e alberghiero. E poi ci sono i laboratori: falegnameria, lavorazione dei metalli, arti decorative, giardinaggio e anche parrucchiere. Questi ultimi in particolare riscuotono il loro interesse. Avete preparato qualche dono per Papa Francesco? Certamente. E molti hanno contribuito. Al Papa doneremo una croce francescana in legno, elaborata dai ragazzi del laboratorio di falegnameria. Al centro della croce è stata incastonata una colomba della pace lavorata da chi frequenta il laboratorio dei metalli. Il tutto messo dentro una scatola preparata dai ragazzi e le ragazze che frequentano il laboratorio di arti decorative. Ho seguito le fasi della preparazione e posso testimoniare con quanto amore ognuno di loro abbia lavorato. Papa Francesco è già nel cuore di questi ragazzi, indipendentemente dalla fede che professano. Milano. Musica e parole al carcere di Opera vita.it, 6 aprile 2023 Momento di riflessione comune guidato dalle pagine più straordinarie del repertorio cameristico. Un dialogo tra i musicisti di un quartetto d’archi e i detenuti del Carcere di Opera, è questo MetaFour, un progetto ideato da Le Dimore del Quartetto in collaborazione con l’Associazione Culturale Cisproject, con il sostegno di Itsright Società Benefit, che sarà presentato martedì 18 aprile alle ore 20 alla Casa di Reclusione di Milano Opera. L’evento sarà la restituzione del lavoro sviluppato dai detenuti nell’ambito del laboratorio di poesia “Leggere Libera-Mente”, a cura dell’Associazione Culturale Cisproject. Pensieri ed emozioni dialogheranno con brani musicali, dal repertorio cameristico scelto e interpretato per l’occasione dal Quartetto Indaco. “Il progetto ideato da Le Dimore del Quartetto ci ha subito conquistati: musica e parole si fondono in una comunicazione che supera barriere e pregiudizi, per dar vita ad un cammino che aiuta i detenuti a trovare nuovi modelli relazionali improntati alla cooperazione e alla condivisione empatica. Come Società Benefit ci sentiamo particolarmente coinvolti in questa iniziativa che è perfettamente in linea con il nostro impegno in ambito sociale. Crediamo, infatti, fortemente che la musica e i suoi valori possano essere un veicolo straordinario per promuovere iniziative rivolte a bisogni e fragilità delle persone, alla comunità in termini di inclusione e promozione dell’educazione”, ha commentato Gianluigi Chiodaroli, presidente di Itsright, società di collecting dei diritti connessi musicali che rappresenta più di 170mila artisti italiani e internazionali. “L’arte e la bellezza hanno un potere trasformativo, stimolano il pensiero e muovono le emozioni. I luoghi dove la bellezza non ha accesso sono senza speranza, per questo sono grata a Itsright che sostiene questo progetto che crede nel potere straordinario della musica”. È il commento di Francesca Moncada di Paternò, presidente di Le Dimore del Quartetto. MetaFour è un’iniziativa sostenuta e promossa da Itsright Società Benefit, espressione dell’impegno dell’azienda finalizzato a dare un reale contributo sociale alla comunità, per promuovere il benessere delle persone, l’educazione, l’inclusione sociale attraverso la musica e i suoi valori. L’incontro è aperto al pubblico con obbligo di accredito entro venerdì 31 marzo 2023 mercoledì 5 aprile (prorogato), inviando copia della carta d’identità e dati anagrafici via mail a chiara@ledimoredelquartetto.eu. La fuga impossibile di Lea Garofalo e il coraggio di stare dalla parte giusta di Lucio Luca La Repubblica, 6 aprile 2023 Marika Demaria - per Zolfo editore - racconta la storia della donna calabrese strangolata nel 2009. Quando nasci a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, e a soli nove mesi ti uccidono il padre in un agguato di ‘ndrangheta, la tua vita probabilmente è segnata per sempre. Se i tuoi fratelli, tuo zio, si intestano una assurda vendetta che porterà soltanto a una faida e tanti altri morti ammazzati, capisci che prima o poi da lì devi fuggire se solo vuoi dare un senso alla tua esistenza. Lea Garofalo cresce in una famiglia ‘ndranghetista. La nonna le ripete sempre che “il sangue si lava con il sangue”. A nove anni scopre che il fratello nasconde le armi in camera sua, a tredici si innamora di un ragazzo più grande e decide di seguirlo a Milano. Ma anche in questo caso la realtà non cambia. Carlo, l’uomo che ama, è un trafficante di droga. Per conto della famiglia Garofalo gestisce lo smercio di eroina e cocaina nella zona di via Paolo Sarpi. A diciassette anni Lea rimane incinta e nel 1991 nasce Denise, che cresce nello stabile di via Montello, dove il clan del compagno e dei fratelli subaffitta illegalmente stamberghe agli immigrati. Poi Carlo finisce in carcere, Lea gli dice che tra loro è finita, litigano e devono intervenire le guardie per salvare la povera ragazza aggredita dal detenuto. Lea e Denise si trasferiscono a Bergamo e per i primi tempi sembra andare tutto bene. Nel 2002 però la loro macchina viene bruciata: è un avvertimento del fratello Floriano. Lea decide di tornare a Petilia Policastro, ma a luglio viene aggredita sempre dal fratello, che non accetta la sua scelta. Decide quindi di rivolgersi ai carabinieri, diventando una testimone di giustizia. Viene sballottata da un capo e l’altro dell’Italia per ragioni di sicurezza, apprende che il fratello è stato ucciso per punire il suo pentimento, dopo qualche anno torna in Calabria e firma la sua condanna a morte. Carlo esce di prigione, riesce a contattarla, allontana la figlia con una scusa e, a quel punto, picchia e strangola Lea. Era il 24 novembre del 2009. Il clan si occupa di far sparire il cadavere, Carlo arriva persino a dire a Denise che la madre ha voluto soldi ed è fuggita. In pratica che ha abbandonato sua figlia, l’unica cosa per la quale viveva. Ma sarà proprio Denise, il suo coraggio, a far sì che la verità sulla fine di Lea Garofalo venga finalmente a galla. Per quel delitto sei imputati vengono condannati all’ergastolo, Denise continua a vivere sotto protezione. La beffa, però, era ancora dietro l’angolo: per lo Stato Lea Garofalo non è una vittima di mafia, perché ai suoi assassini, per “problemi burocratici”, non è stato applicato durante il processo l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma almeno nel 2013, grazie all’aiuto dell’Associazione Libera, anche per Lea Garofalo è stato possibile celebrare funerali civili e pubblici. C’erano don Ciotti, il sindaco Pisapia e la stessa Denise, anche se a distanza e protetta dalle forze dell’ordine. La scelta di Lea, un bel libro scritto da Marika Demaria per Zolfo Editore, ripercorre la storia di una donna coraggiosa che ha pagato con la vita la sua decisione di stare dalla parte giusta. Una storia di ribellione e coraggio. Sullo sfondo di un dramma sconvolgente, che si dipana tra la Calabria e la Lombardia, si stagliano omicidi insoluti, traffici di stupefacenti e il profilo di una criminalità organizzata padrona di interi territori. Una storia da incubo, di cui la narrazione asciutta che l’autrice ci trasmette dall’interno del processo diventa documento eccezionale, una denuncia insostituibile. Se il cibo alimenta le disuguaglianze di Marianna Filandri La Stampa, 6 aprile 2023 I prezzi di ciò che mangiamo e beviamo sono aumentati. Nei primi tre mesi del 2023, secondo le stime dell’Istat, l’inflazione dei beni alimentari ha continuato a crescere. In pratica spendiamo di più per comprare frutta, verdura, uova e latte e anche prodotti come pasta, sughi, biscotti e in questo periodo uova e colombe di Pasqua. Questo aumento riguarda tutti indistintamente, infatti la spesa per mangiare è imprescindibile. Una famiglia con poche risorse economiche pagherà di più per acquistare una colomba pasquale esattamente come una famiglia con molte risorse. Si può considerare che le famiglie povere che più spesso comprano al discount dovranno sostenere un aumento relativamente più contenuto rispetto alle famiglie più abbienti che comprano in negozi più piccoli o in pasticceria. Quindi spendi di meno e subirai meno gli aumenti, spendi di più e li subirai di più? Non è affatto così. L’inflazione ha delle conseguenze negative sui bilanci di tutti, ma mina maggiormente il benessere di chi si trova in una situazione di maggiore svantaggio sociale. Come? In almeno tre modi. Il primo riguarda il fatto che la spesa alimentare delle famiglie meno abbienti rappresenti una percentuale più rilevante dei consumi, in media circa il 19%. Sempre secondo i dati Istat, lo scorso anno a fronte di una spesa media di poco più di 2.440 euro, circa 470 euro sono stati spesi per cibi e bevande. La spesa delle famiglie cambia radicalmente per livello di reddito e il 10% più povero ha speso circa 1.000 euro. Certo chi ha meno risorse cercherà di fare economia e acquisterà solo i prodotti più convenienti o in offerta. Ma anche considerando un risparmio di un terzo dei 470 euro, troviamo che la spesa alimentare pesa quasi un terzo dei consumi totali, ossia una parte più ampia esposta all’inflazione. Il secondo modo riguarda l’impossibilità di contrarre i consumi. Se infatti una famiglia in difficoltà economica può rinunciare alle vacanze, a comprare dei nuovi vestiti, ad andare al cinema, difficilmente potrà rinunciare a comprare cibo. I consumi alimentari infatti sono poco contraibili. Cosa significa? Significa che se una famiglia mangia circa 9 chili di pasta al mese, con l’aumento del prezzo della pasta, è inverosimile decida di mangiarne solo 8. In altri termini dovrà pagare di più per la stessa quantità di pasta. L’unica strategia che potrà adottare è quella di scegliere prodotti più convenienti. Questo è possibile? Sì, ma solo in parte, perché come detto le famiglie più povere tendenzialmente già scelgono i prodotti più economici. Quello che invece potranno fare con maggiore probabilità è rinunciare a una dieta bilanciata, scartando alcuni cibi particolarmente costosi. Le conseguenze sulla salute di ciò che si mangia sono il terzo punto per cui l’aumento del prezzo degli alimentari svantaggia maggiormente le famiglie povere. Se le scelte alimentari vengono fatte in base al costo e alla convenienza e non alla salubrità e alla varietà si arriverà con più facilità ad avere una dieta non bilanciata. Le famiglie a basso reddito tendono ad avere diete molto caloriche di qualità dietetica bassa ma economiche. L’inflazione sui prodotti alimentari, allora, non ha solo il probabile esito di un calo delle vendite di colombe e uova pasquali, ma anche quello di ampliare ulteriormente la distanza tra chi ha di più e chi ha di meno nel nostro paese. Distanza che non aveva affatto bisogno di essere allungata. “Punti luce”, un’opportunità di crescita e sviluppo per bambini e ragazzi in quartieri svantaggiati di Giulia Cimpanelli La Repubblica, 6 aprile 2023 Combattere la povertà educativa: è questo il primario obiettivo dei 26 Punti luce italiani di Save the children, spazi situati in quartieri svantaggiati in cui bambini e ragazzi e famiglie possono usufruire di diverse attività: dal sostegno allo studio ai laboratori artistici e musicali, dalla promozione della lettura all’accesso alle nuove tecnologie, al gioco, alle attività motorie. “In queste realtà spesso ragazzi non immaginano altro rispetto a ciò che vedono: vogliamo aspirarli e ispirarli - commenta Daniela Fatarella, direttrice generale Save the Children Italia -. Nelle nostre strutture proponiamo attività che portino a un percorso di empowerment, finalizzato alla crescita personale del bambino, che offra a tuti le stesse opportunità”. È in quest’ottica che, proprio nel contesto dei Punti luce, nasce la collaborazione tra Ferrero e Save the Children, con l’intento comune di offrire a bambine, bambini e ragazzi la possibilità di sviluppare i propri talenti e aspirazioni proprio quando il contesto sociale e famigliare non permetterebbe loro di farlo. Il metodo - Le due realtà mettono a fattor comune le loro competenze ed esperienze passate per perseguire un approccio educativo di avvicinamento al movimento e allo sport. Kinder Joy of moving, un progetto internazionale di responsabilità sociale del Gruppo Ferrero (nato nel 2005, a oggi ha coinvolto 2,6 milioni di bambini, in 28 Paesi del mondo), che si impegna ad incentivare la predisposizione naturale dei bambini a muoversi e giocare entra in otto Punti Luce e in futuro, sperabilmente, in tutti e 26. “Il programma prevede l’utilizzo di Joy of moving, un metodo educativo innovativo, validato scientificamente, messo a punto in collaborazione con l’Università del Foro Italico di Roma, il Coni e il Miur, a seguito di un progetto di ricerca che ha coinvolto oltre mille bambini della scuola primaria. Il metodo nasce dal gioco ed è in grado di favorire non solo lo sviluppo motorio, ma anche quello cognitivo, emozionale e relazionale. In quest’ottica sposta l’attenzione dalla performance al divertimento, dall’antagonismo alla relazione”, spiega Bartolomeo Salomone, presidente di Ferrero. Gli educatori professionisti degli Spazi luce verranno formati a questo metodo. I punti luce - L’iniziativa rientra a pieno titolo nello spirito dei Punti luce: “Oggi un milione e 400mila bambini in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta - aggiunge Fatarella - ovunque, anche all’interno delle stese città, a seconda di dove nasci hai una serie di opportunità diverse. L’obiettivo è rafforzare le competenze dei ragazzi per fare in modo di offrire a tutti le medesime possibilità”. I Punti luce hanno in seno anche una serie di attività volte alla salute e al benessere di bambini e ragazzi. Oltre agli educatori professionisti, in questi spazi lavorano anche psicologi e nutrizionisti: “Dopo la pandemia rileviamo un grande disagio psicologico tra bambini e ragazzi, per questo anche nei punti luce, cerchiamo di dare maggiore sostegno e servizio psicologico”, dice la direttrice. Queste strutture offrono a bambini e famiglie anche percorsi di educazione alimentare: “Nelle fasce di popolazione più svantaggiate insorgono spesso problemi di obesità infantile perché c’è minore educazione alimentare e minor controllo salute. I nostri nutrizionisti, oltre a classiche attività di educazione alimentare, fanno accompagnamento alla spesa insegnando alle famiglie cosa acquistare con lo stesso budget per offrire ai bambini un’alimentazione più salutare”. Salute e benessere dei bambini nel mondo - I progetti di Save the children che guardano alla salute dei bambini nel mondo sono molteplici: “Oggi per noi fondamentale è la lotta alla malnutrizione - spiega Fatarella -: un bambino su cinque è gravemente malnutrito in aree come il Corno d’Africa o in Afghanistan. Li curiamo e interveniamo anche sulla popolazione tutta, per aiutarli in attività come agricoltura e allevamento e renderli più resilienti rispetto a future emergenze”. Save the children ha punti sanitari in tutto il mondo dedicati al binomio mamma-bambino: “Offriamo formazione alle persone e agli operatori su tematiche come il parto sicuro e le vaccinazioni - conclude -. Qui in Italia abbiamo lanciato il progetto Fiocchi in ospedale che intercetta le mamme con maggiori difficoltà per accompagnarle nei primi mille giorni di crescita del bambino con supporto alla genitorialità”. Una sentenza storica dell’Onu che apre la strada alla giustizia climatica di Giorgio Brizio La Stampa, 6 aprile 2023 Il documento delle Nazioni Unite chiede alla Corte internazionale di giustizia di emettere un parere consultivo sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico e di proporre conseguenze legali. Nei movimenti per il clima ci si chiede di continuo quali possano essere gli approcci e le strategie più efficaci per creare consapevolezza sulle tematiche ambientali e generare cambiamento: le proteste di piazza di Fridays For Future, la disobbedienza civile non violenta di Extinction Rebellion, i flash mob di Legambiente, le azioni dirette di Greenpeace o quelle performative di Ultima Generazione. Di recente, nella speranza di smuovere i governi dall’inazione, se n’è aggiunta una nuova: cittadini e associazioni hanno iniziato a percorrere vie legali, facendo causa alle istituzioni. Dopo le vittorie nei processi in Olanda, Francia e Germania, che è stata costretta a rivedere l’intera legge sul clima in seguito a una sentenza della Corte costituzionale federale, ora si attendono gli esiti della causa “Giudizio Universale” in Italia, intentata da 203 ricorrenti, e di quelle alla Corte europea dei diritti dell’uomo. È in questo contesto, a 10 giorni esatti dalla pubblicazione dell’ultimo report Ipcc del decennio, che si inserisce in modo dirompente una storica risoluzione sulla giustizia climatica adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. È partito tutto dall’iniziativa di un’assemblea studentesca della facoltà di giurisprudenza dell’Università delle Fiji, che Vanuatu ha deciso di presentare all’Assemblea Generale e accompagnare in un lavoro diplomatico lungo e certosino che ha portato al consolidarsi di una maggioranza di cento paesi a sostegno della proposta già prima dell’inizio dei lavori ufficiali di fine marzo a New York. In sostanza, la risoluzione Onu chiede al suo organo giudiziario più elevato di stabilire gli obblighi delle nazioni nelle politiche di contrasto alla crisi climatica e le conseguenze legali che devono affrontare se non le adottano. Secondo Ishmael Kalsakau, Primo Ministro di Vanuatu, “è l’inizio di una nuova era nella cooperazione multilaterale sul clima, un’era che si concentra maggiormente sul rispetto del diritto internazionale e che pone i diritti umani e l’equità intergenerazionale in prima linea nel processo decisionale sul clima”. Il parere della Corte di Giustizia internazionale dell’Aia non sarà vincolante, ma potrebbe spingere i governi a prendere decisioni più audaci e rendere i tribunali sempre più un terreno di battaglia nel caso in cui questo non dovesse avvenire. Nonostante la loro risicata superficie e popolazione, gli Stati insulari del Pacifico in prima linea di fronte alle conseguenze dell’emergenza climatica dimostrano ancora una volta di voler e poter essere protagonisti dei processi di cooperazione multilaterale: nel 2021 il Ministro degli Esteri di Tuvalu aveva scosso la plenaria della Cop26 di Glasgow, intervenendo a distanza con l’acqua del mare fino alle ginocchia, e quello del suo rispettivo di Vanuatu era stato decisivo nel processo che ha portato il tema del Loss & Damage fino al documento finale della Cop27 di Sharm el-Sheikh. Sempre questi due Paesi hanno lanciato un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, che ha ottenuto l’appoggio dell’Oms, del Parlamento Europeo, del Vaticano e di due città italiane: Pontassieve e Torino. Da Vanuatu fino all’Italia, aumentano il livello del mare e la pressione della comunità internazionale per reagire. Perché all’Europa ora serve l’Africa di Mario Deaglio La Stampa, 6 aprile 2023 Il flusso non si ferma mai, la disperazione batte il mare grosso. Una nave di Medici senza Frontiere soccorre cinquecento migranti ammassati su un peschereccio che sta per affondare nel Mediterraneo in tempesta; altri trentadue, che sono riusciti a metter piede su un isolotto disabitato presso Lampedusa, vengono tratti in salvo da un elicottero della Guardia costiera; la nave di una Ong attracca a Salerno con 91 migranti a bordo di cui 51 minori. Questa cronaca angosciosa e assillante impedisce agli italiani (e a tutta l’Europa) di guardare lontano: stiamo concentrandoci sulla “pagliuzza” e non vediamo la “trave”. Il nome della “trave” comincia per A. A come Africa. La popolazione del “continente nero”, come lo si chiamava una volta, sta aumentando a un ritmo da vertigine: meno di 300 milioni nel 1960, oggi quattro volte tanto - ossia 1,2 miliardi - si prevede che quasi raddoppieranno ancora entro il 2050, ossia supereranno i due miliardi. Al momento attuale, metà della popolazione africana ha meno di vent’anni. E noi europei concentriamo la nostra attenzione - doverosa e peraltro spesso insufficiente - sui salvataggi di emergenza senza guardare più in là. Gli africani stanno migrando a una velocità travolgente ma quello che noi vediamo è una piccola parte di questa realtà. Su cento africani che emigrano, solo circa venti, o al massimo trenta, si dirigono verso l’Europa. Gli altri lasciano il loro paese per altri paesi africani oppure, all’interno del paese stesso, lasciano i villaggi per quelle che possiamo chiamare “agglomerazioni urbane” prima ancora che città. E così l’Africa sta diventando un continente “urbano”: tanto per fare qualche esempio, Il Cairo e Lagos hanno ciascuna quasi il doppio degli abitanti di Parigi, la congolese Kinshasa è più grande di Londra, Nairobi ha tanti abitanti quanto la Lombardia. Gli abitanti dei villaggi sono attratti dalle città non solo perché lì, in un modo o nell’altro, un po’ d’acqua e un tozzo di pane lo si rimedia, ma anche perché i figli possono studiare. Nei grandi paesi in crescita (Kenya, Zambia, Congo) più dell’80 per cento della popolazione sa leggere e scrivere; in quasi tutti si è sopra al 50-60 per cento. E non si tratta solo di educazione primaria: l’istruzione universitaria sta letteralmente esplodendo con diverse migliaia di università e altri istituti di studi superiori. I risultati si vedono: dalle sette imprese africane che producono auto e autobus - adatti alle difficili strade del continente - ai droni che il Rwanda utilizza regolarmente per rifornire gli ospedali di prodotti sanitari e anche per recapitare la posta e alle “Silicon Valleys” africane dove si sperimenta con innovazioni informatiche. In Europa, questa realtà è ignorata, o considerata poco interessante, soprattutto dai politici e si continua a concentrare il dibattito su come salvare i migranti. Dovremmo invece smettere - come si diceva sopra - di guardare soltanto alla pagliuzza ed entrare in contatto con la “trave”. Anche perché negli ultimi anni l’Africa ha dato il via all’area di libero scambio africana, ha allentato vistosamente i legami postcoloniali con l’Europa (e soprattutto con la Francia) e sta cercando di darsi una sorta di identità monetaria. Certo, progetti europei di questo tipo non ne mancano, ma il Covid prima, e la guerra ucraina poi, hanno finora impedito il loro finanziamento su scala sufficiente. Nel frattempo, alcuni paesi nel Nord Africa, a cominciare dal Marocco, si stanno dotando di una struttura moderna di porti, strade e ferrovie e anche di impianti industriali. Si potrebbe sostenere che, senza un “patto con l’Africa”, l’Europa non avrà un futuro; basta considerare che la sola Nigeria dalla popolazione molto giovane potrebbe, a fine secolo, avere più abitanti dell’intera Europa, la cui popolazione sarà inevitabilmente molto vecchia. I nostri odierni propositi di contribuire con l’Europa attuale - magari in maniera decisiva - a forgiare un “mondo nuovo” potrebbero sembrare assurdi ai nostri nipoti. Un progetto di questo tipo ricollocherebbe il Mediterraneo in una posizione di estrema importanza. Recentemente, Romano Prodi ha proposto di “dare vita a venti-trenta “Università Mediterranee”, cioè università miste, paritarie ed eguali operanti nella stessa misura e con gli stessi strumenti nella costa del Nord e nella costa del Sud del Mediterraneo. Non filiali delle nostre università, si badi bene, bensì università ciascuna con un campus a Sud e uno a Nord”. In questo collegamento culturale - che deve precedere ma che non può sostituire quello economico - i migranti che oggi raccogliamo, spesso con pochissima gentilezza, sulle nostre spiagge, potrebbero giocare un ruolo essenziale: sarebbero africani d’origine ma con un’esperienza diretta dell’Europa. Attraverso di loro potrebbe passare il vero progetto di rinascita di un’umanità stanca. Israele. Record di detenuti senza processo: 971 in arresto amministrativo, quasi tutti arabi Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2023 “È il dato più alto dal 1994”. Il 2023 del nuovo governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu è iniziato al ritmo di un palestinese ucciso al giorno. Ma questo non è l’unico record negativo fatto registrare dall’esecutivo ultranazionalista d’Israele: secondo quanto riporta il giornale Haaretz, nelle carceri dello Stato ebraico sono reclusi 971 detenuti sottoposti ad arresto amministrativo. In poche parole, persone, quasi tutte arabe, che si trovano in prigione senza essere state ancora sottoposte a processo. Una cifra record per gli ultimi 20 anni, si legge sul media. L’intensificarsi della repressione e delle violenze commesse dalle forze di sicurezza di Tel Aviv nei confronti della popolazione palestinese ha aumentato le presenze all’interno delle carceri israeliane. Ma ciò che salta all’attenzione è che molte di queste persone si trovino in cella in attesa di un giusto processo. Non sorprende invece, anche se il dato conferma la tendenza del nuovo governo, che i detenuti siano quasi tutti palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme est o arabi israeliani. Nei loro confronti non è stato celebrato alcun processo, nota Haaretz, e i loro avvocati non hanno potuto vagliare le informazioni raccolte nei loro confronti dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Haaretz precisa che fra i 971 detenuti sottoposti ad arresti amministrativi ci sono comunque anche quattro ebrei, militanti dell’estrema destra. Si tratta, secondo il quotidiano, della cifra più elevata dal 1994 di ebrei sottoposti ad arresti amministrativi perché ritenuti un pericolo incombente sulla sicurezza pubblica. L’attivista di Taiwan nelle carceri cinesi: “Ai detenuti dicono di non criticare l’Italia perché ha firmato gli accordi sulla Via della seta” di Giovanni Viafora Corriere della Sera, 6 aprile 2023 Le rivelazioni di Lee Ming-che, tornato libero dopo cinque anni di lavori forzati: la polizia di Xi Jinping spiava le mie conversazioni su WeChat, in cella mi hanno vietato di leggere Primo Levi. Lee Ming-che, 47 anni, è uno dei simboli della lotta per la libertà di Taiwan: attivista politico, ex membro del Partito democratico progressista (il “Dpp”, lo stesso della presidente Tsai Ing-wen), da pochi mesi ha finito di scontare cinque anni di carcere duro in Cina, dove fu catturato nel 2017 e poi condannato per “incitamento alla sovversione del potere statale”. Un caso clamoroso il suo, che aveva sollevato campagne internazionali per la liberazione e inasprito ulteriormente le relazioni tra Taiwan e la Repubblica popolare. Ming-che oggi è libero, vive nella sua Taipei ed è tra i pochi che possano testimoniare di persona non solo quanto sia pervasivo l’apparato di controllo cinese; ma anche come funzioni, da dentro, il sistema di detenzione riservato dal partito comunista ai dissidenti politici. È qui che il Corriere lo ha incontrato. Sandali ai piedi, giubbino nero, Ming-che per prima cosa ci mostra sullo smartphone il video del discorso alla Camera di Giorgia Meloni, quello in cui la premier difende energicamente la scelta di fornire armi all’Ucraina. È sottotitolato in cinese. “Qui è diventato virale (com’era successo anche a Kyev, ndr) - ci dice. Non condivido quello che la vostra premier pensa dei gay, ma le sue parole ci hanno entusiasmati. Noi ci sentiamo legati alle sorti dell’Ucraina: Russia e Cina hanno un accordo comune contro il mondo libero”. Lei perché venne catturato? “Aiutavo i detenuti politici con donazioni di denaro. Mi arrestarono un giorno che entrai in Cina per un viaggio personale: fui bendato, infilato in auto e portato in un posto ignoto”. Si è fatto un’idea di come l’avessero spiata? “Le autorità cinesi erano entrate nel mio computer attraverso il sistema di messaggistica WeChat. Avevano le mie conversazioni. L’ho saputo durante il processo”. WeChat è un programma cinese, come TikTok. Fanno bene alcune istituzioni occidentali a vietarne l’uso? “Non ho prove che TikTok sia stato progettato per spiare gli stranieri, ma la legge cinese prevede che tutti i social siano obbligati a fornire informazioni per motivi di sicurezza nazionale”. Torniamo al processo: le estorsero una confessione... “Prima della condanna ai lavori forzati, mi tennero per due mesi in sorveglianza domiciliare in una località segreta, senza poter parlare con nessuno. È un modo per distruggerti mentalmente. Il processo fu pubblico, un caso senza precedenti. Per i criminali politici in Cina non succede mai. È stato perché sono taiwanese e perché mia moglie lanciò una grande mobilitazione”. Quale fu il trattamento? “Mi misero in una cella di 20 metri quadrati con sedici persone, mischiato ai criminali comuni. Tredici ore al giorno di lavori forzati e solo due colloqui con la famiglia in 5 anni, sempre sorvegliati. Gli agenti erano cortesi, mi compativano. Pensavano: come può credere di sfidare la Cina?”. Che lavori faceva? “Manifattura di guanti o scarpe. Che poi vengono spediti in Canada o negli Usa. L’azienda americana fa l’ordine alla fabbrica cinese e questa lo gira alle carceri. Non so quanto ne sappiano gli Stati Uniti. Ma c’era un detenuto politico che era in prigione con me: ora sta facendo causa a una società americana”. Per i detenuti politici, oltre ai lavori, cosa è previsto? “La chiamano educazione all’ideologia e alla politica. All’inizio erano trenta minuti al giorno, poi sono diventate due ore. La maggior parte riguarda il pensiero e l’ideologia di Mao. Poi si parla di come l’Occidente stia sfruttando la Cina e lo si critica molto. Anche se c’è un’eccezione e riguarda proprio l’Italia”. Ovvero? “Ai detenuti politici si dice espressamente che il vostro Paese è quello che deve essere criticato di meno, perché ha sottoscritto la Belt and Road Initiative, cioè gli accordi commerciali per la Nuova via della seta (sottoscritti dal governo gialloverde nel 2019 e fortemente criticati dagli americani, ndr). Ne parlano come di un successo. Dicono che la Cina così aiuta i paesi più deboli che a causa della democrazia devono affrontare caos e povertà”. In carcere leggeva? “Quello che mi permettevano. Ho letto La fattoria degli animali e 1984, prima che li vietassero, nel 2022. I libri me li ispezionavano. Ho una lunga lista di testi censurati”. Quali? “Deridda, Camus, Améry. E tutto Primo Levi. Ho qui l’elenco di quelli che non mi hanno fatto passare”. E a questo punto Lee Ming-che controlla la mail e ci inoltra il documento ufficiale con la lista dei libri censurati: di Levi ci sono ben 9 libri, tra cui “La tregua” e “Sommersi e salvati”) L’allora speaker della Camera Nancy Pelosi, durante la sua contestata visita a Taipei dello scorso agosto, volle incontrarla. Cosa le disse? “Che il mondo deve aiutare Taiwan a rivelare le bugie della Cina. Loro sostengono che la democrazia non si adatti ai cinesi, ma non è vero. Taiwan ne è l’esempio”.