Mauro Palma: “Se si attenua il reato di tortura a rischio i processi in corso come a Santa Maria Capua Vetere” di Liana Milella La Repubblica, 3 aprile 2023 Per il Garante delle persone private della libertà il compromesso raggiunto nel 2017 con l’ingresso del reato di tortura nel codice penale non va cambiato. “Se si cambia il reato di tortura sono a rischio i processi in corso”. Non lascia dubbi Mauro Palma, il Garante delle persone private della libertà, sull’ipotesi non solo dei meloniani, ma dello stesso Guardasigilli Carlo Nordio, di modificare il reato di tortura. Mauro Palma, per parlare del reato di tortura, partiamo dai processi in corso e dalle vittime. Penso subito alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Che accadrebbe se il reato, pur restando lì dov’è nel codice, dovesse cambiare? “Certamente avrebbe effetti sul processo in corso, perché non credo che ci sia alcuna intenzione di cambiare per aggravare la configurazione del reato - il che renderebbe non applicabile la modifica - bensì per attenuarla e questo avrebbe sicuri effetti. Sarebbe grave perché lo sconcerto dell’opinione pubblica rispetto a quei maltrattamenti e le parole pronunciate allora proprio a Santa Maria Capua Vetere dall’allora presidente del consiglio Draghi e dalla ministra Cartabia erano chiare, lapidarie”. Insisto sui processi in corso perché è da lì che bisogna partire proprio come è accaduto nel 2017, e negli anni precedenti, quando con estremo ritardo doveva essere inserito il nuovo reato nel nostro codice. Nei processi fatti da quando c’è il reato lei ha visto forzature? “Non ho visto forzature, ma una grande capacità della magistratura giudicante nel saper distinguere, nel riportare taluni episodi a un reato grave ma minore e diverso dalla tortura e nell’inquadrarlo invece in tale fisionomia in altri, fortunatamente pochi, casi; come per esempio recentemente fatto dal tribunale di Siena”. Hanno ragione o torto le forze di polizia a chiedere che il reato cambi, o venga addirittura trasformato in una semplice aggravante come chiede un gruppo di deputati di FdI, perché si sentono perseguitati? “Pensare che la tortura possa essere soltanto una semplice aggravante, magari bilanciabile con attenuanti, non fa onore alla cultura civile del nostro Paese. Le forze di polizia, intese nel loro complesso, hanno una cultura solidamente democratica e proprio il riconoscimento di tale realtà mi porta a dire che è offensivo nei loro confronti pensare che tale richiesta venga da loro e non da una esigua minoranza”. Ho riletto il primo articolo della convenzione Onu del febbraio 2015 “contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” e lì c’è il riferimento esplicito proprio a “dolore o sofferenze inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”... “Il dibattito sulla previsione del reato di tortura nel nostro codice si è protratto per lunghi anni. Molti dicevano che tali comportamenti erano già sanzionati con altre ipotesi di reato, dalle lesioni aggravate, all’abuso e quant’altro. La realtà era che in questo modo non si evidenziava in modo chiaro l’inaccettabilità della tortura e anche che tali reati di configurazione più ‘debole’ potevano andare in prescrizione rapidamente, dando così un messaggio d’impunità”. Nel 2017, quando finalmente fu inserito nel nostro codice il reato di tortura, ci fu un duro dibattito su questo, se prevedere un “dolo generico”, cioè violenze commesse da “chiunque”, la formula poi adottata, oppure un “dolo specifico”, cioè commesso proprio dalle polizie. Lei da che parte stava allora? “Dopo essere stati sanzionati dalla Corte europea dei diritti umani per l’implicita impunità degli autori di episodi che il giudice aveva definito come tortura, il dibattito sul reato ha preso maggiore vigore. Si è raggiunta una mediazione, quella di prevedere un reato generale e poi di prevedere la specificità della commissione da parte di un pubblico ufficiale. Formula di mediazione che credo sia bene non toccare”. Nordio garantisce sulla “sua parola” che il governo non cancellerà il reato di tortura, e quindi toglie del tutto peso alla proposta di legge di FdI. Ma dice chiaramente che bisognerebbe passare dal “dolo generico” a quello “specifico”. Se accadesse questo - glielo chiedo con parole semplici - sarebbe meglio o peggio per le polizie? “Credo sarebbe peggio. Un reato specifico che può essere commesso solo dalle forze dell’ordine finirebbe per sollevare ulteriori obiezioni e forse risentimento, anche se è vero che la Convenzione delle nazioni unite lo configura in questo modo. Del resto, la Cassazione ha già spiegato che anche nel testo attuale la commissione del reato da parte di chi ha responsabilità pubblica acquista una fisionomia propria”. E che cosa accadrebbe ai processi in corso passando da un dolo “generico” a uno “specifico”? Verrebbero compromessi? “Mi sembra che tutti coloro che sono a processo attualmente accusati di tale reato siano pubblici ufficiali. Tuttavia, si creerebbe un’indebita confusione attorno a episodi di enorme gravità”. Dica la verità, lei consiglierebbe alla politica di lasciare tutto com’è? “Esattamente. Occorre maturare con maggiore distanza gli esiti della sua applicazione; valutarla con le sentenze definitive”. Minori, Italia virtuosa per i programmi alternativi al carcere di Maria Paola Mosca Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2023 Secondo i dati del Ministero della Giustizia, in Italia a metà dicembre 2022 erano 400 i detenuti negli istituti penali per minorenni. Di questi, 390 erano maschi di età compresa, per la gran parte, tra i 16 e i 20 anni e circa nella metà dei casi cittadini italiani. Secondo la Direzione centrale della polizia criminale, rispetto al 2019, il numero dei minori di 18 anni autori di reato è aumentato del 14,3%. Programmi alternativi al carcere - Tendenze a parte, nel confronto con altre realtà europee emerge chiaramente il ruolo centrale ricoperto in Italia da interventi e programmi alternativi al carcere. Questo sistema rende la penisola un esempio virtuoso al punto che l’Italia si posiziona vicino ai modelli di Finlandia e Paesi Bassi. Un passo avanti anche rispetto ad altri membri della UE per numero di ragazzi presenti negli istituti minorili della penisola: sono infatti tre volte meno che in Francia e 4 volte meno che in Germania o nel Regno Unito. In Italia, la tendenza è di inserire i giovani autori di reato in strutture diverse dagli Istituti Penali per Minorenni che, al 2022 erano 17. Di contro, erano 637 le comunità residenziali disponibili all’accoglienza, per quanto in modo disomogeneo, disseminate su tutto il territorio nazionale in numero maggiore in Lombardia (118) e minimo (11) in Calabria. L’associazione Antigone, che dagli anni ‘80 si occupa dei diritti e le garanzie nel sistema penale, chiarisce: “Le comunità svolgono un ruolo di rilievo nel sistema della giustizia minorile, un ruolo che si impone anche per quanto riguarda la parte della giustizia penale, permettendo misure cautelari meno afflittive del carcere qualora se ne ravvisi la necessità, o la possibilità di accedere a misure penali che presuppongono un domicilio anche in mancanza di adeguati sostegni familiari.” È anche guardando ai livelli di recidiva che si comprende l’importanza di pensare a pene alternative. Nei giovani che, ottenuta la sospensione del processo penale, usufruiscono di provvedimenti di messa alla prova, la percentuale si attesta sul 20% nei 66 mesi successivi da quando il reato è stato commesso. L’esperienza pugliese di L.In.F.A. - Sparse per l’Italia le comunità di accoglienza si affiancano spesso progetti di sostegno esterni che hanno l’obiettivo di offrire percorsi di crescita per i ragazzi condannati. Appena qualche mese fa il progetto L.In.F.A., una di queste iniziative, ha vinto un secondo blocco di investimenti pari a quasi un milione di euro, promosso dall’Impresa Sociale “Con I Bambini” (nell’ambito del Fondo per il Contrasto alla Povertà Educativa Minorile, proprio per il suo progetto rivolto a minori colpevoli di reato). Nonostante la sua storia giovane, L.In.F.A. (Lavoro, Inclusione, Formazione in Agricoltura per minori autori di reato) si è già distinto. Nato con l’intento di mettere a punto un sistema di re-inclusione, lavora già con un gruppo di minori segnalati dalle strutture competenti, istruendoli e formandoli ad attività con gli animali. In particolare con i cavalli e, grazie all’intensa attività di rete con tutti i partner del progetto, con gli apiari, in modo da rendere più sostenibile l’impresa che si pianifica di costruire entro tre anni. L’idea, spiegano dal gruppo, è quella di “fare leva sulla forza delle relazioni uomo-animale (e sperimentando) nello specifico la relazione minore-cavallo e attraverso l’apiario sociale”. In concreto, lungo i mesi in cui si sviluppa il programma, i partecipanti vengono preparati per fargli ottenere qualifiche professionali riconosciute che potranno garantirgli una preparazione spendibile poi nel reinserimento dopo la pena. Capofila dell’iniziativa che si estende nelle provincie di Lecce e Brindisi, è l’organizzazione ASD Acqua2O, di Mesagne (paese della provincia di Brindisi). Questo centro di riabilitazione equestre, dove tra gli altri si è formata anche la campionessa di para-dressage Brigida Nigro, è specializzato nelle attività rivolte a portatori di disabilità ed è da tempo attiva anche nel sostegno verso i minori a rischio. Reinserimento: formazione professionale e impresa - È il referente di ASD Acqua2O e co-creatore del progetto L.In.F.A., Marcello Ostuni, a parlare dell’evoluzione dall’idea al programma vincitore del bando Con i Bambini: “Dal 2007 ospitiamo diversi ragazzi delle comunità per giovani, autori di reato. All’epoca, grazie ad un partenariato con il tribunale dei minori, veniva data la possibilità ai beneficiari partecipare attivamente alle attività di maneggio tra cui la cura dei cavalli, gestione dei box, assistenza agli istruttori durante le attività con utenti con disabilità, per esempio. Negli anni, oltre l’esperienza sul campo, abbiamo nutrito e allargato la rete a enti di formazione, comunità per minori, uffici dei servizi sociali”. Un percorso fino ad allora in certo modo informale che negli ultimi anni si è consolidato in qualcosa di più strutturato. “Insieme a Fabrizio Chetrì (direttore didattico di Cefas - Centro di Formazione ed Alta Specializzazione) obbligati all’immobilità dovuta alla pandemia, abbiamo deciso di rispondere al bando della fondazione. Insieme abbiamo ragionato sul come portare avanti e migliorare questa esperienza, come trasformarla in un momento di formazione che portasse a una vera occupazione, capace di fornire un’opportunità concreta ai beneficiari”. Oltre alla formazione, l’obiettivo è di creare un’impresa sociale con i destinatari del progetto più meritevoli: alcuni di loro verranno assorbiti come soci-lavoratori e altri 18 faranno esperienza retribuita. Oltre all’intervento diretto sui minori autori di reato, contraddistingue l’iniziativa L.In.F.A. tutta la parte di attività sul territorio delle provincie di Lecce e Brindisi. Per cercare di rispondere alla necessità di prevenire e coinvolgere in modo più ampio la popolazione locale, con il supporto di alcuni servizi sociali comunali, il progetto prevede azioni su strada concentrate in particolare nelle aree individuate come più a rischio. L’obiettivo è intercettare i ragazzi nei loro luoghi di aggregazione e indirizzare interventi specifici di sensibilizzazione verso modelli positivi di impegno del tempo libero. Caso Cospito, siamo sicuri che il 41bis ci dia un Paese più sicuro? di Francesca Mambro ilsussidiario.net, 3 aprile 2023 Occorre chiedersi se il carcere duro ex art. 41bis si sia dimostrato efficace. Qualsiasi regime carcerario non può fare a meno di misure riparative. L’Italia è il nostro Paese, nel bene e nel male, eppure per quanto riguarda il sistema Giustizia sembra che non si riesca più a tracciare un confine. Ci sembra che bene e male siano concetti astratti e lontani e che i diritti umani siano argomenti da trattare con la cartina geografica sotto gli occhi, perché non ci riguardano. Eppure abbiamo la Costituzione più bella del mondo, siamo stati la culla del diritto e un modello per altri sistemi legislativi internazionali. Ricordo quando, oltre vent’anni fa, una nostra giovanissima amica, esperta di diritto internazionale e fra le menti della campagna per l’istituzione del Tribunale penale internazionale, vinse il concorso alle Nazioni Unite, e come sua prima missione fu inviata in Afghanistan insieme alle truppe della coalizione, con grande spavento della famiglia. Il suo compito era di stilare, per la prima volta nel Paese, l’ordinamento del sistema penitenziario da applicare nelle prigioni del nuovo governo afghano senza talebani. Il nostro ordinamento penitenziario veniva da una serie di riforme importanti. Riforme che ponevano come principio cardine l’art. 27 della nostra Costituzione, che auspica il recupero del condannato e il suo rientro nella società. La giovane studiosa, che conosceva alcuni condannati e il loro percorso di recupero, si mise al lavoro con fiducia e ottimismo e svolse sicuramente il suo compito al meglio, con uno sguardo pragmatico ma soprattutto umano. Non si capacitava che vi fossero madri detenute con i loro figli a poca distanza dagli altri detenuti. Oggi in Italia si è tornati a parlare di sistema penitenziario con più notizie da parte degli organi di stampa per il caso di Alfredo Cospito, detenuto appartenente all’area politica anarchica, che deve scontare anni di carcere per reati di associazione sovversiva e banda armata. Il suo caso non sarebbe arrivato all’attenzione dei media se ad ottobre non avesse iniziato uno sciopero della fame che tuttora perdura, tanto che versa in condizioni gravi ed attualmente è stato trasferito in una struttura detentiva allestita all’interno dell’ospedale. Si tratta di strutture per i detenuti malati sia in attesa di giudizio, sia condannati per reati di criminalità organizzata, anche se sono in fin di vita e nella maggior parte dei casi sottoposti al 41 bis. La sua decisione di infliggersi il digiuno a oltranza Cospito l’ha presa contro l’applicazione del 41 bis, al quale è sottoposto, ovvero il carcere duro previsto dell’ordinamento penitenziario nei casi di grave e reiterato pericolo per la collettività. Carcere duro in realtà è un eufemismo, perché il 41 bis a tutti gli effetti è un sistema per cui la stessa Corte europea dei diritti umani non ci vede di buon occhio. E non potrebbe essere diversamente, perché il concetto di punizione inferta fino a rasentare la tortura non appartiene alla nostra cultura, a quella del diritto internazionale e delle leggi che lo regolano. Il tema del 41 bis, che sia collegato al “caso Cospito” o meno, però può essere affrontato da due punti di vista: quello umano/ideologico e quello “tecnico”. Salterò a piè pari l’aspetto umano o ideologico, ovvero se gli esseri umani che commettono errori/reati debbano essere trattati in un modo oppure in un altro. C’è un modo semplice per descrivere questa impostazione: per l’Antico Testamento andava bene l’occhio per occhio, per il Vangelo invece si dovrebbe perdonare se non addirittura porgere l’altra guancia. Ovviamente col passare dei secoli e il progresso della cultura (anche scientifica) si sono sviluppate molte posizioni intermedie, e io non parlerò di queste, perché sono praticamente infinite, e, da un estremo all’altro, tutte legittime. Da un punto di vista “tecnico” il campo si biforca: come è stata scritta la legge, quali leggi erano in vigore prima, se la Costituzione è stata rispettata alla lettera oppure “in senso lato”, quali contestazioni sono state sollevate in punto di diritto, eccetera. Non è il mio campo, e soprattutto credo che serva a poco affrontare il tema da questo punto di vista: la legge è in vigore, ogni tanto la Corte Costituzionale suggerisce delle leggere modifiche, ma di fatto la legge c’è e un certo numero di cittadini sono sottoposti al suo rigore. C’è un altro aspetto tecnico del quale però si può parlare: non la “genesi” della legge sul carcere duro, ma la sua destinazione, la sua eventuale efficacia. Trae giovamento una comunità dall’isolare un migliaio dei propri concittadini, tagliandoli fuori da tutto, oppure, col passare dei decenni (perché ormai sono decenni che il 41 bis è in vigore) si deve prendere atto che la quantità di droga che circola non è diminuita, che il fenomeno dell’usura non è diminuito, che la prostituzione esiste ancora, e via elencando? Un sistema penale non deve solo appagare il desiderio (legittimo, o, quantomeno, inevitabile) di punizione, ma, considerato il denaro speso, deve anche restituire alla collettività una società che sia meno violenta, meno cattiva. Propongo questo discorso perché la “giustizia” è anche un “servizio”. È uno dei servizi per il quale il cittadino paga le tasse, e come tutti i servizi va valutato anche in termini di efficacia. Un carcere che sia solo “duro” rende davvero la società un posto più sicuro in cui vivere? Punizioni esemplari su chi è già stato preso e messo in condizioni di non nuocere, ci aiutano davvero ad avere un Paese migliore? Quale efficacia può mai esserci nel tenere persone detenute per decenni senza che si apra una riflessione su quanto sarebbe efficace un sistema di risorse destinate alla prevenzione, all’educazione e alla riparazione per assicurare una reale visibile sicurezza? Le comunità sanno fare sacrifici, ma devono anche sapere che questi daranno i loro frutti e che la terribilità non è acqua per la terra, ma il protrarsi di stagioni sempre più aride. Quando il diritto penale diventa terreno di pascolo della politica di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 3 aprile 2023 Dal reato di istigazione all’anoressia a quello di omicidio nautico. La formidabile capacità di sintesi della lingua latina ci ha consegnato, tra le tante rimaste nei secoli patrimonio del nostro linguaggio e del nostro pensiero, la locuzione “extrema ratio”. Il vocabolario Treccani ne esplicita il significato costringendosi ad impiegare alcune righe: “Espressione latina, spesso ripetuta con il sign. di “ultima soluzione, estremo rimedio”, a cui si ricorre quando non vi siano altre vie d’uscita, e che può quindi spesso essere la soluzione più dolorosa o più violenta”. Dunque la soluzione da rifuggire, ed alla quale ricorrere solo in via estrema, quando davvero si è giunti alla constatazione che non è possibile individuarne, per quel problema, una diversa. Nel pensiero liberale, è fondamentale l’idea che la sanzione penale sia appunto la “extrema ratio”, di fronte a comportamenti che attentano all’ordine sociale ed alle regole del buon vivere comune; i quali comportamenti debbono essere affrontati e sanzionati sì, ma non necessariamente ed anzi non preferibilmente con lo strumento del diritto penale. L’esatto contrario, dunque, di quanto si è invece da tempo radicato -dobbiamo ormai riconoscerlo- nella cultura e nel modo di pensare assolutamente prevalenti nel nostro Paese. Qui davvero non si colgono differenze sostanziali di storie e culture politiche, di destra o di sinistra che siano, ad eccezione -appunto- di quelle riserve di autentica cultura liberale che in tanti rivendicano, ma in pochissimi praticano. Di fronte a fatti che colpiscono la pubblica opinione, cioè a comportamenti riprovevoli che allarmano, indignano e turbano la civile convivenza, la politica di ogni colore risponde in un solo modo: introducendo nuove figure di reato, o aggravando progressivamente l’entità delle pene per quelli che già esistono. Parlo qui di alcune chicche imperdibili solo per stare alla cronaca, ma non c’è nulla di nuovo, è storia uguale a sé stessa da almeno un trentennio, senza alcuna distinzione di colore politico. Dunque, alcuni parlamentari oggi in carica propongono di introdurre, per dire, il reato di istigazione alla anoressia. Poche settimane fa, altri hanno proposto la introduzione del reato di omicidio colposo nautico. Mentre da ieri si affaccia, a furor di parti offese, l’idea di istituire una mirabolante Procura nazionale anti-stragi, qualunque cosa ciò questo possa mai significare. Ricordo una strepitosa vignetta di un leggendario giornale satirico che furoreggiava alla fine degli anni ‘70, Il Male. Con autentica preveggenza il fantastico fumetto rappresentava un magistrato che si era imposto l’obiettivo di immaginare alcune decine di possibili nuovi reati da contestare ai movimenti politici extraparlamentari, tra i quali, in un crescente delirio punizionista ed esaurita ogni altra plausibile ipotesi, finiva per proporre quelli di “accensione, compressione, scoppio e scarico”, di “sonnolenza molesta” e, in un meraviglioso finale, il grandioso reato di “torto marcio”. Siamo ad un passo, la satira politica di un tempo è diventata cronaca della realtà. La matrice di questi grotteschi spropositi è sempre la stessa: la cronaca racconta fatti che colpiscono la pubblica opinione, i social amplificano il dolore purtroppo inestinguibile delle vittime, sale la “sete di giustizia”, e parte la proposta del nuovo reato. L’omicidio colposo nautico immagino segua alle cronache di quell’orrendo incidente in un lago italiano, dove due dissennati tedeschi ubriachi alla guida di notte di un potente motoscafo, hanno maciullato una coppia di poveri ragazzi. Si tratta, leggi vigenti alla mano, di un omicidio colposo plurimo e pluri-aggravato, Dio solo sa perché occorrerebbe ora prevedere l’omicidio colposo nautico, e chissà se, alla prossima sciagura -per dire- causata da un trattore, non dovremo attenderci la introduzione dell’omicidio colposo agricolo. Ancora più misterioso è il percorso logico che ha alimentato l’idea del reato di istigazione alla anoressia. Credo si faccia riferimento a quelle notizie che ogni tanto leggiamo, che ci parlano della diffusione di modelli comportamentali alimentari (per ragioni sportive, o di outfit modaiolo, o di qualche altra idiozia analoga) che indurrebbero soggetti più deboli a precipitare ineluttabilmente in gravi patologie del comportamento alimentare. Già immagino pool di procuratori della Repubblica impegnati a ricostruire impalpabili nessi causali tra un video di un qualche fanatico influencer e l’anoressia denunziata dai genitori di qualche povera ragazza. Ci sarebbe da ridere, ma invece la questione è seria, molto seria. Siamo ormai precipitati in un gorgo di cultura autoritaria, dove il diritto penale è diventato terreno di pascolo privilegiato della politica, della ricerca del consenso, e della illusoria ossessione retributiva del dolore delle vittime attraverso la inutile, dissennata moltiplicazione delle figure di reato o della entità delle pene. Questo Paese ha un bisogno disperato di conoscenza e comprensione del pensiero liberale, e ancor più di leader politici in grado di diffonderle in modo credibile ed autorevole. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Diritto all’oblio, strada in salita. Costa: “Norma ancora inattuata” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 aprile 2023 Confronto alla Camera sulla legge voluta dal deputato di Azione e introdotta con la riforma penale di Cartabia, Si è tenuto la scorsa settimana alla Camera il convegno dal titolo “Il diritto all’oblio nella riforma Cartabia - Le prove generali di un diritto penale liberale”. A fare gli onori di casa il deputato di Azione Enrico Costa. Il suo emendamento approvato alla riforma del processo penale di mediazione Cartabia ha previsto che dal primo gennaio di quest’anno i motori di ricerca dovranno dissociare i nomi degli assolti dalle notizie circolanti in rete sulle inchieste da cui sono risultati innocenti. Per il parlamentare “lo spirito delle mie iniziative, anche riguardo alle spese legali per gli assolti, è quello per cui se lo Stato ti chiama a rispondere per un reato e poi ti assolve deve consentirti di rientrare in società con la stessa reputazione che avevi prima”. Costa ricorda che sempre grazie ad un suo emendamento sono stati raddoppiati i rimborsi per gli assolti: “Abbiamo a disposizione 16 milioni ma ce ne vorrebbero 200 visto che il 50 per cento dei dibattimenti si conclude con assoluzione”. Tornando al tema del convegno Costa ha detto: “Pure se uno viene assolto si ritrova pubblicata su Google persino tutta l’ordinanza di custodia cautelare. La verità processuale contrasta con quello che si trova in rete. E questo è un problema. Ne parlai con l’ex ministra Cartabia e lei mi suggerì di andare avanti. Così ho costruito l’emendamento passato all’unanimità”. Ma dalla teoria alla pratica c’è ancora della strada da fare: rispetto alla prima basterà che la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento apponga e sottoscriva una annotazione sul fascicolo del processo dove c’è anche la sentenza tuttavia, ha sostenuto Costa, “non tutte le cancellerie e i tribunali conoscono questa norma. Quindi dovrebbero essere informati attraverso delle note puntali elaborate dal Csm o dal ministero della Giustizia. Bisogna evitare che il testo della legge rimanga lettera morta”. Un esempio virtuoso è quello del Tribunale di Modena dove è stata emanata una circolare firmata dal presidente e dal dirigente amministrativo nella quale si danno disposizioni dettagliate e si chiede anche un monitoraggio. Costa ha poi criticato una recente sentenza della Cassazione (sentenza numero 2893 del 31 gennaio 2023 che si è poi ripetuta con l’ordinanza n. 6116 del 1° marzo 2023) secondo la quale solo a richiesta dell’interessato le testate giornalistiche hanno l’obbligo di aggiornare le vicende giudiziarie sulle quali hanno scritto articoli, non potendo gravare sulle testate l’onere di aggiornamento rispetto a vicende di cui si è scritto magari molto tempo addietro. Per il responsabile giustizia di Azione, “questa decisione lascia molto a desiderare perché cristallizza il fatto che la stampa si occupi solo delle indagini e non del processo. Invece dovrebbe essere naturale da parte dei giornalisti prendere parte ai dibattimenti e dare spontaneamente notizia degli esiti. Non dovrebbe essere la parte a farne richiesta”. Dopo gli interventi di avvocati ed esperti, ha concluso i lavori il vice ministro alla giustizia Francesco Paolo Sisto che ha parlato della necessità di bilanciare tre diritti fondamentali: ossia gli articoli 21, 27 e 111 della Costituzione. “Dal mio punto di vista se un cittadino ottiene un risultato favorevole durante un giusto processo, questo risultato deve avere effetti a 360 gradi, deve radere al suolo ogni possibilità di remember rispetto a quanto accaduto”, perché purtroppo “nel nostro Paese conta più un marchio che un 110 e lode e solo in Italia il processo mediatico è più aggressivo di quello che si celebra nelle aule giudiziarie”. Firenze. Demolire e ricostruire Sollicciano? Antigone: “I soldi ci sarebbero, manca la volontà politica” novaradio.info, 3 aprile 2023 Demolire e ricostruire il carcere di Sollicciano: a rispolverare la proposta è stato il sindaco di Firenze Dario Nardella, parlando sabato all’Open day nazionale sul tema “Carcere e città” organizzato nel Giardino degli incontri. “Una struttura così vecchia, con una conformazione così respingente, e del tutto separata dal tessuto cittadino, ha fatto il suo tempo, per reinserire nella società i detenuti come prevede la Costituzione deve trasformarsi in un pezzo di città”, ha detto il sindaco, spiegando le novità inserite nel Piano Operativo Comunale: c on un concorso di idee (e risorse nel bilancio triennale 2024-26, ha promesso il sindaco) l’area non-luogo intorno a Sollicciano e al Gozzini sarà ‘‘rigenerata’’ come parco attrezzato di 12 ettari, con servizi sportivi, orti sociali, attività culturali che coinvolgano detenuti, guardie carcerarie, cittadini, associazioni, quartiere. Rispetto all’ipotesi di demolizione-ricostruzione rimane scettico Alessio Scandurra, dell’Associazione Antigone che costantemente “entra” in carcere con i suoi volontari e monitora i penitenziari di tutta Italia: “E vero che di questa ipotesi di parla a Sollicciano più spesso che per ogni altro penitenziario, e che le condizioni materiali della struttura sono pessime - dice - se si fosse trattata di un’azienda privata, la scelta sarebbe già stata fatta da tempo”. Il problema è che invece Sollicciano vive tutte le difficoltà burocratiche di un edificio pubblico: lo dimostra il travagliato iter dell’ultima tranche dei interventi di “restyling” ad alcune sezioni, che stanno costringendo i detenuti - ridotto ora a circa 500 - in spazi più angusti. “I fondi nazionali per la ristrutturazione delle strutture” ci sono, ammette Scandurra, ma quel che è mancato finora è una vera volontà politica. L difficoltà di un’operazione poi sarebbero enormi, anche logistiche, dato che Sollicciano accoglie una delle poche sezioni femminili della Toscana. Dover trasferire le detenute? Impossibile raderlo a suolo e rifarlo da capo, meglio semmai la strategia della demolizione di un padiglione alla volta. Tenendo però presente un fatto: Anche se si decidesse la demolizione, gli attuali detenuti sono destinati a vivere nel carcere attuale ancora molti anni. Servono quindi interventi puntuali e immediati”. Teramo. Castrogno, addio dopo 12 anni a Stefano Liberatore: “Dignità ai detenuti” di Diana Pompetti Il Centro, 3 aprile 2023 Il direttore: “Il sovraffollamento resta, ma non ha mai fermato i tanti progetti di rieducazione” Il funzionario va a dirigere l’istituto di Sulmona: “C’ero ai tempi della Miserere, donna eccezionale”. Stefano Liberatore è un padre che ha preso i giochi dei figli e li ha portati in carcere, si è improvvisato giardiniere e insieme ai detenuti ha piantato alberi e fiori, ha inseguito fondi sempre più esigui per progetti di rieducazione. Perché si può trovare la forza di cambiare le cose, giorno dopo giorno, anche tra il sovraffollamento endemico delle celle, il personale che manca, i finanziamenti inadeguati, la burocrazia che frena e tutte quelle difficoltà che rendono arduo, quando non impossibile, un percorso di rieducazione che per la Costituzione dovrebbe essere garantito a tutti. Liberatore per 12 anni è stato il direttore del carcere teramano di Castrogno che ora lascia per dirigere quello di Sulmona, struttura in cui è già stato vice nei tempi della tragedia di Armida Miserere, storica direttrice che nel 2003 si tolse la vita. “Dodici anni fa arrivai a Teramo proprio da Sulmona”, racconta questo funzionario abruzzese di 62 anni che per 30 ha girato i penitenziari italiani con esperienze anche a Brescia, Cremona, L’Opera di Milano, “era un carcere difficile, gli interpelli andavano tutti deserti. Non è stato facile garantire sicurezza e rieducazione, ma io parto dal presupposto che prima di tutto bisogna garantire dignità ai detenuti. Sempre e comunque. E in questi anni abbiamo fatto di necessità virtù puntando a progetti di rieducazione, aprendo all’università con tanti detenuti che sono riusciti a laurearsi partendo da zero. Ma nessuno è bravo da solo e per questo ringrazio tutti. Serve un lavoro di squadra: con il personale, con gli agenti, con tutti coloro che ogni giorno si confrontano con una realtà difficile come quella di un carcere”. Che resta un luogo dove il tempo è sospeso e spesso non esiste più, dove sconosciuti si ritrovano a condividere ore e spazio in balia del panico, del vuoto, della rabbia propria e altrui. L’aggravante del sovraffollamento, come succede a Teramo e in moltissimi penitenziari italiani, può solo cancellare ogni residuo di speranza. “La realtà carceraria è quella che è”, dice Liberatore, “i numeri non aiutano, ma bisogna sempre andare avanti cercando di fare il possibile per garantire dignità a chi è recluso perché nessuno dovrebbe mai sentire l’odore di un carcere”. In dodici anni a Castrogno è nata la struttura per ospitare detenute con i figli, l’area esterna con i gazebo per i colloqui, le videochiamate al computer con i familiari, l’orto, i laboratori, la scuola, l’università, il teatro. Sempre inseguendo un solo obiettivo: evitare che i reclusi vengano trattati da esclusi. “L’ho imparato sul campo, me lo hanno insegnato i miei colleghi”, conclude, “a cominciare da Armida Miserere. Lei era la direttrice del carcere di Cremona quando giovane funzionario vincitore di concorso iniziai questo lavoro, era direttrice quando arrivai a Sulmona come vice. Una donna eccezionale con una grande capacità di ascolto degli altri, con una grande capacità di tradurre in concreto quel concetto di rieducazione sancito dalla Costituzione. Il suo modo di fare questo lavoro mi ha aiutato molto in questi anni. Tornare a Sulmona per me è un grande onore e un altro banco di prova. Ma anche questa volta l’obiettivo è lo stesso: la dignità dei detenuti prima di tutto”. Pontremoli (Ms). “L’Ipm è un modello da esportare. Per tutti una seconda chance” di Natalino Benacci La Nazione, 3 aprile 2023 Il sottosegretario Andrea Ostellari ospite del festival a tema che si è tenuto a Pontremoli. “Basta con gli istituti chiusi e incapaci di costruire, ma preparati a investire in risorse umane”. Il Festival della cura adotta il modello della giustizia riparativa, che ha come obiettivo il rimedio al danno e alla sofferenza generata dal conflitto. L’ascolto, il teatro (con Shakespeare che diventa mediatore), il dialogo e infine le domande dei ragazzi degli Ipm e delle scuole a criminologi, magistrati docenti e operatori teatrali hanno condensato le tre giornate del Curae Festival. Un punto di vista capovolto ha reso più profonda l’analisi finale con gli interrogativi lanciati per spezzare la catena del male. La conferenza di chiusura nelle Stanze del Teatro della Rosa, è stata introdotta dal formatore Mario Schermi e Domenica Belrosso, direttrice dell’Ipm di Pontremoli. A rispondere alle domande provenienti dagli istituti minorili, c’erano Adolfo Ceretti (criminologo), Cristina Maggia (magistrato), Valentina Bonini (docente di diritto processuale penale), Lello Tedeschi (regista), Lorenzo Sciacca (mediatore), Francesca Calaminici (operatrice teatrale) Laura Iavarone (insegnante), Alessandra Mercantini (mediatrice) e operatori della giustizia minorile. Numerosa la platea tra cui il sindaco Jacopo Ferri, i magistrati Marcello Bortolato, Luca Villa, Daniela Verrina, Cosimo Ferri; i professori Lucio Camaldo (docente Diritto processuale penale), Susanna Vezzadini (sociologia della devianza e criminologia), Cristina Cavecchi e Margarete Rose (lingue e letterature straniere), Massimo Marino (critico teatrale e autore), Laura Iavarone (insegnante scuola superiore), il regista Paolo Billi, ideatore dell’evento. Poi Giuseppe Cacciapuoti (direttore generale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità) con la collega Cira Stefanelli, Pietro Buffa (direttore formazione Ministero della giustizia) e Gabriele Bono (dirigente Cgm Toscana). “Sono stati i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza del teatro e della giustizia riparativa ad accompagnare gli adulti a riflettere e dialogare con loro - spiega Billi, che ha varato nel 2013 all’Ipm pontremolese il percorso artistico-formativo “Saran rose e fioriranno”. In fondo il senso profondo della giustizia minorile del Dpr44888 è proprio quello di pensare al minore indicato come l’autore dell’offesa e anche alla vittima come a soggetti attivi nel costruire un progetto che li riguarda”. E il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha chiuso annunciando una svolta per gli Ipm, contagiato dal modello Pontremoli. “Non più istituti chiusi e incapaci di costruire soluzioni, ma preparati a investire in risorse umane, in grado di attivare un’attenzione positiva verso i ragazzi e anche nei confronti di chi ha subito. Occorre rilanciare però anche i temi della responsabilità, anche quella degli adulti, e della capacità di rispettare il valore delle regole”. Ostellari ha poi ringraziato la polizia penitenziaria e gli operatori della giustizia minorile per il lavoro svolto ogni giorno. Quindi la proposta di organizzare il prossimo anno un’altra edizione di Curae Festival. Napoli. Laurea nel carcere di Secondigliano per due detenuti iscritti alla Federico II di Bianca de Fazio La Repubblica, 3 aprile 2023 È la prima volta che una seduta si tiene nell’istituto di pena. Per sottolinearne l’importanza la commissione sarà presieduta oggi dal rettore Matteo Lorito. I due laureandi si diplomeranno in Scienze erboristiche. È la prima volta che una seduta di laurea si tiene nel carcere di Secondigliano. La prima volta che due detenuti iscritti alla Federico II giungono alla fine del percorso di studi (altri, negli scorsi anni, si sono laureati solo alla fine del periodo di detenzione o mentre erano in regime di semilibertà). E per sottolineare l’importanza non solo simbolica dell’evento la commissione di laurea sarà presieduta dal rettore Matteo Lorito e ne faranno parte, insieme ad altri colleghi, la prorettrice Rita Mastrullo, il direttore del dipartimento di Farmacia Angela Zampella, la presidente della Scuola di Medicina Maria Triassi, oltre alla delegata del rettore per il Polo universitario penitenziario Maria Rosaria Santangelo. La seduta di laurea si tiene oggi, lunedì, nel primo pomeriggio, nella palestra del carcere, dove saranno due i detenuti che si laureeranno, entrambi in Scienze e tecniche erboristiche, avendo come relatore il professore Mariano Stornaiuolo. “Vogliamo così ribadire - spiega la prorettrice Mastrullo - l’importanza di portare la formazione dentro un istituto di pena. Fare formazione significa anche contribuire al percorso di crescita di persone che vivono una condizione particolare ed hanno la possibilità di usare anche lo studio come leva per rielaborare il loro vissuto, oltre che come ipotesi concreta di costruzione di una seconda opportunità “. Attualmente il Polo universitario penitenziario conta 96 iscritti reclusi. Il più giovane ha 25 anni, il più anziano 60. Ci sono 5 donne e anche 20 studenti che scontano la pena con misure alternative al carcere o in libertà post-carcerazione. “Il Polo universitario penitenziario napoletano, nato quando era rettore Gaetano Manfredi - spiega l’ateneo - sin dall’inizio dell’anno accademico 2018- 2019 ha ottenuto dall’amministrazione penitenziaria spazi dedicati, sia in alta che in media sicurezza. Spazi nei quali gli studenti hanno un regime detentivo particolare, con camere di pernottamento, stanze destinate alla didattica e allo studio, ambienti per tutor e docenti”. Non senza differenze a seconda del regime carcerario dello studente, di alta o di media sicurezza che sia. “Stiamo anche chiedendo maggiori disponibilità di spazi, per allungare i tempi delle lezioni” spiega la prorettrice. Intanto i due iscritti giunti ormai alla laurea hanno potuto, grazie ad una convenzione con la Asl Napoli 1, svolgere il tirocinio nella Farmacia dell’Istituto penitenziario. “Durante uno dei miei incontri con gli studenti detenuti - racconta Mastrullo - mi colpì l’affermazione di un giovane uomo: ‘Questo percorso di studi mi aiuta a farmi percepire dalla mia famiglia e dai miei amici come una persona migliore rispetto a quello che ero entrando in galera’. L’ateneo è fermamente convinto del valore di questa azione e dunque vuole testimoniarlo portando a Secondigliano, in commissione, anche il rettore”. Attualmente il Polo ha 11 corsi di laurea attivi negli istituti di pena: Scienze e tecniche erboristiche, Scienze nutraceutiche, Sviluppo sostenibile e reti territoriali, Scienze gastronomiche mediterranee, Ingegneria meccatronica, Sociologia, Scienze politiche, Servizi giuridici, Lettere moderne, Economia e commercio e Economia aziendale. Brescia. Ciro insegna a fare la pizza ai detenuti: “Così li aiuto a trovare lavoro” tgnewstv.it, 3 aprile 2023 Il pizzaiolo originario di Napoli, titolare della pizzeria “San Ciro”, entra in carcere a Brescia, per due mesi insegnerà i segreti di impasti e cottura. “La ristorazione ha bisogno di lavoratori, vogliamo aiutare chi vuole crearsi una seconda opportunità. Se altre pizzerie vogliono partecipare al progetto, sono le benvenute”. Ciro Di Maio è un giovane pizzaiolo, classe 1990, originario di Frattamaggiore, nel Napoletano. Nel 2015, dopo aver lasciato gli studi all’Alberghiero, per trovare qualche nuova opportunità decise di trasferirsi in Lombardia. È così che è iniziata l’avventura di “San Ciro”, la sua pizzeria con sede a Brescia. Il nome del locale deriva da quello dei nonni, sia materno che paterno, di Ciro. Figure importanti nella sua vita, come quella del padre, che per rimediare al suo passato ha dedicato il suo tempo al volontariato e ad aiutare i giovani ad uscire dalla droga collaborando con una comunità per salvare i tossicodipendenti. Dalle difficoltà iniziali alla realizzazione lavorativa: Ciro oggi si considera un privilegiato e, dopo aver superato le difficoltà connesse alla pandemia e ai successivi rincari delle materie prime, ha deciso di donare a chi è meno fortunato la possibilità di trovarsi un lavoro. La pizza come forma di rinascita. Il lavoro come via di fuga dalla criminalità. Dal 28 febbraio, infatti, Ciro sta insegnando l’arte della pizza ai detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, grazie ad un progetto ideato in collaborazione con Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere stesso, Francesca Paola Lucrezi. Un progetto nato ancora nel 2019, poi sospeso per via del Covid, e che adesso può decollare. Per due mesi Ciro entrerà in carcere due volte a settimana, per realizzare lezioni di teoria e pratica su come si fa la pizza perfetta. Dal ruolo del sale alla temperatura dei forni, passando per i segreti dell’impasto e quelli legati al pomodoro. Alle lezioni presenzieranno sette detenuti, tutti accusati di reati minori e dunque pronti a scontare un (breve) periodo di detenzione in carcere. In tutto, quaranta ore di un corso professionale che userà le strutture del carcere (come il forno elettrico) e sarà supportato da “San Ciro”, almeno per la gestione dei primi impasti. Luisa Ravagnani è garante dei diritti delle persone private della libertà personale a Brescia. “Imparare un mestiere in carcere rappresenta una concreta possibilità di utilizzare il tempo della pena per prepararsi a un futuro lontano dalle scelte devianti che in precedenza hanno condotto al carcere”, dice. “L’impegno di Ciro in questo progetto dimostra che la collettività esterna è in grado di abbandonare pregiudizi e stigma per trasformarsi in elemento fondamentale del percorso di reinserimento. Non resta che sperare che l’entusiasmo di Ciro contagi anche altri imprenditori che, come lui, sappiano credere nelle seconde possibilità. Francesca Paola Lucrezi è la direttrice del carcere. “Il corso di pizzaiolo nella Casa Circondariale di Brescia ha riscosso sin da subito moltissimo apprezzamento tra i detenuti che ne hanno chiesto, in numero di gran lunga superiore rispetto ai posti disponibili, la partecipazione”, dice. “L’attività professionalizzante, oltre a conferire competenze è particolarmente “appetibile” per la spendibilità nel mondo del lavoro. È senz’altro auspicabile la ripetizione dell’attività all’interno del carcere e sarebbe un importante risultato se altri pizzaioli accettassero la proposta di Ciro di consorziati in tal senso: fare sistema garantisce efficacia e tenuta nei risultati”. “Un ragazzo che finisce in carcere, magari per reati minori, poi ha una difficoltà enorme nel reinserirsi nel mondo lavorativo”, spiega Ciro. “Lo so per esperienza personale, ho visto molti amici finire male. Per questo ho deciso di impegnarmi in prima persona per aiutarli. In questo momento storico, tra l’altro, c’è una richiesta sempre maggiore di pizzaioli e di persone che si vogliano impegnare nell’ambiente della ristorazione. Abbiamo pensato di proporre un corso di questo tipo proprio per garantire in modo quasi automatico l’assunzione alle persone che seguiranno il corso”. L’obiettivo nel medio periodo di Ciro è quello di creare una sorta di consorzio di pizzaioli che, come lui, vogliano dare una possibilità a chi ha sbagliato e contemporaneamente ricoprire quei ruoli che sono ancora vacanti. “Lancio un appello ai miei colleghi che lavorano nella ristorazione”, conclude Ciro. “Vorrei fondare un’associazione di persone che vogliano aiutare gli ex detenuti a reinserirsi con una nuova professionalità. In questo periodo nel quale mancano lavoratori è un modello positivo per tutti”. Va detto che Ciro non è nuovo ad iniziative benefiche. Qualche tempo fa, si era dedicato alla formazione anche nel Rione Sanità di Napoli, una zona che a lui ricorda la via dove è cresciuto, via Rossini a Frattamaggiore. L’istituto che ha abbracciato il suo progetto è stato quello alberghiero D’Este Caracciolo. Nello specifico, le classi che hanno seguito le videolezioni sono state quelle ad indirizzo enogastronomico e a indirizzo sala e accoglienza. Ciro Di Maio nasce a Frattamaggiore, un comune del Napoletano, nel 1990. Mamma casalinga, papà dal passato burrascoso. Le sue prime esperienze nel lavoro sono a 14 anni, poi si iscrive all’Alberghiero, ma a 18 anni lascia gli studi e inizia a lavorare. Nel 2015, la svolta: trova un lavoro da pizzaiolo per una grossa catena in Lombardia, poi riesce a rilevare quella pizzeria assieme a sei soci, infine diventa titolare unico. È così che è iniziata l’avventura “San Ciro”, il suo locale a Brescia (vicino al multisala Oz, in via Sorbanella) che oggi impiega una quindicina di persone ed è noto per la veracità delle sue pizze, ma anche per il suo menù alla carta di alta cucina. Un locale amato perché rappresenta la tradizione napoletana, a partire dagli ingredienti: olio dop, mozzarella di bufala campana dop, pomodorino del Piennolo, ricotta di bufala omogeneizzata e porchetta di Ariccia Igp. Fondamentale è la pasta: ogni giorno viene scelto il livello esatto di idratazione, in base all’umidità di giornata. In menù ha la pizza verace, ma anche il battilocchio, la pizza fatta da un impasto fritto nell’olio bollente e subito servito avvolto in carta paglia. Le pizze sono tutte diverse, sono fatte artigianalmente. Ciro lo ripete spesso. “Mi piace tirare le orecchie alle pizze, ognuna ha il suo carattere e deve mostrarlo, odio le pizze perfettamente rotonde e se c’è più pomodoro da una parte rispetto ad un’altra è perché usiamo pomodori veri”. Molti i vip che lo amano, le pareti del suo ristorante sono piene di fotografie. Tra le altre anche Eva Henger, che è stata a cucinare pizze una sera da lui. Senza dimenticare i giocatori del Brescia Calcio, che quando possono, anche dopo le partite, lo passano a salutare. Paola (Cs). Detenuti a lezione di calcio con Ulivieri di Tiziana Aceto Quotidiano del Sud, 3 aprile 2023 I detenuti del carcere di Paola potrebbero diventare dei futuri allenatori di calcio. Avranno un insegnante d’eccezione, Renzo Ulivieri, decano dei tecnici italiani e presidente dell’Assoallenatori. L’incontro di presentazione del corso dell’Aiac (a fine corso gli attestati dell’Aiac daranno ai detenuti la possibilità di iniziare la carriera nel mondo del calcio, una volta rimessi in libertà, ottenendo crediti utili per l’accesso ai corsi ufficiali Uefa) si è tenuto presso il teatro del carcere, per poi spostarsi al campo di calcio dove si è svolta una partita tra detenuti, col calcio di inizio dato proprio da Ulivieri. All’incontro c’erano varie autorità legate all’amministrazione carceraria e il sindaco di Paola Giovanni Politano. Presente anche Angela Paravati del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che ha fatto le veci del direttore del carcere di Paola Emilia Boccagna. Ulivieri, 82 anni, che è stato allenatore tra le altre di Bologna, Napoli, Parma e Reggina, ai detenuti ha detto che bisogna studiare per raggiungere gli obiettivi. E in questo corso si studia, non si gioca. Si studierà anche la psicologia e le attività motorie. Tutto ciò che serve per essere allenatore. Si svolgerà alla fine un esame e le lezioni saranno tenute dallo stesso Ulivieri e da vari esperti del settore. “Lo sport - ha detto Ulivieri - può essere un’occasione di riscatto e di inclusione. Diventare istruttori significa non solo rispettare le regole ma impartirle ai più giovani, gestire una squadra di calcio significa gestire persone e aggregarle per un obiettivo comune. Ai ragazzi degli altri penitenziari che hanno partecipato al corso ho detto di non disperdere questa unione formatasi tra di loro, questa comunità. Questa capacità di aiutarsi l’un con l’altro è un valore importante per il prosieguo della loro vita. Come Aiac siamo molto soddisfatti del lavoro compiuto, abbiamo lasciato tracce formative crediamo motivanti per il loro futuro lontano dalle carceri”. All’interno del carcere, i detenuti mentre scontano la pena si preparano al rientro alla vita quotidiano e per sostenerli e offrire loro nuove opportunità si svolgono delle regolari attività scolastiche. Si può infatti conseguire diploma alberghiero e la scuola di riferimenti è l’Ipseoa di Paola. Dai 2 Graviano a Capizzi: boss laureandi a pieni voti di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2023 Report e i mafiosi al 41 bis iscritti all’università: “Tutti studenti modello con libretti da 30 e lode”. La puntata di Report di stasera parlerà dei tanti boss di Cosa Nostra attualmente iscritti all’università. E di come siano diventati, con il 41 bis, studenti modello. Anche se l’iscrizione agli atenei pare che sia stata utilizzata in primo luogo per chiedere trasferimenti rispetto alle carceri oggi frequentate dai mafiosi. Il pubblico ministero Sebastiano Ardita, già direttore generale del dipartimento detenuti del Dap, lo spiega ai microfoni della trasmissione di Rai 3: “I boss mantenevano delle iscrizioni in sedi universitarie molto distanti da quelle in cui si trovava il carcere. Fino a 2 mila chilometri di distanza”. Tutti studenti modello con libretti da 30 e lode. Per aggirare il carcere duro, l’iscrizione era in università distanti fino a 2mila km. “L’importanza di una persona non è essere l’uomo più ricco del mondo, l’importante è lasciare la prole, perché il proprio Dna cammina, continua a camminare”. Il passaggio del “testimone” da padre a figlio è sintetizzato così nelle parole del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio e per le bombe del 1993, e detenuto al 41bis dal gennaio 1994. E proprio “Madrenatura”, come è chiamato Graviano, che riuscì nel 1997 a concepire un figlio in carcere (sia lui sia suo fratello, Filippo, con le rispettive mogli). “Vedi che fare il figlio nel carcere, questo per me è stato un miracolo”, aveva detto proprio lui anni dopo, intercettato mentre lo raccontava in carcere. La storia è nota, anche se il boss, nei vari processi, ha sempre detto e non detto, specie sulle possibili coperture che permisero “il miracolo” per lui e il fratello. Ma è la prima volta in cui vediamo Graviano parlare dei dettagli di quel giorno con il suo compagno di ora d’aria, il camorrista Umberto Adinolfi (lo stesso a cui ha raccontato, tra tante cose, della sua latitanza a Milano e della “copertura favolosa” di cui lì godeva). È Report - che stasera torna su Rai3 con il suo nuovo ciclo di inchieste - ad aver scovato il video della confessione di Graviano. Proprio lui che aveva assicurato che non avrebbe raccontato mai a nessuno “come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto”. Nella puntata, a firma Giorgio Mottola, viene così mostrato il colloquio (aprile 2016) registrato dalle telecamere di sorveglianza del carcere, tra Graviano e Adinolfi. “Vuoi sapere il mio stato d’animo. Ti dico, che sono più ansioso, è stato prima di farlo. No prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, i giorni in cui sapevo che doveva avvenire la situazione - dice Graviano, passeggiando avanti e indietro senza sosta - Umbè, tremavo tutto. Cose da pazzi. Tremavo!”. “Il concepimento dei figli dei Graviano è un capitolo ancora aperto, che potrebbe aprire il varco a conoscenze ancora più importanti degli equilibri tra mafia e Stato in quel periodo”, spiega alla trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore alla Dna. L’episodio del concepimento dei Graviano, ancora una volta, riporta l’attenzione su come, nonostante le durissime restrizioni previste dal 41bis, i boss siano riusciti ad approfittare di ogni falla e piccolo spiraglio del regime carcerario da sempre più avversato dai mafiosi, persino quando erano rinchiusi a Pianosa o all’Asinara. Per aggirare l’isolamento, nel corso degli anni, c’è chi ha usato come espediente le questioni di salute, chi invece la richiesta di fare l’università. Con annessa richiesta di trasferimento, perché - come spiega a Report il pm Sebastiano Ardita, già direttore generale del dipartimento detenuti del Dap tra 2002-2011 - “mantenevano delle iscrizioni in sedi universitarie molto distanti da quelle in cui si trovava il carcere, fino aduemila chilometri di distanza”. Ecco così l’elenco dei “mafiosi accademici”, partendo dal killer Pietro Aglieri iscritto a lettere con una media di 30 e lode, passando per Filippo Graviano laureato con 110 e lode in Economia, al fratello Giuseppe iscritto in Scienze con voti “eccellenti”. Giovanni Riina, figlio del capo dei capi, è immatricolato in giurisprudenza dal 2015, ma ha dato solo l’esame di Diritto costituzionale con 22. Mario Capizzi, condannato per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, è laureato in Agraria con 104, mentre il camorrista Ferdinando Cesarano ne ha una in Sociologia. “Da una verifica fatta, ci siamo accorti che nessun detenuto era stato mai rimandato in una materia all’università”, aggiunge Ardita. Report si sofferma anche su un’altra “anomalia”, sempre a proposito di possibili collegamenti con l’esterno, per i boss detenuti al 41bis. E riguarda gli avvocati difensori. Tra il 2007 e 2008, come racconta lo stesso Ardita, un singolo avvocato arrivò a difendere contemporaneamente 34 detenuti al 41bis. Un dato che va aggiornato. Dal censimento del 2016 del Dap, che Report mostra, risulta che “il record di clienti” sarebbe dell’avvocata aquilana Piera Farina: “109 assistiti al 41 bis”, tra cui gli ‘ndranghetisti Giuseppe Mancuso e Nino Imerti, i mafiosi Piddu Madonia, Giuseppe Graviano e Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro. L’avvocata Farina nel 2016 avrebbe incontrato “70 assistiti su 109 totali, tra il carcere dell’Aquila, Ascoli Piceno, Milano, Parma e Sassari”. “Mai e poi mai a me è stato chiesto di fare una cosa illecita - spiega l’avvocata alle telecamere di Rai3 - Mi dicono salutami tizio, io dico: non saluto proprio nessuno”. Ma di regole che impongano agli avvocati un numero massimo di detenuti al 41bis non ce ne sono, e quindi la questione resta tuttora aperta. La nuova èra della disinformazione di massa è appena cominciata di Andrea Daniele Signorelli Il Domani, 3 aprile 2023 Sono passati cinque anni dall’avvento dei primi deepfake, ma per fortuna l’apocalittico scenario informativo già allora previsto non si è verificato. Le cose potrebbero però a breve cambiare con l’avvento delle intelligenze artificiali generative, in grado di creare una marea di testi, immagini e video assolutamente verosimili. Nel caos che rischia di generarsi, sta alla politica, alle società che gestiscono gli algoritmi di intelligenza artificiale e anche alla stampa trovare nuove soluzioni. In futuro potremmo ricordare la finta fotografia del Papa con addosso un gigantesco piumino bianco come un momento di svolta. È infatti forse la prima volta che un’immagine generata da un’intelligenza artificiale è stata ampiamente ritenuta vera, anche da non pochi mezzi d’informazione. È un salto di qualità rispetto alle fake news e ai deepfake del passato, la cui circolazione era limitata ad alcuni ambienti cospirazionisti (com’è stato il caso del video modificato per far apparire Nancy Pelosi come se fosse ubriaca) oppure erano immediatamente riconoscibili come falsi (come avvenuto con il finto video di Zelenky che dichiara la resa dell’Ucraina). Quel momento è stato superato: la foto fasulla di Bergoglio potrebbe rappresentare l’antipasto di ciò che ci aspetta per il futuro. Un futuro in cui distinguere ciò che è vero da ciò che è falso sarà sempre più difficile e in cui la fiducia collettiva sarà ulteriormente erosa. Si tratta di timori eccessivi o siamo davvero di fronte a un cruciale salto di qualità? Deepfake e deeplearning - Facciamo un passo indietro. Era il 2018 quando per la prima volta emergevano i pericoli informativi legati alla diffusione dei deepfake: la tecnologia basata su deep learning (gli algoritmi ormai sinonimo di intelligenza artificiale) che permette di ricreare digitalmente le sembianze e la voce di qualunque persona, sincronizzando anche il labiale e riuscendo così a far dire a chiunque tutto ciò che si vuole. L’esempio più noto, organizzato da BuzzFeed e dal regista Jordan Peele, aveva come protagonista un finto, ma assolutamente credibile, Barack Obama che in un video insultava pesantemente Donald Trump. Anche in quel caso, sembrava di essere di fronte a un momento spartiacque, superato il quale saremmo stati inondati da deepfake indistinguibili dalla realtà, attraverso i quali sarebbe stato potenzialmente possibile far dire qualunque cosa a ogni personalità collocandola in qualunque luogo. Da allora, sono passati cinque anni e questo scenario apocalittico non si è per fortuna verificato. Ma quali sono le ragioni? Prima di tutto, all’epoca i video finti erano creati tramite un complicato sistema chiamato in gergo tecnico GAN (generative adversarial network): è un metodo che richiede la presenza di due differenti algoritmi che - in una sorta di riproduzione informatica della relazione tra il falsario e l’esperto d’arte - si “sfidano” finché il primo (il generatore) non riesce a creare un video o un’immagine che il secondo (il controllore) scambia per materiale genuino. È un metodo che, a meno che non si vogliano ottenere risultati molto approssimativi (e che quindi non ingannano nessuno), richiede competenze notevoli, risorse informatiche importanti e un lungo lavoro. Con il tempo, ovviamente, la creazione dei deepfake si è semplificata, ma ancora non abbastanza da renderli alla portata di tutti e quindi limitando enormemente la loro diffusione a scopi di disinformazione. Ciò vale a maggior ragione visto che, nel frattempo, i vecchi e molto più semplici strumenti di disinformazione e propaganda hanno dimostrato di saper ancora svolgere egregiamente la loro funzione: dalle classiche fake news circolate nel corso della pandemia alle teorie del complotto come QAnon, che hanno trovato nuova linfa grazie ai social network, fino ai video e alle immagini di guerra appartenenti a conflitti del passato rimessi in circolazione per far credere che riguardassero l’attuale conflitto in Ucraina. Chi ha bisogno di complessi e costosi deepfake quando basta così poco per generare ondate di disinformazione? Questo scenario - già complesso e difficile da affrontare anche da piattaforme social dalle risorse pressoché illimitate - rischia però di essere a breve relegato al passato. L’avvento delle cosiddette “intelligenze artificiali generative” cambia infatti ancora una volta le carte in tavola: chiunque può utilizzare MidJourney, Dall-E 2 e altri sistemi analoghi per creare delle credibilissime immagini finte - come visto proprio nel caso del Papa - solo digitando un apposito testo che descrive ciò che si vuole venga raffigurato. Se una GAN doveva essere addestrata specificamente per creare una singola immagine o un singolo video, i nuovi sistemi generativi (tecnicamente noti come “diffusion model”) possono sfornare in pochi istanti e a prezzi bassissimi una serie infinita di immagini e, a breve, anche di video di qualità sempre migliore. Uno studio pubblicato dal Global Network on Extremism and Technology sottolinea proprio come “l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa possa consentire a una varietà di attori non statali di produrre un’enorme quantità di contenuti di propaganda sempre più sofisticati e con sempre meno sforzo”. Ovviamente, lo stesso vale anche per la propaganda di stato o di partito. Qualche esempio c’è già: le immagini finte (e non ancora di sufficiente qualità) dell’arresto di Donald Trump e del baciamano di Putin a Xi Jinping sono state un campanello d’allarme sufficiente per far decidere alla società che gestisce MidJourney di interromperne l’utilizzo gratuito (la versione base a pagamento, comunque, costa solo 8 dollari al mese). L’impressione, questa volta, è di essere di fronte a un cambio di passo. E lo stesso vale per il potenziale utilizzo di ChatGPT come generatore infinito di false notizie, ricostruzioni, dichiarazioni e quant’altro. È allora questo lo scenario che abbiamo avanti? Un costante rumore di fondo, in cui notizie, immagini, video veri e falsi si mescolano senza soluzione di continuità, aggravando ulteriormente la già enorme sfiducia nei confronti dell’informazione - secondo l’ultimo Eurobarometro, solo il 39% dei cittadini dell’Unione Europea si fida della stampa - e aumentando ulteriormente la fruizione delle notizie in “modalità intrattenimento” (come l’ha definita lo European Journalism Observatory), ovvero senza nemmeno fare più caso a quanto possano essere vere o false? Anche a causa dei primi e più noti esempi, è facile tra l’altro pensare che le guerre informative a colpi di immagini tanto fasulle quanto realistiche saranno combattute soprattutto tra Stati Uniti e Cina, Unione Europea e Russia. In realtà, a essere ancora più esposte a questi rischi sono le nazioni economicamente meno sviluppate e soprattutto quelle soggette a grandi tensioni interne, dove quindi basta - come avvenuto in India, Myanmar, Vietnam e altrove con le tradizionali fake news - la scintilla generata da una finta immagine a scatenare gravi violenze. Quali sono le contromisure attuabili? La cattiva notizia è che, almeno per il momento, le immagini create con le intelligenze artificiali generative hanno dimostrato di essere in grado di aggirare i (già imperfetti) metodi di rilevamento dei tradizionali deepfake. La buona notizia è invece che alcune soluzioni tecnologiche e politiche sono già in fase di definizione. Per quanto riguarda le prime, la Coalition for Content Provenance and Authenticity - guidata da Microsoft, Intel, Adobe, BBC e altri - sta lavorando alla creazione di una robusta infrastruttura di autenticazione: una sorta di sigillo digitale allegato a ogni contenuto mediatico che ne certifichi la provenienza e segnali ogni possibile modifica. Dal punto di vista politico, l’Unione Europea ha invece varato nel giugno del 2022 delle norme che obbligano le piattaforme ad agire contro deepfake e dintorni. Le stesse società che gestiscono i sistemi di intelligenza artificiale generativa potrebbero inoltre decidere di intervenire in maniera netta, per esempio impedendo ai loro algoritmi di rispondere a comandi che riportano i nomi di personalità politiche o di creare scene di violenza, arresti o altro. Una soluzione, anche in questo caso, parziale, visto che già si stanno diffondendo le cosiddette tecniche DAN (do anything now, “adesso puoi fare tutto”) che consentono di aggirare i blocchi imposti, per esempio, a ChatGPT. Eliminare invece dal database tutti i contenuti relativi a personalità politiche o simili è invece non solo particolarmente complicato da fare, ma rischia anche di compromettere l’efficacia del sistema (che ha ovviamente anche applicazioni professionali e legittime). Allo stesso tempo, è di cruciale importanza proseguire nell’alfabetizzazione digitale della popolazione, cercare di restaurare almeno in parte la fiducia nei confronti di esperti e istituzioni e restituire nuovo valore al giornalismo. A essere penalizzato da questo potenziale scenario potrebbe infatti essere soprattutto il citizen journalism condotto via social; mentre è a quello tradizionale che le persone potrebbero tornare a rivolgersi in cerca di qualche certezza. Starà allora al giornalismo mostrarsi all’altezza della sfida posta dai deepfake, evitando che per allora la fiducia dei cittadini sia completamente azzerata. Migranti. I Comuni sono in allarme rosso. “Per l’accoglienza servono 7-800 milioni” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 3 aprile 2023 Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci immigrazione, è preoccupato: “Ci chiedono di trovare altre strutture per i migranti, ma così non reggiamo”. Il tema sarà affrontano nella prossima riunione di governo martedì. Il Viminale ha in mente di creare un Cpr per ogni regione per chi va rimpatriato. “Siamo già in una situazione da allarme rosso. Gli arrivi sono aumentati tantissimo rispetto all’anno scorso e finora abbiamo affrontato i mesi in cui di solito le partenze sono di meno. Continuando di questo passo, chissà da maggio in poi cosa succederà. Se le cose non cambiano il sistema rischia di saltare”. Il sistema di cui parla con HuffPost Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione, è quello dell’accoglienza. I numeri degli arrivi, più che quadruplicati rispetto allo scorso anno, si notano nei posti di frontiera - come Lampedusa o la Calabria - ma iniziano a sentirsi con forza anche nelle città dove l’accoglienza gestita attraverso la rete Sai - sistema accoglienza e immigrazione - o nei Cas, centri di accoglienza straordinaria. I migranti aumentano, i posti dove garantire una prima accoglienza scarseggiano: “Due ore fa - ci racconta il sindaco di Prato - ho sentito la nostra prefetta. La richiesta che arriva dalle prefetture è quella di trovare alberghi, B&B, conventi, qualsiasi struttura in grado di accogliere. Noi ce la stiamo mettendo tutta, e lo stanno facendo anche i prefetti, ma non si possono fare miracoli, anche perché non c’è turn over. Ci sono tanti arrivi e nessuno spostamento”. I problemi non riguardano solo il reperimento delle strutture. Ci sono le gare per la gestione dei centri che vanno deserte: HuffPost aveva raccontato qui il caso di Parma. Ciò accade perché, spiega Biffoni, “dopo i decreti Salvini la cifra giornaliera da destinare all’accoglienza di ciascun migrante è diminuta. Molte aziende ritengono sia troppo bassa e non partecipano ai bandi”. C’è poi un tema di formazione degli operatori che devono assistere queste persone. E ci sono i rapporti con la popolazione da gestire. Perché, è opinione diffusa tra i sindaci, non sempre è semplice far accettare agli abitanti, magari di paesi molto piccoli, l’arrivo di un numero importante di migranti. In cima a tutto, però, c’è una questione di fondi. Se mancano il sistema si inceppa, assicura il sindaco di Prato: “La situazione è difficile e siamo molto preoccupati. Quanti soldi servirebbero? Io ho fatto un calcolo molto a spanne, prendendo a riferimento la cifra che va investita al giorno per ogni migrante e il numero di arrivi che si prevede. Servono almeno 7-800 milioni”. Tutti da investire nella complessa macchina dell’accoglienza, Allargare la rete dell’accoglienza delle persone che sono arrivate in Italia attraversando il Mediterraneo è una delle questioni che, assicurano fonti ben informate, preme di più il Viminale. Perché al momento, secondo i dati più freschi che ancora non sono visibili sul sito degli Interni, nel sistema di accoglienza ci sono 115mila persone. Una cifra importante, che lo diventa ancor di più se si pensa che al 31 marzo dell’anno scorso non si arrivava a 80mila persone. E che, soprattutto, è destinata ad aumentare. Il dossier sarà sul tavolo del vertice tra la premier e i ministri competenti, che si svolgerà tra martedì e mercoledì. Oltre a creare più posti per le strutture dell’accoglienza - che, necessariamente, andranno finanziati, anche se ancora non ci sono cifre sul tavolo - il governo vuole accelerare i rimpatri. “Il 90% delle persone che arrivano non hanno alcun titolo per restare in Italia”, ragiona una fonte del ministero dell’Interno. E allora, se così è, il governo vuole fare in modo che le domande di asilo siano analizzate più velocemente. Anche per questo alla riunione in questione dovrebbe esserci il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Sempre nell’ottica di accelerare i rimpatri rientra l’idea di costruire “almeno” un Centro di permanenza per il rimpatrio in ogni regione. I Cpr, quindi, sarebbero raddoppiati, perché al momento quelli attivi in Italia, secondo il sito del ministero dell’Interno, sono nove. Le direttrici del Viminale, quindi, sono due: spinta sui rimpatri - che si intravedeva già nel decreto Cutro, provvedimento che ora è in commissione in Senato e che lo stesso governo dovrebbe emendare a breve - e allargamento della macchina dell’accoglienza per chi ha titoli per restare in Italia. I sindaci sperano che da questa riunione di governo esca fuori una misura che possa dare sollievo alle loro strutture: “Altrimenti - rimarca Biffoni - il sistema salta. La materia, peraltro, è di competenza dello Stato. Noi stiamo facendo la nostra parte, e anche un po’ di più, in un’ottica di responsabilità istituzionale. Anche perché sappiamo bene che non possiamo lasciare soli i sindaci calabresi e siciliani, che per primi affrontano l’emergenza”. Il sindaco di Prato - città che accoglie, in tutto, intorno alle 800 persone - lamenta “una reazione non così attenta” da parte del governo. “Questo è un tema troppo complesso per essere gestito a suon di slogan”, aggiunge. Ma come fare allora? Se la questione dell’aumento dei fondi da destinare all’accoglienza è per lui prioritaria, ci sono altre azione che ritiene necessarie per una gestione migliore del fenomeno migratorio. “Intanto andrebbe cambiato lo strumento principale che abbiamo in materia di immigrazione, la legge Bossi-Fini, poi gli ingressi dei migranti economici non dovrebbero poi essere affidati solo a decreti flussi di natura emergenziale. Bisognerebbe, inoltre, trovare soluzioni tampone per regolarizzare, dove è possibile, chi in Italia si è già integrato. Infine, sarebbe opportuno accelerare i rimpatri di chi non potrebbe restare nel nostro territorio”. La voce di Biffoni, con la sua preoccupazione sulla tenuta della macchina dell’accoglienza, non è isolata. Ieri Gian Carlo Muzzarelli, sindaco di Modena, ha scritto una lettera alla premier, Giorgia Meloni, “Chiediamo al Governo di affrontare con estrema urgenza la situazione migranti verificando insieme risposte concrete e soluzioni praticabili. Modena è una città inclusiva e accogliente, ma è oggettivamente impossibile gestire ciò che sta accadendo nelle ultime settimane e negli ultimi mesi. È per noi indispensabile e urgentissima l’attivazione di un tavolo di emergenza presso la Prefettura con il coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali operanti sul territorio modenese”, ha dichiarato. L’Emilia Romagna, del resto, con oltre 11mila persone accolte, è la seconda regione italiana più attiva nel campo dell’accoglienza. La prima è la Lombardia, con più di 13mila persone. Seguono Piemonte, Lazio, Sicilia e Toscana. I segnali di difficoltà sono sempre più tangibili ovunque e le note dei prefetti - come quella, che suona più come un appello, inviata a La Spezia per chiedere aiuto anche ai privati - iniziano a non essere più casi isolati. Prima dei viaggi in Africa, delle negoziazioni con l’Europa, delle accuse a Paesi europei non solidali, il governo dovrà occuparsi di questo dossier. Che diventa giorno dopo giorno sempre più urgente. Altri arrivi, intanto, sono imminenti. Oltre agli sbarchi autonomi, diventati ormai quasi quotidiani, la nave Ocean Viking di Sos Mèditerranèe ha soccorso 92 migranti a largo della Libia. Le è stato assegnato il porto di Salerno è arriverà a destinazione, apprende HuffPost, nella notte tra lunedì e martedì. Il porto assegnato, secondo l’Ong, è troppo lontano: “Dista 450 miglia nautiche (833 km) dall’area in cui si trova la nave e il quadro meteorologico in peggioramento potrebbe avere un impatto sulle condizioni dei migranti, già vulnerabili, durante la lunga navigazione”, spiegavano nella mattinata di oggi, prima di fare rotta verso Salerno. Unica opzione possibile, dal momento che le autorità non hanno risposto ai rilievi fatti dall’Ong. Achille Occhetto: “Serve un pacifismo che non aiuti i dittatori: Schlein e Conte ci riflettano” di Giovanna Vitale La Stampa, 3 aprile 2023 Parla l’ex segretario del Pci: “ll tema della pace viene trattato strumentalmente perfino dentro il centrosinistra”. “Sono preoccupato che la pace diventi il pomo della discordia della sinistra”, dice Achille Occhetto. In una lunga lettera ad Avvenire l’ultimo segretario del Pci ha esortato a guardare a “una nuova prospettiva di pace” basata su “un nuovo ordine mondiale”: appello che, nel contesto del conflitto russo-ucraino, interpella anche la politica italiana. Cosa la preoccupa? “Da mesi assisto con sgomento alle profonde divisioni dentro il Movimento per la pace, tema che viene trattato strumentalmente perfino fra i competitori interni alla stessa area politica”. Si riferisce agli attacchi di Conte contro il Pd, accusato di bellicismo? “Il presidente del M5S non può ogni volta alzarsi e dire, al governo come al Pd, voi state mandando l’Italia in guerra. L’invio delle armi a Kiev è deciso da tempo e l’Italia, inserita in un sistema di alleanze internazionali, non può tirarsi indietro: non solo non servirebbe a niente, tanto le forniture militari arriverebbero comunque da altre parti, ma finirebbe per isolare il Paese. Che non potrebbe più avere ruoli neppure nel processo di pace”. La sua proposta qual è? “Fermiamo questa diatriba almeno per un anno e costruiamo insieme un serio movimento per la pace. Il compito della sinistra e delle forze politiche più avvedute è far capire che bisogna cambiare l’ordine mondiale e affrontare una serie di questioni che vanno oltre noi, ingaggiano i leader del pianeta e le Nazioni unite. Cui vanno riconsegnati i poteri di intervento previsti nella carta fondativa e va affidato il monopolio della forza per il rispetto della legalità internazionale, sottraendo tale funzione alle alleanze militari”. Con Elly Schlein alla guida del Pd si può immaginare una svolta in tal senso? “Certo, non si può continuare a pensare che si può fare la pace solo quando la Russia smetterà di combattere. La guerra è entrata in una fase nuova: se dunque l’obiettivo è il cessate il fuoco e l’apertura di un negoziato io credo che tutte le forze di pace debbano fare un passo indietro sul terreno dello scontro per farne uno decisivo sulla definizione di un nuovo ordine internazionale”. Per fare la pace bisogna essere in due e non pare che Putin la voglia... “Oggi la priorità vitale è continuare a mantenere aperta la strada della trattativa. I due contendenti principali, l’aggressore e l’aggredito, affidano tale strada alla fissazione dei rapporti di forza sul campo di battaglia. Gli ucraini chiedono il ritiro dei russi dai territori occupati, che i russi invece pretendono, facendo così coincidere l’inizio della trattativa con la sua conclusione, un mostro diplomatico senza precedenti. Siamo in uno stallo che si può sbloccare solo se si abbandonano i vecchi schemi”. Quali schemi? “La vera questione da affrontare è la crisi del sistema basata sul fallimento degli accordi internazionali, a partire da quelli di Minsk, anche per responsabilità dell’Occidente. Si tratterebbe di offrire una via d’uscita alla Russia, riconoscendo che il vecchio ordine mondiale è crollato, insieme ai pilastri della contrapposizione Est-Ovest e la cornice di sicurezza che si riteneva solida non è riuscita a prevenire la catastrofe in corso”. Sta dicendo che l’esito di questa guerra rischia di cambiare non solo gli assetti dell’Ucraina ma quelli geopolitici dell’intero pianeta? “Ne ha parlato anche la Cina in uno dei suoi 12 punti”. Ma l’iniziativa della Cina non è stata ritenuta affidabile. “E facciamo bene a non fidarci, ma l’Occidente non può limitarsi a sospettare. Dovrebbe rilanciare il tema centrale di una sicurezza comune che tenga conto delle reciproche preoccupazioni. E il ruolo dell’Italia può essere fondamentale. Perciò ho chiesto a tutti di mettere almeno per un anno fra parentesi lo scontro sulle forniture militari e favorire il massimo di unità per promuovere la comune visione di un nuovo ordine mondiale entro il quale collocare la pace giusta per Kiev”. La Libia dei dannati, l’Onu certifica torture e abusi: “La guardia costiera coopera coi trafficanti” di Francesca Mannocchi La Stampa, 3 aprile 2023 La complicità dell’Unione europea: finanzia chi aiuta a commettere crimini contro i migranti. Il sei febbraio scorso - pochi giorni dopo il sesto rinnovo del Memorandum d’Intesa italo libico - il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha consegnato alla Libia il primo dei cinque mezzi finanziati dell’Unione Europea: una motovedetta capace di ospitare 200 migranti, che l’Italia consegnerà alla guardia costiera libica come previsto dal Support to Integrated border and migration managment in Libya, cioè il programma finanziato dalla Commissione Europea attraverso il Fondo per l’Africa che dal 2017 avrebbe l’obiettivo di rafforzare le autorità libiche. Durante la cerimonia nel cantiere navale Vittoria a Adria, in provincia di Rovigo il Ministro Tajani ha speso parole incoraggianti: “Le autorità libiche hanno compiuto sforzi significativi nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari, ma i flussi sono ancora molto alti”, ha detto alla presenza della ministra degli Esteri di Tripoli, Najla Mangoush e del commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Oliver Varhelyi. Nessuno ha fatto menzione degli abusi subiti dalle persone migranti e anzi Várhelyi ha ribadito che non solo gli aiuti ridurranno le morti in mare ma che renderanno l’Europa più sicura. Un mese e mezzo dopo, alla fine di marzo, da un altro mezzo italiano donato alla Libia, il pattugliatore 656, la Guardia Costiera di Tripoli ha aperto il fuoco per allontanare la nave umanitaria Ocean Viking che si apprestava a soccorrere un barchino in difficoltà con ottanta persone a bordo. L’Ocean Viking non è riuscita ad avvinarsi e i migranti sono stati riportati a terra, in Libia, Paese che - val la pena ribadirlo ogni volta - le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie definiscono da anni un “porto non sicuro”. Il rapporto Onu - Passano pochi giorni e gli esperti delle Nazioni Unite pubblicano il rapporto finale della Missione d’inchiesta indipendente sulla Libia (Ffm). Un testo di 46 pagine, trasmesso al Consiglio di sicurezza Onu e acquisito dalla Corte penale dell’Aja, che sta esaminando le richieste di mandato di cattura internazionale depositate dal procuratore Karim Khan. Tre anni di lavoro sintetizzato da parole che non lasciano spazio ad ambiguità: “Il sostegno fornito dall’Ue alla guardia costiera libica in termini di respingimenti e intercettazioni ha portato alla violazione dei diritti umani”. Quello che sostengono gli investigatori nel rapporto basato su numerosi viaggi, centinaia di interviste e migliaia di prove raccolte è che sebbene non sia possibile dare la responsabilità diretta all’Unione per i crimini di guerra, è evidente che “il sostegno fornito abbia aiutato e favorito i crimini commessi”. Lo scenario è chiaro: la guardia costiera, attrezzata e addestrata dall’Europa, ha lavorato in stretto coordinamento con le reti dei trafficanti di uomini, traffico che ha generato “entrate significative” che hanno stimolato continue e brutali violazioni dei diritti. In pratica le istituzioni, direttamente formate dai Paesi europei, destinatarie di mezzi e motovedette, hanno agito da un lato in accordo con l’Ue, dall’altro in complicità con i trafficanti che avrebbero dovuto contrastare, lasciando impunite le reti criminali e consolidando il potere e la ricchezza delle milizie armate. Le stesse milizie che forti di quel potere e di quel denaro agiscono influenzando i governi che in Libia sono sempre due e sempre più fragili e esposti al ricatto. Gli investigatori Onu denunciano poi che le autorità non hanno concesso loro la possibilità di visitare i centri detentivi in tutto il Paese, a ulteriore dimostrazione, dopo anni di denunce che quei luoghi oggetto del Memorandum di Intesa, e destinatari di aiuti umanitari, esulino dal controllo delle istituzioni di cui l’Europa è partner ma sono piuttosto ostaggio degli opachi rapporti tra il Dipartimento contro l’Immigrazione Illegale -che dipende dal Ministero dell’Interno di Tripoli - e le reti del malaffare. Se si leggono i numeri, incontrastabile unica prova di quanto accada in Libia, è facile capire di cosa stiamo parlando. A oggi, secondo i dati forniti da Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sarebbero 3800 i migranti presenti nei centri di detenzione che sono nominalmente sotto il controllo delle autorità, ma di fatto terra di nessuno. Infatti, i migranti riportati indietro nell’ultimo anno dai mezzi forniti alla Libia dall’Ue sono più di 20 mila. Conti alla mano vuol dire che 18 mila persone sono fuori dai radar. Probabilmente smistati al porto una volta riportati indietro e destinati a tornare oggetto di abusi e torture nei centri di detenzione illegali. Federico Soda, ex capo missione Oim in Libia, l’aveva denunciato già due anni fa. Era il 2021 e diceva: “I dati delle persone che vengono soccorse e intercettate dalla guardia costiera libica non combaciano con il numero delle persone in detenzione, siamo molto preoccupati di non riuscire a tracciare questi spostamenti e ogni anno perdiamo traccia di migliaia di persone”. Migliaia di persone portate indietro, in un porto non sicuro, dai mezzi che l’Europa fornisce ai libici. Libici contro libici - Non va meglio per la popolazione locale. La missione conoscitiva delle Nazioni Unite in Libia ha riscontrato che le violazioni relative alle detenzioni arbitrarie colpiscono su vasta scala anche i libici e i responsabili. Secondo gli investigatori Onu le autorità libiche reprimono sistematicamente il dissenso della società civile. L’indagine ha rilevato che le autorità libiche, in particolare i settori della sicurezza, limitino i diritti di riunione, associazione, espressione e per punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. Istituzioni sempre più deboli, spiega il rapporto, sotto il crescente potere dei gruppi armati. Soffrono gli attivisti, soffrono le donne, vittime di una discriminazione sistematica, mentre si aspetta ancora giustizia per la sparizione della parlamentare. Le autorità libiche hanno imposto condizioni impraticabili alle associazioni. È sempre più complicato per gli operatori umanitari internazionale ottenere visti per entrare in Libia e per quelle locali ottenere permessi per registrare i gruppi civici e operare. La conseguenza è che gli aiuti richiesti tardano ad arrivare e che nessuno - compresi i gruppi come Human Rights Watch che hanno il mandato di verificare abusi e mancato rispetto dei diritti umani - riesce a operare in libertà nel Paese. A conferma delle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, Ifex, un network di 119 organizzazioni non governative che promuovono la libertà di espressione come diritto umano, ha denunciato le ultime leggi repressive approvate dal governo. Il 23 marzo il Governo di Unità Nazionale presieduto da Abdul Hamid al-Dbeibeh ha emanato un decreto che consente alle associazioni locali e internazionali in Libia di continuare a lavorare solo in regime “temporaneo”. Meno di una settimana prima, con un altro decreto, tutte le associazioni locali e internazionali operanti in Libia registrate dopo il 2011 erano state riconosciute illegali dal Dipartimento per la Cooperazione Esterna del Governo di Tripoli. Per controllare i controllori, Dabeibeh rispolvera le leggi di Gheddafi e agisce, dice, in accordo con la famigerata legge 19/2001 che regolava le organizzazioni della società civile. In teoria invalidata dalla Dichiarazione Costituzionale del 2011, in realtà è usata per colmare un vuoto politico che in più di dieci anni non ha promulgato leggi per proteggere il diritto della libera associazione. Promulgata durante il regime e approvata dall’Assemblea Generale del Popolo, la Legge n. 19 pone le associazioni sotto la stretta supervisione dell’Assemblea Generale del Popolo, che può interferire praticamente in ogni aspetto dell’esistenza di un’associazione senza autorizzazione o supervisione giudiziaria. La modifica di questa norma è solo l’ultima di una serie di sconfinamenti da parte delle autorità libiche. Dal 2016 al marzo 2023, le autorità governative, sia in Tripolitania che in Cirenaica, hanno emesso quattro decisioni e regolamenti che violano la libertà di formare associazioni locali e internazionali, e limitano le organizzazioni per i diritti umani che ne denunciano le violazioni. Così, proprio mentre il mandato della Missione speciale Onu è in scadenza, il governo può sopprimere o sciogliere le associazioni, revocarne i permessi, gli indirizzi o assegnarli a una “gestione provvisoria” cioè di fatto commissariare chi denuncia i crimini elencati nel rapporto Onu, a cominciare da quelli commessi ai danni dei libici. L’ultimo due giorni fa, quando il maggiore generale Rashid Al-Rajbani, capo dell’Agenzia per la sicurezza interna della Libia è stato rapito da un gruppo armato davanti casa sua. Tre auto si sono avvicinate davanti alla sua abitazione e l’hanno portato via mentre pregava. Non è la prima volta, Rashid Al-Rajbani era già stato rapito due anni fa, prelevato da gruppi armati nell’aeroporto di Tripoli. Sono questi gli strumenti delle milizie, intimidazioni sulle istituzioni per scopi politici. Intimidazioni e abusi denunciati da anni e mai sanzionati. Complicità europea - La missione speciale terminerà il suo mandato il prossimo 4 aprile senza la possibilità di rinnovo. È facile immaginare che varranno a poco le raccomandazioni per istituire un meccanismo autonomo che monitori le violazioni dei diritti umani. Dopo la pubblicazione del rapporto il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha rispedito le accuse al mittente. “Non stiamo finanziando nessuna entità libica. Non stiamo dando denaro fisico ai partner in Libia - ha detto -. Quello che stiamo facendo è stanziare molto denaro, che viene poi di solito utilizzato dai partner internazionali, i nostri soldi non finanziano il modello di business dei contrabbandieri o di coloro che abusano e maltrattano le persone in Libia, al contrario. La maggior parte del denaro va a prendersi cura di queste stesse persone”. L’anno scorso, il commissario europeo per gli affari interni Ylva Johansson ha dichiarato al parlamento europeo che “l’Ue ha dedicato circa 700 milioni di euro (760 milioni di dollari) alla Libia nel periodo 2014-2020, inclusi 59 milioni di euro (64 milioni di dollari)” per la guardia costiera. Formare e fornire mezzi è già finanziare quelle istituzioni e rappresenta quindi la responsabilità morale di una politica che l’Europa non mette in discussione nemmeno di fronte alle evidenze degli abusi. Tunisia. Acciaio, fame atroce e siccità nel cantiere dei barchini low cost di Francesco Battistini Corriere della Sera, 3 aprile 2023 Il nuovo business degli scafisti. Mentre il regime di Saied ha spento la primavera. “Venite in Route Gremda, quartiere Awabed”. Certi indirizzi, a Sfax è sempre meglio dimenticarli. E certi maestri d’ascia che ci lavorano, è bene ignorarli. E anche dai loro coxeur, i riempi-barche incaricati di staccare i biglietti per l’Italia, è il caso di stare alla larga: a una famiglia che collaborava con la Gendarmerie, mesi fa, hanno affondato il peschereccio. Attenti alle vendette, fatevi gli affari vostri. Certi giorni, però, non c’è scelta. E se deve dimostrare al mondo che qualcosa si fa, per fermare il traffico dei migranti, la polizia tunisina sa come convincere i pescatori: in cambio di quell’indirizzo avrai 150 euro, la paga d’un mese, e comunque addio reti e tonnare, se non mi dici dove si fabbricano i barchini d’acciaio. Come bare - Awabed è la nuova fincantieri degli scafisti tunisini. Lo sanno tutti che cosa si costruisce in quei cubi grigi di cemento grezzo, lungo la C81. Rallentate l’auto, abbassate i finestrini e sentirete l’urlo della fresa, il saldatore che ci dà dentro. L’ultima moda, al salone delle carrette del mare, sono queste vasche ferrose per detriti umani. Sembrano bare, e spesso lo sono. Lamiere sottili e affilate, assemblate alla bell’e meglio e perfette per le traversate low cost, 900 euro fino a Lampedusa, a Pantelleria, alle coste siciliane. I nigeriani, i maliani, gl’ivoriani ormai arrivano così: niente barconi, tutti su gusci che la notte sbucano dalle casette di Sfax, che i radar spesso non vedono e che le navi di soccorso non riescono ad abbordare, perché danneggiano i tubolari. Scafi pronti in poche ore, che costano molto meno d’una barca di legno o di resina, possono portare 50-60 africani, sono instabili e galleggiano poco e imbarcano acqua, ma chi se ne frega anche se affondano col loro carico d’umanità, una notte di lavoro e se ne fabbrica un’altra… Una mattina, i gendarmi convocano un po’ di stampa e si va tutti là, nel quartierino fra la pasticceria Madame Sakka e il supermarket Sorimex, a vedere il cemento dei cubi tirato giù a mazzate e le barche d’acciaio tirate fuori dal buio, dal segreto, dall’omertà. Qualcuna è dipinta di blu, il colore dell’occhio di Allah, buono per scacciare il malocchio: alhamdulillah, graziaddio, in queste placide notti di Ramadan è tranquillo anche il mare, ma non si può mai sapere. Acciaio, fame, siccità. È a questa trimurti nera che la Tunisia 2023 deve inginocchiarsi, implorando di sopravvivere. Gli sbarchi coi nuovi barchini di metallo, quadruplicati, sono spinti da una carenza di cibo mai vista: l’inflazione naviga sopra il 10 per cento, l’ortofrutta costa un terzo in più che un anno fa. E la fame, con la raccolta del grano calata del 75 per cento, coi carichi importati dall’Ucraina che vengono respinti perché non ci son soldi per pagarli, sgorga da una mancanza d’acqua che in cinque anni ha ridotto anche dell’80% le trenta dighe del Paese. Per la prima volta s’è deciso il razionamento: dalle nove di sera alle cinque del mattino, e almeno fino ad autunno, in molti rioni della capitale i rubinetti devono restare a secco. Le spine di un nuovo regime - Le piaghe della Tunisia, abbiamo finto di non vederle per anni. “Non vi lasceremo soli”, è il refrain d’ogni leader (l’ultimo, il commissario europeo Paolo Gentiloni) venuto a promettere molto e a mantenere poco, in questi dodici anni di post-rivoluzione. Ora è già tardi. E i due miliardi di dollari, che il presidente Kais Saied spera d’incassare dal Fondo monetario internazionale, sono solo un placebo. Le riforme chieste dal mondo, lo stop ai sussidi per benzina e cibo o le privatizzazioni, i tagli alla sanità o l’innalzamento dell’età pensionabile, sono ferite insopportabili. E dove fiorivano i gelsomini delle libertà conquistate nella Primavera 2011, sono spuntate le spine d’un nuovo regime: Saied ha sciolto il governo, ridisegnato la Costituzione, esautorato il Parlamento, depotenziato i magistrati, incarcerato gli oppositori, scatenato la caccia ai neri “che minacciano la nostra identità”. A Tunisi l’applaudono, disperati: nessuno protesta più sull’avenue Bourguiba, la democrazia può restare in frigorifero, hai visto mai che possa funzionare anche qui (stile Erdogan) il ricatto migranti-in-cambio-di-miliardi? A Sfax, hanno bisogni più urgenti: frigoriferi pure qui, ma per conservare i cadaveri ripescati dal mare. E occorre costruire nuovi cimiteri, per evitare di buttarli nelle fosse comuni come s’è fatto a Zarzis. Anche l’obitorio non ha più posto, dicono: fra dieci giorni finisce il Ramadan, e sono già pronti i nuovi barchini d’acciaio. Egitto. Avvocato per i diritti umani in carcere da oltre 2.000 giorni: anche lui vittima della “rotazione” di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2023 Ibrahim Metwaly, 58 anni, avvocato per i diritti umani e co-fondatore del gruppo delle “Famiglie degli scomparsi in Egitto”, è in carcere da oltre 2000 giorni. È stato arrestato il 10 settembre 2017, mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto a Ginevra per prendere parte a una sessione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate dedicata al suo paese. Un tema su cui purtroppo era esperto: suo figlio Amr è stato uno dei primi desaparecidos dell’era al-Sisi, scomparso nel nulla dopo l’arresto, avvenuto l’8 luglio 2013, nella prima settimana del colpo di stato. Metwaly è stato torturato per 48 ore prima di iniziare la consueta trafila delle udienze di convalida della detenzione preventiva. Nonostante la procedura egiziana fissi un limite di tempo di due anni per la fine delle indagini, Metwaly è stato vittima di quel sistema infernale delle “porte girevoli” (in arabo tadweer, letteralmente rotazione). Funziona così: durante o alla fine della detenzione preventiva o al temine di una condanna, la procura associa il prigioniero a una nuova indagine, pretestuosa e basata sul nulla come le precedenti. In questo modo, si ricomincia dal giorno zero. Ecco perché un avvocato alla ricerca di suo figlio e di altri scomparsi è da quasi sei anni nelle galere egiziane, accusato di reati inesistenti come fondazione e direzione di un gruppo illegale, cospirazione con soggetti stranieri per danneggiare la sicurezza dello stato e pubblicazione di notizie false. *Portavoce di Amnesty International Italia