Ergastolo ostativo e 41bis, nel frullatore di Report di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 5 aprile 2023 Informazione. Di fronte alla complessità di un’istituzione come il carcere, al dolore delle storie recluse, a questioni che richiederebbero analisi piuttosto che sentenze, ci vorrebbe cautela. Di fronte alla complessità di un’istituzione come il carcere, al dolore delle storie recluse, a questioni che richiederebbero analisi piuttosto che sentenze, ci vorrebbe cautela. Quella cautela in poenam di cui ha scritto e parlato papa Francesco a proposito dell’uso della galera. Lo scorso lunedì è andata in onda una puntata di Report che trattava di regime 41 bis, di trame nere nelle carceri, di ergastolo ostativo e varie altre cose. Lo spettatore ignaro dei fatti, del diritto, della storia penitenziaria e criminale del paese ne esce sconvolto: sembra, ripeto sembra, a seguito di una ricostruzione palesemente allusiva, che i giudici della Corte di Strasburgo sui diritti umani, i professori di svariate università italiane, i magistrati di sorveglianza (questi ultimi in quanto incompetenti), la ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, siano tutti più o meno manovrati, taluni inconsapevolmente, dalla mafia. Una tesi che ha dell’incredibile. Non c’è lo spazio per smontare e confutare buona parte delle cose dette o evocate nel servizio. Mi soffermo su una delle questioni sollevate: l’ergastolo ostativo. Invito i lettori di questo articolo a guardare la parte del servizio di Report sul caso di Marcello Viola. La tesi preconfezionata è la seguente. I giudici di Strasburgo, in quanto colpevolmente ignari di cosa è la mafia, con la complicità di governi silenti (e dunque forse collusi), senza sentire gli investigatori, avrebbero costretto il legislatore italiano a togliere di mezzo l’ergastolo ostativo (ossia senza speranza di uscita salvo che per i pentiti) tanto voluto da Falcone. Nella trasmissione non si dice che la Corte europea dei diritti umani si era già espressa in un caso analogo (che non riguardava l’Italia), e che ha sollevato un tema con ancora più nettezza oggetto di una sentenza recente della Corte Costituzionale italiana (e non francese). Nella trasmissione non si cita l’articolo 27 della Costituzione che affida alle pene una finalità rieducativa. Nella trasmissione nessuno ha ricordato che non tutti possono pentirsi e così guadagnarsi la libertà: c’è chi ha poco da dire e chi può avere paura delle ritorsioni. Nella trasmissione è stato ridicolizzato il diritto al silenzio. Esso è invece un diritto processuale fondamentale. Essere silenti non significa necessariamente essere omertosi: può significare essere, ad esempio, terrorizzati dal rischio che vengano ammazzati figli, fratelli, mogli. Nella tesi di Report sembra che i giudici di Strasburgo, superficiali e poco affini a una logica di polizia investigativa, abbiano fatto un favore a chi aveva scritto il famoso papiello. E lo abbiano fatto al pari di quei professori e di quelle università che provano a costruire un modello di detenzione dove all’ozio forzato si contrapponga lo studio. Studiare, cari amici di Report, fa bene alla sicurezza collettiva. È il più grande fattore anti-recidivante in quanto emancipa dalla cultura della illegalità. Infine Report tratta i giudici di sorveglianza al pari di ignari notai che potrebbero far uscire i mafiosi dal carcere senza troppe indagini e sulla base di qualche esame universitario sostenuto. Dunque, quale è il danno politico e culturale prodotto dalla trasmissione? Dopo che per anni le destre sovraniste hanno, in giro per l’Europa, attaccato le ingerenze dei giudici di Strasburgo, anche Report ha provato a dare il suo contributo alla delegittimazione della Corte europea dei diritti umani. Non è sufficiente per fare un’informazione equilibrata e formare in modo critico l’opinione pubblica inseguire fisicamente le persone per dimostrare la loro connivenza o reticenza. Questa è un’informazione che si trasforma in processo sommario fondato sulla cultura del sospetto. Temi come quelli del 41 bis, dell’ergastolo ostativo, delle condizioni di detenzione vanno maneggiati con grande cautela. Questa deve essere la missione del giurista e questa dovrebbe essere la missione del giornalista. Report nega l’articolo 27 della Costituzione di Umberto Baccolo* Il Riformista, 5 aprile 2023 Dallo studio universitario nelle carceri alle cooperative che si occupano di reinserimento dei detenuti: ciò che è trionfo dello Stato di diritto viene mostrato come qualcosa di losco. Lunedì sera la Rai ha trasmesso una puntata di Report su carcere, 41bis e reinserimento nella quale Nessuno tocchi Caino è stata tirata in mezzo, in particolare nelle figure dei nostri storici collaboratori ex detenuti Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, spingendo il livello di disinformazione e menzogna ad un livello tale da rendere necessaria una nostra risposta come associazione che da 30 anni si batte a livello internazionale in modo nonviolento contro la pena di morte e la morte per pena. Diverse affermazioni di Report e la tesi di fondo che emerge vanno nella direzione della completa negazione dell’articolo 27 della Costituzione. La prima parte del servizio è dedicata alla difesa dell’istituto del 41bis e porta avanti una narrazione secondo la quale chi come noi e la Cedu sostiene che questo regime carcerario sia inumano e degradante, una forma di tortura che fa a pugni con la Costituzione, faccia il gioco della mafia, con il solito riferimento al papello di Riina del quale mai è stata dimostrata l’esistenza. Ma si spinge oltre: si scandalizza che i detenuti al 41bis abbiano la possibilità di studiare e laurearsi in carcere, lamentandosi dei voti alti da loro presi, facendo intendere che siano frutto di favoritismi di origine criminale. Chi conosce la realtà carceraria sa invece bene che i voti alti sono frutto del fatto che per un detenuto al 41bis l’unico modo di passare il tempo sia quello di studiare, non potendo svolgere nessun altro tipo di attività, come che essi non hanno favoritismi ma pregiudizi da affrontare. Lo studio poi è l’unico modo che hanno per cambiare, reinserirsi socialmente: andrebbe valorizzato non stigmatizzato. Report attacca poi l’intera categoria degli avvocati che difendono i mafiosi, facendoli passare per probabili collusi e lamentandosi che gli incontri tra loro e i clienti siano coperti dalla privacy. Nella seconda parte del programma Ranucci inizia ad attaccare, non denunciando reati, ma in modo ideologico, le cooperative e le associazioni che nelle carceri si occupano di reinserimento dei detenuti rendendo viva la Costituzione con la loro azione. Invece Report fa sembrare vergognoso che i detenuti che grazie a queste realtà lavorano e fanno un percorso abbiano accesso agli strumenti previsti dalla legge come la liberazione anticipata. Quello che è un successo dello Stato di Diritto e il trionfo della Costituzione viene mostrato come qualcosa di losco, frutto di patti scellerati dietro le quinte. Considerano sconvolgente qualcosa di normale e bello, cioè che alcune di queste cooperative siano fondate in carcere da detenuti e da loro gestite, che abbiano un buon fatturato per il loro lavoro onesto e che riescano a far ottenere i benefici ad altri detenuti. Soprattutto si attacca una cooperativa dal lavoro meritevole solo perché diretta da Luigi Ciavardini, ex Nar, mostrando i suoi successi come qualcosa di losco. Quando ai tempi di Mafia Capitale questa Cooperativa fu fatta passare al microscopio e tutto risultò in regola. Non manca l’attacco gratuito a Totò Cuffaro, citando vicende che la magistratura ha già archiviato. Si arriva a dire che le Cooperative di questo tipo sono in grado di far scarcerare chi vogliono, cosa falsa in quanto la decisione dipende dal Tribunale di Sorveglianza e solo quando questo ritiene che la persona possa essere reinserita grazie al suo percorso essa deve trovare una Cooperativa che le dia lavoro per poter avere accesso ai benefici. Se per il Tribunale non sei pronto, nessuna offerta di lavoro può tirarti fuori. In questo calderone si infila anche l’attacco a Nessuno tocchi Caino: non si dice nulla della nostra storia e dei nostri meriti, della moratoria universale della pena di morte ottenuta grazie al nostro lavoro, dell’impegno costante per la difesa dello Stato di Diritto e della Costituzione, della nostra collaborazione trasversale con il mondo istituzionale, politico, della magistratura in miriadi di progetti, della nonviolenza; si ricorda solo che il nostro Segretario è un ex detenuto per vecchissimi fatti di lotta armata rossa, senza dire che non ha reati di sangue, della dissociazione, riabilitazione, del percorso fatto. Soprattutto sono presi di mira Mambro e Fioravanti, con un attacco violento alla loro privacy (mostrata anche casa loro - cosa che potrebbe essere violazione grave - e la loro figlia adolescente) e con bugie che possono essere solo in malafede vista la facilità di verificare le cose per un giornalista d’inchiesta. Si dice che Mambro e Fioravanti e Ciavardini devono versare un risarcimento di un miliardo di euro ai familiari delle vittime di Bologna. Falso. Il risarcimento riguarda solo Mambro e Fioravanti, è di due miliardi e mezzo e di questi solo 200 milioni sono da dividersi tra i familiari, il resto è per lo Stato Italiano per il danno d’immagine internazionale. Si dice che loro non hanno mai versato un centesimo anche se hanno da noi uno stipendio. Falsissimo. Ci vuole un secondo a verificare che Mambro e Fioravanti da anni hanno i conti bancari sotto sequestro e ogni mese gli è pignorato un quinto del loro già basso stipendio. Quindi, come la legge vuole, nei limiti delle loro possibilità stanno mensilmente pagando il loro debito. Ciavardini no perché non lo ha. Si stigmatizza il fatto che la casa di proprietà sia stata intestata alla figlia che ai tempi aveva un anno, chiedendosi se quei soldi vengono da Gelli o da dove. Facile verificare che il nonno di Arianna, persona benestante, prima di morire come molti nonni comprò casa alla nipotina nata da poco e la regalò a lei per poterci vivere coi genitori nullatenenti appena usciti di carcere che altrimenti sarebbero finiti per strada. Poi ricomincia a presentare attività meritevoli come losche, raccontando che Mambro era stimata da garanti di sinistra e che si impegnava con il loro aiuto per far trovare a altri detenuti lavoro esterno e aiutarli ad avere accesso alle misure. Cosa sacrosanta e normale che Nessuno tocchi Caino e le altre realtà che si occupano di carcere fanno da sempre. Però siccome sono detenuti di destra, Report, il cui vero scopo è attaccare il governo, la mostra come una cosa illecita. Noi lo troviamo inaccettabile e continueremo ad aiutare i detenuti a reinserirsi socialmente e diventare buoni cittadini, siano essi di destra o di sinistra o ex mafiosi, così come a batterci per il rispetto dei diritti umani fondamentali dei quali il 41bis e l’ergastolo ostativo sono la negazione. Non solo per Cospito: anche per mafiosi e fascisti. *Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino 41 bis e minori, oggi la Consulta decide se innalzare a 14 anni i colloqui senza vetro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 aprile 2023 I giudici decideranno sui colloqui senza contatti fisici con figli maggiori di 12 anni. Sollevata dal magistrato di sorveglianza la legittimità per bilanciare le esigenze di sicurezza con i diritti del minore. Oggi c’è attesa per la decisione su una delle misure afflittive del 41 bis, in particolar modo sul divieto di colloqui con contatti fisici con figli di età superiore ai 12 anni. La legge prevede che per i figli o nipoti dei detenuti al 41 bis, appena raggiungono i 12 anni di età, scatta l’obbligo dei colloqui con il vetro divisore. Ed è questo il punto critico sollevato alla Consulta dall’ordinanza del magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi, scaturita a seguito del reclamo avanzato dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila per quanto riguarda un detenuto al 41 bis presso il penitenziario di Terni. Per i colloqui visivi con i figli minori - in seguito alla legge del 2009 voluta dal governo Berlusconi che ha inasprito le misure - la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva disposto che “i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio, in sale colloquio munite di impianti di videoregistrazione (con ovvia esclusione del sonoro) e che, nel caso di colloqui con più persone, il colloquio senza vetro divisorio sarà limitato ai soli figli minori di anni 12, e non ecceda della durata complessiva del colloquio”. A 12 anni, dunque, il figlio risulta “adulto” e il colloquio deve essere effettuato tramite vetro divisorio. Prima della legge del 2009 che inasprì il regime speciale, la restrizione era diversa: c’era la possibilità di effettuare una parte del colloquio visivo con i figli minori di anni 16 senza il vetro divisorio, per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. L’ordinanza che solleva la questione costituzionale, non propone l’innalzamento che vigeva prima del 2009, ma di elevare la soglia a 14 anni. Tale parametro viene ricavato da molteplici motivi, partendo principalmente dagli articoli 31 e 117 della Costituzione e quello della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, “per indirizzare - si legge nell’ordinanza del magistrato Gianfilippi - correttamente un giudizio di bilanciamento tra esigenze di sicurezza, massime per come detto, e diritti in gioco, una valutazione anche concernente il superiore interesse del fanciullo e dell’adolescente”. L’ordinanza osserva che tale principio fondamentale, come noto, deve orientare il legislatore prima, e l’interprete poi, nel segno di una netta prevalenza dei diritti del minore sulle altre esigenze confliggenti, che già varie volte ha indotto la Corte Costituzionale a intervenire, ad esempio in materia penitenziaria, per rimuovere automatismi che ne impedivano il pieno esplicarsi in funzione della speciale pericolosità sociale dei genitori dei minori coinvolti. L’ordinanza, quindi, sottolinea che il momento del colloquio visivo appare “come l’unico in cui il rapporto con il genitore può esplicarsi, se la persona e detenuta, e tanto più se lo è in regime differenziato, situazione nella quale nello stesso mese in cui si svolge un colloquio visivo non è poi possibile accedere neppure a momenti di dialogo telefonico, e comunque lo stesso tempo del colloquio visivo e limitato alla durata massima di un’ora”. Viene, dunque, rilevato, che in questo contesto, quando il minore e infante o ancora nelle fasi dello sviluppo, il rapporto fisico con il genitore “acquista un ruolo anche intuitivamente centrale, non sostituibile da un dialogo che può non essere neppure possibile, con l’ostacolo del vetro, o comunque rivelarsi inefficace a sviluppare un rapporto umano già tanto compromesso dalla condizione detentiva”. Come mai, quindi, alzare la soglia a 14 anni? Diversi sono i parametri di riferimento che rendono, questa età, una linea di demarcazione. Il magistrato di sorveglianza ne elenca diversi. D’altronde non è un caso che, nel contesto penale, quell’età costituisca la soglia dell’imputabilità. Così come, e non appare in questo ambito di secondaria importanza, che quell’età coincide con la conclusione del ciclo di scuola secondaria inferiore. “Appare dunque più immediatamente comprensibile anche per il minore che il passaggio alla scuola superiore, e a una certa nozione di adolescenza piena, coincida con quello in cui si è trattati come gli adulti e, perciò, non si possa più spendere del tempo senza vetro con il genitore o il nonno detenuti”, viene sottolineato nell’ordinanza. Il quattordicesimo anno di età - rispetto ai 12 anni - si tratta dunque di una soglia più facilmente ostensibile, anche nel caso della compresenza di più figli o nipoti, come nel caso in questione sollevato. Questi due anni in più, dunque, da un lato rispondono a una ratio già esplicitata dal legislatore penitenziario con la disposizione introdotta nell’art. 18 della riforma (indicando che una particolare cura deve essere dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici), ma dall’altro sono particolarmente utili a rendere maggiormente comprensibile il passaggio, comunque traumatico, in cui cessano i colloqui visivi con contatto fisico, spingendo in avanti il momento in cui si impone al minore questo sforzo, davvero arduo, di accettazione della regola. “L’età più adulta - osserva il magistrato nell’ordinanza - può in tal modo rendere meno drammatico il rischio, che altrimenti si corre, che sia il minore stesso, non abbastanza maturo per comprendere pienamente le ragioni del divieto, a percepirsi come causa dell’esclusione subita, con effetto potenzialmente assai negativo e certamente contrario al suo interesse cui occorre invece dare sempre priorità”. Il tema dei vetri divisori che nega l’affettività tra il detenuto e figli minorenni, ha una sua complessità. L’esigenza della sicurezza è di vitale importanza, ma come ogni situazione deve essere garantito un bilanciamento con la dignità umana. Se a questo si aggiungono le condizioni materiali degradanti, diventa una misura dura che sulla carta non dovrebbe esserci. Nel recente rapporto del Garante Nazionale sul 41 bis, si sottolinea che l’impossibilità di qualsiasi contatto con i propri affetti incide, nello svolgersi degli anni, sul benessere psico- fisico della persona soggetta a tale restrizione. Così come incide la stretta limitazione delle persone ammesse ai colloqui - con esclusione di coloro che non sono parenti in linea diretta - adottata senza alcuna possibilità di temperamento sulla base delle singole realtà affettive e parentali. Sono temi - sottolinea il rapporto del Garante che aprono alla discussione delle complessive regole previste dalle interpretazioni delle norme attraverso la circolare e gli ordini di servizio. Ciò che, tuttavia, colpisce particolarmente, proprio perché esula da tale ambito normativo complessivo, è l’incapacità, dopo molti anni e in un buon numero degli Istituti che ospitano tali sezioni, di realizzare un allestimento di ambienti per i colloqui, che, pur controllati e attrezzati per garantire la richiesta sicurezza, non si svolgano in spazi angusti, non diano la sensazione di assoluta distanza, non siano respingenti di fatto soprattutto per i minori che si recano a visitare il proprio genitore. “Su questi aspetti del tutto ‘ aggiuntivi’ e sostanzialmente meramente afflittivi occorre intervenire”, chiosa il Garante nazionale. La pena di Francesco di Rita Bernardini* vita.it, 5 aprile 2023 Uno dei primi atti di governo di Francesco fu l’abolizione dell’ergastolo in Vaticano. Lo fece nel luglio 2013, pochi mesi dopo esser stato eletto. Un messaggio anche per l’Italia: la nostra Costituzione dice che “le pene” non possono essere contrarie al senso di umanità. Se penso a questo decennale di pontificato di papa Francesco non posso che partire dalla parola “pena”, quella dell’ergastolo, che lui volle abolire per la Città del Vaticano, nel luglio 2013, pochi mesi dopo esser stato eletto. Un messaggio anche per l’Italia. Anche la nostra Costituzione, all’articolo 27, parla di pena, seppure al plurale. Ricorda che “le pene” non possono essere contrarie al senso di umanità. E d’altra parte le nostre carceri sono definite istituti penitenziari, c’era evidentemente già in chi ha scritto questi testi fondamentali, la volontà di punizione che, nel gergo giuridico, sarebbe “retribuzione”. C’è anche la parte risocializzante, come recita l’articolo 27, quando parla di rieducazione: una parte, come sappiamo, che nella realtà lascia molto a desiderare. Anche nell’immaginario collettivo la pena viene sempre associata al carcere, non si considerano pene le pene alternative, che sono comunque forme di punizione. Non si considera pena la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà. Misure che sono previste dal nostro ordinamento, nel quale sono state rafforzate anche grazie alla riforma Cartabia, la messa alla prova e le pene sostitutive. Sull’ergastolo, di papa Francesco mi ha colpito moltissimo, perché la reputo di altissimo spessore, sia politico sia giuridico, quella lezione magistrale che fece ai giuristi dell’Associazione internazionale di diritto penale, nel 2014. In quell’occasione infatti cominciò a usare espressioni anche molto forti: “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”, disse, e quindi è ipocrita cercare di mascherarla. Oppure, anche rispetto al carcere duro, in quella lectio, parlò dell’isolamento e dei luoghi che causano sofferenze psichiche e fisiche che finiscono per incrementare sensibilmente la tendenza al suicidio. Per me Francesco resta il pontefice che ha lavato i piedi ai detenuti in occasione della messa in Coena Domini. Uno dei massimi gesti di umiltà, lavare i piedi. Cominciò nel carcere minorile di Casal del Marmo, nel 2013, e poi a Rebibbia, a Regina Coeli e ha continuato nelle carceri di Paliano e di Velletri. Pensiamo a tutti quelli che dicono “buttiamo via la chiave” e pensiamo al pontefice che, chinandosi sui piedi di questi uomini, usava l’espressione: “Perché tu e non io?”. Lo diceva sapendo bene che le persone delinquono e a volte delinquono ripetutamente, in genere provenendo dalle parti più disagiate delle periferie delle città, segnate dalla povertà materiale ma anche dalla povertà educativa. Con “Perché tu e non io”, ricorda che molto dipende da dove siamo nati, da che condizioni di vita e di crescita abbiamo avuto. Fatti purtroppo poco raccontati agli italiani, che così diventano giustizialisti. E anche la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha recentemente ricordato di voler essere “garantista nel processo e giustizialista nell’esecuzione penale”, dimostra così d’essere vittima della medesima mancanza di informazione corretta. Non sa, probabilmente, che ci sono intere parti dell’ordinamento penitenziario - la legge n° 354/1975 - che non sono mai state attuate. E sono le parti, dall’articolo 74 in poi, che più corrispondono al dettato costituzionale sulle pene che “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Quelle parti dell’ordinamento che prevedrebbero l’istituzione dei Consigli di aiuto sociale in ogni circondario di Tribunale con la cooperazione, quindi l’azione sinergica e collettiva, del Tribunale di sorveglianza, dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, delle Regioni, delle Province, dei Comuni, delle imprese, delle associazioni, in modo da intervenire nella famiglia del detenuto affinché a fine pena abbia una possibilità che non sia solo quella di tornare a delinquere. Articoli mai attuati. Di Consigli di aiuto sociale c’è n’è solamente uno, a Palermo, istituito non tantissimi anni fa, per l’iniziativa del presidente del Tribunale, Antonio Balsamo, un galantuomo che ascoltandomi protestare a Radio Radicale, decise di metterlo in piedi. *Presidente di Nessuno tocchi Caino Le ombre lunghe della “tortura democratica” del 41-bis di Sara Cariglia pensalibero.it, 5 aprile 2023 Il caso Cospito, il primo anarchico italiano finito nelle maglie infernali del 41-bis, da quasi 150 giorni in sciopero della fame contro l’emerito regime e contro l’ergastolo ostativo, quello che rischia di vedersi applicare, riapre il dibattito sull’annosa e mai risolta questione di ineliminabile trait d’union tra detenuti e organizzazioni criminali esterne e sulle alienanti contraddizioni del sistema carcerario. Sara Cariglia ci conduce in un viaggio nei regni dell’affollata solitudine del 41-bis attraverso due interviste: la prima con Ornella Favero, direttrice della rivista della Casa di reclusione di Padova e presidente della Conferenza Nazionale Volontario Giustizia. L’esperta di pene, con alle spalle vent’anni di galera, “vissuti non da persona detenuta certo”, dopo aver spezzato una lancia a sfavore del mondo a cinque stelle del 41-bis, si cala nei meandri delle sue irriguardose celle. Il secondo intervistato è Carmelo Musumeci, il primo ergastolano ostativo libero della storia di Italia. Le ombre lunghe della “tortura democratica” del 41-bis - il cosiddetto “carcere duro” - arrivano ancora più lontano e s’adagiano trepide sul manto lugubre della irrevocabilità. Anche a fronte del giustizialismo selvaggio paventato da Alfredo Cospito, il primo anarchico italiano finito nelle maglie infernali del 41-bis. II caso dell’illustre anarco-insurrezionalista, da quasi 150 giorni in sciopero della fame contro l’emerito regime e contro l’ergastolo ostativo, quello che rischia di vedersi applicare, riapre il dibattito sull’annosa e mai risolta questione di ineliminabile trait d’union tra detenuti e associazioni criminali esterne e sulle contraddizioni del sistema carcerario. In effetti, le prigioni italiane, come racconta a Pensa Libero Ornella Favero, direttrice di “Ristretti Orizzonti”, la prima rivista in Italia cui il mondo della detenzione fa riferimento, sono fatte anche da pezzetti di purgatorio piantati in terra: “Un paese civile non dovrebbe parlare di 41-bis perché Cospito sta morendo di fame in carcere, ma interrogarsi sul perché a distanza di trent’anni dalle stragi di mafia continui ancora a esistere un regime che risponda a una emergenza che non è più quella di oggi. Tra l’altro mi risulta che l’Italia sia tra i Paesi europei col più basso tasso di omicidi”. Un intervento tutto da leggere, quello di Favero sul regime più truce delle patrie galere europee: “Io non sono così sicura che la lotta alla mafia si debba fare infierendo su quegli oltre 700 detenuti al 41-bis, alcuni addirittura da 23 anni, o che dal 41-bis sono passati a nuovi ghetti, i circuiti di Alta Sicurezza e poi sulle loro famiglie e sui loro figli perché, così facendo, non si uscirà mai da quella pericolosa sub-cultura per cui le Istituzioni sono il nemico”. La giornalista, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, con alle spalle venticinque anni di galera, “vissuti non certo da persona detenuta”, rende noto il volto sfacciatamente dispotico del regime detentivo speciale: “La circolare che regola il 41-bis conta più di 50 pagine. È ossessiva. Regola perfino il numero di fotografie che i reclusi possono tenere in cella. Ma ogni essere umano, diceva un mio detenuto, è degno di essere trattato come una persona e “non un reato che cammina”; invece, il 41-bis, è un ghetto, anche quando è gestito in modo non rigido”. La voce che arriva dal penitenziario “Due Palazzi” di Padova, dopo aver spezzato una lancia a sfavore del mondo a cinque stelle del 41-bis, si cala nei meandri delle sue irriguardose celle. Dice: “Esiste anche l’”area riservata” del 41-bis, un regime di isolamento pressoché totale, a tal punto che l’Amministrazione, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi per ogni detenuto isolato una dama di compagnia, il cui ruolo suona come una volgare e ridicola beffa”. Quanto invece alla sorte dell’ergastolo? “Ci crediamo buoni”, conclude Favero, “perché abbiamo abolito la pena di morte ma non fingiamo di vedere che il carcere del “fine pena: Anno 9999” è più disumano della morte, proprio perché si sconta da vivi”. E, tra i vivi, fa capolino il nome di Carmelo Musumeci, 67 anni, primo ergastolano ostativo libero della storia, con a curriculum tre lauree, 27 anni di galera, di cui 5 in regime di 41-bis. La battaglia dell’ex boss della Versilia, condannato all’ergastolo ostativo per omicidio e appartenenza a una organizzazione criminale, è anzitutto contro l’ergastolo “a vita”. “A me sembra che la conseguenza della “non collaborazione” sia una pena troppo alta e sproporzionata”, dichiara tranchant. “Cioè, togliere i benefici ai non collaboratori mi sembra una pena enorme perché la “non collaborazione” non è un reato. Al limite si potrebbe dire: “se non collabori dovrai fare qualche anno in più” ma è inumano dire: “se non collabori non uscirai mai”“. L’ex-fuorilegge mette alla gogna anche il 41-bis: “Si afferma che il “carcere duro” non è afflittivo, ma necessario perché ha solo lo scopo di interrompere i legami dei detenuti con il mondo esterno e interno all’istituto di pena. I colloqui però si tengono attraverso un divisorio di vetro, sotto il controllo di un agente di polizia penitenziaria e sono videoregistrati, quindi le eventuali gesta, pizzini o altro, verrebbero, in tempo reale, riprese della polizia penitenziaria e portate a conoscenza all’autorità giudiziaria”. L’uomo dal coté ribelle, un tempo conosciuto come la Belva della cella 154, incalza ora una serie di domande: “Perché allora al detenuto non viene data la possibilità di abbracciare gli anziani genitori che lo hanno messo al mondo? E questa tortura affettiva è necessaria per sconfiggere la mafia o serve per creare collaboratori di giustizia? “Ti torturo un po’ tutti i giorni e tutte le notti ma se parli esci, altrimenti stai dentro”, insomma come nel Medioevo”. Musumeci non si ferma. Anzi, aggiunge altra carne al fuoco: “Forse a breve termine il regime di tortura del 41-bis ha portato allo Stato qualche vantaggio, ma a che prezzo? Al prezzo di aver rafforzato la cultura mafiosa, perché ha creato odio, rancore e devianza anche nei familiari dei detenuti? Sì, perché parliamo di un regime che non chiede di cambiare ma, al contrario, fa diventare più criminali di quello che si era, consiglia di usare la giustizia per uscire dal carcere, di fare i delatori e di mettere in pericolo i propri cari”. A questo punto, il reo redento, duro e sicuro della sua protesta, la arringa senza pietà: “Penso che sia difficile smettere di essere mafiosi quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure per quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni, i tuoi stessi familiari cominciano a vedere lo Stato e le Istituzioni come nemici da odiare e c’è il rischio che i tuoi stessi figli diventino mafiosi in futuro”. Ed infine, le conclusioni: “La lotta alla criminalità organizzata, a mio parere, va portata avanti con cultura, intelligenza, razionalità e soprattutto rispettando la nostra Carta Costituzionale”. Nordio chiede altri sei mesi per la riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 aprile 2023 Con un emendamento al decreto Pnrr, il governo sposta alla fine del 2023 i decreti su Csm e ordinamento giudiziario. Intanto deflagra lo scontro tra il Consiglio superiore e la giustizia amministrative per le nomine dei magistrati. “Rimedieremo prestissimo”, “siamo al lavoro”, “acceleriamo”, “è pronto il cronoprogramma”. Scegliete una qualsiasi di queste dichiarazioni del ministro della Giustizia Nordio degli ultimi mesi e affiancatela alla notizia, arrivata ieri, che il governo si prenderà sei mesi di tempo in più per attuare la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, approvata dal parlamento nel giugno 2022. La riforma è una legge delega e il governo avrebbe dovuto presentare i decreti attuativi entro il 21 giugno prossimo. Ma con un emendamento al decreto Pnrr che arranca al senato ha spostato la scadenza. Dunque la riforma di cui Nordio parla dal giorno del giuramento, intenzionato com’è a “correggere” il lavoro della ministra Cartabia, la riforma per la quale ha istituito anche un “tavolo di lavoro”, vedrà la luce, forse, entro il 31 dicembre. È andata anche bene, la prima idea era di prendersi un intero anno ancora. Ieri in via Arenula si sono riuniti con il ministro i rappresentanti degli avvocati e dei magistrati. Nordio vuole andare incontro alla richiesta dei penalisti e modificare una norma già in vigore della Cartabia che ostacola l’impugnazione delle sentenze. L’Anm ha preso tempo per le sue osservazioni. Ma intanto è tornato di attualità un problema nel funzionamento del Csm che è solo parzialmente affrontato, e certamente non risolto, nella riforma Cartabia. E mai nemmeno citato tra le intenzioni di intervento di Nordio. Si tratta dell’incertezza che pesa sulle nomine del Csm, ormai quasi sempre messe in discussione dalla giustizia amministrativa. Se ieri, a Roma, il Tar Lazio, in primo grado, ha confermato la nomina del pm Colaiocco a procuratore aggiunto della Capitale, a Palermo il presidente del Tribunale Balsamo ha salutato i colleghi dopo che prima il Tar e poi il Consiglio di Stato hanno dato ragione al candidato che il Csm aveva scartato, Morosini. Così Balsamo ha dovuto lasciare la guida della procura, dopo quasi due anni di dirigenza culminati con la cattura di Messina Denaro. Ma il caso più clamoroso è quello della procura di Reggio Calabria che da cinque anni è guidata da Giovanni Bombardieri. Nomina (dell’aprile 2018) confermata dal Tar nel 2021 ma annullata dal Consiglio di Stato l’anno successivo. Ribadita però dal Csm, all’unanimità, nel luglio scorso e definitivamente annullata dal massimo organo di giustizia amministrativa a gennaio di quest’anno. Ieri il Consiglio di Stato ha comunicato l’esito di un’altra sentenza (del 3 aprile) con la quale ordina al Csm di adeguarsi e assegnare l’incarico direttivo al ricorrente, il magistrato di Cassazione Seccia, indicando addirittura nel vicepresidente del Csm Pinelli il “commissario” per dare seguito alla sentenza nel caso il Consiglio non adempia nei prossimi 30 giorni. Un’altra lentezza è invece quella che preoccupa Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Che in una nota ha denunciato l’abitudine del Csm di lasciar passare anche anni prima di esprimersi sulla conferma dei magistrati che hanno incarichi direttivi. Così mantenendo nella funzione persino i dirigenti sui quali gravano procedimenti disciplinari o che hanno valutazioni negative dei consigli giudiziari, “senza la garanzia che possano esercitare il loro ruolo con piena serenità e legittimazione”. “Riscrivete voi la riforma”, Nordio “arruola” penalisti e Anm di Errico Novi Il Dubbio, 5 aprile 2023 Ieri il tavolo a via Arenula con Ucpi e “sindacato” delle toghe. Che proporranno al Guardasigilli un restyling sulle impugnazioni. Si riparte da un dettaglio. Non di poco conto. Unione Camere penali e Anm lavoreranno insieme, su “invito” del guardasigilli Carlo Nordio, per formulare una proposta condivisa sul nodo impugnazioni aperto dalla riforma Cartabia. Ieri, nel corso del previsto summit a via Arenula con avvocatura e magistratura, è stato lo stesso ministro a invitare i due interlocutori, i penalisti guidati da Gian Domenico Caiazza e l’Associazione magistrati rappresentata da Giuseppe Santalucia, a confrontarsi per riscrivere l’ultima legge penale nelle parti contestate dall’Ucpi. Si tratta in particolare delle norme che subordinano l’ammissibilità dell’impugnazione a una espressa rinnovazione, da parte dell’assistito, dell’elezione di domicilio e, in caso di imputato assente in primo grado, al conferimento di un nuovo mandato al legale. Novità che, per l’Unione Camere penali, limitano “gravemente” il diritto a impugnare e colpiscono “in modo particolare i soggetti socialmente più deboli, assistiti dai difensori di ufficio”. Sono aspetti che erano stati segnalati con largo anticipo dallo stesso Cnf quando, nel corso delle audizioni sulla riforma Cartabia, la massima istituzione forense aveva indicato in quei nuovi vincoli un’inaccettabile limitazione, concepita in ossequio a un evidente concezione “deflattiva” del processo penale. Adesso, con l’incontro di ieri, a cui hanno partecipato, con Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto, tutti i massimi dirigenti di vi Arenula, sembra di rivedere la scena della primavera 2019, quando Ucpi e Anm, invitate dall’allora guardasigilli Alfonso Bonafede, proposero una piattaforma comune in vista della riforma penale. Di quella proposta, imperniata su riti alternativi e depenalizzazione, si persero in gran parte le tracce. Che il “tavolo” di ieri a via Arenula possa rinnovare lo spirito costruttivo di quattro anni fa, andrà verificato. Ma il passaggio è interessante, perché i dossier sui quali a breve il mondo forense e quello togato dovrebbero comunque pronunciarsi, quanto meno nelle audizioni in Parlamento, sono molti: dalla prescrizione all’abuso d’ufficio e alle altre misure che Nordio intende compendiare in uno o più ddl da presentare entro giugno. E qui il ventaglio comprende l’inappellabilità delle assoluzioni, l’irrigidimento dei presupposti per le misure cautelari, interventi sui reati commessi da minori. Nordio ieri è stato chiaro: “Sarete chiamati a dire la vostra”, ha assicurato a Caiazza e Santalucia. E il paradigma della concertazione potrebbe essere appunto definito con questo primo round relativo al restyling delle impugnazioni. Sul punto, riferisce sempre la nota Ucpi, il guardasigilli ha “ribadito di condividere le ragioni di urgenza manifestate dai penalisti italiani, apprezzando tuttavia l’importanza di alcune delle obiezioni tecniche rappresentate da Anm”. Il che ha spinto Caiazza a esprimere “vivo apprezzamento per la concreta e immediata disponibilità del ministro a misurarsi con le questioni poste dai penalisti, nell’interesse dei cittadini, alla piena esplicazione del diritto di impugnazione, e per la manifestata condivisione dell’urgenza di una soluzione”. Si procederà così: a breve l’Unione Camere penali, che in queste ore valuta una sospensione dello “sciopero” proclamato dal 19 al 21 aprile, esaminerà le obiezioni dell’Anm, in quello che la nota definisce come un “costruttivo confronto”. Avvocati e magistrati comunicheranno poi al ministro le possibili alternative, “nella speranza di una soluzione condivisa ma comunque indispensabile”. In realtà il lavoro che attende via Arenula, e che reclamerebbe il contributo di avvocati e magistrati, è così fitto da far temere il sovraccarico. Due giorni fa, per esempio, si è iniziato a discutere di assegnazione alle comunità dei detenuti con tossicodipendenze. È la “riforma Nordio- Delmastro”, concepita dal ministro in sintonia col sottosegretario di FdI: all’incontro di Palazzo Chigi hanno partecipato anche il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano e i rappresentanti delle stesse comunità di recupero. I veri nodi da sciogliere riguardano la spinta verso una “tendenziale omogeneità del modo di operare delle Regioni e anche della magistratura di sorveglianza” e la “certificazione delle dipendenze già all’interno del carcere”. Ma un altro fronte delicato e che pure richiederebbe un’ampia concertazione riguarda i decreti attuativi della riforma del Csm. Con un emendamento governativo all’ultimo decreto Pnrr, ora in commissione Bilancio al Senato, si rinvia al 31 dicembre il termine per l’esercizio della delega. Uno slittamento nell’aria da giorni, che non ha mancato di sollecitare critiche da parte del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: “L’incapacità del governo di rispettare i tempi stabiliti dalla legge per la riforma del Csm è un tangibile segno di debolezza della struttura di via Arenula”, ha commento il parlamentare. “Se era prevedibile che un ufficio legislativo composto da magistrati fuori ruolo non si affannasse a scrivere decreti legislativi in cui si riducono i magistrati fuori ruolo, gli incarichi extragiudiziari, si introduce il fascicolo per la valutazione del magistrato e il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, sarebbe stato auspicabile un indirizzo politico netto, che purtroppo è mancato”. Se il bersaglio è in apparenza Nordio, in realtà Costa non nasconde di temere soprattutto che, con i “rinvii”, si riaffaccino i “tentativi di riaprire le porte girevoli magistratura- politica per i vertici dei ministeri”, come ipotizzato, e poi escluso, nel precedente Dl sul Piano nazionale. Di sicuro, dopo qualche settimana di stallo, l’agenda di via Arenula torna a farsi affollatissima. Gatta: “La norma salva-evasori è un’istigazione a non pagare e aspettare i processi” di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2023 Per il professore di diritto penale all’Università Statale di Milano è “preoccupante che i reati tributari non suscitino allarme sociale”. “Un’istigazione a evadere”. Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano, boccia senza appello la norma salva evasori nel decreto bollette. Il vice ministro Leo la presenta come se fosse normale… “Per una volta, dopo i casi dei rave party e degli scafisti, non s’introducono nuovi reati, men che meno ‘universali’, bensì una causa di non punibilità. Il volto severo del legislatore si fa mite solo per i colletti bianchi…”. Ah, lei è critico in partenza... “Registro solo che entra un nuovo reato nel codice penale, da 2 a 5 anni per lesioni lievi o lievissime ai danni del personale sanitario. Nella logica del populismo penale solo i fatti che suscitano allarme sociale, come le aggressioni ai medici, meritano la pena. L’evasione fiscale non è percepita come un allarme. È preoccupante”. Preoccupante o illecito? “Guardi che la causa di non punibilità non riguarda i piccoli evasori, ma reati tributari di una certa gravità, puniti da 6 mesi a 2 anni. L’omesso versamento dell’Iva oltre i 250 mila euro per periodo d’imposta, o da parte del sostituto d’imposta di ritenute dovute o certificate per 150mila euro, o portando a indebita compensazione crediti non spettanti oltre i 50mila euro”. Beh… stanno premiando gli evasori… “Se il contribuente-evasore versa integralmente al fisco quanto dovuto il reato è estinto e lui è prosciolto. È una logica che il sistema conosce da tempo: se ripari l’offesa nelle fasi iniziali del processo lo Stato rinuncia a perseguirti”. Leo non s’è inventato niente? “È così anche per i reati tributari: una norma quasi gemella sta già nel decreto 74 del 2000 e prevede la non punibilità per chi, prima dell’inizio del primo grado, paghi integralmente gli importi dovuti al fisco”. È come se un assassino dopo il primo grado si pente, e va assolto… “Sia chiaro: prevedere condoni fiscali rientra nella discrezionalità politica del legislatore. Però qui ci sono aspetti che lasciano perplessi. Il più evidente è la scelta di estendere la causa di non punibilità ai pagamenti tardivi effettuati dopo la sentenza di primo grado”. Evasore in salvo dopo l’Appello? “Proprio così. È quasi un’istigazione a evadere: se anche si viene scoperti, ci si può difendere fino al primo grado, confidando magari nella prescrizione del reato, e, se proprio va male e si è condannati, si può fare appello, e prima della fine del giudizio accedere al condono”. E c’è pure la rateizzazione… “Proprio così. Oggi il contribuente deve pagare il debito tributario entro tre mesi, anche se a rate. Con questo decreto potrà farlo in tempi molto più lunghi: è evidente la convenienza se di mezzo ci sono milioni di euro. Però trovo assai discutibile e inopportuno estendere la non punibilità fino all’Appello quando lo Stato ha impiegato, inutilmente, mezzi e risorse per accertare fatti e responsabilità”. Ma il Pnrr non chiede il 25% in meno di processi? “Eh già, e lo sanno bene al ministero della Giustizia. Qui il Mef invita gli evasori a fare Appello per contare su tempi più lunghi per pagare il debito. E perché dovrei patteggiare in primo grado se posso contare su una sanatoria in Appello in caso di condanna?”. Sessant’anni di emancipazione femminile in magistratura di Maria Cristina Razzano Il Domani, 5 aprile 2023 L’Associazione magistrati della Corte dei conti ha organizzato un evento per ricordare il 5 aprile 1965, quando presero servizio le prime otto donne in magistratura, promosse al primo concorso pubblico aperto anche a loro. Oggi diamo per scontata la parità di genere, ma è una conquista recente e, purtroppo, c’è ancora tanta strada da fare. Sono, ad esempio, appena 60 anni che è stato consentito l’accesso in magistratura anche alle donne con il concorso del 3 maggio 1963. Fu vinto da otto donne che entrarono in servizio il 5 aprile 1965: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco e Emilia Capelli. Il regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, all’art. 8, n. 1, aveva posto tra i requisiti per l’ammissione alle funzioni giudiziarie “l’essere cittadino italiano, di razza italiana, di sesso maschile, ed iscritto al P.N.F.”. Anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione ci vollero ben 15 anni prima che vedesse la luce la legge n. 66 del 9 febbraio 1963 composta di soli due articoli: Art. 1. La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari. Art. 2. La legge 17 luglio 1919, n. 1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n. 39 ed ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge sono abrogati. C’è da aspettare, invece, il 1971 per avere la prima donna magistrato contabile che è stata Brigida Monte. Da allora, si è passati dallo 0,18% (1971) al 39,17% (2023) di presenza femminile nella magistratura della Corte dei Conti: ancora minoranza ma, di certo, i passi sono stati da gigante. Per ricordare la storia, che non è sempre scontata, e valorizzare l’impegno delle donne in magistratura l’Associazione Magistrati della Corte dei conti ha deciso di istituire il 5 aprile la Giornata delle Donne in Magistratura. Una giornata di riflessione e confronto sul tema della parità di genere che, per la prima volta, quest’anno mette attorno allo stesso tavolo i vertici delle istituzioni giuridiche e l’accademia: Margherita Cassano, Primo Presidente della Corte di cassazione, e Gabriella Luccioli una delle otto vincitrici del primo concorso; Gabriella Palmieri Sandulli, Avvocato Generale dello Stato; Enrica Laterza, già Presidente Aggiunto della Corte dei conti; Antonella Polimeni, Rettrice dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma; Cinthia Pinotti, già Presidente di Sezione della Corte dei conti, Wally Ferrante, prima Presidente dell’Associazione Avvocati e Procuratori dello Stato, Paola Briguori, prima Presidente donna dell’Associazione dei magistrati contabili. Ci saranno anche Guido Carlino, Presidente della Corte dei conti e Tommaso Miele, Presidente Aggiunto della Corte dei conti e Presidente del Comitato Pari opportunità. Chiuderà i lavori Aldo Carosi, già giudice della Corte costituzionale. L’Associazione ha avvertito l’esigenza di dedicare questa giornata alle tappe fondamentali dell’emancipazione femminile che si sono snodate in sessant’anni di donne all’interno della magistratura. Sarà ascoltata la testimonianza di chi ha contribuito in prima persona all’affermazione di questo spazio al femminile, senza scadere nella retorica delle celebrazioni, ma valorizzando l’opera che quotidianamente, con sobrietà e impegno, contraddistingue l’esercizio delle funzioni, da parte delle magistrate. In occasione di tale evento, ogni anno, saranno accesi i riflettori su temi di attualità, aventi risvolti giuridici, sui quali donne magistrato (e non solo) potranno confrontarsi, attingendo direttamente alla propria esperienza lavorativa e civile. Per quest’anno la scelta è caduta sul seguente tema: “La questione femminile in Medioriente - il diritto (negato) allo studio”. L’emancipazione passa attraverso la garanzia di questo diritto fondamentale. Si legge nell’indagine approvata con delibera n. 16/2020/G dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, che “In Italia, manca un disegno organico del sistema di welfare rivolto all’istruzione terziaria, sia per favorire l’accesso agli studi universitari, sia per garantirne l’applicazione in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale attraverso la formulazione dei livelli di prestazione essenziali (c.d. LEP). Fra le criticità rilevate, anche la mancata copertura delle richieste, con l’inaccettabile fenomeno degli “idonei non beneficiari” e la lentezza delle procedure amministrative, dall’accoglimento della domanda all’effettiva erogazione dell’aiuto. La finalità di garantire il diritto allo studio a tutti gli studenti meritevoli anche se privi di mezzi economici è possibile solo incrementando le risorse finanziarie sia statali che regionali” e, sono indicate alcune azioni necessarie: dall’ampliamento delle fasce di reddito degli aventi diritto, a misure di agevolazione (della mobilità, dei canoni di locazione di immobili e dell’assistenza sanitaria gratuita per i fuori sede), dall’avvio di un regime sperimentale che riconosca il reddito di formazione a tutti gli studenti in condizioni particolarmente disagiate, ad una più equa ripartizione della contribuzione studentesca attuata anche attraverso la previsione di una “no tax area”. Iran e Afghanistan - Al tempo stesso, i recenti avvenimenti in Iran e Afghanistan impongono che non si spengano i riflettori su chi lotta per i diritti civili e politici delle donne. Gli avvelenamenti delle studentesse iraniane e il ritorno alla “clausura” per le giovani hanno segnato ancora più nettamente il divario generazionale tra chi nel 1965 e nel vecchio continente, ha avuto la forza di sfidare ogni pregiudizio e avviare un percorso che vede oggi sempre più significativa la presenza delle donne in ogni settore della vita lavorativa, compresa la magistratura, e chi ancora oggi combatte per conquistare diritti fondamentale e “togliere il velo” a ogni ipocrisia. Sarà decisivo ascoltare la voce di Soraya Malek, già principessa d’Afghanistan, attivista per i diritti delle donne afghane, e Rayhane Tabrizi, attivista per i diritti delle donne iraniane. Mani Pulite. La trattativa illegale di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 aprile 2023 Gherardo Colombo choc: “Niente galera se i politici si fossero dimessi”. “L’Ultima Repubblica” è il libro-manoscritto che Enzo Carra ha lasciato all’amico Vincenzo Scotti prima di morire. Nell’introduzione dell’ex pm di Mani Pulite la rivelazione su quella che era la vera strategia dei magistrati milanesi. Gherardo Colombo, l’ex Pm che è stato nei primi anni novanta uno dei cinque grandi protagonisti dell’inchiesta “Mani Pulite” - quella che rase al suolo la prima Repubblica - ha scritto una introduzione al libro di Enzo Carra (uscito postumo in libreria in questi giorni) nella quale ci svela un aspetto finora sconosciuto di quella stagione. Sconosciuto e sconvolgente. Ci dice che nel luglio del 1992, quando le indagini erano ancora alle prime battute, fu suggerito ai politici di confessare i propri delitti e di uscire dalla vita pubblica in cambio dell’impunità. Colombo dice esattamente che se i politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto “a che fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta Stato-Tangentopoli. Ovviamente del tutto illegale. Dal punto di vista del codice penale, se Colombo racconta il vero, il pool commise un reato piuttosto serio. Violò l’articolo 338 che punisce severamente la “minaccia a corpo politico”. Nella sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parta di singoli politici, o di imputati: parla di “politica”, al singolare, cioè si riferisce esattamente del “soggetto collettivo” al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la minaccia del carcere. L’articolo 338 del codice penale prevede pene fino a sette anni di reclusione. Ovviamente i reati sono caduti in prescrizione, però resta la ferita allo Stato. Se davvero la procura di Milano chiese a quella che allora era la classe dirigente, legittimamente eletta, di farsi da parte, minacciando altrimenti l’arresto e il carcere, compì un atto che è difficile non considerare un vero e proprio colpo di Stato. Non in senso metaforico, simbolico: nel senso pieno e letterale della parola. L’accordo non ci fu. La politica si dimostrò migliore della magistratura. Il ricatto non funzionò. E però la Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano - sempre se è vero quello che dice il dottor Colombo - fu comunque portato avanti, con gli arresti sistematici, con l’aggiramento del Gip, con i mandati di cattura a rate, col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni o con nuovi mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi. Ed eliminò dalla scena tutta la classe politica di governo, più o meno come succedeva spesso in America Latina. Naturalmente dal punto di vista strettamente politico, le ammissioni di Colombo non cambiano niente. La prima Repubblica è morta sotto le picconate della procura di Milano e poi di altre procure. Nessuno la risusciterà. La Democrazia Cristiana non esiste più, non esiste più il vecchio e glorioso Partito Socialista, non esiste il Psdi, né il Pri, né il Partito liberale. Però è importante ricostruire quegli avvenimenti. Sapere che almeno una parte della magistratura si mosse violando in modo clamoroso la legalità. Ed è importante accertare come nella storia della repubblica c’è stata una rottura determinata non dal normale svolgimento democratico ma da un Putsch. 17 febbraio 1992 - Il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano ed esponente del Partito socialista italiano. A breve ci sarebbero state le elezioni e il segretario del Psi Bettino Craxi nega l’esistenza di pratiche e condotte fraudolente all’interno del suo partito. 5 e 6 aprile 1992 - L’Italia va al voto. Alta l’astensione, in calo i democristiani, che restano comunque il primo partito, stabile il Psi. La rivelazione è la Lega, partito nascente che accusa il “governo ladro” di Roma. Gli avvisi di garanzia arrivano a Carlo Tognoli e a Paolo Pillitteri, ex sindaco e sindaco in quel momento di Milano, tutti e due socialisti. Il 12 maggio è il turno di Severino Citaristi, tesoriere della Dc. Il 16 maggio viene arrestato il segretario milanese Pds, Roberto Cappellini. L’inchiesta prende ufficialmente il nome di Mani Pulite. 23 maggio 1992 - Strage di Capaci, sono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. 25 maggio 1992 - Oscar Luigi Scalfaro eletto presidente della Repubblica. 28 giugno 1992 - Si insedia il governo Amato I: il 49esimo esecutivo della Repubblica Italiana e primo dell’XI legislatura. 23 agosto 1992 - Craxi comincia su l’Avanti! i corsivi contro Mani Pulite e preannuncia un dossier su Di Pietro. 2 settembre 1992 - Si uccide il parlamentare socialista Sergio Moroni, coinvolto nelle indagini. Uomo vicino a Craxi, prima del suicidio lascia una lettera a Napolitano che la legge in aula. Il segretario del Psi attacca la magistratura e la stampa. Il 15 dicembre Craxi riceve un avviso di garanzia, accusato per la tangente Enimont, che lo porta a dimettersi l’11 febbraio 1993. 5 marzo 1993 - Palazzo Chigi vara il Decreto Conso che prevede la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Il capo dello Stato Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare e il decreto viene ritirato. 21 aprile 1993 - Il governo Amato si dimette e una settimana dopo nasce l’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, il primo non politico alla guida dell’Italia repubblicana. 29 aprile 1993 - Il Parlamento vota contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Si scatenano proteste in tutta Italia. Rimane nella storia dei linciaggi, il lancio di monetine contro Craxi mentre esce dall’Hotel Raphael di Roma. Una delle pagine più buie. 20 luglio 1993 - Gabriele Cagliari, presidente Eni precedentemente arrestato, si suicida. Tre giorni dopo, venerdì 23, si toglie la vita anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, informato dal suo avvocato dell’avvio delle indagini su di lui. Vengono successivamente arrestati l’ad di Montedison Carlo Sama e il manager Sergio Cusani, consulente finanziario di Gardini accusato di falso in bilancio e di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti. 17 dicembre 1993 - Nell’ambito del processo Cusani si tiene l’interrogatorio pubblico di Bettino Craxi e dell’ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani. 1994 Elezioni politiche - È la prima volta in cui il popolo italiano vota senza il simbolo della Democrazia Cristiana sulla scheda. La stessa tornata elettorale è caratterizzata dalla discesa in politica di Silvio Berlusconi annunciata il 26 gennaio di quell’anno. Mani Pulite. E ora vorremmo sapere a chi i pm proposero quel patto scellerato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 5 aprile 2023 Nessuno sarebbe andato in carcere, a partire dal 1992, se il mondo della Prima Repubblica avesse accettato il ricatto degli uomini di Mani Pulite: resa incondizionata, consegna delle armi e uscita dai processi. La rivelazione sconvolgente di Gherardo Colombo, uno degli uomini che nel luglio del 1992 avrebbero avanzato la proposta ai leader dei partiti di governo di allora, parla oggi di un progetto politico mai realizzato che avrebbe cambiato il corso della storia. Lo avevamo già intuito dalla dichiarazione di Saverio Borrelli, quando, dopo la quarta vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, aveva detto candidamente: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. L’ammissione del fatto che Mani Pulite era stata un’operazione politica e solo politica. Niente moralizzazione, niente obbligo dell’azione penale. Ma oggi Gherardo Colombo non solo conferma, ma aggiunge qualcosa di più drammatico. Un ricatto che equivale a un moto rivoluzionario. Qualcosa di violento e immorale come un push, preparato da toghe anziché da divise militari. Questa sarebbe stata l’attività di Mani Pulite. Tanto che, qualora si fosse arrivati a un accordo, la proposta del 1992 di cui parla Gherardo Colombo avrebbe comportato la rinuncia da parte dei pm all’obbligatorietà dell’azione penale in cambio di una trasformazione della politica nell’esercito dei “pentiti” e il riconoscimento del nuovo assetto di potere, quello giudiziario. La dittatura delle toghe. Sarebbe stata questa dunque la “soluzione politica” per uscire in modo indolore da Tangentopoli, lo “scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo”. Non c’è motivo di dubitare della sincerità di Gherardo Colombo, che sta vivendo il successo della sua terza vita, dopo quella di magistrato garantista di sinistra e poi quella della passione per le manette fino alla scoperta dell’inutilità del carcere. Se quel che dice oggi corrisponde alla realtà dei fatti, vuol dire che c’è stato da parte del pool di Milano un tentativo segreto di avvelenare i pozzi. Cioè che fin da subito, da prima ancora che i leader politici del tempo, il segretario della Dc Arnaldo Forlani e del Psi Bettino Craxi ricevessero un’informazione di garanzia, i pubblici ministeri non avevano a cuore il trionfo della giustizia, ma solo la presa del potere. E proprio perché lo dice una persona molto stimata come Gherardo Colombo, e se la proposta ci fu, vorremmo sapere non solo da chi, ma anche a chi il pactum sceleris fu avanzato. Perché tutti gli accadimenti di quell’anno sono stati distillati e centellinati in ogni angolatura, in ogni sospiro, per trent’anni in libri e giornali. E ripensandoci, e con angoscia, vien da dubitare che se l’accordo non ci fu è solo perché provvidero gli uomini di Totò Riina a portare altrove l’attenzione del mondo politico. Così l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo precede di appena un mese le elezioni politiche del 5 aprile che segneranno il primo segnale politico dell’influsso di tangentopoli sul pentapartito di governo. E poi tutto quel che seguì, con le dimissioni del Presidente Cossiga e subito dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. E poi in sequenza la prima informazione di garanzia al tesoriere della Dc Severino Citaristi e la sorte di Bettino Craxi con la sua invettiva in Parlamento mentre si votava la fiducia a un governo che non sarà presieduto da lui perché nel frattempo la sua immagine dalle parti del palazzo di giustizia di Milano non era del tutto cristallina. Da una parte c’erano le bombe di Cosa Nostra, dall’altra i siluri di Mani Pulite. Questo era il 1992. Con Scalfaro alla Presidenza della repubblica al posto di Cossiga, due giorni dopo la strage di Capaci, e anche questo fu un cambiamento storico, e non certo positivo. Mentre a commento dei primi tre suicidi di Tangentopoli il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio diceva “A volte si muore anche di vergogna”. Ma il patto, almeno in quell’anno, non ci fu. E loro andavano avanti. E ci vorrebbe una sorta di grande Csm della storia per sentire da Gherardo Colombo come andarono i fatti e quali fossero le loro intenzioni. Per esempio, la domanda pare legittima: volevano solo un ricambio di classe politica, mandando semplicemente un D’Alema al governo (cosa poi accaduta negli anni successivi), come pensano alcuni, o volevano invece fare loro direttamente le valigie e prendere l’aereo per Palazzo Chigi? Non l’aveva del resto detto lo stesso procuratore Borrelli “se il Presidente ci chiama” siamo a disposizione? Ma questo della resa della politica, della consegna delle armi, resterà sempre un tarlo nella mente del gruppo dei magistrati coraggiosi. Lo dimostra tutto il loro modo di procedere, lo sprezzo con cui trattavano i politici negli interrogatori, le minacce, il tono ricattatorio, l’uso del carcere preventivo. Orpelli non indispensabili nelle normali procedure della giustizia. Importanti invece nel clima di vera guerra che il Pool aveva dichiarato. I primi ad arrendersi furono comunque gli imprenditori. Non solo Romiti e De Benedetti, che evitarono il carcere con trattative condotte nei principali studi legali italiani, che diedero ai magistrati niente di più che piccole mance, una paginetta di modeste ammissioni di colpevolezza in cambio dell’impunità. Ma anche gli altri, quanto meno a partire dal 1993, quando il Presidente di Assolombarda Ennio Presutti indisse l’assemblea generale degli industriali, con la presenza dei Moratti, dei Pirelli e i Tronchetti Provera ma anche dei tanti Brambilla esasperati, e disse “Occorre chiudere con tangentopoli” e infine “Dobbiamo rassegnarci”, e fu l’inizio della resa. Anche il mondo della politica ci provò. Ma l’interlocutore - era ormai nato il circo mediatico giudiziario - pareva insaziabile, assetato del sangue di partiti ormai in ginocchio. Due ministri per bene come Giovanni Conso e Alfredo Biondi furono uno dopo l’altro messi alla berlina come delinquenti. E intanto gli uomini del pool, quelli che contavano davvero, mandavano avanti un Tonino Di Pietro tutto elegante in abito fumo di Londra e cravatta berlusconiana a piccoli pois, a presentare una vera proposta di legge in quella cornice da “liberté égalité jet privé” che è sempre stato l’incontro promosso ogni anno dallo Studio Ambrosetti a Cernobbio sul lago di Como. Era la solita proposta capestro per umiliare la politica e l’imprenditore Berlusconi - si era ormai nel 1994 - l’unico del mondo industriale a non essersi mai piegato, mentre la Confindustria di Luigi Abete aveva dato subito il proprio consenso. Il ceto politico seppe allora ribellarsi, il mondo era cambiato e nessuno, compreso il Presidente Scalfaro, accettò quello stravolgimento della Costituzione che si sarebbe avverato se l’ordine giudiziario si fosse impadronito del potere legislativo. Velenoso fu in quei giorni il pm Gherardo Colombo, mentre molti politici avevano accusato la proposta dei magistrati di voler creare un mondo di “pentiti”. “Non vorrei - aveva sibilato - che chiamare delatore chi fa il suo dovere svelando la corruzione sottintendesse la convinzione che rubare ai cittadini non è così grave”. Ipse dixit. Ieri come oggi. Messina. L’odio social contro il detenuto suicida è “giustizialismo ignorante” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2023, 5 aprile 2023 È stata aperta un’inchiesta sul suicidio in carcere a Gazzi del 24enne tunisino Aymen Dahech, che si è tolto la vita qualche ora dopo l’interrogatorio di garanzia davanti al gip, una volta tornato in cella. Secondo una prima ricostruzione si sarebbe ammazzato impiccandosi. Gli agenti penitenziari che sono intervenuti subito dopo la tragedia avrebbero trovato un biglietto scritto dal ragazzo e rivolto alla madre, in cui le chiede scusa del gesto estremo. Il ragazzo, insieme ad altri, era stato denunciato per aggressione, sequestro e rapina di un telefonino. Come racconta l’Eco del Sud “sui social si sono scatenati con commenti che hanno oltrepassato i limiti della decenza” nei confronti del ragazzo suicida. Da qui, la nota del Presidente della Camera Penale di Messina, avvocato Candido Bonaventura, in cui manifesta piena indignazione: “I commenti che circolano in queste ore a seguito della notizia del suicidio di un giovane tunisino nel Carcere di Gazzi sono la cifra del decadimento della nostra società. A seguito di un simile (ennesimo) tragico evento il dibattito dovrebbe incentrarsi sull’adeguatezza del nostro sistema carcerario e sui rimedi da adottare per renderlo luogo di vera ed effettiva rieducazione. Si fa invece strada una canea di inqualificabili leoni da tastiera che andrebbe condannata a seguire (con l’obbligo del profitto) corsi di educazione e civica e di umanità” scrive il penalista che conclude: “I condannati devono certamente scontare le loro pene ma dal momento in cui vengono privati della libertà lo Stato ne assume la custodia ed ha il dovere di garantire un trattamento umano che è poi il segno della civiltà di un popolo. Il personale penitenziario fa ciò che può (a Messina lo abbiamo più volte constatato con le nostre ispezioni insieme ai Magistrati) ma mancano risorse, strutture e competenze. Questi sono i temi di cui dovrebbe (pre)occuparsi ogni cittadino invece di alzare il vessillo del giustizialismo ignorante”. Roma. “Mi batterò per lui come per il mio Stefano” di Romina Marceca La Repubblica, 5 aprile 2023 Ilaria Cucchi ripercorre il calvario di Wissem dal centro-lager all’ospedale dove fu legato. Dal Cpr di Ponte Galeria al San Camillo, la senatrice ha ripercorso le tappe che hanno portato alla morte del migrante. “Presenterò un’interrogazione parlamentare. Cerco la verità come ho fatto con mio fratello”. Due mesi per morire, 57 giorni, per l’esattezza 1.368 ore. Wissem Ben Abdel Latif era un migrante tunisino che sognava la Francia. Voleva lavorare lì per aiutare la famiglia. A tappe forzate, invece, è andato incontro alla morte nelle mani dello Stato italiano. Dichiarato schizofrenico per le sue battaglie contro il degrado dentro al Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria. Ricoverato in Psichiatria per cinque giorni, sedato e legato mani e piedi a un letto in un corridoio d’ospedale. Morto da solo mentre nessuno si curava dei suoi ultimi rantoli. Repubblica ripercorre gli ultimi 46 giorni del migrante a Roma insieme alla senatrice di Sinistra italiana Ilaria Cucchi, che ha titoli dolorosi per appassionarsi a una storia assonante sotto molti aspetti a quella del fratello Stefano. Tre le tappe sulle tracce di Wissem: il Cpr di Ponte Galeria, la psichiatria dell’ospedale Grassi di Ostia e quella dell’Asl3 al San Camillo. “Ho attraversato la sofferenza che Wissem ci ha lasciato in eredità, mi sono fatta legare i polsi a una sedia nel reparto dove è morto. Ho capito cosa significa sentirsi prigionieri, mi batterò per lui come per Stefano. Presenterò un’interrogazione parlamentare perché venga appurata tutta la verità e perché non ci sia più un altro Wissem”, annuncia Ilaria Cucchi. Dentro le gabbie - Sono le 11,30 di una mattina di fine marzo. La senatrice accede al Cpr di Ponte Galeria, in via Portuense. Ha atteso fuori più di 20 minuti. “È un’ispezione, devo entrare subito. Lo farò presente nella mia relazione”, ribadisce più volte al militare di guardia. Due blindati della polizia lasciano il Cpr con a bordo alcuni migranti. Chiede il perché. “Rimpatri”, le rispondono. “Strana coincidenza”, ribatte lei. Il Cpr è circondato da mura di cinta sorvegliate da telecamere e militari, confina con il “I Reparto mobile” che assicura l’ordine dentro il centro. Scappare è impossibile, sui muri ci sono anche gli spuntoni. Il centro è come un’isola in questa parte a sud ovest di Roma. La prima immagine che arriva dall’interno è quella di uno zoo. Ci sono otto gabbie alte quattro metri. Tutto regolare per lo Stato ma inaccettabile da vedere. Ogni gabbia ha due stanzoni con otto brande, ci vivono 93 migranti: 88 uomini e 5 donne. “Il carcere sarebbe meglio”, dice un ospite e consegna una canzone sulla libertà a Ilaria Cucchi. Le gabbie delimitano lo spazio all’aperto, sette metri per sette. I migranti si aggirano lì dentro come anime dannate. “Nessuna attività di socializzazione, chi sta in una gabbia non può incontrare chi sta dentro a un’altra. Il direttore Enzo Lattuca - dice Cucchi dopo l’ispezione - ci ha spiegato che quando sono state aperte scoppiavano le risse. Dentro una gabbia ho trovato delle feci a terra. Nel complesso una grande desolazione, pochi televisori funzionanti, bagni sporchi, due telefoni a gettoni. Si esce solo per incontrare gli avvocati. Questo posto è brutale, qui ci sono detenuti altro che ospiti. Ho sentito un migrante che chiedeva dei calmanti per placare la sua ansia legata al rimpatrio”. Allo “zoo” Wissem è arrivato il 13 ottobre 2021, con i suoi 26 anni e tutto il carico di speranze. Si è subito reso conto che sarebbe tornato a Tunisi. Ha protestato dentro il Cpr, qui è partita la sua breve storia clinica. Il 25 ottobre, è scritto in cartella, il ragazzo mostra i primi segni di squilibrio psicologico. Che però sulla nave quarantena, quando è sbarcato in Sicilia, non c’erano. Dall’8 novembre gli vengono somministrati tranquillanti, iniziano i tremori. Il 19 novembre lo psicologo chiede un’altra consulenza. “È aggressivo, rifiuta la terapia da 4 giorni”, scrive lo specialista. “Qualcuno lo ha sbattuto contro un muro”, denunciano i compagni di Cpr. Il 23 novembre il primo ricovero per disturbo schizoaffettivo, il 118 lo trasferisce alla Psichiatria del Grassi di Ostia. Il pannello dei legacci - Haldol, Talofen, Depakin, En. È la terapia somministrata a Wissem al Grassi. Ilaria Cucchi arriva alle 13 di venerdì scorso, ha annunciato l’ispezione come prevede la legge. Di fronte all’ospedale su una saracinesca c’è scritto “Cucchi vive”, sembra un’incitazione alla senatrice. Nel reparto, primario Piero Petrini, il corridoio ospita gli uffici e sei stanze. Sedici i pazienti ricoverati. “Servirebbe parlare di più invece di ingoiare solo farmaci”, si sfoga una paziente. Nella stanza della caposala c’è un pannello con tanti chiodi a cui sono appesi i legacci per la contenzione. Una dottoressa alza il lenzuolo per mostrarli alla parlamentare. “Non ho trovato ricoverati legati ma un’infermiera mi ha confidato che un paziente è rimasto in contenzione più di un giorno”, racconta la senatrice. Che ha trovato anche un detenuto ricoverato da 20 giorni. “Uomini e donne erano dormienti e l’infermiera che mi ha parlato è stata allontanata”, è il suo resoconto. Wissem è sempre rimasto legato al letto del reparto per “stato di necessità”. Ma l’avvocato Francesco Romeo a quella necessità ha sempre creduto poco. “Si indaghi per sequestro di persona al Grassi e al San Camillo”, è la sua ultima richiesta alla procura in nome della famiglia che dalla Tunisia chiede più indagini. Il reparto della morte - La procura ha iscritto per omicidio colposo e falso i nomi di quattro sanitari della Psichiatria dell’Asl3, l’ultimo approdo di Wissem il 25 novembre del 2021. Il cambio di reparto arriva per competenza territoriale. Wissem è già imbottito di farmaci. Gli esami sono buoni, il giorno dopo un valore che esprime la corretta funzionalità dei muscoli è di 35 volte maggiore rispetto al normale. Una spia ignorata. Al San Camillo Wissem non si alzerà mai perché i legacci saranno stretti fino alla morte, la notte del 28 novembre. Ilaria Cucchi resta nel reparto un’ora e mezza. “Mi sono fatta legare a una sedia - racconta all’uscita - e ho colto tutta la sofferenza dei malati. Tutti i pazienti, meno di dieci, non erano reattivi. Non sono riuscita a parlargli. Uno sta lì da tre anni. Non ci sono spazi di socializzazione, il day hospital non ha bagno”. Wissem è morto sul letto 16 (1C), in corridoio. “Lo volevo lì per monitorarlo meglio”, è stata la giustificazione shock del primario Piero Petrini, lo stesso di Ostia, a Repubblica. Nessun mediatore ha ascoltato cosa avesse da dire quel giovane che si agitava tanto e al quale nessuno ha eseguito un elettrocardiogramma. “Adesso ci sono”, ha accertato Ilaria Cucchi. Letti in corridoio non ce ne sono, non arrivano più migranti dal Cpr. Wissem, secondo la procura, è morto per un mix fatale di farmaci. Il medico legale ha trovato nei suoi tessuti un tranquillante che non era in cartella. Morire era messo in conto da Wissem quando è salito sul gommone per la Sicilia. Ma il mare è stato clemente con lui. Poteva ucciderlo il Covid sulla nave quarantena a Lampedusa. Neanche quello è successo. Wissem è stato inghiottito dal buco nero dello Stato. Non ha vissuto in Italia un solo minuto di libertà, non ha potuto fare richiesta di asilo politico. E quando un giudice ha deciso che poteva lasciare le gabbie del Cpr, nessuno gli ha notificato la sentenza. Era il 24 novembre 2021, lui era già legato a un letto d’ospedale. Santa Maria Capua Vetere. “Udienze senza pubblicità online”, scontro al processo sui pestaggi in carcere di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 aprile 2023 Santa Maria Capua Vetere, gli avvocati degli imputati chiedono di vietare la registrazione sul web. Il processo per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il più importante di questo tipo con 105 imputati tra poliziotti penitenziari, medici e funzionari del Dipartimento penitenziario del ministero, rischia di proseguire nel silenzio. Domani la corte dovrà decidere sulla richiesta, avanzata da due avvocati degli imputati, di vietare la registrazione delle udienze effettuata da Radio Radicale, che poi le rende disponibili in forma integrale sul suo sito internet come per gran parte dei principali processi penali in tutta Italia. Radio Radicale, come da prassi, aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione all’inizio del processo. Ma quando sono cominciate le audizioni dei testimoni, l’avvocato Carlo De Stavola ha sollevato la questione: “Vi pongo un problema di genuinità delle testimonianze”. Infatti il codice prevede che i testimoni non possano assistere alle udienze, affinché non siano influenzati anche inconsapevolmente dall’ascolto di altre testimonianze. Ma, obietta l’avvocato, gli stessi testimoni possono ascoltare le altre testimonianze su Radio Radicale, il che ne pregiudica ugualmente la genuinità. “Quando verranno avranno già sentito le domande che faremo, le questioni che porremo. Questo sarebbe un vulnus alla nostra attività difensiva, sarebbe una violazione pacifica di tutta quella che è l’attività che dovremo porre in essere. Io vi chiedo non di rimuovere le riprese, ma di fare in modo che si faccia un’ordinanza con la quale si vieti a Radio Radicale di caricare gli audio prima dell’ultimazione dell’istruttoria dibattimentale”. Ovvero a fine processo. Il pm Alessandro Milita si è opposto, argomentando che avallando l’interpretazione restrittiva invocata dagli avvocati “sostanzialmente sarebbe impedito in modo assoluto qualsiasi tipo di cronaca, coerente con la pubblicità dell’udienza, per salvaguardare la genuinità tra virgolette delle deposizioni dei testi” che peraltro “non ha copertura costituzionale diversamente dal diritto di cronaca e diversamente dal principio fondante della pubblicità dell’udienza, che non è altro che una modalità attraverso cui chiunque sia direttamente che indirettamente può essere informato di fatti di rilievo pubblico”. Analogamente, si è opposto anche Michele Passione, avvocato del Garante nazionale dei detenuti. La Corte si è riservata una decisione, che però ha finora rinviato. Nel frattempo giuristi e politici si sono pronunciati. La questione è seria e non riguarda solo questo processo. Per due motivi. Primo: Radio Radicale registra e rende gratuitamente disponibili tutte le udienze dei principali processi penali di rilevanza pubblica - mafia, corruzione, terrorismo. Ciò consente sia agli addetti ai lavori di esserne informati, cosa altrimenti impossibile ormai anche per i mass media principali, sia ai cittadini non qualificati ad accedere agli atti processuali come i verbali di udienza, non segreti (così ha deciso nel 1995 la Corte costituzionale), ma nemmeno pubblicati in versione aperta. Secondo: l’archivio processuale di Radio Radicale consente agli studiosi e a chi non ha preso parte a eventi importanti della storia nazionale di documentarsi anche a distanza di decenni. Dunque far calare una cappa di silenzio sui processi, tanto più se così rilevanti nel rapporto tra l’autorità dello Stato e i diritti dei cittadini, è un problema di democrazia. Per tutti. Brescia. Carcere di Canton Mombello “Struttura deficitaria, servono investimenti e idee” di Lilina Golia Corriere della Sera, 5 aprile 2023 Il sottosegretario alla Giustizia a Canton Mombello. E Rolfi: persi dieci anni. “La struttura è assolutamente deficitaria, però devo fare un plauso a chi qui dentro ci lavora, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, la direttrice e tutto il personale, perché, nonostante le difficoltà di una struttura che va chiusa, riescono a far fronte anche a un trattamento, diciamo, buono, facendo fronte a problemi oggettivi”. È l’incipit delle valutazioni espresse dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, al termine della visita al carcere di Canton Mombello, Nerio Fischione. Una visita per toccare con mano la situazione dell’istituto bresciano in cui da anni si registra un sovraffollamento dai numeri impressionanti - dati recenti parlano di 286 detenuti, rispetto a una capienza di 189 - unito a tensioni e carenze di strutture che garantiscano condizioni sanitarie (soprattutto dal punto di vista psicologico) e agevolino il percorso di recupero dei carcerati. “Bisogna dare ampio spazio a quello che è il progetto di realizzazione del nuovo carcere a fianco della struttura di reclusione già esistente a Verziano, e ipotizzare la realizzazione di un luogo capace di coniugare i bisogni e i diritti dei detenuti con quelli di chi lavora in queste strutture”. Servono investimenti economici, ma anche idee. “In passato “svuota carceri” e provvedimenti premio non hanno portato grande beneficio, né alla società, né ai detenuti stessi. Oggi la struttura carceraria nazionale deve dare la possibilità di un vero trattamento attraverso il lavoro all’interno del carcere (un modello già adottato da tempo a Verziano, ndr), coinvolgendo il terzo settore, ma anche le imprese che hanno bisogno di spazi adeguati. Il 98% dei detenuti che aderisce a percorsi di rieducazione anche attraverso il lavoro, quando esce dal carcere, esce anche dai circuiti criminali”, continua Ostellari che annuncia anche l’istituzione di una cabina di regia e l’impegno del Governo per il reperimento dei fondi necessari per nuove assunzioni e formazione del personale. A portare il suo saluto al sottosegretario Ostellari, è arrivato il candidato sindaco del centrodestra, Fabio Rolfi. “Abbiamo perso 10 anni in chiacchiere senza realizzare alcunché: anzi abbiamo perso pure la disponibilità delle aree a causa delle politiche urbanistiche del Pd. La nostra idea è realizzare il nuovo carcere, un ampliamento a Verziano, e ci attiveremo sin da subito per organizzare con i parlamentari bresciani e individuare le risorse necessarie. Lavoreremo in sintonia con l’esecutivo per affrontare sin da subito il tema insieme al problema delle disponibilità di alloggio per gli agenti della polizia penitenziaria”. Ravenna. Cristina Muti incontra i detenuti: “Tutti noi facciamo errori” di Annamaria Corrado Il Resto del Carlino, 5 aprile 2023 La presidente di Ravenna Festival risponde alle domande dei redattori del giornale interno. Tra le curiosità emerge la sua passione per il rap: “Mi piace da morire e mi incuriosiscono i testi”. Cristina Mazzavillani Muti entra in carcere e si fa intervistare dai detenuti. Chissà se la presidente onoraria e fondatrice di Ravenna Festival se la immaginava così la mattina trascorsa all’interno di Port’Aurea, dove ha incontrato i carcerati della casa circondariale di Ravenna impegnati nella redazione del loro giornale. In ogni numero c’è l’intervista a un personaggio esterno che risponde a distanza. Non questa volta: Cristina Mazzavillani si è presentata di persona, voleva rispondere guardandoli in faccia. E loro, che forse temevano un incontro formale, un monologo magari, senza tante possibilità di intervenire, si sono invece ritrovati al centro di un confronto ricco, profondo, nel quale le risate si sono alternate a momenti di grande serietà. E sincerità. Una decina in tutto i detenuti coinvolti che l’hanno incontrata nel refettorio di Port’Aurea, insieme a loro Carmela De Lorenzo, direttrice dell’istituto. Tanti gli argomenti trattati: arte, affetti, famiglia, scelte giuste e sbagliate. “Di errori ne facciamo tutti nella vita, anche la vostra presenza qui lo dimostra. Ma non c’è errore a cui non si possa cercare di rimediare. Sono tanti gli elementi che incidono sulle nostre vite, compresa la fortuna, la vita mica ce la cuciamo addosso su misura, può succedere di tutto, e non bisogna mai accontentarsi”, ha detto senza tanti giri di parole. Ha raccontato della sua passione per la musica, per il canto, degli studi in conservatorio e della scelta di seguire il marito, il maestro Riccardo Muti: “Temevo di dare un dispiacere ai miei genitori rinunciando alla carriera, invece mi hanno appoggiato - ha raccontato -. Ho scelto di privilegiare gli affetti, intraprendere una carriera artistica significa vivere per gli altri, le rinunce sulla vita personale sono tante, se lo avessimo fatto entrambi cosa sarebbe stato della famiglia, del nostro rapporto?”. Ha ricordato i primi anni, i concerti in giro per il mondo con il marito, il rammarico per aver dovuto lasciare qualche volta a casa i figli. “Ma sto recuperando con i miei nipoti”, ha aggiunto sorridendo. “Io e mio marito - ha detto a un certo punto a un detenuto curioso della convivenza tra una romagnola e un napoletano - siamo due cocciuti che discutono sempre, si scontrano ma per costruire, mai per distruggere. I nostri temperamenti non sono diversi, in fondo noi romagnoli ci chiamano i ‘terroni del nord’”. A un detenuto che le chiedeva cosa si prova a osservare l’opera lirica da dietro le quinte, lei, a pochi giorni dalla rappresentazione all’Alighieri della Bohème di cui ha curato la regia, ha parlato di emozioni fortissime, di paure anche. “Ci si sente potentissimi a curare una regia - ha detto - perché tutto dipende da te. Ma bisogna stare attenti, mai mettersi al di sopra, mai dimenticare che il lavoro si fa insieme a tutti gli altri. La Bohème e la Traviata sono tra le opere più ascoltate al mondo, viva l’opera italiana!”. A un altro detenuto, curioso di sapere cosa pensa della musica rap, ha risposto che le piace da morire: “Al di là del ritmo, quello che mi incuriosisce sono i testi, i contenuti, soprattutto nel caso di autori molto giovani. Perché dà loro la possibilità di scoprire cos’hanno dentro e di raccontarlo, di mettersi a nudo”. A chi le chiedeva un’opinione sui testi che contengono volgarità e incitazioni alla violenza, ha risposto: “C’è sempre chi supera il limite, è capitato in ogni epoca, ma siamo noi a dover scegliere, perché con la censura si rischia di eliminare anche quello che c’è di buono”. A un certo punto un detenuto napoletano le ha chiesto la sua canzone napoletana preferita, ‘Uocchie c’arraggiunate’ ha subito risposto. E a chi infine le ha domandato se in casa si parla più romagnolo, napoletano o pugliese ha spiegato che il dialetto rappresenta l’appartenenza, l’identità: “Mio marito, quando vuole esprimere qualcosa di preciso incisivo, lo dice in napoletano”. La storia di Lea Garofalo e le altre donne contro la ‘ndrangheta di Arianna Finos La Repubblica, 5 aprile 2023 Su Disney+ “The good mothers”, il racconto delle vicende di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce e Concetta Cacciola. Nel cast Micaela Ramazzotti, Gaia Girace e Valentina Bellè. Reduce dalla vittoria come migliore serie televisiva dell’ultima Berlinale, arrivano su Disney+ le storie di Lea Garofalo (e sua figlia Denise), Giuseppina Pesce e Concetta Cacciola, tre donne capaci di ribellarsi al sistema patriarcale della ‘ndrangheta pagando un prezzo altissimo, spesso la vita, a volte senza il sostegno delle istituzioni. Prodotta da Wildside (gruppo Freemantle), vincitrice del Berlinale Series Award, “The good mothers” è disponibile dal 5 aprile su Disney+. Si tratta di sei episodi tratti dal bestseller omonimo di Alex Perry, adattati da Stephen Butchard e diretti da Julian Jarrold ed Elisa Amoruso. “Appena ho letto la sceneggiatura ho capito che per me era una storia necessaria da raccontare - dice la regista - perché nonostante io fossi italiana non conoscevo nel dettaglio la vita di queste donne, ed era davvero importante dare loro una voce e un pubblico più ampio possibile. Per me finora ha rappresentato uno dei progetti più importanti e sono molto felice della collaborazione che c’è stata con Julian e gli altri. Siamo stati veramente una squadra: avere tutti lo stesso obiettivo, raccontare la storia del punto di viste di queste donne. Quindi raccontare la mafia non più dal punto di vista degli uomini, è stato un passo importante”. “L’elemento tragico della serie prosegue - è che la violenza e l’amore sono incarnate nella stessa persona, e ciò è insopportabile. Le protagoniste crescono con la violenza del padre e si innamorano di uomini che poi diventano violenti. Abbiamo cercato di raccontare storie di violenza senza mostrarla, ma anche il potere dell’amore che hanno queste protagoniste verso i figli. Sono diventate madri giovani, ma lo sono diventate una seconda volta quando hanno deciso di ribellarsi”. Julian Jarrow aggiunge: “Abbiamo cercato di ricreare il mondo autentico in cui hanno vissuto queste donne. Durante uno dei primi sopralluoghi a Reggio Calabria ho pensato che ci fosse una certa sensibilità. In quelle zone sono temi ancora scottanti”. La storia delle quattro protagoniste s’intreccia con quella di una magistrata che intuisce che la ‘ndrangheta si può distruggerla dall’interno facendo leva sulle donne, mogli, madri, figlie dei boss, schiacciate da un quotidiano senza libertà, violento e soffocante. Spiega Alessandro Saba di Disney Italia: “Abbiamo scelto il progetto perché erano storie positive, non un altro racconto che finisce per mitizzare i criminali. Con uno sguardo femminile e senza retorica”. “È bello poter portare le loro storie nel mondo, molte donne, anche in condizioni meno estreme, vi si riconosceranno”, dice Elisa Amoruso. “Io sono stata coinvolta in questo progetto da Wildside, ho letto subito il libro da cui è tratta la serie, è stata una esperienza incredibile, anche se conoscevo la storia di due di loro, Garofalo e Cacciola, che erano le più note, entrare così tanto nel dettaglio delle loro vite, rendersi conto delle storie di queste donne che poco tempo fa, siamo parlando del 2009, 2010, ancora vivevano all’interno di famiglie così oppressive da non poter neanche uscire di casa, dover tornare subito dopo aver accompagnato i figli a scuola. Quindi donne che non hanno scelto il proprio marito, non hanno scelto di diventare madri, lo sono diventate magari a quindici, sedici anni loro malgrado. Quando si sono ritrovate nella posizione e nella difficoltà estrema di dover scegliere se restare o trovare il coraggio di rompere con queste famiglie. Lo hanno trovato, ci sono riuscite. E l’idea di questa donna magistrato che ha deciso di indagare su di loro, facendole diventare protagoniste e non lasciandole più invisibili. Dando loro visibilità, aiutandole in questo percorso di denuncia dei loro stessi padri, dei loro stessi mariti. Speriamo che questa serie abbia il pubblico più vasto possibile proprio per il messaggio che diffonde. Siamo grati a Disney+ per la libertà creativa, estetica e dei contenuti. Numerose donne si potranno riconoscere in questa serie: queste logiche del patriarcato si rispecchiano in numerosi Paesi”. Micaela Ramazzotti è Lea Garofalo, vive per la figlia e per darle un destino diverso si contrappone alle logiche criminali della famiglia. Il 24 novembre del 2009 è a Milano con la figlia, dall’ex marito boss Carlo Cosco: non è più una testimone, ma viene comunque fatta sparire. Ha trentanove anni, Denise diciotto. Ramazzotti, come le altre attrici, accompagna la serie nella capitale tedesca: “Sono orgogliosa del progetto. Mi sono documentata, ho visto il film di Marco Tullio Giordana. Lea ha fatto una cosa potente, ci ha messo la faccia, ha fatto i nomi. Sapeva cosa rischiava. Ma ha teso l’arco e ha lanciato la freccia, ha lanciato sua figlia nel futuro, il più lontano possibile dal quel mondo chiuso, dall’omertà, dalla violenza”. Gaia Girace (L’amica geniale) è Denise. Testimone lucida e attendibile al processo, inchioderà gli assassini della madre: “È importante questo sguardo femminile, la forza di queste donne che si sono liberate, alcune uccise. Speriamo di portare un messaggio di speranza”. “Il titolo - dice Ramazzotti - è un gioco di parole bellissimo che racconta in pieno queste donne e la forza che hanno, Good mothers”. “La loro lotta passa attraverso i figli”, racconta Valentina Bellè, che interpreta Giuseppina Pesce, colpevole di aver “disonorato” la potente famiglia. Resiste ai maltrattamenti e alle minacce ai suoi figli, fa arrestare i parenti. “Essere una buona madre, come dice il titolo, significa anche lottare per la propria libertà individuale e non solo quella dei figli. Non conoscevo la storia di Giuseppina Pesce, in Calabria mi sono sentita dire in faccia, anche da donne, “la ‘ndrangheta non esiste e lo Stato qui non c’è”. Se cresci in un ambiente dove non esistono alternative, non esiste neanche la verità, il rendersi conto della violenza in cui si vive”. Simona Distefano è Concetta Cacciola, sposa a 13 anni un uomo che l’ha usata per entrare nel potente clan; si farà testimone di giustizia ma spinta dalla nostalgia per i figli torna a Rosarno: verrà trovata morta per aver ingerito acido muriatico: “La condizione sociale di queste donne non riconosce la libertà e la violenza serve per mantenere il controllo e mandare avanti il sistema patriarcale. Difficile uscire da un sistema e capire che c’è una vita migliore, sono le stesse madri che sostengono e difendono questo sistema perché è stato insegnato loro così”. Stephen Butchard racconta le scelte fatte nella sceneggiatura: “La parte più difficile è stata la scrittura dei personaggi maschili, non volevo ricorrere a certi cliché sulla mafia né volevo che sembrassero cattivi, sono quello che sono perché ci sono nati. Volevamo mostrare qualcosa di differente, come il fatto che Cosco (Francesco Colella, ndr) si stesse rendendo conto che stava perdendo la donna che amava. Per raccontare la storia di queste donne dovevamo raccontare la storia di uomini reali, che perdono qualcosa anche loro”. Se il proibizionismo diventa criterio fondante e strumento dell’ordine pubblico di Giovanni Valentini Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2023 Non si può non concordare con Emma Bonino quando sostiene, come ha detto recentemente in un dibattito sulle cosiddette “famiglie arcobaleno”, che “la tela di fondo di questo governo è il proibizionismo”. In quell’occasione la leader radicale discuteva del riconoscimento dei figli e delle figlie di genitori omosessuali. Ma il proibizionismo, dai rave party alla droga fino alla legge per vietare l’uso di parole straniere con relativa multa da 100 mila euro, vagheggiata dal deputato di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, è la vera anima di questa destra, la sua cifra e la sua ispirazione. Non a caso il nostro Codice penale è rimasto in gran parte quello emanato nel 1930 dal Guardasigilli del governo Mussolini, il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, un corpus che da lui prende nome. Ed è inconcepibile che, a quasi un secolo di distanza, il Parlamento repubblicano non sia ancora riuscito a sostituirlo dal primo all’ultimo articolo. Il proibizionismo, dunque, come valore assoluto, come criterio fondante e come strumento dell’ordine pubblico. Prendiamo il caso della droga e in particolare delle droghe leggere. Fra legittimi dubbi e illegittime ipocrisie, si parla ormai da anni di una possibile legalizzazione, per contenere, contrastare e regolare questo fenomeno o piaga sociale che dir si voglia. Una campagna civile permanente, insomma, imperniata sull’informazione, sulla consapevolezza e sulla dissuasione. Per intenderci, sul modello del fumo che - come si legge ormai sulle stesse scatole di sigarette - “nuoce gravemente alla salute”, perché è scientificamente accertato che causa l’85-90% dei casi di tumore al polmone. E per di più, danneggia anche chi lo respira. Ma in Italia è proibito, per l’appunto, anche parlarne. Tant’è che nelle settimane scorse la Polizia di Stato è entrata in una scuola di Piazza Armerina, un Comune siciliano in provincia di Enna, dove si stava svolgendo un’assemblea studentesca sulla legalizzazione della cannabis. E, di fronte alle proteste dei ragazzi, c’è mancato poco che non scattasse qualche fermo. La lotta alla droga, infatti, viene interpretata e condotta come se fosse la lotta alla mafia, a cui anzi viene assimilata. Ora, dopo tanti annosi dibattiti e tante inutili polemiche, nella sede dell’Assemblea regionale siciliana è intervenuto sull’argomento un personaggio al di sopra di ogni sospetto come l’ex Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del Movimento 5 Stelle, per rivelare una sconvolgente verità. E cioè, sono parole sue, che “regolare la cannabis significa togliere alle mafie una fetta importante del mercato legale degli stupefacenti”. Sconvolgente verità per chi non vuol vedere, non vuol sentire e soprattutto non vuol capire. Nel corso di quello stesso dibattito, il professor Ferdinando Ofria, docente di Politica economica all’Università di Messina, ha affermato - dati alla mano - che la legalizzazione della cannabis può produrre un risparmio di 540 milioni di euro all’anno per le spese giudiziarie e carcerarie e di altri 230 milioni per le attività di ordine pubblico e sicurezza. Ed è arrivato poi a quantificare in 9 miliardi il gettito fiscale che se ne potrebbe ricavare, istituendo un monopolio come quello delle sigarette. È un discorso analogo a quello sulla prostituzione, il mestiere più antico del mondo. Regolarla è senz’altro meglio che lasciarla dilagare all’aperto sui marciapiedi o nelle periferie delle nostre città, con l’indotto dello sfruttamento e della criminalità più o meno organizzata. E se vogliamo fare un paragone più soft, immaginiamo per un momento che cosa accadrebbe se all’improvviso fosse proibita - per esempio - la liquirizia: diventerebbe verosimilmente oggetto di un mercato clandestino, in mano agli spacciatori e ai pusher, di qualità scadente e dannosa. D’altra parte, non accadde così nell’America degli anni Trenta, ai tempi del proibizionismo contro l’alcol? Vale la pena, allora, ripetere alcuni dogmi dell’antiproibizionismo. Questo è un mercato dell’offerta più che della domanda. La droga non è vietata perché fa male, ma fa male perché è vietata. E fa male perché il proibizionismo favorisce il traffico clandestino, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di salute e anche di sicurezza. Basti dire che l’apparato statale non riesce a impedire l’uso della droga neppure all’interno delle carceri, dove il cittadino detenuto è sotto controllo 24 ore su 24: come può farlo nelle strade, nelle piazze o nei parchi pubblici? Piuttosto che continuare a discutere a vuoto e a impegnare tante risorse - umane, professionali ed economiche - in questa lotta impotente alla droga, faremmo meglio a riflettere sui dati di fatto, considerando tutti rischi, i dubbi e le incognite del caso. E magari a trovare soluzioni più efficaci e ragionevoli, come quelle adottate in altri Paesi del mondo. Proibire serve soltanto ad alimentare il fenomeno. Ovvero, ad allargare la “piaga”. Save The Children: in Italia 336mila bambini e adolescenti sfruttati di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 aprile 2023 Nuova indagine sul fenomeno a dieci anni dall’ultima: la situazione è peggiorata. “Facevo cose stancanti per una ragazzina di 13 anni, lo puoi fare per qualche tot di giorni ma dopo un po’ crolli, non ce la fai. Non hai una vita sociale, nel senso non hai amici, non puoi uscire, quindi la tua adolescenza non te la puoi godere”. F. è nata a Palermo, oggi ha 17 anni. La sua è una delle testimonianze raccolte in “Non è un gioco”, indagine sul lavoro minorile in Italia condotta da Save The Children. Il risultato è una stima di 336mila bambini e adolescenti che hanno avuto un’esperienza lavorativa prima dei 16 anni, l’età in cui diventa consentito dalla legge. Si tratta di circa un minore ogni quindici. Parliamo di stime perché dati ufficiali non ce ne sono. Come non ce n’erano dieci anni fa, quando la stessa organizzazione ha realizzato l’ultima ricerca nazionale sul tema. Nel frattempo le cose non sono migliorate: i numeri sono rimasti simili, ma sono cresciute le occupazioni più dannose per crescita e benessere psicofisico. Save The Children, insieme alla Fondazione Di Vittorio, ha somministrato tra dicembre 2022 e il febbraio successivo 2.080 questionari a ragazze e ragazzi tra 14 e 15 anni in 72 scuole, per ottenere un campione rappresentativo della popolazione studentesca in quella fascia di età. Il 53,8% di chi ha svolto un’attività di lavorativa lo ha fatto a più di 13 anni. Quasi la metà ne aveva di meno. Il 6,6% addirittura meno di 11 anni. Più di un minore su quattro, 58mila adolescenti, è stato coinvolto in occupazioni dannose per salute e percorsi scolastici. Un terzo ha lavorato durante i giorni di scuola e uno su venti ha perso delle lezioni. Così inevitabilmente aumentano dispersione scolastica, problemi di apprendimento e bocciature. “Tagliavo verdure per i panini kebab, lavavo anche i piatti. Ho iniziato a frequentare la scuola per ottenere il certificato A2, ma a lavoro mi hanno detto che se tornavo a scuola non potevo più lavorare”, ha raccontato M. che adesso ha 18 anni, vive a Roma e fa parte del 5% di lavoratori under 16 immigrati o figli di immigrati. Per Raffaela Milano, direttrice dei programmi italiani ed europei di Save The Children, “il lavoro minorile deriva spesso da povertà materiale ed educative delle famiglie di provenienza e questo avvicina i ragazzi a contesti dove non hanno diritti e tutele”. Il principale settore dove si registra lavoro minorile è la ristorazione (25,9%). Seguono negozi e attività commerciali (16,2%), campagna (9,1%) e cantieri (7,8%). Più della metà dei 14-15enni che lavorano lo fanno tutti i giorni o qualche volta a settimana. Circa uno su due per più di quattro ore al giorno. I minorenni coinvolti dal fenomeno sono prevalentemente di genere maschile in tutte le mansioni tranne nei lavori di cura e baby sitting: qui le ragazze rappresentano rispettivamente il 65% e il 90% del totale. “Tali differenze sembrano richiamare in maniera predittiva l’impegno nel lavoro di cura, molto spesso non retribuito, a cui sono chiamate le donne adulte, in un circolo vizioso che rafforza divari di genere in ambito lavorativo e retributivo”, si legge nello studio. Le ragioni che spingono verso il lavoro minorile sono diverse: avere i soldi per sé (56,3%), aiutare i genitori (32,6%), interesse personale (38,5%). Per molti degli intervistati il giudizio sull’esperienza lavorativa è quasi sempre positiva. Oltre la metà la ritengono utile a imparare un lavoro. Il rapporto è stato presentato alla presenza della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone che ha manifestato l’intenzione di intervenire su “più linee d’azione con il piano integrato Garanzia infanzia”, una strategia europea per i diritti dei più vulnerabili. In particolare: contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile precedente ai 16 anni, e dunque illegale; inclusione scolastica e sostegno alla frequenza. Braccianti bambini trattati come schiavi nelle campagne di Latina di Marco Omizzolo Il Manifesto, 5 aprile 2023 “Nella mia esperienza l’unica legge vigente in alcune aziende dell’Agro Pontino è quella del padrone, che decide tutto a partire da chi deve lavorare, quante ore di lavoro deve fare e quanto dobbiamo essere pagati. Se qualcuno si lamenta non ti richiama più, oppure ti insulta o minaccia in modo brutale. L’ho visto personalmente minacciare braccianti del Bangladesh e indiani con fucili e pistole per farli tacere dopo tre mesi di lavoro svolto senza stipendio”. A parlare è un bracciante italiano di origine calabrese che da poche settimane ha lasciato la provincia di Latina perché stanco di umiliazioni e violenze. Ha lavorato infatti sotto padrone nelle campagne dell’Agro Pontino da quando aveva 16 anni. Le sue mani sembrano quelle di un anziano bracciante di ottant’anni. Ne ha invece solo quarantadue. Mostra delle foto fatte di nascosto col suo cellulare mentre lavora sotto le serre con la schiena piegata accanto a quella di altri suoi compagni immigrati. E con le foto anche alcuni eloquenti vocali. Dichiara e dimostra, ora che è al sicuro in un paese vicino Milano, qualcosa di inaspettato anche per chi si occupa di studiare e denunciare lo sfruttamento dei braccianti italiani e immigrati della provincia di Latina da vent’anni. “Ancora in queste settimane, soprattutto il venerdì, il sabato e la domenica, arrivano anche minori a lavorare come schiavi. Sono ragazzi provenienti dal Bangladesh e dall’India. Hanno 14 anni, altre volte 15. Qualcuno arriva al massimo a 17. Non parlano italiano se non pochissime parole che il caporale indiano, su mandato di sedicenti capi della comunità indiana o bangladese, fa imparare loro per eseguire correttamente gli ordini del padrone italiano. Devono soprattutto capire quando arriva l’ordine di scappare perché si teme l’arrivo dei Carabinieri o di qualche controllo specifico”. Sono giovanissimi immigrati che anziché frequentare corsi di formazione e di lingua, le scuole italiane come i loro coetanei o pensare a vivere in modo sereno la loro adolescenza, sono impiegati senza contratto anche per dieci o dodici ore al giorno nella raccolta delle carote, delle cipolle o dei ravanelli che garantiscono profitti illeciti a padroni e criminali italiani e immigrati e a un sistema agromafioso che, ricorda l’Eurispes, fattura ogni anno circa 24,5 miliardi di euro. “Il padrone li recluta parlando coi caporali o con il capo indiano della comunità per pagarli appena 4 euro l’ora. Parliamo di 40 euro al giorno per svolgere un lavoro faticoso e pericoloso. Devono infatti camminare in ginocchio per raccogliere gli ortaggi, usare coltelli affilati per tagliare cespi di insalata o i famosi cavolirapa per il mercato tedesco, e sollevare cassette molto pesanti dopo averle riempite completamente. Le loro pause, come anche le mie, sono al massimo di quaranta minuti per tutta la giornata. I dolori alla schiena, anche a quell’età, o alle ginocchia, sono molto forti e qualcuno di loro per evitare di sentire la fatica prende, come anche molti altri immigrati sfruttati, pasticche o oppio che alcuni hanno dentro i loro zaini”. Si tratta di un fenomeno già denunciato nel 2014 da “In Migrazione”, riscontrato peraltro anche in molti processi in corso presso il Tribunale di Latina. “Sono minori che vivono in famiglie i cui genitori fanno anche loro i braccianti. Se sommi lo stipendio di padre, madre e figlio minore, tutti sfruttati nelle campagne pontine in aziende molto note, si raggiunge a malapena il salario previsto per il lavoro di un singolo bracciante con regolare contratto. Insomma, ne fai lavorare tre al prezzo di uno, minore compreso. Quando ho provato a dire al padrone che doveva trattarci bene e darci quello che ci doveva, mi ha insultato. Mi ha chiamato calabrese di merda. Una volta mi ha anche preso a calci e a schiaffi, dicendomi che potevo rivolgermi tranquillamente ai sindacati o ai giornalisti, tanto non ha paura di nessuno”. Il padrone in questione, peraltro, “è noto alle forze dell’ordine, ma sembra fregarsene. Forse è protetto o si sente protetto, anche perché in azienda, soprattutto nel fine settimana, arrivavano alcuni agenti e politici locali. Si ritrovava anche con alcuni imprenditori agricoli di successo che dicevano fossero molto vicini alla camorra. Si prendevano tutti sotto braccio e pranzavano insieme, mentre io, insieme a quei ragazzi che potevano avere l’età di mio figlio, lavoravamo per loro quasi gratuitamente. E quando qualcuno di noi ha cercato di ribellarsi è finito in ospedale con la testa rotta. Il caporale infatti lo ha preso a bastonate fino a lasciarlo in terra sporco di sangue mentre il padrone faceva sparire il bastone per evitare guai”. Non solo pratiche però, anche il linguaggio del padrone è importante. E infatti “amava farsi chiamare Mussolini, tanto che aveva fatto montare in azienda busti e adesivi inneggianti al fascismo. Quando pagava i salari, spesso in contanti, ricordava ai braccianti immigrati, minori compresi, che in Italia ci vorrebbe Mussolini o Hitler per sistemare le cose. E poi li insultava definendoli degli indiani idioti, che in Italia devono obbedire agli ordini degli italiani e ringraziare per il lavoro che lui gli garantiva. Era un fascista amico”. Questo è probabilmente uno di quegli imprenditori che secondo il presidente del Consiglio Giorgia Meloni non deve essere disturbato, come lei stessa ha dichiarato agli industriali durante un’iniziativa pubblica. Peraltro anticipando quanto affermato di fatto anche dal neo direttore generale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro il giorno del suo insediamento. Non disturbare il manovratore, dunque, anche quando sfrutta lavoratori, ambiente e minori. È la solita dottrina di una destra che è forte con gli sfruttati, italiani e immigrati, donne e uomini, e invece attenta a non disturbare i forti, soprattutto quando sono padroni e fascisti che portano voti e consenso. La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia: hotspot per migranti fuorilegge di Salomè Archain e Emilio Santoro Il Manifesto, 5 aprile 2023 Il 30 marzo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), nel caso J.A. e altri c. Italia (ricorso n. 21329/18), ha condannato all’unanimità l’Italia per la detenzione de facto dei migranti nell’hotspot di Lampedusa e per l’illegittimità del respingimento collettivo verso la Tunisia a cui erano stati sottoposti i ricorrenti nell’ottobre del 2017. La Corte ha ritenuto che vi sia stata una violazione di due articoli della Convenzione Europea dei Diritti Umani, il 3, divieto di trattamenti inumani o degradanti, il 5 par. 1, 2 e 4, diritto alla libertà e alla sicurezza, e dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) allegato alla Convenzione. La violazione dell’art. 3 dipende da condizioni sulla carta contingenti del centro di Lampedusa: ogni volta, vale a dire quasi sempre dalla Primavera all’Autunno, che si verifica una situazione di sovraffollamento le condizioni di vita delle persone che vi si trovano scendono sotto la soglia del rispetto della dignità umana. Più strutturale è la violazione del divieto di espulsione collettiva degli stranieri (art. 4 del Protocollo n. 4): è infatti conclamata la tendenza delle autorità italiane di effettuare espulsioni e respingimenti senza consentire agli stranieri di fare domanda di asilo. Per questo la Corte EDU ci ha già condannato nel famoso caso Hirsi Jamaa nel 2012. Più di recente l’attuazione di questa prassi, alla frontiera Est del nostro Paese, ha costituito l’oggetto dell’ordinanza del Tribunale di Roma 56420/2020, poi rivista in sede di appello solo per questioni procedurali relative al regime delle prove. In questo caso il respingimento collettivo, senza consentire loro di fare domanda di protezione internazionale, è più allarmante perché si iscrive nell’ambito degli accordi di cooperazione stipulati tra Italia e Tunisia concernenti la “riammissione dei migranti irregolari”. Ma la parte della condanna che ha un effetto dirompente è quella relativa alla violazione dell’art. 5 della Convenzione. Come era accaduto nel precedente caso Khlaifia (ricorso n. 16483/12), la Corte ha nuovamente dichiarato illegittime le modalità di limitazione della libertà personale dei migranti nel centro di Lampedusa. La questione, come avevamo sostenuto nell’Intervento di Terza Parte presentato da L’altro diritto ODV (richiamato al par. 78 della decisione), riguarda in generale l’illegittimità del trattenimento presso gli hotspot prevista dall’art. 10 ter del D.lgs. 286/1998, che sopravvive alla sua patente incostituzionalità per la difficoltà di sollevare la questione della sua legittimità alla Corte Costituzionale. La Corte Edu, riconoscendo la violazione dell’art. 5, spazza via in primo luogo l’ambiguità del termine “trattenimento” usata dal legislatore italiano. La Corte infatti riconosce che l’hotspot in cui erano alloggiati i quattro ricorrenti “era circondato da sbarre, catenacci e barriere” e che essi “non erano autorizzati a uscire”. Una volta che il trattenimento in un hotspot, è come una detenzione de facto tutte le caratteristiche della sua illegittimità sono una ovvia conseguenza. Infatti, la Corte rileva che la limitazione della libertà personale non era stata disposta con un provvedimento motivato reclamabile davanti a un giudice. Anche il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (CPT) nel rapporto annuale 2022 ha chiesto ai governi europei di porre fine ai respingimenti ai confini terrestri o marittimi, in particolar modo ai confini dell’Unione Europea. Concludiamo riportando l’auspicio contenuto nel comunicato della Corte EDU relativo alla decisione: “Sarebbe bene che il legislatore verifichi la natura degli hotspot, nonché i diritti materiali e procedurali delle persone che vi si trovano”. Anzi, diremmo che il legislatore ha il preciso dovere costituzionale di fare una tale verifica. Quando Piantedosi chiedeva “migranti in tutti i Comuni”... di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2023 L’accoglienza “obbligatoria” resta un tabù, anche nel Pd di Schlein (che la promosse). Erano i primi mesi del 2018 e l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi era prefetto a Bologna. Onde evitare di fare “il prefetto cattivo” e imporre l’apertura di nuovi Centri di accoglienza straordinaria (Cas), Piantedosi chiedeva che in tutti i comuni della provincia venisse aperto almeno un progetto Sprar (oggi Sai), il sistema di accoglienza ordinaria organizzata in piccoli progetti per lo più gestiti dalle amministrazioni comunali attraverso il terzo settore. Insomma, chiedeva che ognuno facesse la sua parte perché l’hub di Bologna era già al doppio della capienza e si voleva evitare di stipare decine o centinaia di migranti in altri Cas. Di lì a poco Piantedosi sarebbe approdato al Viminale con l’allora ministro Matteo Salvini, i cui decreti sicurezza andarono esattamente nella direzione opposta, tagliando il contributo procapite per l’accoglienza dei migranti e rendendo più complicato per i comuni avviare i progetti in collaborazione col terzo settore. Perché in Italia, di questo parliamo, l’accoglienza ordinaria dei richiedenti asilo e dei rifugiati rimane su base volontaria. E per quanto il governo di Giorgia Meloni sembri ora intenzionato a spingere l’accoglienza diffusa, delle due, l’una: o si obbligano i comuni a erogare l’accoglienza come servizio, o si continuano a imporre strutture prefettizie che non hanno mai dato garanzie in termini di condizioni né di coesione sociale. Accoglienza diffusa, tra il dire e il fare - Con 28 mila sbarchi dall’inizio dell’anno rispetto ai 6 mila del primo trimestre 2022, i posti occupati nell’accoglienza sono oggi 112 mila su 120 mila circa: è di nuovo emergenza. E riparte il solito copione: i prefetti chiedono disponibilità di immobili ai comuni che, spaventati, scrivono al governo che annuncia cabine di regia, come quella che dovrebbe uscire oggi dal vertice a Palazzo Chigi che sul tavolo ha una bozza di una decina di punti, dal potenziamento della rete dei centri di accoglienza al solito snellimento delle procedure per esaminare le richieste d’asilo e per i rimpatri. Anche questo è un copione già visto. Una qualche novità è rappresentata dall’obiettivo dichiarato del Viminale di accogliere piccoli numeri su tutto il territorio nazionale ed evitare grandi e problematiche concentrazioni. Ma i sindaci, come ha fatto quello di Modena, Giancarlo Muzzarelli, già avvertono il governo che non è possibile dare risposte adeguate alle richieste avanzate dalle prefetture alle amministrazioni locali. Sostengono insomma che non è rimettendosi alla disperata ricerca di alberghi sfitti, colonie, ex case vacanze o appartamenti di privati da prendere in locazione che si può risolvere l’emergenza. I sindaci chiedono, una volta per tutte, soluzioni strutturali. Intanto più di 7 migranti su 10 sono nei Cas, che nel 2005 l’Italia si è impegnata a tenere solo come strutture di emergenza e invece sono la norma perché dalla logica dell’emergenza non siamo mai stati capaci di uscire. L’accoglienza ordinaria in Italia - Oggi l’accoglienza diffusa della rete Sai conta 934 progetti (679 ordinari, 214 per minori non accompagnati, 41 per persone con disagio mentale o disabilità) affidati a 793 enti locali titolari di progetto in 1.800 comuni per un totale di 43.923 posti finanziati (36.821 ordinari, 6.299 per minori non accompagnati, 803 per persone con disagio mentale o disabilità). Le amministrazioni comunali titolari di progetti sono 699. Il numero va inserito in quello dei comuni italiani, che sono 7.900, tenendo conto però che il 70% di questi ha meno di 5mila abitanti. I posti in accoglienza ordinaria sono più al Sud, con regioni come Sicilia (5.128), Puglia (3.130) e Calabria (2.988) dove superano anche quelli dell’accoglienza straordinaria. Mentre al Nord prevalgono i Cas, con regioni dove il modello Sai è marginale, come in Friuli Venezia Giulia: 235 posti a fronte di 3.911 nei Cas. Per un modello che ha più di vent’anni, nato nel 2002 col nome di Sprar e che dovrebbe rappresentare la norma e quindi essere preminente rispetto a quello straordinario, è evidente che qualcosa non ha funzionato. Più banalmente, sostengono i più nel terzo settore, “si è voluto mantenerlo in uno stato residuale, si è voluto mantenere lo stato di emergenza”. Eppure i risultati sono tutti dalla parte dell’accoglienza diffusa, che ha un basso impatto sulla comunità circostante e consente di lavorare sull’integrazione e l’accesso diretto ai servizi da parte di richiedenti e rifugiati, che da subito interagiscono col tessuto che li accoglie, “garantendo ottimi risultati sul piano della coesione sociale”, sostengono realtà come Arci e Caritas, tra le altre. Dalla volontarietà all’erogazione di un servizio alla persona - Il rischio, ancora una volta, è quello di finire nel cortocircuito dei prefetti che chiedono disponibilità ai comuni senza trovare sufficiente risposta o trovando soluzioni inadeguate dal punto di vista del dialogo con tutti gli altri servizi di cui l’accoglienza necessità, dalle scuole al welfare, soprattutto di fronte ai numeri dei minori non accompagnati che sono in aumento (2.500 da gennaio) e per i quali non ci sono posti sufficienti già da ora. A questa logica c’è chi da tempo oppone una soluzione radicale: estendere a tutti i comuni la rete Sai, obbligatoriamente. A partire da un principio: “L’accoglienza non è una concessione, ma un diritto della persona previsto da una direttiva europea del 2003 e dunque un dovere dello Stato”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà - Ufficio rifugiati onlus e membro Asgi. Secondo Schiavone, l’accoglienza di chi ne ha diritto deve rientrare nelle funzioni amministrative che la nostra Costituzione affida ai comuni. “Allo Stato competa il finanziamento, la definizione degli standard, e magari l’intervento diretto nei soli casi in cui i numeri siano in rapido aumento”, aggiunge, sostenendo che “l’accoglienza va sottratta alla libera volontà del singolo amministratore o del cambio politico e va ricondotta al campo dei servizi socio assistenziali: i servizi alla persona sono svolti dai comuni, perché questo no?” Una soluzione divisiva, anche nel Pd di Schlein - Lo scorso agosto, in una tavola rotonda sull’accoglienza alla quale hanno partecipato anche Arci e Caritas oltre allo stesso Schiavone, era presente quella che di lì a poco sarebbe diventata la nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein. “Parlo da persona che si è battuta per ribattere a Orban e a Paesi cui fa comodo che il sistema non cambi e che l’Ue rimanga quella dove 6 paesi su 27 svolgono l’80% dell’accoglienza”, ha detto nel suo intervento in cui ripartiva dalle parole di Schiavone. “Domando: con che faccia pretendiamo che in Ue ognuno faccia la sua parte sull’accoglienza se poi in casa nostra ci affidiamo alla stessa volontarietà che permette a singole amministrazioni di dire no anche solo a 10 minori non accompagnati?”. Ribadendo che l’accoglienza diffusa va sostenuta perché non spaventi più, ha aggiunto: “Mi auguro si pongano le basi per una proposta solida che non potrà mancare nei programmi politici”. Oggi è segretaria del Pd. Ma la sua posizione non è la sola nel partito. Il dem Matteo Biffoni è sindaco di Prato e delegato per l’Immigrazione nell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), alla cui Conferenza dei presidenti, segretari e direttori delle Anci regionali, oggi ad Ancona, ha rilanciato l’emergenza spiegando che il sistema “rischia il collasso, oggi come dieci anni fa, e i posti per i migranti non si trovano”. Ma pur promuovendo la bontà dell’accoglienza diffusa e l’estensione della rete Sai, Biffoni non sostiene la strada dell’obbligatorietà: “L’accoglienza va fatta con convinzione. È una scelta politica starne dentro. Quello che conta è la premialità dei comuni: soldi in più, assunzioni in più, sgravi fiscali per i cittadini”, ha spiegato tempo fa a ilfattoquotidiano.it. E ancora: “I sindaci sono persone pragmatiche, anche tanti comuni di centrodestra ormai dicono “preferisco il Sai”. Ma hanno bisogno dei giusti incentivi”.