Il Garante Palma: “Troppi detenuti al 41bis, bisogna rispettare la Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 4 aprile 2023 Sono 740 i condannati sottoposti alla misura speciale, di cui 12 donne. Sono tutti mafiosi, tranne tre terroristi e l’anarchico Cospito. “Troppi” detenuti al 41bis. “Per troppo tempo”. “Fino all’ultimo giorno di detenzione”. “Con restrizioni assurde come l’obbligo di comprare solo una melanzana e una zucchina”. “Con un 41bis dentro lo stesso 41bis, con oltre 40 persone chiuse nelle cosiddette ‘aree riservate’, sottosezioni con soli 2-4 detenuti”. In più ci sono le fake news, “come quella del divieto della Bibbia a Cospito”. Il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, con le vice Garanti Daniela De Robert ed Emilia Rossi, pubblica un rapporto di 47 pagine sul 41bis, critica la misura non in sé, ma per come viene applicata, chiede che non sia mai chiamato “carcere duro”, e sollecita “una riflessione complessiva” per riportarlo nell’ambito della Costituzione come ha più volte sollecitato la Consulta nelle sue sentenze in materia. Quanto ad Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da 5 mesi, Palma critica le “fake news” che lo riguardano, proprio come quella che gli sia stato proibito di leggere la Bibbia. Quanto al suo 41bis, l’invito del Garante è il seguente: “Credo che mai una persona a livello individuale possa pensare, anche con il suo sacrificio, di far cambiare una legge dello Stato: abbiamo un Parlamento per questo. Inviterei Cospito ad accontentarsi di questo risultato e riprendere a mangiare”. E ancora: “Prendo atto delle decisioni della magistratura, ma il suo gesto molto forte, e anche estremo, ha fatto sì che si ridiscuta del 41bis, e del resto non ne discuteremmo oggi senza l’irruenza mediatica del suo caso. Anche nei suoi confronti chiedo un gesto, ma il problema individuale e quello collettivo non vanno confusi”. “Troppi detenuti al 41bis” - Il Rapporto del garante è “denso” di dati, a partire dai numeri del 41bis. Oggi sotto questo regime carcerario si trovano 740 persone, di cui 12 donne distribuite in 60 sezioni all’interno di 12 istituti. Di questi, 87 superano i settant’anni, 234 sono tra i 60 e i 69, 218 sono tra i 50 e i 59 anni,150 sono tra i 40 e 49, 50 tra i 30 e i 39 anni. Un solo detenuto ha meno di trent’anni. Palma chiede esplicitamente che questa forma di regime speciale non sia mai definito “carcere duro” perché “il concetto implica in sé la possibilità che alla privazione della libertà possa essere aggiunto qualcos’altro con obiettivi maggiormente punitivi o di deterrenza o implicito incoraggiamento alla collaborazione. Obiettivi che porrebbero l’istituto al di fuori del perimetro costituzionale”. In quali carceri ci sono i 41bis - Il maggior numero di detenuti, 150, di cui 12 donne, si trovano nel carcere dell’Aquila. Ce ne sono 96 a Milano Opera, 88 nel carcere di Bancali a Sassari, 81 a Spoleto, 70 a Novara e 70 a Parma, 46 a Viterbo, mentre 45 sono a Cuneoe 44 a Roma Rebibbia. Il 41bis negli ultimi 10 anni - Il Garante scrive nel suo rapporto che dall’analisi dell’andamento del 41bis degli ultimi dieci anni la presenza dei detenuti risulta sostanzialmente invariata, con una media di 731 persone. Ma ecco il dettaglio anno per anno, 699 al 41bis nel 2012, 707 nel 2013, 723 nel 2014, 728 nel 2015, 724 nel 2016, ancora 724 nel 2017, 742 nel 2018, 753 nel 2019, 756 nel 2020, 745 nel 2021, 740 l’anno scorso. Di questi detenuti 613 hanno una condanna definitiva, 121 hanno una misura cautelare, sei sono internati in misura di sicurezza, mentre 204 sono quelli all’ergastolo, 250 hanno una pena temporanea. No al 41bis nell’ultimo biennio di pena - Palma sottolinea che questi dati evidenziano come un numero consistente di persone, 28 l’anno scorso, rimane in regime speciale fino all’ultimo giorno di esecuzione della pena. E ritiene “particolarmente critica” questa situazione “innanzitutto sotto il profilo della sensatezza” e si chiede soprattutto per quale motivo venga rinnovata la misura nell’ultimo biennio “sapendo che nel corso di quei due anni la persona uscirà dal fine pena.” Secondo Palma “è anomalo tenere al 41bis una persona sino al suo ultimo giorno di detenzione” e ciò presuppone che della persona stessa “non si conosca la sua capacità di reintegrazione”. La sua posizione è che negli ultimi due anni il detenuto vada tolto dal 41bis “in modo da incamminarlo verso il ritorno in libertà anche perché questa restrizione non riguarda l’eventuale caduta dei collegamenti con altri mafiosi”. Abolire le “aree riservate” - Il regime del 41bis prevede che i detenuti siano ristretti in gruppi molto piccoli di tre-quattro persone nelle cosiddette “aree riservate”, quelle divenute note dopo lo sciopero della fame di Alfredo Cospito al Bancali di Sassari. Ma ci sono anche alcuni casi in cui stanno assieme solo due detenuti. Palma sostiene sulla base di quanto afferma il Comitato europeo per la prevenzione della tortura queste aree debbano essere “abolite”. E chiosa: “Non credo sia possibile che una persona possa stare per sempre al 41bis in cortili in cui si vede solo il grigio, perché invece dove si vede un po’ di montagne come all’Aquila, già il clima cambia, e perché l’interruzione della vita criminale non può coincidere con l’interruzione della vita stessa del detenuto”. Le ragioni del 41 bis - Palma cita le sentenze della Corte costituzionale che ancora con quella del 2020 ha ribadito come la finalità del carcere speciale sia quella di impedire “i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà”. Si tratta quindi di limiti ben specifici, lo scopo del 41bis è quello di interrompere i collegamenti con le organizzazioni criminali, ma ciò “deve tener conto del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione per cui le restrizioni non devono vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e devono essere contrarie a trattamenti contrari al senso di umanità”. È evidente il contrasto tra le sentenze della Consulta, la norma costituzionale, e l’attuale regime del 41bis. A questo si aggiunge l’anomalia di una serie di divieti, come la possibilità di acquistare “una sola zucchina o una sola melanzana” oppure come il diametro massimo delle pentole e dei pentolini, o come il numero di matite a colori che si possono usare nella sala pittura, oppure il numero di libri, e cioè al massimo quattro, le dimensioni e il numero delle fotografie che si possono tenere nella cella, il divieto di affiggere alle pareti fogli e fotografie, salvo come dice il Regolamento solo una singola fotografia di un familiare, il divieto di acquistare alcuni quotidiani a diffusione nazionale. I detenuti al 41bis non godono nemmeno dei progetti di rieducazione per cui, scrive il Garante, “c’è il rischio dell’abbandono delle finalità costituzionali della pena”. Le fake news - Sul 41bis ci sono molte fake news, come l’obbligo dell’isolamento totale o le censure internazionali, “che non ci sono mai state”. Quando la Cedu ha censurato l’Italia - dice Palma - “lo ha fatto perché era stato rinnovato a una persona, che poi è morta pochi mesi dopo, ma la critica di Strasburgo riguardava l’automatismo del rinnovo, non la misura in sé”. Ma, secondo Palma, bisogna evitare anche le fake news, ad esempio definisce “una leggenda metropolitana che a Cospito sia stata vietata la Bibbia”, o ancora che ad altri detenuti vengano proibiti dei libri. Le detenute analfabete - Tra le 12 donne al 41bis in Italia, ce ne sono due o forse tre che sono analfabete. “Il primo scopo della pena - dice Palma - dev’essere quello di dare istruzione, un’istituzione che non se ne fa carico, che non si pone proprio il problema, tradisce il principio costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione”. Il confronto con la politica - Ma qual è il rapporto del Garante Palma con la politica e con il governo? E cosa chiede alla politica? Palma risponde così: “In sei anni abbiamo dialogato con sei diversi governi, le posizioni sono trasversali, un parlamentare ha messo su Fb l’invito a “buttare la chiave” a proposito di un arresto e noi siamo intervenuti. Noi lo facciamo contro chi vuole far diventare la tortura un aggravante oppure vuole in carcere le detenute madri. Stamattina per esempio, sono rimasto perplesso di fronte al fatto che assieme a me non ci fossero anche i rappresentanti dei partiti per far proseguire il processo Regeni a carico dei responsabili egiziani. Servono elementi di coesione sulla pena, tra chi la vuole dura e chi costituzionale, ed è un tema che mi sento di affrontare con tutte le forze politiche”. Cosa chiede il Garante al governo - A conclusione del suo lungo rapporto il Garante pone degli interrogativi molto specifici. Innanzitutto invita sia i magistrati che il Guardasigilli a riflettere “sull’opportunità di mantenere una così ampia estensione numerica delle persone ristrette al 41bis e se non sia possibile una riduzione, e soprattutto l’assegnazione di una parte di esse alle sezioni di alta sicurezza”. Palma fornisce poi alcune indicazioni, evitare che il 41bis duri fino all’ultimo giorno della pena prevista, che siano abolite le aree riservate, che tutti gli ambienti siano configurati in modo da consentire un sufficiente passaggio di aria e di luce naturale a partire dalla rimozione delle schermature delle finestre, salvo i casi limitatissimi in cui siano indispensabili per evitare il contatto con persone esterne e con altri detenuti. Il Garante consiglia di rivedere i cortili di passeggio, suggerisce un percorso di alfabetizzazione e istruzioni di base, e ancora di adottare lettori di libri ottici in modalità ovviamente off line. Chiede ancora che negli istituti sia permesso l’accesso o all’abbonamento o all’acquisto di organi di stampa, e chiede che la direzione delle carceri emetta una circolare sulla modalità di attuazione del 41 bis. Il 41bis è un tunnel senza uscita: in tanti ci restano più di 20 anni di Angela Stella Il Riformista, 4 aprile 2023 La denuncia nel rapporto del garante dei detenuti Palma. Alcune restrizioni “non appaiono allineate alla finalità del regime detentivo”. C’è una “sospensione del trattamento”. Così si rischia di violare la Costituzione. Il 41-bis così come applicato rischia di violare la Costituzione: è quanto emerso ieri durante la presentazione del rapporto sul regime speciale di detenzione tenuta dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Mauro Palma ha parlato di “criticità tra il diritto alla finalità rieducativa della pena, di cui è titolare ogni persona detenuta, le particolari misure adottate nella quotidianità dell’esecuzione di tale regime e le spesso parziali applicazioni di quanto ordinato dalla Magistratura di sorveglianza a seguito dell’accoglimento di reclami”. Il Garante ha rilevato, infatti, dopo aver visitato tutte le sezioni del 41 bis, “la permanenza di una serie di restrizioni, peraltro previste dalla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2017, tuttora vigente, che incidono significativamente sulla qualità della vita delle persone ristrette”. Restrizioni che “non appaiono allineate alla finalità del regime: il diametro massimo di pentole e pentolini, mantenuto anche quando la Corte aveva annullato il divieto di cucinare; la limitatezza dei generi di acquisto di modico valore o cibi che risulta diversa da quella adottata nei circuiti di alta sicurezza (una circolare ancora indica che si può acquistare una melanzana); il numero di matite o colori ad acquarello detenibili nella sala pittura (non oltre 12); il numero di libri (4); le dimensioni e il numero delle fotografie che si possono tenere nella camera; il divieto di affissione alle pareti e alle altre superfici di fogli e fotografie, salvo “una singola fotografia di un familiare”; l’esclusione dell’acquisto di alcuni quotidiani a diffusione nazionale”. Tutti aspetti che per il Garante nazionale “rischiano di far venir meno il fondamento assolutamente condiviso di un circuito che efficacemente interrompa la possibilità di mantenere contatti, comunicazione e linee di comando con le organizzazioni criminali”. Il Garante ha poi denunciato una “sospensione del trattamento tout court”. E “il passo tra ‘sospensione del trattamento’ e il rischio di abbandono della finalità costituzionale della pena che sempre è molto breve”. Al momento della redazione del Rapporto, le persone sottoposte al regime speciale sono 740, tra cui 12 donne, distribuite in 60 sezioni all’interno di 12 Istituti. Delle 740 persone in regime speciale: 613 hanno una condanna definitiva, 121 sono esclusivamente in misura cautelare, 6 sono internate in misura di sicurezza in una struttura definita come “Casa di lavoro” e sottoposte anch’esse a tale regime. Quanto alle pene definitive: 204 sono condannati all’ergastolo, 250 sono condannati a pena temporanea. Quest’ultimo dato evidenzia “il fatto che un numero consistente di persone (nello scorso anno 28) rimane in regime speciale fino all’ultimo giorno di esecuzione della propria pena temporanea. Tale situazione è ritenuta particolarmente critica sotto il profilo della sensatezza (perché rinnovare la misura nell’ultimo biennio, sapendo che nel corso di quei due anni la persona uscirà a fine pena?)”. Nel corso delle proprie visite, il Garante ha riscontrato un considerevole numero casi di persone soggette costantemente al regime da oltre 20 anni, a volte dall’inizio della detenzione. Ciò indica che l’apparato motivazionale “si risolve correntemente nell’affermazione della “assenza di ogni elemento in senso contrario” alla capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva, in adesione letterale alla formula della norma che su questo parametro fonda la reiterabilità del regime”. Tale formula limita la motivazione della proroga del regime speciale “alla prova di una circostanza negativa (una sorta di probatio diabolica) riferita a un elemento potenziale soggettivo - la “capacità” della persona di mantenere collegamenti con la criminalità associata - e non a uno oggettivo quale sarebbe l’effettiva permanenza dei collegamenti con l’associazione criminale”. Nel Rapporto il Garante indica alcune raccomandazioni, tra cui: “tutti gli ambienti siano riconfigurati in modo tale da permettere un sufficiente passaggio di aria e di luce naturale, a partire dalla rimozione delle schermature delle finestre, salvi i casi limitatissimi in cui siano indispensabili a impedire il contatto con altri detenuti o con personale esterno; siano ripensati e adeguati i cortili di passeggio in maniera da non incidere negativamente sulla capacità visiva e consentire effettivamente attività fisica e sportiva; sia avviato con urgenza un percorso di alfabetizzazione e istruzione di base e sia potenziato comunque l’accesso agli studi ai diversi livelli; sia emanata una nuova Circolare sulle modalità di attuazione del regime speciale con linee-guida generali che assicurino l’esclusione di misure restrittive non strettamente funzionali alla prevenzione dei collegamenti interni ed esterni con la criminalità organizzata”. Al 41bis e in “Aree riservate”: peggio di Cospito di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 aprile 2023 Il Rapporto e le richieste del Garante dei detenuti Mauro Palma. Alfredo Cospito ma non solo. Sottoposte al regime di detenzione speciale 41bis ci sono attualmente circa 740 persone, tra cui 12 donne, distribuite in 60 sezioni all’interno di 12 carceri. A parte il detenuto anarchico e tre brigatisti rossi del tempo che fu, sono tutti condannati (613) o in custodia cautelare (121) per associazione a clan mafiosi. Sei gli uomini internati nella “Casa lavoro” di Tolmezzo di cui solo due sono ancora in età lavorativa e operano in una serra, quindi per pochi giorni l’anno. Ciascun recluso sottoposto al 41bis può comunicare solo con gli altri detenuti o internati facenti parte dello stesso “gruppo di socialità” (composto di 4 persone al massimo). Ma per 35 carcerati le restrizioni sono ancora maggiori: per loro esistono 11 “Aree riservate”, “non previste da alcuna norma di legge”, che il Garante nazionale delle persone private di libertà ritiene “debbano essere abolite”. Lo ha spiegato ieri lo stesso Mauro Palma, insieme alle colleghe Daniela De Robert e Emilia Rossi, presentando presso la sede romana dell’Fnsi il Rapporto sull’applicazione del regime speciale ex art. 41bis dell’ordinamento penitenziario. Il numero di detenuti al 41bis - “non chiamatelo carcere duro, perché se avesse fini maggiormente punitivi o di deterrenza si collocherebbe fuori dal perimetro costituzionale” - è rimasto “sostanzialmente invariato nell’ultimo decennio”. “Troppi”, per l’ufficio del Garante che però considera quel regime speciale “un sistema necessario per sconfiggere un problema grave nel nostro Paese”. Eppure, la “permanenza di una serie di restrizioni” - “il diametro massimo di pentole e pentolini, il numero di pagine dei libri, il numero di matite o colori a disposizione, il numero e la dimensione delle fotografie”, ecc - “non appaiono allineate alla finalità del regime” e “rischiano di far venir meno la ratio del sistema”. Perciò, tra le raccomandazioni finali il Garante chiede “una nuova circolare sulle modalità di attuazione” del 41bis per escludere le “misure restrittive non strettamente funzionali alla prevenzione dei collegamenti interni ed esterni con la criminalità organizzata”. Dunque un regime legittimo, come d’altronde sempre riconosciuto anche dalla Consulta, “purché il rinnovo non avvenga in modo automatico e il regime non diventi un elemento simbolico”. Ed è su questo, in particolare, che il Garante punto il dito, definendosi “nettamente contrario agli elementi simbolici che la fanno da padrone rispetto a quelli concreti”. Cosicché, se a Cospito, l’anarchico in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso (ma da qualche giorno ha ricominciato anche ad assumere latte), si deve riconoscere “senz’altro il merito di aver riaperto il dibattito sul 41bis”, come ha riconosciuto Palma, viceversa la sua battaglia personale per ottenere la revoca del regime a cui è sottoposto dal maggio dell’anno scorso rischia di trasformare un tema serio e delicato in un elemento simbolico che poco aiuta il superamento dei problemi. “Fermo restando - fa notare Palma - che nessuna persona in uno Stato democratico può immaginare che con lo sciopero della fame possa far cambiare una legge. Può semmai chiedere che venga applicata”. Lo sciopero della fame come forma di lotta nonviolenta, prosegue il Garante a margine della presentazione, “deve avere un obiettivo possibile, deve essere in favore della vita, non finalizzato alla morte”. Palma, che ha visitato il detenuto anarchico quattro volte, l’ultima una settimana fa, rivolge un appello alle autorità politiche affinché tentino “tutte quelle vie che, non negando con un atto di imperio le decisioni della magistratura, diano soluzione al problema individuale”. E a Cospito chiede “un gesto” (l’interruzione del digiuno, ndr) che renda la sua battaglia concreta e non simbolica: “Il problema generale e quello individuale non vanno confusi”. Di certo, il 41bis non può essere rinnovato o confermato a una persona in fin di vita. “Successe nel 2008 - ricorda Palma - e per questo l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Ora, visto che “questo rapporto chiama in causa il legislatore”, Stefano Anastasia, portavoce dei Garanti territoriali, esorta il Parlamento ad intervenire “con una propria indagine conoscitiva sul 41bis”. Il 41bis è sempre più duro. Ma a Report non basta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2023 Alla lettura della trasmissione si contrappone l’analisi scientifica del Garante dei detenuti. Che sottolinea come il regime differenziato sia lontano dal suo scopo originale. Da una parte c’è il programma in prima serata Report che sul 41 bis utilizza il solito metodo dietrologico, dall’altra il Garante nazionale delle persone private della libertà che attraverso le visite in tutte le sezioni e una lettura scientifica dei fatti, ci riporta alla cruda e nuda realtà di un regime differenziato che è sempre più duro e lontano anni luce dal suo scopo originario. Ma il giornalismo attuale, soprattutto televisivo, è diventato puro intrattenimento. In generale, siamo passati dalla radicalità di un pensiero che andava alla ricerca della radice delle cose a una concezione indiziaria, una visione poliziesca che ha fatto del “sospetto” la chiave di lettura della realtà. L’inchiesta di Report - Partiamo da Report. Si è accorto solo ora che i detenuti al 41 bis hanno la possibilità di poter studiare e conseguire una laurea. Un diritto ribadito recentemente sia dalla Cassazione che dalla Corte Europea di Strasburgo. Eppure, come rivela il Garante, scopriremo che non è sempre una passeggiata poter studiare in questo carcere differenziato. Ma come mai fa scandalo secondo la lettura del programma di Rai3? Tale possibilità garantita dalla Costituzione italiana in primis, sarebbe un espediente per “rompere” l’isolamento. Quest’ultimo è una condizione finalizzata esclusivamente per evitare contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza. Oppure dobbiamo immaginare che la scuola sia un covo di mafiosi dove si possono veicolare messaggi? Si fa una trasmissione che parla anche in maniera strumentale di “ombre nere” riferendosi ai neofascisti ex detenuti e non, ma il succo dell’argomentazione è profondamente reazionaria: ogni “diritto” garantito dai principi costituzionali, diventa un espediente. Tutto diventa ancora più sfalsato se si aggiunge una lettura cospirazionista dei diritti acquisiti. Se le scelte politiche, le sentenze delle Corti, le battaglie progressiste e liberali, si vedono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi e a trame occulte, tutto ciò porta inevitabilmente a uscire fuori dalla realtà e non garantire un approccio scientifico dei fatti. Si ritirano fuori ad esempio le intercettazioni tra Giuseppe Graviano e il suo ex compagno di socialità Umberto Adinolfi. Il solito discorso che il boss di Brancaccio avrebbe avuto la possibilità di fare sesso con sua moglie al 41 bis e quindi concepire un figlio. Anche suo fratello avrebbe avuto la stessa possibilità. In realtà, all’epoca dei fatti, quando appunto nacquero i figli, si vagliò la questione. Si appurò che i figli di entrambi i fratelli Graviano, nacquero nel ‘97 con la tecnica dell’inseminazione artificiale al Saint- Georges di Nizza, un’esclusiva clinica specializzata in queste pratiche di maternità. Infatti è ancora meta di tanti connazionali che praticano la fecondazione assistita visto che in Italia la legge è molto restrittiva. Avrebbero in realtà fatto passare la provetta di sperma all’esterno del carcere tramite complici. Molto più facile rispetto a far entrare le mogli in cella e concepire i figli al 41 bis davanti alle telecamere di videosorveglianza h 24. Anche perché, per fare tutto ciò, non solo dovevano essere complici gli agenti penitenziari, non solo gli addetti alla video sorveglianza e anche i reclusi al 41 bis astanti, ma anche la direttrice dell’Ucciardone. E all’epoca, a dirigere il carcere duro, c’era Armida Miserere. Soprannominata “il colonnello”, era una donna di ferro che in quegli anni aveva fama di aver trasformato la fortezza borbonica di Palermo in un efficiente supercarcere. La sua, una storia travagliata finita in tragedia. Il Report del Garante nazionale - Ma ora ritorniamo alla realtà, così come dovrebbe essere compito del giornalismo: informare tramite fonti qualificate. Il Garante nazionale ha visitato nel corso del suo mandato, a più riprese, tutte le sezioni del 41 bis e ne ha esaminato l’applicazione alla luce del perimetro delineato dalla Corte costituzionale. Il presidente Mauro Palma, in conferenza stampa, ha illustrato il report appena reso pubblico e ne è uscito fuori un quadro disarmante. Schermature alle finestre delle stanze detentive che impediscono un sufficiente passaggio di luce e aria naturali, l’assenza di qualsiasi elemento di stimolo visivo, la miseria di molti cortili, la presenza ossessiva di grate a totale copertura degli stessi, l’angustia delle cosiddette sale di socialità. Il Garante parla di una vera e propria “pena corporale”. Senza contare la permanenza di una serie di restrizioni, previste dalla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2017, tuttora vigente, che incidono significativamente sulla qualità della vita delle persone ristrette. Restrizioni che non appaiono allineate alla finalità del regime: il diametro massimo di pentole e pentolini, la disponibilità oraria, con consegna al mattino e ritiro alla sera, di oggetti per l’igiene personale, il numero di matite o colori ad acquarello detenibili nella sala pittura (non oltre 12), il numero di libri (4), le dimensioni e il numero delle fotografie che si possono tenere nella camera, il divieto di affissione alle pareti e alle altre superfici di fogli e fotografie, salvo “una singola fotografia di un familiare”, l’esclusione dell’acquisto di alcuni quotidiani a diffusione nazionale. A questo si aggiunge un altro dato significativo. Al momento della redazione del rapporto, le persone sottoposte al 41 bis risultano 740, tra cui 12 donne, distribuite in 60 reparti all’interno di 12 Istituti. Delle 740 persone sottoposte al 41-bis, 35 sono detenute nelle 11 “Aree riservate”, circuiti speciali con ancora maggiori restrizioni. Le Aree riservate non sono previste da alcuna norma di legge, ma giustificate in base a una specifica interpretazione dell’articolo 32 del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario che prevede sezioni a cui sono assegnati “I detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele”. Queste aree sarebbero un 41 bis ulteriormente inasprito. Dal suo studio analitico il Garante ha espresso la necessità di una riflessione integrale sulla legge. Ritiene che il numero delle persone attualmente recluso al 41 bis sia suscettibile di una profonda revisione. “Tale obiettivo, che renderebbe anche equilibrio e verosimiglianza all’immagine complessiva del fenomeno della criminalità organizzata nel Paese, altrimenti rappresentata dalla presenza in carcere di oltre 700 soggetti apicali potenzialmente pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, può essere perseguito senza pregiudicare le permanenti esigenze di particolare sicurezza attraverso una migliore configurazione delle sezioni del circuito dell’Alta sicurezza 1, che assicuri la separazione dagli altri circuiti detentivi”. Così come emerge che a distanza di vent’anni, diversi detenuti si ritrovano rinnovato il 41 bis. “Se il rischio del mantenimento dei collegamenti con la criminalità organizzata di provenienza viene ritenuto sussistente anche a distanza di oltre 20 anni dalla prima applicazione, quando non dall’inizio della detenzione, il dubbio sull’efficacia del sistema preventivo risulta legittimo”, sottolinea il Garante, spiegando che il dubbio si estende conseguentemente all’effettiva finalità perseguita con la reiterazione del regime detentivo differenziato: “Se non è fondata sull’effettiva permanenza dei rischi di mantenimento dei collegamenti con l’associazione criminale, risulta diretta esclusivamente a imporre una forma afflittiva di detenzione”. Il Garante raccomanda nuovamente di non definire mai il regime detentivo speciale quale “carcere duro”, perché questo concetto implica in se la possibilità che alla privazione della libertà - che e di per se il contenuto della pena detentiva - possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. “Fini che porrebbero l’istituto certamente al di fuori del perimetro costituzionale”, conclude il Garante. L’accanimento del governo sui bambini in carcere di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 4 aprile 2023 La destra dice di volerli difendere ma poi li costringe a passare i primi anni della loro vita in prigione. Dopo i partecipanti ai rave, i migranti e le coppie omosessuali, nei giorni scorsi il governo ha individuato un’altra categoria di persone che occorre neutralizzare per salvaguardare l’incolumità dei cittadini: le “borseggiatrici”. Le quali, come diversi esponenti della maggioranza hanno precisato in questi giorni, sono solite utilizzare i loro bambini come strumenti per scampare alla prigione. Sulla scorta di questa (sic) considerazione Fratelli d’Italia ha fatto saltare la proposta di legge che avrebbe evitato il carcere alle donne detenute insieme ai figli minori di sei anni (attualmente nel Paese se ne contano 26), istituendo case famiglia dove poter scontare la pena senza costringere i bambini a trascorrere la loro infanzia dietro le sbarre: una proposta di legge che nello scorcio finale della scorsa legislatura era stata approvata dalla Camera per poi fermarsi al Senato. Il viceministro degli Esteri Cirielli, in un soprassalto di fantasia, è arrivato addirittura a proporre che alle madri detenute venga sottratta la patria potestà (spoiler: da più di dieci anni la legge parla di “responsabilità genitoriale”), tanto per tagliare la testa al toro e non pensarci più. Leggendo di queste vicende mi è tornato in mente un episodio di tre anni fa, quando ero consigliere regionale del Lazio. Durante una visita ispettiva al carcere femminile di Rebibbia (quando siamo eletti noi radicali esercitiamo con continuità questa funzione preziosa e assai poco praticata), una detenuta che teneva in braccio il suo bimbo di due anni mi disse: “A casa ne ho altri tredici”. Era una donna rom, verosimilmente una delle “borseggiatrici” che nel racconto di questo governo sono pericoli per la sicurezza pubblica, ma che nei fatti sono semplicemente persone in condizioni di miseria e di esclusione sociale. Ecco, se l’unica cosa che un governo riesce a vedere quando guarda una donna che rubacchia per sfamare quattordici figli è il fatto che quei figli le sono utili per non andare in carcere, e non si interroga sulla marginalità da cui sarebbe suo dovere sottrarla, si tratta di un governo che ha un gigantesco problema di lettura della realtà. Del resto parliamo dello stesso governo che dice di voler difendere i bambini e poi li guarda impassibile mentre muoiono nei naufragi, tenta di strapparli alle famiglie solo perché sono composte da due uomini o da due donne, li costringe a passare i primi sei anni di vita in un carcere. Si tratta di un modo assai singolare di difendere, ma tant’è. *Segretario di Radicali Roma Caso Regeni, la procura chiede l’intervento della Consulta per sbloccare il processo di Valentina Stella Il Dubbio, 4 aprile 2023 Sit in davanti al tribunale di Roma con Elly Schlein e il Garante Palma. A fine mese il Gup deciderà se mandare alla sbarra gli 007 egiziani, inviare gli atti alla Consulta, o chiudere il caso. Sul caso Regeni la Procura di Roma chiede un intervento della Consulta. La richiesta al gup è arrivata dal procuratore capo Francesco Lo Voi, in aula insieme con il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, nel corso della nuova udienza preliminare sull’omicidio del ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016. Una richiesta finalizzata a sbloccare il processo, che si trova ancora in una fase di stallo. La procura in particolare ha sollevato la questione di costituzionalità dell’articolo 420 bis nella parte in cui prevede che l’assenza di conoscenza del processo da parte dell’imputato derivi dalla mancata attivazione della cooperazione dello Stato estero. Il gup scioglierà la riserva il 31 maggio: in quell’udienza il giudice potrebbe accogliere la richiesta della Procura e inviare atti alla Corte Costituzionale o decidere per il non luogo a procedere, oppure mandare gli imputati a giudizio. Imputati sono quattro 007 egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. Nei giorni scorsi l’avvocatura dello Stato ha depositato una memoria al Tribunale di Roma con cui chiede che si celebri il processo nei confronti dei quattro 007 egiziani facendo riferimento, in particolare, alla riforma dell’articolo 420 bis della riforma Cartabia, ritenendo che questa abbia aperto alla possibilità di svolgere il procedimento anche in assenza degli imputati lasciando maggiore discrezionalità al giudice sul punto della conoscenza del procedimento e della scelta di sottrarsi al processo in maniera “volontaria e consapevole”. Nell’udienza di oggi era prevista la testimonianza in aula della premier Giorgia Meloni e del ministro degli Esteri Antonio Tajani ma nelle scorse settimane l’avvocatura dello Stato aveva comunicato che i due rappresentanti del governo non avrebbero deposto perché il contenuto dei colloqui avuti col presidente egiziano al-Sisi non è divulgabile. Prima dell’udienza, fuori dal tribunale si è svolto un sit in per chiedere verità e giustizia per Regeni a cui ha partecipato anche la segretaria del Pd Elly Schlein e il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma. “Noi siamo sempre più convinti, dopo aver ascoltato oggi le parole del procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi, che il processo per il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni vada fatto in Italia e debba iniziare prima possibile”, spiega l’avvocata Alessandra Ballerini, con i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, dopo l’udienza. “Lo pensiamo non solo per Giulio, ma perché venga sancito il principio che i cittadini italiani non possono essere sequestrati, torturati e uccisi, non possono subire la violazione dei loro diritti fondamentali, nell’assoluta impunità, perché gli aggressori si sottraggono al processo abusando del nostro sistema di diritto e di garanzia - ha aggiunto la legale - Nessuno vuole negare il diritto di difesa a queste quattro persone, ma che vengano, si facciano processare e si difendano. Ringraziamo tutte le persone che nel mondo non solo ci sostengono emotivamente, ma stanno facendo indagini per noi, molto preziose. Stateci vicino”. “Sono andata a esprimere di nuovo vicinanza alla famiglia di Giulio Regeni e alle tante persone che in questi anni non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia. Crediamo fortemente che il processo ai suoi assassini debba andare avanti”, scrive sui social Schlein prima dell’udienza. “Stamattina sono rimasto molto perplesso del fatto che non ci fossero i segretari dei vari partiti insieme a me e ai genitori di Giulio Regeni davanti al tribunale di Roma per chiedere che si possa proseguire il procedimento a carico dei responsabili egiziani”, commenta Palma. Per il quale occorre “coralità effettiva” sulla vicenda: “sono certo che il governo stia facendo dei tentativi, ma su temi come questi mi aspetto che siano presenti anche le parti istituzionali”. Biella. Detenuto muore in carcere per “cause da accertare” ansa.it, 4 aprile 2023 Il decesso durante la visita di un sindacato della polizia penitenziaria. L’istituto ha 23 agenti sospesi per violenze. Un detenuto è morto ieri mattina, lunedì 3 aprile, nel carcere di Biella mentre era in corso la visita alla struttura da parte della Fp Cgil Polizia Penitenziaria. A dare la notizia i componenti della delegazione sindacale Mirko Manna Fp Cgil nazionale, Cristina Martiner Bot Segretaria Generale Fp Cgil Biella e Vanja Cecchini Segretaria Regionale Fp Cgil Piemonte. “Quel che sappiamo - spiegano in una nota i sindacalisti - è che sono presenti 380 detenuti sui circa 390 previsti dai posti letto. Un sovraffollamento apparentemente al di sotto della capienza regolamentare, ma ieri ci aspettavamo di conoscere anche la capienza reale dovuta ai lavori di ristrutturazione di alcune celle”. “Tuttavia - aggiungono - le condizioni di lavoro in carcere sono comunque critiche per la forte carenza di poliziotti in servizio che, nonostante gli agenti assegnati tramite distacco nel carcere di Biella, le sospensioni dal servizio dei colleghi accusati di aggressioni ai detenuti e nonostante il nucleo traduzioni sia stato soppresso per cercare di recuperare le unità che vi erano assegnate, registra una presenza di forza lavoro di circa novanta unità di cui settanta realmente assegnate ai compiti nelle sezioni detentive vere e proprie”. E sull’indagine in corso relativa agli agenti sospesi per presunte violenze su tre ex detenuti spiegano: “Ci auspichiamo che la vicenda dei colleghi coinvolti nelle accuse, come già avvenuto in altri casi recenti, trovi presto un chiarimento sulle reali responsabilità e possano rientrare presto in servizio”. Napoli. Una figurina in ricordo di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso dalla camorra di Valerio Papadia fanpage.it, 4 aprile 2023 Salvia venne ucciso a Napoli, in un agguato, per ordine del boss Raffaele Cutolo: era il 14 aprile del 1981. Una figurina, di quelle che si attaccano sui famosi album da collezione, affinché non si sbiadisca mai il ricordo di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere napoletano di Poggioreale ucciso dalla camorra in un agguato il 14 aprile del 1981. Questa l’iniziativa dell’associazione “Figurine forever” di Bologna che oggi, proprio nel carcere partenopeo, ha presentato la figurina dedicata a Salvia: l’ex vicedirettore di Poggioreale viene raffigurato, sorridente, davanti a un biliardino, sua grande passione. La figurina è stata presentata oggi in carcere - che è dedicato proprio a Salvia - alla presenza delle istituzioni, ma soprattutto della moglie e dei due figli dell’ex vicedirettore del penitenziario partenopeo. “Raccontare la persona di mio padre al di fuori del suo ruolo istituzionale in una scena di vita quotidiana credo sia importante anche perché serve ad avvicinare la sua figura alla gente, a far capire che non abbiamo bisogno di eroi per poter avere una vita sociale normale e rispettosa delle regole e che per cambiare le cose è necessario l’impegno di tutti a tutti i livelli istituzionali e sociali” ha detto Antonino Salvia, uno dei due figli di Giuseppe. “Tutte le iniziative non sono mai sufficienti a ricordare la traccia che ha lasciato Giuseppe Salvia nell’amministrazione penitenziaria e in questo istituto che a lui è intitolato. Noi siamo sempre onorati e lieti di accogliere manifestazioni che lo ricordano” ha dichiarato invece Carlo Berdini, attuale direttore del carcere di Poggioreale. Vicedirettore del carcere di Poggioreale dagli anni Settanta, nel 1980 Giuseppe Salvia firma quella che è probabilmente la sua condanna a morte. Raffaele Cutolo, boss della Nuova camorra organizzata, rientra in carcere dopo un’udienza e, come da prassi, deve essere perquisito. Gli altri agenti, per timore, sembrano paralizzati; non Salvia, che decide di perquisire personalmente il boss. Un affronto che pagherà con la vita. A 38 anni, il 14 aprile del 1981, Giuseppe Salvia viene ucciso da un commando di camorra sulla Tangenziale di Napoli, all’altezza dello svincolo dell’Arenella. Per l’omicidio Raffaele Cutolo - che si è sempre professato innocente - verrà condannato all’ergastolo come mandante. Napoli. Carcere di Secondigliano, ecco i primi due dottori dietro le sbarre: “Cambiare si può” di Alessio Liberini Il Mattino, 4 aprile 2023 La tesi di laurea in Scienze erboristiche, l’emozione della cerimonia davanti ai parenti. “Cambiare si può”, anche se si è dietro le sbarre ed il futuro sembra solo incertezza. A dimostrarlo, fungendo da esempio positivo per tutti, sono stati i primi due laureati del Polo Penitenziario Universitario della Federico II che oggi hanno discusso, all’interno palestra dell’Alta sicurezza dell’Istituto Penitenziario, la loro tesi di laurea in Scienze erboristiche. Ed ora, dopo una cerimonia emozionante tenuta alla presenza di parenti e detenuti, sono ufficialmente dottori. In attesa di poter iniziare presto anche la Magistrale per cui “si sono già proposti entrambi”. Nel corso del loro periodo di studio si sono cimentati anche in uno stage nella farmacia dell’istituto. Raccogliendo, nella giornata odierna, i frutti di un duro lavoro durato tre anni con risultati più che sbalorditivi. Basti vedere le votazioni annunciate al termine della discussione, presenziata da una commissione d’eccezione a partire dal rettore Matteo Lorito, che ha visto i due galeotti laurearsi con le votazioni di 105 e 110 e lode. “Per me è un sogno che si realizza - racconta la Direttrice del Centro Penitenziario di Secondigliano, Giulia Russo - vedere i nostri detenuti laureati dopo un percorso di studi, per il quale ringrazio fortemente l’amministrazione penitenziaria, la Federico II che ci ha creduto sin dal primo momento e soprattutto i nostri detenuti, dimostra a tutti che cambiare si può e si deve”. Perché grazie a loro “c’è già un effetto domino” precisa la direttrice del Centro Penitenziario spiegando come siano stati da stimolo sia per gli altri ospiti della struttura sia per i loro parenti che da “oggi avranno come riferimento un familiare che ha fatto altro nella vita, distinguendosi in modo positivo”. A non nascondere la contentezza per il traguardo raggiunto dai due candidati è anche il rettore federiciano, Matteo Lorito. “Dopo anni di lavoro - chiarisce - siamo arrivati finalmente ad avere i primi detenuti laureati. Una soddisfazione per un ateneo che lancia un grande segnale di inclusione. Credo che queste due persone che si laureano oggi mandano davvero un segnale a tutti: agli studenti, alla comunità accademica e a Napoli: in questi istituti di pena si può studiare e si può uscire come dottori per affrontare una nuova vita con una prospettiva veramente rivista”. Lo stesso Pup della Federico II, nato con l’allora rettore Gaetano Manfredi, ne è infatti un’ottima dimostrazione. Basti pensare che al momento, per l’anno accademico 2022/20223, sono addirittura 96 gli iscritti reclusi, di cui 5 donne, che vengono regolarmente seguiti nel loro percorso di studio fino al giorno della laurea. “Permettere a questi studenti detenuti di avere accesso alla cultura - osserva, invece, il relatore della seduta odierna, nonché delegato alle attività del Polo Universitario Penitenziario federiciano, Mariano Stornaiuolo - è stata una cosa straordinaria. Con la speranza che questa cultura fertilizzi il loro terreno di provenienza che nella maggioranza delle volte è arido ed ha quindi bisogno di essere fertilizzato di speranza, prospettive e possibilità”. Ora però “sono entrambi già proiettati verso il lavoro che gli aspetta - afferma Stornaiuolo- Uno, appassionato di ulivi e di olivicoltura ha svolto una tesi dove studia la presenza di metalli pesanti in oli prodotti nella terra dei fuochi. L’altro studente ha invece una passione per le coltivazioni e si è occupato di una pianta che dalla Cina è arrivata in Italia e forse potrà presto competere con uno dei nostri prodotti locali”. Torino. Dietro le sbarre non è come Mare Fuori: “I cittadini visitino le carceri” torinoggi.it, 4 aprile 2023 I Radicali italiani lanciano la campagna “Devi vedere”. Nella casa Circondariale Lorusso e Cutugno 1.400 detenuti: “In alcune sezioni sovraffollamento del 145%”. Portare i cittadini in carcere, per far vedere con i loro occhi come si vive dietro le sbarre. Quali sono i rumori, gli odori. Perché dentro il carcere la vita non è una fiction, come nella seguitissima Mare Fuori. È questo l’obiettivo della campagna “Devi vedere” lanciata dai Radicali Italiani. Un’iniziativa che punta a far diventare i cittadini consapevoli testimonial di una realtà che spesso è dura. Cruda. Lo testimonia il carcere Lorusso Cutugno di Torino, che con 1.400 detenuti è un vero e proprio piccolo comune. Un comune in cui il sovraffollamento la fa da padrone. “In alcune delle 27 sezioni presenti si toccano punte di sovraffollamento del 145%” ha spiegato la garante dei detenuti della provincia di Torino Monica Gallo. Il 2022 ha visto quattro persone togliersi la vita nel carcere di Torino, una situazione che non è cambiata nemmeno nel 2023, con un suicidio avvenuto qualche settimana fa. “La cena viene distribuita alle 17, non è corretto”. E pochi sono i lavori svolti nell’ultimo anno, nonostante l’interesse da parte del Governo. “La ristrutturazione del Sestante ha permesso la riapertura della sezione ed è costata 537.000 euro” ha raccontato la garante. Troppo poco, al netto di un cambio di passo del Comune di Torino riconosciuto dalla stessa Gallo in termini di interesse. Chi plaude all’iniziativa dei Radicali Italiani e dell’associazione Adelaide Aglietta è Daniele Valle, consigliere regionale del Pd: “Il carcere che vediamo attraverso i media e i film non è quello reale. Chi è fuori non lo sa, è abituato a film e serie tv. Ma c’è un abisso di diversità, che si può comprendere solo entrando o parlando con chi là dentro ci lavora o ne è uscito”. Il vice presidente del Consiglio regionale ha poi sottolineato come nel carcere di Torino ricadano le problematiche vissute dalla sanità piemontese: “La riduzione dei servizi lì è più sentita, perché i detenuti non hanno la possibilità di scegliere il privato”. Un altro tema sollevato da Valle è invece quello degli investimenti legati al Pnrr. Fondi europei che sembrano essersi dimenticati dello stato a dir poco ammalorato del carcere Lorusso e Cutugno: “Siamo ancora nella fase in cui non tutti i finanziamenti sono stati impegnati: quello del Pnrr sono fondi destinati ad aumentare i percorsi di inclusione sociale e il carcere dovrebbe avere esattamente questa funzione”. Bologna. Musica e arti per sostenere i deboli del mondo e promuovere i diritti umani di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 4 aprile 2023 Il Conservatorio “Martini” di Bologna ha ospitato nello scorso fine settimana la seconda edizione di “Musica e arti per i diritti umani”. Le giornate di studi giuridici e interdisciplinari sono state ideate dall’avvocato Alessandro Valenti (docente di diritto dello spettacolo nel Conservatorio di Bologna), nonché curatore del progetto realizzato nel capoluogo felsineo. “Siamo giunti - dice al Dubbio il professor Valenti - alla seconda edizione di questa iniziativa con un obiettivo chiaro: accomunare il tema della musica e delle arti a quello dei diritti umani. La prospettiva è quella di interrogarsi oggi e fare una approfondita riflessione interdisciplinare sui diritti umani non solo in termini di proclamazione e di riconoscimento da parte delle fonti internazionali, ma in termini di effettiva affermazione. La presenza di numerosi ospiti stranieri, che ci hanno fornito una visione a più largo spettro, ha rappresentato una preziosa occasione di confronto. Non dobbiamo dimenticare che gli artisti svolgono un ruolo molto importante per promuovere e far conoscere i diritti umani. È una prospettiva più impegnativa di quanto possa apparire, perché, di là di un facile ottimismo relativo al fatto che cantare i diritti umani fa audience, consente di chiedersi che cosa sia oggi la libertà di espressione artistica quando questa è in conflitto con i regimi autoritari, diventando portatrice di valori umani in contesti difficili”. Riflettere con un approccio interdisciplinare ha garantito il successo dell’edizione 2023 di “Musica e arti per i diritti umani”. La musica e le altre espressioni artistiche possono lanciare innumerevoli messaggi e proposte concrete. Certo, chi è fautore di alcuni messaggi di speranza non è esente da rischi. “In questi casi - commenta Alessandro Valenti - l’artista subisce la censura, come minimo. Altre volte viene perseguitato o addirittura incarcerato. Nel mondo occidentale è facile cantare i diritti umani se si è sicuri di vendere qualche copia in più, per esempio, di un disco e stare al lontano da certi scenari, al riparo da certe conseguenze dirette e negative. Quando invece si vive in contesti a rischio, lanciare dei messaggi ben precisi all’opinione pubblica, presentare testimonianze forti sotto forma di arte è molto più complesso, per non dire pericoloso. Una situazione analoga la vive colui che assiste legalmente i soggetti incarcerati solo per aver espresso liberamente il loro pensiero, solo perché, in una visione distorta del diritto di difesa, viene assimilato a chi è destinatario di determinate accuse”. Nell’evento tenutosi a Bologna sono intervenuti giuristi ed esponenti delle istituzioni. La formula adottata è stata quella di parlare con il linguaggio del diritto e dell’arte. Una formula innovativa, destinata a riscuotere in futuro sempre più successo. “Le “Giornate internazionali di Studi giuridici e interdisciplinari- Musica e arti per i diritti umani - conclude Valenti - hanno proposto un confronto a più voci di giuristi, economisti, artisti, musicologi, critici d’arte ed esperti di vari ambiti sulle più recenti riflessioni in materia di diritti umani, dando inoltre conto di quella produzione artistica, nella musica, nelle arti visive, nel cinema, nel teatro, maggiormente sensibile a questi temi. In tale prospettiva la libertà di espressione artistica, declinazione anch’essa di uno dei più importanti diritti umani, si pensi alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, più precisamente all’articolo 10, si interroga sui propri limiti e sulla effettiva capacità di rappresentare un reale sostegno all’affermazione dei diritti umani. Le sessioni del convegno sono state inoltre impreziosite da relazioni, esecuzioni musicali, esposizioni di opere di arte contemporanea e proiezioni di audiovisivi”. Chieti. In carcere una semplice e straordinaria storia di Claudio Bottan vocididentrojournal.blogspot.com, 4 aprile 2023 “Dammi la mano sinistra e l’altra appoggiala sotto il gomito. Stai dritto e quando lo dico io mi lasci andare. Un, due, tre...stai dritto, senza paura. È come un giro di valzer, e vai così. Adesso molla!”. No, non è una lezione al corso di ballo. Sono le istruzioni di Simona al suo Claudio per il giro di valzer che le permette di passare dalla carrozzina al letto, con un’ironia che mette a proprio agio anche il più impacciato e impaurito tra gli amici. “Le riesce benissimo, perché ti fa sentire come il cavaliere che ha appena riaccompagnato al tavolo la sua dama al gran ballo delle debuttanti”. Inizia così il cammino fatto di sostegno reciproco di due persone che, insieme, hanno vinto ostacoli e pregiudizi. Due persone che sono i protagonisti di una storia semplice e straordinaria, una storia emozionante. Una storia che è stata raccontata nel carcere di Chieti dove lo scorso 30 marzo nel teatro dell’istituto di Madonna del Freddo hanno fatto il loro ingresso, assieme i volontari di Voci di dentro, Claudio Bottan e Simona Anedda, lui detenuto in affidamento in prova al servizio sociale e lei affetta da sclerosi multipla. Una storia che ha trasformato una delle tante giornate del carcere in un momento straordinario. “Ha mostrato - ha detto Maria Rosaria Parruti, presidente del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila - come anche grazie al carcere si possa cambiare”. Autorizzato dal magistrato di Sorveglianza di Roma e dal direttore del carcere di Chieti, Claudio Bottan è infatti tornato dentro da visitatore per trasmettere un messaggio di speranza e positività. Lo ha fatto assieme a Simona della quale si prende cura da sette anni. “Lui è le mie braccia e le mie gambe - dice Simona - lui è il mio tutto”. Davvero difficile trasmettere le emozioni di quella giornata. Bisogna esserci stati. “Andiamo a portare la nostra testimonianza alle persone recluse spiegando che si tratta di una storia replicabile - dice Claudio - tant’è che prossimamente, con Voci di dentro, vorremmo avviare corsi di formazione per trasformare i “piantoni” in “assistenti alla persona”, un mestiere spendibile nel mondo libero”. “Non avrei mai potuto immaginare di finire galera, ma c’è sempre una prima volta - dice Simona - Ho avuto l’opportunità di entrare (da ospite) nel carcere di Chieti per raccontare la mia prigione, quella rappresentata dalla malattia che si è impadronita del mio corpo: una condanna che non prevede un “fine pena”. Anche io vivo ingabbiata, ma ho la fortuna di poter portare le mie sbarre ovunque voglia. Per questo spero di essere riuscita a trasmettere un messaggio positivo alle persone detenute che mi hanno ascoltata. Uno di loro ha voluto donarmi il faro, un modellino che aveva costruito per la sua famiglia: “La tua testimonianza - mi ha detto - ci ha illuminato. Tenga il mio faro, io ho ancora molto tempo a disposizione per costruirne un altro”. “La scrittura mi ha salvato, mi ha reso libero” dice Claudio che è socio volontario di Voci di dentro e redattore della rivista - È stato proprio grazie ad una intervista che ha conosciuto Simona Anedda nel 2016. Da allora è cominciato un cammino, insieme”. Un cammino dove uno aiuta l’altra e viceversa. Un’inquietante aria di sgombero di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 aprile 2023 Oggi, dopo anni di pace e di scambi che sembravano comportare una convivenza globale, probabilmente per reazione ai cambiamenti climatici, alla crisi economica, alla siccità, alla fame, alle pandemie, assistiamo alla nascita di una ondata di insofferenza contro tutto e contro tutti. Stiamo vivendo un momento difficile e pericoloso. Tira aria di guerra e l’umore della gente diventa ogni giorno più insofferente e litigiosa. Come se ci fosse una licenza generale a tirare fuori il peggio di sé. Il che certamente può procurare una soddisfazione egoistica, ma è un modo pericolosissimo di evadere dal senso di responsabilità. Mai come ora ci rendiamo conto che i popoli sono legati da vincoli sotterranei che come gli alberi nelle foreste, pur sembrando isolati, in realtà comunicano segretamente attraverso un linguaggio profondo e silenzioso. Se si pensa al Quarantotto per esempio, non viene in mente un solo Paese ma tutta una rete di città che si sono svegliate inaspettatamente alla protesta popolare. Ancora di più se si riflette sul Sessantotto: un fenomeno che ha toccato le parti più lontane del globo, dall’America alla Cina. Comincia con i movimenti antiautoritarii del 64, e il fuoco prende a infiammare gli animi più diversi e lontani. Così oggi, dopo anni di pace e di scambi che sembravano comportare una convivenza globale, probabilmente per reazione ai cambiamenti climatici, alla crisi economica, alla siccità, alla fame, alle pandemie, assistiamo alla nascita di una ondata di insofferenza contro tutto e contro tutti. Germoglia spesso da una protesta specifica, ma poi diventa una rivolta anarchica autodistruttiva e tende a travolgere ogni cosa, soprattutto le istituzioni. Ma le istituzioni sono alla base della democrazia, sempre che siano autonome e possano controllarsi l’un l’altra. Alternative non ce ne sono, salvo che non si voglia accettare un regime autocratico, o una dittatura militare. Per questo dobbiamo temere le conseguenze di uno scontento senza ragioni comprensibili che, come sta succedendo in molte parti del mondo, porta alla caduta dei governi democratici e alla scivolata verso l’autoritarismo. Credo sia chiaro a tutti che non ci possa essere democrazia senza istituzioni autonome e libere. La storia ci insegna che la voglia di buttare all’aria ogni ordine sociale porta a rigidezze poliziesche e richiesta di freni sociali. Ciò non vuol dire che le proteste di strada siano tutte sbagliate, ma in questo momento si assiste a una strumentalizzazione delle migliori intenzioni per gettare all’aria la logica e la convivenza pacifica. Tira un’aria inquietante di sgombero, ma uscire da una casa senza averne un’altra vuol dire finire sotto i ponti. È questo che vogliamo? Lo Stato etico della destra di Luigi Manconi La Repubblica, 4 aprile 2023 Qual è il rapporto tra il filosofo Giovanni Gentile e il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli? Quest’ultimo ha presentato una proposta di legge per riqualificare come reato, punibile con la reclusione, gli atti osceni in luogo pubblico (oggi illecito amministrativo), prevedendo l’attenuante per chi abbia provveduto ad occultarli attraverso “l’appannamento o la copertura dei vetri” dell’autovettura dove li si compie. Cosa c’entra costui con l’insigne esponente dell’idealismo italiano? In apparenza, nulla. Ma, a ben vedere, i nessi sono più numerosi e robusti di quanto si creda. Per comprenderlo, partiamo ancora da Ignazio La Russa e da quel mirabile esemplare di epistolario giustificazionista che è la sua cosiddetta “lettera di scuse”. Vi si trovano, sì, delle tiepide scuse morbidamente acconciate ma, soprattutto, una strabiliante affermazione: “Ho sbagliato a non sottolineare che i tedeschi uccisi in via Rasella fossero soldati nazisti, ma credevo che fosse ovvio e scontato”. Tanto ovvio e scontato che nell’intervista a Libero, da cui nasce tutta la polemica, lo stesso La Russa aveva detto che “quelli uccisi in Via Rasella non erano dei biechi nazisti delle Ss”. Ma cosa induce la seconda carica dello Stato a infilarsi in questa spirale di balle che pretendono di confutare altre balle? Innanzitutto, la convinzione che nel clamore esagitato dell’opinione pubblica, ciò che conta è l’urlo, il dileggio, l’oltraggio. E che, di questa controversia - nonostante il rimbrotto della premier - rischia di rimanere solo lo sprezzo nei confronti della Resistenza. Poi, la volontà di fare di tutto ciò una vera e propria battaglia culturale ingaggiata contro quella che la destra definisce “l’egemonia della sinistra”. Di tale egemonia, il ruolo attribuito alla Resistenza contro il nazi-fascismo è pilastro essenziale: eroderlo significa mettere in discussione un’intera cultura costituzionale. In cinque mesi, la destra ha lavorato alacremente in questa direzione mirando a produrre quella “crepa nel senso comune” di cui ha scritto Ezio Mauro su queste pagine. Quel senso comune è l’espressione di una mentalità collettiva che, per quanto indebolita, tutt’ora sopravvive come retaggio, magari solo residuale, delle grandi culture politiche della storia nazionale: dal solidarismo cristiano al progressismo al liberalismo. Un senso comune che si affida a valori ormai in crisi e a interpretazioni della realtà sempre meno capaci di leggere il nuovo mondo, e che tuttavia resiste. Ora l’offensiva culturale della destra lo aggredisce violentemente; la meritocrazia come parametro esclusivo della selezione che prescinde da ogni considerazione sulle condizioni materiali di partenza; l’intervento sul linguaggio attraverso un vocabolario, per così dire, patriottico (lotta al forestierismo, preponderanza assoluta del genere maschile e ricorso ossessivo al termine “nazione”); e, soprattutto, una politica proibizionista nei confronti dell’autodeterminazione individuale, dalle relazioni tra persone dello stesso sesso ai vincoli autoritari sulle scelte di genitorialità, fino alle diete alimentari e alle condotte nutrizionali: carcere fino a due anni per chi istiga all’anoressia e divieto di coltivazione della carne sintetica. Sono altrettanti messaggi morali che pretendono di intervenire sulla soggettività personale, condizionando stili di vita e forme di relazione, consumi e preferenze. In tal modo l’autorità pubblica intende interferire con la vita delle persone, determinandone le scelte fin nella sfera più intima. Emerge così un orientamento che porta inevitabilmente verso lo “Stato etico”. Quest’ultimo, in tale visione, non è l’istituzione posta a garanzia dei diritti degli individui, bensì, la più alta espressione della vita spirituale della comunità umana. Ne discende il ruolo pedagogico e formativo dello Stato teorizzato da Giovanni Gentile. Qui ritorna il discorso sulla Resistenza. Le idee di libertà, di autonomia del singolo e di espansione dei diritti poggiano su un impianto di senso comune e di mentalità che a sua volta affonda le proprie radici, per quanto ormai esili, nei momenti fondativi dell’Italia repubblicana: e, dunque, nella rottura determinata dalla guerra di Liberazione. Per questa ragione, indicare nell’“umiliazione” una risorsa importante delle strategie educative, paventare l’immigrazione come un’insidia per l’identità della nazione e banalizzare la storia, neutralizzando la scelta antifascista e riducendola ad una delle tante possibili: tutto questo fa parte di quella “battaglia culturale” di cui si diceva e del tentativo di ribaltare il senso della nostra storia, azzerando o comunque ridimensionando il significato del conflitto fascismo - antifascismo, che fu anche lotta mortale e all’ultimo sangue. E ciò aiuta a comprendere la strage di Via Rasella. Può apparire singolare, ma questa guerriglia culturale e identitaria che si manifesta come revanchismo e come voglia di rivalsa da parte di chi - pur godendo di tutti gli agi della democrazia - si è sentito per decenni esule in patria, assume un ruolo crescente nella strategia della destra. Mentre sul piano dei programmi economico sociali e della politica estera il governo sembra adottare una linea sostanzialmente continuista, è proprio nei processi di formazione dell’opinione pubblica e degli orientamenti collettivi che investe le maggiori risorse. Lo strappo inferto dalle parole di La Russa all’immagine della Resistenza non sarà privo di conseguenze. Viene voglia di iscriversi all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia o, i più moderati tra noi, alla Federazione Italiana Volontari della Libertà. Baby gang, le voci dai ragazzi in comunità: “Picchiavo mia madre e sfondavo le macchine la sera quando avevo usato tanta cocaina” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 4 aprile 2023 Tra gli ospiti della comunità residenziale “La Mammoletta” per conto della Fondazione Exodus all’isola d’Elba: “La cosa più dolorosa è che arrivano sempre più piccoli: ragazzi di 13, 14, 15 anni. Così proviamo a fargli riprendere la loro vita dietro storie di adozioni, bullismo ricevuto, genitori separati. Non sono delinquenti, la loro violenza è la conseguenza di un loro disagio, una frustrazione profonda”. Arrivano qui dopo aver distrutto le loro case. C’è chi ha spaccato porte e finestre, c’è chi ha messo le mani addosso alla madre. C’è chi ha distrutto vetri e specchietti delle macchine parcheggiate, altri che hanno divelto cartelli stradali. E poi le risse, ragazzi violenti che hanno preso a cazzotti i passanti. C’è chi girava col coltello e intimidiva i propri coetanei. E c’è chi affogava frustrazioni nelle sostanze. Ventenni col fuoco dentro, la rabbia marchiata sotto pelle. Rabbia, che però nasconde sofferenza. Rabbia, che suona come un richiamo. Per non morire arrivano qui, in questo angolo incantato all’isola d’Elba. Comunità La Mammoletta, una casa famiglia residenziale dove i giovani in difficoltà provano a placarsi, a ritrovare un senso, a ripartire. Arrivano su segnalazione dei servizi sociali, oppure dei tribunali, oppure segnalati dalle famiglie che non sanno più come fare. Vivono e dormono qui, le loro stanze sulla collina si affacciano sul mare cristallino. Vivono qui, in questo luogo protetto, ricostruito da Stanislao Pecchioli e Marta Del Bono, marito e moglie, che da oltre trent’anni gestiscono questa struttura per conto della Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, coadiuvati da educatori e psicologi. Li aiutano a guardarsi dentro, per capire le radici profonde di quella violenza, di quella devianza su cui è deragliata la loro vita. All’Elba i ragazzi tornano sui banchi di scuola oppure all’università, vanno in barca a vela, suonano gli strumenti, fanno yoga, zappano l’orto, cucinano, si prendono cura delle loro vite. E si guardano con occhi nuovi, scoprendo di non essere soltanto quel fuoco di collera. La domenica pomeriggio si mettono in cerchio e tirano fuori le emozioni. Imparano a scavare dentro. Scrivono una lettera a sé stessi in seconda persona. “Ti ricordo a 10 anni sulla spiaggia, ti ricordo fragile coi genitori separati”. Parole come pietre: “Ti ricordo in quel Natale, stringevi una mano che non c’era”. E alla fine delle letture, ognuno disegna qualcosa su un foglio bianco. Uno di loro scrive “Risveglio”, un altro scrive “Mi fido di me”, un altro ancora scrive “Riscoprirsi”. E poi “Ci credo”, e ancora “Il tempo di prendersi cura”. Guardano al loro passato, perlustrano i meandri della mente, comprendono come la loro aggressività non sia nata così, per caso. Dietro l’ira c’è una storia. Un passato difficile, spesso. Storie di adozioni, bullismo ricevuto, genitori separati. Ragazzi e ragazze che hanno sofferto, e sublimano il dolore nella brutalità. Ragazzi che potrebbero far paura, ma che invece nascondono una tenerezza inesplorata. I loro appartamenti hanno due stanze e quattro letti. Mangiano tutti insieme in un grande soggiorno. Condividono pensieri, sfogano frustrazioni. Non hanno il cellulare, queste sono le regole. Per chiamare casa, usano il telefono dei gestori della struttura, che tentano di aiutarli nel delicato cammino per recuperare gli affetti e l’armonia familiare perduta. Ragazzi e ragazze con il rancore dentro. Si sentono talvolta incompresi, inascoltati. Come spiega la stessa Marta Del Bono: “Accogliamo ragazzi che vivono momenti difficili, a volte legati alla violenza, a volte legati alle sostanze. Quando arrivano qui hanno tanta rabbia, a poco a poco però si trasformano, non sono assolutamente violenti, non sono delinquenti, la loro violenza è la conseguenza di un loro disagio, una frustrazione profonda, talvolta inespressa. Quando questi giovani ritrovano un po’ di pace, scoprono la poesia dentro di loro”. In questi trent’anni, sono cambiati i ragazzi che arrivano alla comunità La Mammoletta: “E’ doloroso dirlo, ma i giovani che arrivano qui oggi sono molto più giovani di quelli di trent’anni fa, a volte hanno perfino 14 anni. È la società ad essere cambiata, e con essa la struttura familiare. Molti genitori sono ancora troppo figli per essere genitori, sono molto impegnati con i loro bisogni, non hanno la fermezza e l’ascolto necessari, i loro figli spesso hanno tutto, e forse sono gli stessi adulti ad essere più insoddisfatti, più insicuri, più in crisi, la loro crisi rispecchia quella della società, talvolta hanno bisogno dell’attenzione loro stessi e per questo a volte non si accorgono di non darla ai figli”. Parole che non devono sembrare come una condanna dei genitori, spiega Marta, ma un monito nei confronti di “una società troppo frettolosa di cui sono vittime anche gli adulti e dove troppo spesso abbiamo smarrito il valore dell’ascolto”. Rimpatri, accoglienza a Cpr, il governo cerca una soluzione alla crisi migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 4 aprile 2023 Oggi vertice a Palazzo Chigi. Le proposte che verranno discusse non sono nuove e tradiscono le difficoltà con cui il governo cerca di far fronte all’impennata di sbarchi sulle nostre coste. Le proposte che verranno discusse non sono nuove e tradiscono le difficoltà con cui il governo cerca di far fronte all’impennata di sbarchi sulle nostre coste. Si va dalla (storica) necessità di stipulare nuovi accordi bilaterali con i paesi di origine dei migranti per dare impulso ai rimpatri, al pressing sui sindaci per coinvolgerli nell’accoglienza. Ma anche a un’accelerazione dell’esame delle richieste di asilo e alla costruzione di nuovi Centri per il rimpatrio (Cpr) che il Viminale vorrebbe almeno uno in ogni Regione, nonché a un coinvolgimento stabile della Difesa nel trasferire velocemente con navi e aerei quanti arrivano a Lampedusa. E poi c’è l’aspetto internazionale, sicuramente al momento l’argomento più caldo da affrontare visto l’allarme ormai pressoché quotidiano che un eventuale collasso economico della Tunisia potrebbe dar vita a una nuova ondata di arrivi come non si vedeva da anni. Proprio di questo ha parlato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nell’ultimo consiglio dei ministri, dando così lo spunto per la riunione di oggi a Palazzo Chigi sull’ennesima emergenza migranti. A preoccupare c’è la situazione in Libia, e in Cirenaica in particolare, ma soprattutto in Tunisia. Per questo oltre a Piantedosi e alla premier Giorgia Meloni, ai ministri degli Esteri Antonio Tajani e della Difesa Guido Crosetto, ci saranno anche i vertici dei servizi per un aggiornamento sulla situazione internazionale. Per quanto la crisi tunisina non presenti particolari elementi di novità (ieri il presidente Kais Saied si è fatto rivedere dopo giorni di assenza dovuti a quanto pare a malattia) Tajani si è comunque mostrato ottimista circa la possibilità che si possa arrivare a una soluzione del finanziamento da 1.9 miliardi di dollari del Fmi, bloccato in attesa che Tunisi si decida ad avviare le riforme promesse. “Mi pare che ora la situazione sia di maggiore disponibilità da parte statunitense e francese e dopo la visita del commissario Gentiloni anche da parte europea”, ha detto al termine di una riunione sui Balcani occidentali che si è tenuta alla Farnesina. E, contrariamente a quanto avvenuto all’ultimo vertice europeo dei ministri degli Esteri, attenzione a quanto accade in Tunisia sarebbe arrivata anche da parte di altri paesi. Come avrebbero assicurato a Tajani i colleghi svedese, parlando anche a nome degli Stati del nord Europa, e quello francese. Intanto l’Italia, ha ricordato Tajani, ha già stanziato 100 milioni di euro per il paese nordafricano, 50 dei quali destinati alle piccole e medie imprese. Quanto accade sull’altra sponda del Mediterraneo resta dunque il motivo di maggiore preoccupazione a Palazzo Chigi. Dal primo gennaio al 3 aprile sono stati 28.034 i migranti arrivati in Italia, più del quadruplo rispetto agli sbarchi avvenuti nello stesso periodo del 2022 quando invece furono 6.832. E tutto lascia intendere che alla fine dell’anno potrebbero essere diverse centinaia di migliaia. Per questo, accantonate le illusioni di blocchi navali e missioni europee che per ora Bruxelles non sembra avere intenzione di varare, restano le soluzioni di sempre, che sono aumentare i centri dove rinchiudere i migranti in attesa di rimpatriarli e organizzare l’accoglienza coinvolgendo gli enti locali. A partire dai sindaci. “Il fatto che i prefetti stiano chiedendo ai Comuni di trovare spazi qualsiasi, basta che siano rispettosi della legge, per ospitare le persone risponde alla domanda su quanto è grave l’emergenza” spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato e responsabile Immigrazione per l’Anci. “Stiamo provando a dare una mano, ma siccome si tratta di esseri umani e di comunità che accolgono, non è una cosa automatica”. Migranti. Il governo accelera sui rimpatri veloci. Accoglienza, primi (timidi) segnali di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 4 aprile 2023 Oggi a Palazzo Chigi è in programma l’attesa cabina di regia per mettere a fuoco un piano relativo alla gestione dei flussi migratori e all’accoglienza. “Non c’è un numero standard da aumentare o diminuire. Quello che serve, uno lo richiede e cerca di portarlo”. È il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, impegnato al VinItaly, a confermare come il governo non abbia ancora individuato una cifra sulla quale assestarsi per fissare la quota di d’ingressi legali per lavoratori stranieri (che il dl Cutro ora organizza su base triennale). La discussione nell’esecutivo dunque va avanti, in parallelo con la trattativa in corso al ministero del Lavoro con le parti sociali e le associazioni imprenditoriali, chiamate a fornire al governo una stima delle persone necessarie nei diversi settori d’impiego. Intanto oggi a Palazzo Chigi è in programma l’attesa cabina di regia per mettere a fuoco un piano relativo alla gestione dei flussi migratori e all’accoglienza. Al vertice potrebbero prendere parte, oltre alla premier Giorgia Meloni, i due vicepremier e ministri degli Esteri e dei Trasporti, Antonio Tajani e Matteo Salvini, affiancati dai titolari di Intern e Difesa, Matteo Piantedosi e Guido Crosetto. E alcune valutazioni su norme e procedure potrebbero arrivare dal Guardasigilli Carlo Nordio. Nelle stesse ore in Senato dovrebbe riprendere l’esame, in commissione Affari Costituzionali, del decreto Cutro, in corso di conversione in legge. Sul tavolo, 126 emendamenti, fra cui 21 della Lega che puntano fra l’altro a restringere ulteriormente la protezione speciale. Richieste del mondo agricolo. Chi arriverà non dovrà essere considerato un lavoratore di “serie B”, sottolinea ancora il ministro Lollobrigida. “C’è bisogno in Italia, per dare supporto ad alcuni settori, di immigrazione legale - argomenta - e il primo nemico è l’immigrazione clandestina. I nostri imprenditori agricoli hanno bisogno di manodopera esterna, quando manca quella interna”. Poi lancia una frecciata: “Non è svilente lavorare in agricoltura” e occorre “sapere quanti percettori del reddito di cittadinanza possano lavorare e metterli in condizioni di farlo in agricoltura, nell’allevamento, nel turismo”. Se invece “non vogliono, è legittimo che non prendano il Reddito di cittadinanza e provvedano a se stessi con altri mezzi di sostentamento”. Il piano per l’accoglienza. A Palazzo Chigi la cabina di regia partirà dalle recenti analisi sugli sbarchi dei migranti, valutando come rinforzare la gestione dell’accoglienza. Le stime allarmanti dell’intelligence, sommate al rtmo giornaliero degli arrivi (28.034 dal primo gennaio, a fronte dei 6.832 giunti l’anno scorso nello stesso periodo) fanno temere numeri record a fine anno, su quota 300mila. La premier non vuole che la retorica sulla “invasione”, cavallo di battaglia di Lega e Fdi nelle ultime campagne elettorali, le si ritorca contro nei fatti. E così, il ministero dell’Interno sta lavorando a una bozza di piano d’azione, con una decina id punti, che vanno dal potenziamento della rete dei centri di accoglienza all’accelerazione delle richieste di asilo e rimpatrio (si pensa anche a possibili incentivi monetari per i rimpatriabili che accettino di tornare subito indietro). C’è poi la trattativa europea in corso con la Tunisia (caldeggiata da Italia, Francia e Germania) con l’offerta di finanziamenti in cambio di un freno alle partenze dei barconi. La Farnesina, in contemporanea, starebbe chiedendo con discrezione alle autorità tunisine di non rallentare le pratiche di riconoscimento dei propri migranti, indispensabili per avviare le procedure di rimpatrio. Più in generale, si starebbe studiando come velocizzare tanto le procedure di rimpatrio che quelle per le richieste d’asilo. La rotta balcanica. I Paesi del Balcani occidentali “sono fortemente impegnati nel rinviare i clandestini nei Paesi d’origine”. fa sapere intanto il vicepremier Tajani a margine di una riunione alla Farnesina. “Stiamo lavorando per non avere un’eccessiva liberalizzazione dei visti di Paesi extra-europei. E c’è un comune impegno a difendere le frontiere esterne e combattere la tratta di esseri umani”. Un Cpr per Regione. Nella bozza disegnata dal Viminale, c’è il “potenziamento” dei centri di permanenza per i rimpatri. Il ministro Piantedosi ne immagina uno per Regione, una ventina a fronte dei 9 attuali (fra cui Gradisca d’Isonzo, Torino, Roma, Bari, Brindisi, Caltanissetta). L’aumento verrebbe finanziato coi fondi già appostati nella legge di Bilancio, che prevede per il 2024 un aumento di oltre 14 milioni di euro rispetto al passato, per un totale di 46 milioni. Ma non tutte le Regioni sarebbero concordi. “Il Cpr non può essere un luogo detentivo”, mette le mani avanti il governatore Toscana Eugenio Giani: “In Toscana non abbiamo bisogno di nuove carceri per chi ha bisogno di essere espulso - osserva -. Sono sicuro che anche su questa materia, quando sarà il momento, ci sarà un confronto costruttivo con le Regioni”. Migranti. Il dramma di Alaji Diouf: “Scambiato per scafista, ho perso oltre 7 anni in prigione” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 4 aprile 2023 Nel 2015 fu accusato di aver pilotato un’imbarcazione di disperati partiti dalla Libia e naufragata sulle coste di Taranto. Fu condannato dopo un processo sommario, senza un interprete: “Non capivo nulla, parlavo soltanto il mio dialetto Madinga, so solo che un uomo di un altro barcone mi aveva indicato”. Ora l’associazione “Baobab Experience” chiede la revisione: “Abbiamo letto le sentenze, nessuna vera prova, un’enormità di vizi procedurali”. Ci aveva provato per sette anni Alaji Diuof a gridare la sua innocenza. Ma chi volete che ascolti la voce di un ragazzo senegalese rinchiuso in un carcere italiano? Era il 2015 e Alaji non aveva avuto nemmeno il tempo di capire di essere vivo che si era ritrovato buttato in una cella. Accusato di essere lo scafista di quella imbarcazione di disperati partiti dalla Libia e naufragata sulle coste di Taranto. “Mi hanno portato in un capannone, non capivo nulla, parlavo soltanto il mio dialetto Madinga, so soltanto che un uomo di un altro barcone mi aveva indicato dicendo: è lui, lui ha guidato la barca. Ma io su quel gommone ero stato immobile come una pietra, ho paura del mare, non so nuotare, eravamo oltre cento schiacciati uno sull’altro, due donne sono morte soffocate, c’erano onde terribili, niente acqua, niente cibo, piaghe su tutto il corpo. Non ho fatto nulla, ma sono bastate quelle parole, false, per distruggere la mia vita”. Scafista da niente, scafista per sbaglio, uno di quei tanti “poveri disgraziati”, così gli stessi giudici hanno definito Alaji, che ad ogni sbarco finiscono in galera, in un processo sommario che si consuma in poche ore, sulla spiaggia, perché lì, in quella tragedia, lo Stato ha bisogno di colpevoli, subito. A volte del tutto innocenti come si definisce Alaji, a volte dei disperati che hanno pagato il viaggio, in fuga come gli altri da guerre e miseria, ai quali i trafficanti, pistola alla tempia, ordinano di prendere il timone. Pedine della disperazione, le cui vite vengono dimenticate nel cortile di un carcere, mentre i signori della tratta restano al sicuro al di là del mare. Cappellino da baseball in testa e modi gentili Alaji Diouf, 33 anni, piastrellista e calciatore, ci apre le porte dell’appartamento vicino alla Stazione Termini dove grazie all’associazione “Baobab Experience” ha trovato alloggio e sostegno appena uscito dal carcere. Anzi dalle carceri, perché nel suo calvario penitenziario, dal 20 ottobre 2015 al 21 aprile 2022, di celle Alaji ne ha cambiate un’infinità, da Taranto a Lucera, da Paola a Catanzaro, fini ad Isili, in Sardegna. “Il migliore, almeno lì i detenuti lavorano all’aperto”. Il caffè sul fuoco, la spesa, una stanza in ordine meticoloso nella casa che divide con altri cinque migranti. Sono i giorni del Ramadan, si mangia soltanto quando cala il sole, stasera i ragazzi cucineranno riso e carne con le loro spezie. Oggi Alaji ha un lavoro in regola come piastrellista e un permesso di soggiorno di sei mesi. “Se avessi parlato l’italiano come lo parlo adesso non sarei finito in carcere, ma nessuno mi ha creduto, nemmeno gli avvocati d’ufficio” racconta Alaji, che in cella ha imparato a leggere e a scrivere ed è assistito dall’avvocato Francesco Romeo di “Baobab Experience”, associazione fondata da Andrea Costa che assiste i migranti in transito. Gli ultimi degli ultimi, che soltanto grazie al presidio di strada di “Baobab” trovano a Roma un sacco a pelo, un pasto caldo, ascolto e tutela legale. Sette anni di galera. Tre gradi di giudizio. Il sogno italiano che si infrange non appena Alaji tocca terra. Mesi e mesi senza capire nulla, alle spalle la spaventosa peregrinazione attraverso Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, fino in Libia. “Ad ogni frontiera bisognava pagare, ad ogni frontiera erano botte e torture. Io ce l’ho fatta ad arrivare in Libia - racconta risoluto Alaji Diouf- perché avevo nascosto una parte dei soldi nella suola delle mie scarpe. Tanti, tanti morivano per strada”. Alice Basiglini è la portavoce di “Baobab”. Il calvario di Alaji lo conosce bene. “Abbiamo deciso di chiedere la revisione del processo non soltanto perché crediamo nella sua innocenza, ma perché abbiamo letto le sentenze, il suo è stato un processo sommario, senza vere prove, con un’enormità di vizi procedurali. E perché abbiamo raccolto le storie di centinaia di altri migranti come lui, scafisti costretti o addirittura innocenti ma arrestati per scafismo”. Poveracci finiti dal “Mare al carcere”, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come ha evidenziato una dettagliata inchiesta di Arci-Porco Rosso, che già da anni denuncia gli abusi di questi arresti. E quanto buona parte di quegli scafisti che Giorgia Meloni ha annunciato di voler inseguire “su tutto il globo terracqueo” spesso (non sempre) altro non siano che pedine della disperazione. Granelli di sabbia. Nel 2022 gli arresti per scafismo sono stati 264. Le pene, dopo la tragedia di Cutro, sono state inasprite fino a 30 anni di carcere. Spiega Alice Basiglini: “Diouf non ha guidato il gommone, nessuno dei suoi compagni di viaggio lo ha indicato come scafista. Soltanto un uomo che non era sul suo barcone”. Ma anche se fosse stato al timone, dice Alice citando la sentenza d’appello, “gli stessi giudici hanno riconosciuto, pur condannandolo, che gli imputati non erano gli organizzatori del viaggio, questi ultimi rimasti al sicuro sulle coste libiche, bensì altri disgraziati, che hanno accettato tale compito per fuggire alle condizioni in cui versavano in patria”. “Quando ero in carcere mia madre è morta, nessuno sapeva più nulla di me. Quasi sette anni lì dentro. Adesso voglio indietro la mia vita”. E Alaji finalmente sorride togliendosi il cappellino da baseball. “Alaji ha già scontato tutta la sua pena, con la revisione del processo potrebbe avere forse un risarcimento, ma soprattutto una vittoria morale. Le sentenze dicono con chiarezza che non è collegato ai trafficanti, la sua condanna si è basata sulle parole di un uomo che non era sul suo barcone ed è stato processato in lingue che non conosceva. Dunque privato del diritto alla difesa. Tutte violazioni enormi. Per questo Baobab chiederà di riaprire il processo”. Droghe. Cocaina, regolamentare è l’unica soluzione. L’esempio del Canada di Federica Valcauda* Il Dubbio, 4 aprile 2023 Mancanza di informazione e proibizionismo fanno solo gli affari delle mafie. La cocaina è la sostanza di questo secolo, usata da un range di persone ampio e di diversa estrazione sociale, modificata a seconda delle esigenze ma con l’unica certezza dei danni arrecati rispetto all’aumento progressivo della quantità in circolazione. L’ultimo ‘ Global cocaine report’ dell’agenzia UNODC ci dice che dal 2020 al 2021 la coltivazione di coca è aumentata del 35%, le zone del mondo in cui c’è maggiore utilizzo sono l’Europa e l’America del Nord: ma quale soluzione è possibile? Un approccio diverso è quello adottato dal Canada che lo scorso gennaio ha deciso, nella provincia della Columbia Britannica, di avviare un progetto pilota per la depenalizzazione delle sostanze pesanti. Un atto pionieristico, dovuto ad un approccio di welfare sociale improntato alla prevenzione anti- stigmatizzante e che, pragmaticamente, prende atto del grave problema degli oppioidi che affligge il Paese. Dal 2016 sono 30.000 le morti per overdose in Canada, 10.000 solo nella Columbia Britannica con una media di 6 morti al giorno nel 2022. Un problema che si è affrontato a livello medico, per cui gli enti autorizzati alla vendita di cocaina saranno farmacisti, professionisti, ospedali o titolari di esenzione per scopi di ricerca. La decisione servirà, secondo le fonti governative, anche a “rimuovere lo stigma sull’uso di droghe”, stigma che molto spesso non permette di chiedere aiuto. Da sempre come Radicali sosteniamo che le droghe pesanti siano un problema sociale che va governato perché quando si tratta di sostanze la mancanza di informazione e il proibizionismo fanno solamente gli affari delle mafie. Secondo la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze del 2022, sono almeno 4,5 i miliardi di euro che nel 2020 sono entrati nelle casse della criminalità organizzata. Il dato del 2021 è ancora assente ma, pensando ai sequestri di cocaina avvenuti nel nostro Paese nel 2021 (20.075,39 kg), supponiamo che la cifra non possa che essere più consistente. Se guardiamo ai livelli medi di consumo giornalieri di questa sostanza nelle principali città italiane, vediamo un aumento del consumo globale. Non solo nelle città però, i consumi aumentano anche in alcune province più isolate e più avvezze allo stigma. Interessante è anche il dato rispetto ai canali di distribuzione dei rispondenti: l’ 88,2% compra la cocaina generalmente da uno spacciatore, l’ 1,8% riferisce di acquistarla su criptomercati web e l’ 1,2% attraverso i canali social. Se le organizzazioni criminali riescono a lucrare anche sulla purezza di una sostanza naturale come la cannabis, con l’aumento esponenziale della produzione la cocaina è diventata sempre meno di qualità e più pericolosa per chi ne fa uso. Un differente approccio è necessario: un welfare sociale che tenga conto del diritto alla salute delle persone e della necessità di allontanare i tossicodipendenti dalla criminalità organizzata e da un consumo problematico. L’informazione, il ‘conoscere per deliberare’, sono elemento primario della liberalità di un Paese. *Membro di direzione di Radicali Italiani La pena di morte “Va abolita in tutto il mondo” La Repubblica, 4 aprile 2023 Le valutazioni e il pronunciamento del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. La pena di morte esiste ancora in tutto il mondo ed è praticata in 58 Stati: Egitto, Libia, Nigeria, Somalia, Sudan, Usa, Iran, Iraq, Giappone, Cina, Corea del Nord, Pakistan, Tailandia, Vietnam ed Emirati Arabi. “Per molti anni l’ONU si è opposta alla pena di morte in ogni circostanza”, ha detto Volker Türk, capo delle Nazioni Unite per i diritti umani. “Condivido questa posizione con la più ferma convinzione, perché è la promessa contenuta nella Carta delle Nazioni Unite sulla necessità di proteggere tutti gli esseri umani”. Türk ha partecipato a una tavola rotonda sulla questione della pena di morte durante la cinquantaduesima sessione del Consiglio dei diritti umani a Ginevra. Pena di morte e deterrenza del crimine. Secondo Türk, le prove suggeriscono ormai che la pena di morte ha un impatto scarso o nullo sulla deterrenza o sulla riduzione del crimine. Moltissimi studi hanno dimostrato che i Paesi che l’hanno abolita hanno visto i tassi di omicidi restare invariati o addirittura diminuire, ha aggiunto. Anzi, può contribuire alla discriminazione delle minoranze razziali, etniche, linguistiche e religiose e della comunità Lgbtiq+. La pena capitale nei Paesi che la mantengono - così come la minaccia del suo uso - può essere infatti utilizzata per scopi impropri, come infondere paura, reprimere l’opposizione e annullare il legittimo esercizio delle libertà. Le esecuzioni in Africa. Il continente africano sta lavorando per eliminarli, ha spiegato Idrissa Sow, presidente del gruppo di lavoro sulla pena di morte, le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie e le sparizioni forzate della Commissione africana per i diritti umani e dei popoli. I passi più significativi li hanno recentemente fatti la Repubblica Centrafricana, la Guinea Equatoriale (ex colonia portoghese, detta anche Guinea Bissau) e lo Zambia, che hanno abolito la pena capitale per tutti i tipi di reato. Secondo Idrissa Sow in Africa c’è una forte tendenza abolizionista, con ventisei paesi che hanno già scelto di eliminare la pena di morte. La situazione in Malesia. Anche la Malesia sta lavorando per abolire le condanne a morte obbligatorie. Ma è un percorso lento e complicato dal momento che la maggior parte dei malesi ancora ritiene che la pena capitale sia un deterrente per i crimini, commenta Azalina Othman Said, Ministro della Giustizia e delle Riforme istituzionali della Malesia. Con un voto a larga maggioranza e dopo una moratoria avviata nel 2018, il parlamento nei giorni scorsi ha eliminato per alcuni reati l’obbligatorietà della pena di morte, che quindi potrà essere decisa solo con una sentenza del giudice. Attualmente nel Paese la pena capitale resta in vigore per undici crimini considerati particolarmente gravi, come l’omicidio, gli atti di terrorismo e la guerra contro la nazione. Tra l’altro in seguito alla moratoria del 2018 le esecuzioni capitali sono temporaneamente sospese e la nuova legge che elimina l’obbligatorietà avrà effetto retroattivo. Una collaborazione internazionale contro le esecuzioni. Sarah Belal, direttrice esecutiva del Justice Project Pakistan, ritiene che i paesi dovrebbero lavorare tutti insieme per abolire la pena di morte. E riporta l’esempio del Pakistan, dove dal 2020 si è verificata una diminuzione del 15 per cento del numero di cittadini detenuti all’estero grazie ad accordi di trasferimento dei prigionieri e maggiori sforzi diplomatici per fornire assistenza ai pakistani all’estero. Questo esempio dimostra quanto un impegno strategico internazionale e nazionale possa essere utile per incoraggiare gli Stati a rispettare la dignità umana e quindi avere standard di giudizio simili anche per quanto riguarda i reati più gravi. Lo storico voto di dicembre 2022. In Pakistan c’è una generale tendenza, supportata dall’opinione pubblica, verso l’abolizione della pena capitale. Ma il grande paese asiatico non è solo nella rivalutazione delle possibilità di fare giustizia. A dicembre 2022 c’è stato un voto storico all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove 125 paesi si sono espressi a favore di una moratoria universale contro la pena capitale. Gli Stati Uniti hanno votato contro, insieme all’Iran, alla Cina, al Vietnam, alla Corea del Nord, all’Arabia Saudita, all’Iraq e ad altri 30 Paesi, mentre in 22 si sono astenuti. Il sostegno a una moratoria globale delle esecuzioni ha superato il precedente record di 120 nazioni a favore raggiunto nel 2018 e confermato nel 2020. Nel novembre 2020, infatti, 120 stati hanno sostenuto la risoluzione, 39 si sono opposti e 24 si sono astenuti. Cosa si nasconde davvero dietro il “modello Salvador”. La strage di Stato del presidente Bukele di Riccardo Noury* Il Domani, 4 aprile 2023 Attualmente, con oltre 100mila detenuti, circa l’1,5 per cento della popolazione, El Salvador ha il più alto livello di incarcerazione al mondo. Il “modello Bukele” è la versione estrema del paradigma “meno diritti, più sicurezza”. Attrae consenso, perché cambia gli attori e i luoghi, non più visibili, della violenza: da quella delle bande criminali in strada a quella dello stato nelle carceri. Il numero delle persone morte nelle mani dello stato è arrivato a 132. Le organizzazioni salvadoregne per i diritti umani temono che sia molto più alto. Lo stato d’emergenza sta avendo un impatto sproporzionato sulle persone che vivono in povertà nelle zone più marginalizzate. I negozianti non pagano più il pizzo, gli incontri di calcio terminano regolarmente senza che dagli spalti partano colpi d’arma da fuoco, si può passare da un quartiere all’altro della capitale, ora non più presidiati, per prendere parte a compleanni e matrimoni. Da ogni parte del mondo, arrivano giornalisti a verificare e osannare la “storia di successo” del momento: il “modello Bukele”, con cui il presidente di El Salvador ha stroncato la violenza delle bande criminali. Di quel “modello”, che rischia di essere imitato altrove, è ricorso in questi giorni il primo anniversario: il 27 marzo 2022, dopo 87 omicidi in 48 ore, Nayib Bukele ha proclamato lo stato d’emergenza. Non era più il momento di negoziare meno omicidi in cambio di benefici ai capi delle gang. Era il momento di sopprimerle. Per un anno, sono state sospese garanzie procedurali come la presunzione d’innocenza e il diritto alla difesa, il che ha dato luogo all’imprigionamento di oltre 66mila persone in tempi record, anche sulla base di accuse anonime, di precedenti penali o persino di “prove” come un tatuaggio. Le udienze si sono svolte in modo sommario, per lo più da remoto, con un giudice anonimo in grado di processare contemporaneamente fino a 500 persone e condannarle senza alcuna prova che avessero commesso reati. Morti di stato - Il numero delle persone morte nelle mani dello stato è arrivato a 132. Le organizzazioni salvadoregne per i diritti umani temono, tuttavia, che sia molto più alto, dato che si segnalano nuovi casi di riesumazione dalle fosse comuni di persone di cui si erano perse notizie mesi fa, dopo l’arresto. Nella maggior parte dei casi, quelle morti sono state causate da torture e trattamenti crudeli e degradanti da parte di agenti di polizia e di guardie penitenziarie o dal diniego di cure mediche. Alcuni detenuti scarcerati con messa alla prova hanno dichiarato di aver assistito a pestaggi mortali nei confronti di compagni di prigionia, allo scopo di estorcere confessioni o semplicemente per punirli. L’Istituto di medicina legale e gli ospedali dove le vittime erano ricoverate prima di morire hanno emesso certificati di decesso per “asfissia meccanica”, “traumi multipli” e “percosse”. A oggi, nessun familiare è stato informato su eventuali indagini aperte per accertare le cause di queste morti. Uno su cento in carcere - Tra i provvedimenti che hanno accompagnato lo stato d’emergenza, un emendamento al codice di procedura penale ha autorizzato l’uso indiscriminato della detenzione preventiva. Ne è derivato un enorme problema di sovraffollamento delle prigioni: celle con oltre 100 detenuti, assenza di servizi igienici, mancanza di acqua, cibo, medicinali e cure, diffusione di malattie. Attualmente, con oltre 100mila detenuti, circa l’1,5 per cento della popolazione del paese, El Salvador ha il più alto livello di incarcerazione al mondo. Lo stato d’emergenza sta avendo un impatto sproporzionato sulle persone che vivono in povertà nelle zone più marginalizzate del paese e, dunque, storicamente più esposte alla violenza delle bande criminali. Migliaia di famiglie sono state gravemente colpite dal punto di vista economico perché il principale, se non l’unico, percettore di reddito era finito in carcere e a causa delle spese sostenute per dimostrarne, quasi sempre invano, l’innocenza e garantire la sua alimentazione e la sua salute in carcere. Ne sono derivati l’aumento dell’abbandono scolastico e del lavoro minorile, nuovi sfollamenti forzati e maggiori oneri e responsabilità per le donne. Il “modello Bukele” è la versione estrema del paradigma “meno diritti, più sicurezza”. Attrae consenso, perché cambia gli attori e i luoghi, non più visibili, della violenza: da quella delle bande criminali in strada a quella dello stato nelle carceri. Funzionerà? Nel breve periodo forse sì. Almeno fino a quando decine di migliaia di persone arrestate in enormi pesche a strascico non torneranno libere, ancora più incattivite. O fino a quando il ristoratore che non paga più il pizzo non verrà a sua volta arrestato, magari per un tatuaggio. *Portavoce di Amnesty International Italia