“Ripristinare la telefonata quotidiana in carcere” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 30 aprile 2023 Revocata alla fine dell’emergenza Covid. Da Verona la protesta: “Può servire a prevenire i suicidi”. “Una telefonata può salvare la vita”, soprattutto quando si è rinchiusi in cella. “Gentili direttori penitenziari, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce amica nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Ripristinate il diritto a una telefonata in più, arginate l’emergenza suicidi”, perché “non si ripeta mai più un altro dramma Donatella Hodo”, che in una notte di crisi profonda si tolse la vita il 2 agosto scorso a soli 26 anni a Verona, inalando del gas nella solitudine della sua cella. Invece Donatella, forse, con una telefonata in più si sarebbe potuta salvare e, come lei, anche gli altri 83 reclusi che si sono tolti la vita in carcere nel 2022 e i 16 che hanno già attuato la stessa scelta estrema nel 2023, quella di rinunciare a vivere nei pochi metri quadri di una cella detentiva. Forse una chiamata in più all’esterno poteva salvarli: conclusa l’emergenza Covid, invece, nelle carceri italiane si staccano i telefoni ai detenuti. Dal 28 febbraio di quest’anno, infatti, è tornata la stretta sulle chiamate all’esterno: non più una telefonata a giorno, ma 10 minuti di chiamata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, “il che vuol dire che un genitofetti re recluso può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno”. Con la sola eccezione di Padova dove “un direttore penitenziario illuminato” ha subito ripristinato nei giorni scorsi la telefonata quotidiana, nei penitenziari italiani sta montando la protesta e Verona se ne fa portavoce e capofila facendo partire con l’associazione Sbarre di Zucchero una raccolta firme e sottoscrivendo una lettera-appello indirizzata a tutti i direttori penitenziari della Penisola. “Il Covid ha portato ulteriore isolamento e sofferenza, e anche le prime rivolte, i morti, la paura. Ma per fortuna qualcuno ha capito che non era la criminalità organizzata a far esplodere le carceri, ma l’angoscia e la rabbia delle persone detenute, spaventate di essere lasciate sole e di non sapere nulla del destino dei loro cari. E si è trovata l’unica soluzione accettabile, dare un’accelerata agli afdelle persone in carcere introducendo “il miracolo” delle videochiamate e la forza che ti viene dalle telefonate quotidiane. E così le persone si sono ritrovate a chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e a rivedere le loro case e le famiglie lontane”. Per chi ha figli minori, precisano Sbarre di Zucchero e un centinaio di altre associazioni tra cui Antigone e Ristretti Orizzonti nell’appello corale, “dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge, ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana ?”. Se la politica punta ai voti e non ai diritti di Riccardo Polidoro* ledicoladelsud.it, 30 aprile 2023 Le due pagine dedicate da “L’Edicola del Sud” agli infiniti e cronici problemi che affliggono le carceri sono un evento raro. I media sporadicamente se ne occupano e lo fanno solo in casi eccezionali. È accaduto con il caso Cospito che ha stimolato il dibattito sul 41 bis, un regime di reclusione duro e ignorato dall’opinione pubblica, nonostante sia in vigore da circa 40 anni. L’asticella dell’eccezionalità, con il passare degli anni, sale sempre più in alto e anche i decessi in carcere non fanno più notizia. Eppure l’anno scorso i morti sono stati 203 e tra questi 84 suicidi. Numeri, dietro ai quali vi sono persone disperate, che rendono palese il malessere, ingiustificato e del tutto illegale, che affligge i detenuti. Al 25 aprile di quest’anno siamo già a 44 morti e 16 suicidi, ma non s’intravedono soluzioni a questa tragedia nazionale. “L’Edicola del Sud” ha dato voce all’appello del Sappe che invoca l’intervento urgente del ministro della Giustizia, affinché venga a vedere con i propri occhi lo stato degli istituti di pena in Puglia: una situazione allarmante, come del resto in altre regioni, che meriterebbe maggiore attenzione da parte del Governo o, meglio, della politica. Perché il disinteresse per l’esecuzione penale è trasversale ed è la “macchia nera” di tutti i partiti che non hanno nessuna intenzione di cimentarsi in una battaglia di civiltà giuridica per la quale rischierebbero di perdere consenso. Prova ne è che, in pochissimi anni, dal 2018 a oggi, vi è stato un avvicendamento al governo del Paese che ha visto nella maggioranza tutti i partiti politici senza che alcun organico intervento di riforma venisse attuato, nonostante il pressing dell’Europa. L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, unitamente a Nessuno Tocchi Caino, sta effettuando un viaggio nelle carceri del Paese che, dal 2 al 9 marzo scorso, ha interessato la Puglia. Con la collaborazione delle Camere Penali locali sono stati visitati gli istituti di Taranto, Lecce, Brindisi, Bari e Trani: un “viaggio della speranza” non solo per verificare le condizioni di vita dei detenuti, ma anche per infondere fiducia in chi rischia di far prevalere la disperazione fino a spingersi al suicidio. Continueremo il nostro percorso, che in questi giorni ci ha visto in Toscana e nei prossimi in Campania, avendo, come sempre, un’eccezionale “guida”: la Costituzione. *Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi Inciampi, ingenuità e nemici. Così Nordio ha già fallito di Giulia Merlo Il Domani, 30 aprile 2023 Il guardasigilli ha vissuto sei mesi a via Arenula in cui ha scoperto a sue spese che la politica non è per neofiti. L’ultimo pasticcio del caso Uss rischia di tramutarsi in un suo definitivo silenziamento da parte dell’esecutivo. Anche perché il passo successivo sarà quello della separazione delle carriere, altro cavallo di battaglia del Nordio editorialista ma da molti data già per fallita. Nessuno oggi vorrebbe essere nei panni di Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia arriva alla settimana che dovrebbe vedere approdare in consiglio dei ministri le sue riforme, ma intorno a lui non si è ancora depositata la polvere degli ultimi scandali. Il suo mandato era cominciato con l’aura del ministro quasi tecnico nonostante l’elezione nelle liste di Fratelli d’Italia, forte della sua esperienza sul campo in quarant’anni da magistrato e con l’aura dell’editorialista conservatore d’area liberale ma garantista. Sulla carta un profilo perfetto per riuscire a scalzare gli altri pretendenti più politici a via Arenula (erano stati avanzati i nomi di Giulia Bongiorno per la Lega e di Elisabetta Casellati per Forza Italia), con la garanzia per la premier Giorgia Meloni di essersi accaparrata tra le file di FdI un padre nobile della destra. Invece, alla prova dei fatti è emerso ciò che altri neofiti prima di lui hanno scoperto a loro spese: che la parte davvero difficile del ruolo di ministro è la politica. Veneto di origine, Meloni ha scelto per lui il collegio blindatissimo dell’uninominale Treviso, sua città natale. FdI gli aveva assicurato che non c’era nemmeno bisogno che lui facesse campagna elettorale ma Nordio si è divertito a girare anche i paesi della provincia. Questo, infatti, è il pregio che tutti - anche i detrattori - gli riconoscono: la giovialità, affiancata da una gran voglia di parlare e non solo di diritto. Il suo tema preferito sarebbe la storia, infatti ha scritto alcuni libri gialli ambientati nella seconda guerra mondiale di cui è molto fiero e il suo mito è Winston Churchill. Tanto da citarlo nel suo primo comunicato stampa, quando le opposizioni sbeffeggiarono il governo per l’età avanzata dei ministri e lui rilasciò una nota in cui ricordava che “Churchill celebrò la vittoria su Hitler alla mia età”. Eppure, Nordio ha scoperto a sue spese la differenza tra il ruolo di ministro di un esecutivo e quello di pm battitore libero. “Mettermi a dirigere un ufficio sarebbe stato come mettere un pilota da guerra dietro una scrivania. A me piaceva fare i processi”, è una delle sue battute a chi gli ha chiesto perchè non abbia mai voluto fare carriera, rimanendo sostituto procuratore fino a 65 anni. Ora, però, il posto dietro la scrivania che fu di Palmiro Togliatti a via Arenula è come stare sulla linea del fronte. Gli inciampi - I primi sei mesi di governo, infatti, sono stati un susseguirsi di inciampi. A cominciare dal primo decreto legge firmato dal governo: l’ormai famigerata norma anti-rave, che puniva con pene superiori ai cinque anni chi frequentava feste illegali con possibilità di utilizzare le intercettazioni per le indagini. Il reato poi è stato modificato in sede di conversione ma la firma sotto rimane quella del fu garantista Nordio, che per anni aveva scritto contro i pm per l’uso spropositato delle intercettazioni e la politica per il vizio di inventare inutili nuovi reati. Poi è venuto l’arresto del latitante Matteo Messina Denaro, rovinato dalla polemica sull’uso delle intercettazioni, visto che proprio in quel periodo il ministro aveva annunciato la volontà di regolamentarne l’utilizzo, riducendo quello che lui definiva “l’abuso che se ne fa per reati minori” e il fatto che transitano da troppe mani e poi “escono sui giornali notizie che diffamano l’onore delle persone”. In una durissima audizione alla Camera si scontrò con l’ex collega Federico Cafiero de Raho che lo accusava di non capire nulla di mafia. “Se è vero che noi oggi siamo circondati da una mafia che si è infiltrata dappertutto la domanda allora è: ma dov’era l’antimafia?”, era stata la risposta di Nordio. Tanto che era dovuta intervenire la stessa premier Meloni per fermare il suo ministro, ribadendo la sua fiducia in lui ma invitandolo informalmente a non andare allo scontro diretto con la magistratura. Quasi contestualmente, poi, gli è toccato il caso Cospito, con l’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis. Il guardasigilli ha mantenuto la linea della fermezza voluta dal governo, disattendendo le sue posizioni sul carcere come rieducazione e di fatto facendo da scudo al pasticcio senza precedenti commesso dal duo Delmastro-Donzelli, con la rivelazione delle carte riservate del Dap sulla detenzione di Cospito, pur di attaccare le opposizioni. Infine, è di poche settimane fa il tentativo di scaricare sui magistrati la colpa della fuga del russo Artem Uss dai domiciliari con braccialetto elettronico, che gli erano stati concessi dalla corte d’appello di Milano in attesa dell’accoglimento della richiesta di estradizione da parte degli Usa. La sua fuga ha causato uno strappo diplomatico con Washington, e nello scaricabarile innescato dal governo il ministro ha promosso un’azione disciplinare nei confronti dei giudici di Milano. Con poca possibilità di successo, visto che si tratta di un provvedimento motivato e come tale non sindacabile se non per via giudiziaria. Ma con altissimo effetto boomerang, visto che ha portato le toghe a unirsi come poco si era visto succedere negli ultimi tempi, unite a difendere l’indipendenza della magistratura. Il team - Dopo sei mesi così complicati, la sensazione al ministero è quella di essere sulle montagne russe. Tra i corridoi di via Arenula proprio quest’ultima iniziativa è stata considerata “maldestra” e la responsabilità di aver convinto il ministro a un passo così rischioso sarebbe da attribuirsi al suo ufficio tecnico e in particolare alla vicecapo di Gabinetto, l’ex parlamentare di Forza Italia e magistrata Giusy Bartolozzi. Proprio la scelta dei suoi collaboratori più stretti, secondo chi conosce bene la struttura ministeriale, è stata il frutto di ragionamenti troppo poco politici. Nordio, infatti, ha scelto di creare una piccola enclave veneta nel ministero, scegliendo di circondarsi di tecnici con un curriculum valido, ma non certo abituati a muoversi tra le insidie dei ministeri romani. “Probabilmente Nordio ha preferito individuare persone fuori dal solito giro proprio per sentirsi più libero”, ipotizza chi lo conosce. Infatti ha scelto come capo di gabinetto Alberto Rizzo, ex presidente del tribunale di Vicenza e noto per aver ridotto lì l’arretrato, ma con poca esperienza su scenari di portata più ampia. Antonio Mura, conosciuto quando era procuratore generale di Venezia e toga di Magistratura indipendente, è il capo del legislativo. L’avvocata di Rovigo Valentina Noce, invece, è la sua segretaria particolare. In parlamento - anche tra le fila della maggioranza - ma anche in ambienti giuridici si ripete come sia ormai sempre più evidente la subalternità della Giustizia rispetto al Viminale di Matteo Piantedosi. “Come negli anni di Roberto Maroni e Roberto Castelli”, ricorda un leghista, “con la politica criminale guidata dal ministero dell’Interno”. Anche ai tempi del decreto rave, infatti, il testo del nuovo reato sarebbe stato steso dall’ufficio legislativo di Piantedosi e Nordio non avrebbe potuto far alto che tentare qualche aggiustamento in corsa. I nemici - Ora, infine, è arrivato il mese delle riforme della giustizia. A maggio scatta l’ora x anche per Nordio, che dopo un profluvio di annunci ha confermato il suo cronoprogramma con palazzo Chigi e porterà in consiglio dei ministri i primi pacchetti di riforma. Si parte con la modifica dell’abuso d’ufficio, poi però toccherà anche alle intercettazioni. “Modifiche di buon senso che aumentano le tutele dei soggetti terzi”, assicurano fonti di via Arenula, che non ritengono il clamore mediatico suscitato dal ministro sul tema sia congruo rispetto alla portata della riforma. Tuttavia, dopo il caso Uss, c’è una paura: “In questo clima sarà un calvario”. Vista la levata di scudi da parte dell’Anm il timore - che è quasi certezza - è che la magistratura, già diffidente, si arrocchi contro qualsiasi ulteriore modifica delle intercettazioni, soprattutto dopo che il guardasigilli ha ipotizzato anche di fissare un budget annuale di spesa. Anche per questo Nordio ha scelto di tendere la mano: in settimana è andato a Milano per un convegno sul tribunale dei brevetti e in quella sede è stata occasione per una cena con i vertici degli uffici dal clima descritto come “cordiale”. Difficilmente, però, basterà. Anche perchè il passo successivo sarà quello della separazione delle carriere, altro cavallo di battaglia del Nordio editorialista ma da molti data già per fallita. “Con questa tensione sull’esecutivo l’ultima cosa che serve è far scoppiare un’altra lite coi magistrati”, è il ragionamento che filtra dalla maggioranza, in cui ormai da mesi circola un mandato: silenziare il guardasigilli, per evitare altri inciampi su un settore scivoloso come la giustizia, su cui la premier non vorrebbe fare barricate di principio. Gratuito patrocinio, tutti contro di Michele Damiani Italia Oggi, 30 aprile 2023 Tutti contro il ministero della giustizia in merito alle nuove soglie di reddito per accedere al gratuito patrocinio. Tanto la politica quanto le categorie si sono infatti scagliate contro il decreto del dicastero guidato da Carlo Nordio che adegua i limiti reddituali, facendo però riferimento alle variazioni dei prezzi a consumo Istat del periodo 2018-2020. Questo ha portato a un calo delle soglie, nonostante l’aumento dell’inflazione dell’ultimo biennio (nel 2022, rispetto al 2018, si è registrato una crescita del 9,2%), un combinato disposto che causa l’esclusione di milioni di aventi diritto. Sulla questione, come detto, sono sorte molte polemiche. I senatori del Partito democratico Rossomando, Bazoli, Mirabelli, Verini e D’Elia hanno presentato un’interrogazione parlamentare in cui si chiede conto al ministero sulle nuove soglie. “L’utilizzo del biennio 2018-2020, anziché del biennio 2020-2022, risulterebbe illegittimo e comporta di fatto l’esclusione di un numero elevatissimo di soggetti che ne avrebbero diritto”, si legge nel testo presentato dai senatori Pd. Un’interrogazione che si basa sui calcoli realizzati dal consigliere del Cnf e presidente di Azione legale Antonino Galletti, che parla di più di due milioni di cittadini esclusi dal diritto a causa del ritardo nell’adeguamento ai tassi Istat. “Ancora una volta i ritardi dei burocrati ministeriali arrecano un danno ai cittadini piu’ fragili e ai loro difensori”, le parole di Galletti. Di gratuito patrocinio si è parlato, infine, anche in Campidoglio, dove il gruppo Movimento 5 stelle 2050 e la lista civica “Virginia Raggi” hanno presentato una mozione per ottenere l’impegno della giunta a farsi da portavoce con il ministero per rivedere le soglie d’accesso all’istituto. Ricordiamo che il decreto ha portato la soglia reddituale a 11.734,93 euro, abbassandola di circa 12 euro rispetto al valore di 11.746,68 euro fissato nel 2020. Il Viminale rimodula il suo piano per le stazioni sicure: fondi aggiuntivi per le aree a rischio e “isole” ad alta vigilanza di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 30 aprile 2023 Nella direttiva del 18 marzo scorso il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi già sollecitava la creazione di perimetri sorvegliati attorno agli scali ferroviari delle grandi città. Con ascolto dei Comuni e riqualificazione del territorio. Solo il 18 marzo scorso, nella circolare del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ai prefetti e ai vertici delle forze dell’ordine, si parlava di “positivi risultati finora conseguiti” con le operazioni “ad alto impatto” nelle “aree urbane adiacenti alle stazioni ferroviarie” di Roma, Milano e Napoli, che confermavano “la bontà del sistema operativo prescelto, destinato a ripetersi in modo sistematico”. Sei settimane più tardi, dopo quattro casi di violenze sessuali, rapine ai turisti e altri episodi di criminalità, per lo più risolti nel giro di poche ore, quel piano di sicurezza - adottato dal 19 aprile in altre 11 città: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Torino e Venezia - potrebbe essere ricalibrato dal Viminale, con un rafforzamento delle misure di vigilanza e la delimitazione di aree cittadine dove applicare “una specifica e dedicata pianificazione di controllo del territorio”, che potrebbe riguardare da subito proprio la stazione Centrale. Come isole super controllate. Perimetri blindati - Del resto lo stesso responsabile del Viminale ha già da tempo esortato le Prefetture “a procedere alla esatta perimetrazione delle zone adiacenti alle stazioni esposte ai rischi” legati a comportamenti malavitosi, con l’introduzione di “nuove e più incisive misure di prevenzione, garantendo il potenziamento della presenza dello Stato e una risposta concreta al bisogno di protezione da paventati atti criminali”. In particolare, con “una presenza visibile e rafforzata delle forze di polizia a competenza generale in grado di ridurre al minimo la percezione di insicurezza dei cittadini”. Il compito dei Comuni - Per mettere in pratica un progetto di questo genere, e ottenere risultati soprattutto sul fronte del degrado urbano e della presenza di soggetti che ne approfittano, è tuttavia necessaria la collaborazione degli enti locali, con il coinvolgimento dei vigili urbani e dei servizi sociali, come anche della Guardia di Finanza, per gli accertamenti “di tipo economico-finanziario nei confronti dei gestori di attività rientranti nel medesimo perimetro cittadino”. Non solo “pattuglioni” - Insomma si preannuncia uno scenario nel quale i classici pattuglioni serali, oggi effettuati con una frequenza anche bisettimanale se non di più (a Napoli ad esempio ce ne sono stati tre fra ieri e il 27 aprile), e non più straordinari ma integrati nel sistema di controllo del territorio, non sono più sufficienti da soli per “accrescere - come aveva scritto il ministro dell’Interno - la percezione di sicurezza della cittadinanza” che può dipendere anche “da fattori ambientali, come la scarsa manutenzione degli spazi pubblici o un’illuminazione insufficiente”. Fondi per la sicurezza - Proprio in questo ambito non è escluso che dopo i 14,8 milioni di euro stanziati per il 2023 a margine della direttiva del 18 marzo scorso a favore di Roma, Milano e Napoli per migliorare la sicurezza urbana (6,5 milioni per la Capitale, 3,7 e 4,6 milioni per le altre due metropoli), possano essere concessi altri finanziamenti “per garantire maggiore sicurezza sui territori” attingendo alle risorse economiche del Fondo sicurezza urbana: in questo senso il Viminale sta lavorando per ripartire questi stanziamenti per “sostenere le progettualità elaborate dai Comuni per rafforzare la sicurezza urbana”. Una riforma strutturale - Ma quello che serve, anche a sentire gli operatori sul campo, è un cambiamento strutturale del sistema di sicurezza attorno alle stazioni ferroviarie. Ed è questo uno dei nodi centrali che sta affrontando il tavolo interistituzionale aperto dal ministero dell’Interno per la riforma del testo unico sull’ordinamento degli enti locali che valuta “le proposte di intervento normativo formulate dalle città metropolitane per rendere più efficaci le azioni a tutela della sicurezza della comunità”. Il problema è trovare una soluzione comune fra progetti e posizioni differenti, fra chi auspica maggiore rigore a chi ipotizza un massiccio utilizzo della polizia municipale, anche nell’ambito degli scali ferroviari. I lavori sono in corso da tempo, ma l’ultima parola spetterà al Parlamento. Venezia. A Mestre si muore di eroina “gialla” di Fabio Bozzato La Repubblica, 30 aprile 2023 È il colore della nuova droga. Da dieci a cento volte più potente, ha trasformato la città nella capitale delle overdosi. Colpa dei pusher, certo. Ma anche di politiche sociali insufficienti. Un odore un po’ acre si sparge nella stanza ed entra nelle narici pizzicandole. Il rumore degli strumenti è un ronzio continuo che accompagna i gesti dei camici bianchi. Potrebbero aver l’aria di profumieri e di alchimisti qui al Laboratorio di tossicologia clinica e forense dell’Ulss3. In realtà analizzano i campioni di stupefacenti che le procure inviano dopo i sequestri ai narcos locali: sono circa 800 i procedimenti penali che ogni anno gli spettrometri di ultima generazione passano al vaglio. Nel giro di un decennio sui tavoli di questo laboratorio sono transitati 34 mila reperti su cui hanno effettuato 288 mila analisi. A questi si aggiungono anche i campioni biologici, che siano sangue, urine, saliva, capelli o peli di chi è finito coinvolto (o morto) in incidenti stradali o è stato vittima di reati commessi sotto effetto di sostanze: 73 mila campioni per più di 400 mila analisi negli ultimi dieci anni. In pochi, come i tossicologi che lavorano a Piazzale Giustiniani, sanno dire con certezza cosa si vende e dunque cosa si consuma in città. La città è Mestre, la Venezia di terraferma. Ma ormai per tutti non è che la città dell’eroina. Chi pensava fosse la droga vintage degli anni 80 si sbagliava. Non è mai scomparsa, ci dice chi lavora per strada, ma il mercato negli ultimi anni è sfigurato: sono mutate le sostanze, si è riorganizzata la distribuzione, sono cambiate le politiche sul territorio. Tutti quelli con cui abbiamo parlato, danno anche una data: la svolta, dicono, è stata tra il 2017 e il 2018. La differenza la fanno i morti: nell’estate 2017 ne hanno sepolti quasi tre al mese. Cosa è successo? Sul mercato di Mestre ha fatto irruzione l’eroina “gialla” e nessuno sembrava preparato. Che poi si dice gialla, ma non lo è. “Anzi, un consumatore non può distinguerla facilmente da quella che è abituato a usare. Una volta assunta, l’effetto è moltiplicato”, racconta Giampietro Frison, responsabile del Laboratorio, “Nei reperti analizzati dopo il 2017, la purezza dell’eroina oscilla tra il 10 per cento e il 74 per cento, con una media del 40 . Vale a dire da dieci a cento volte più potente di quella venduta fino ad allora”. Oggi, dopo quel boom, si stima che il 60 per cento dell’eroina piazzata a Mestre sia proprio quella gialla: “Non era una meteora, è stato il lancio di un nuovo prodotto che poi ha preso piede”, ci dice il chimico Luca Zamengo. Ci racconta anche che il laboratorio, coinvolgendo Serd e Comune di Venezia, ha messo a punto “un meccanismo di allerta rapida che scatta quando riscontriamo dati anomali nelle sostanze analizzate”. È un avviso di pericolo che fanno affiggere in ogni servizio e presidio: tiene informati gli operatori e gira veloce tra i consumatori. La morte è in agguato, sette volte su dieci in solitaria, in qualche anfratto urbano o in una camera d’albergo. Più morti che a Roma - Il contatore dell’emergenza si chiama GeOverdose. Questo prezioso atlante online si basa sulle notizie riportate dalla stampa locale, raccolte in tempo reale in tutto il Paese. “Non sono dati ufficiali e potrebbero essere sottostimati, ma è un sismografo credibile: ne abbiamo prova quando ogni 18 mesi arrivano i dati ufficiali dal ministero degli Interni”, racconta Ernesto De Bernardis, un farmacologo di Siracusa che ha inventato GeOverdose assieme a Salvatore Giancane, un tossicologo bolognese. Ebbene, da gennaio 2022 ad oggi Venezia svetta in Italia coi suoi 12 morti, 11 nella terraferma mestrina. Per avere un’idea: nello stesso periodo, a Roma sono stati 8 e a Milano pure. Negli ultimi sei anni, da quando il portale ha iniziato a lavorare, nel capoluogo veneziano sono stati 63 i corpi trovati senza vita, 43 solo di eroina, il resto per mix di sostanze. De Bernardis ci racconta che una emergenza simile a Mestre si sta registrando in Umbria. Perché in alcuni luoghi il fenomeno sia più drammatico, “dipende da tanti fattori spesso combinati: le rotte del traffico, le organizzazioni, i fondi e i servizi delle strutture sanitarie e dei comuni, le attività su strada, gli interventi farmacologici disponibili, il lavoro delle forze dell’ordine”. Narcos nigeriani - A Mestre, evidentemente, tutto questo dev’essere precipitato. Qui ci si dà appuntamento da tutto il Nordest: “È un crocevia tra i più importanti, tra ferrovia, porto, aeroporto e autostrade. E intanto la narco-distribuzione ha riscritto le regole del mercato”, ci dice Maurizio Dianese, cronista e scrittore, esperto osservatore delle mafie nelle terre del miracolo economico. Che l’eroina gialla abbia invaso il mercato è legato anche all’arrivo di nuovi imprenditori, quasi tutti nigeriani - racconta ? che la Dia cinque anni fa ha portato alla luce, un’indagine finita in un blitz spettacolare. Questi nuovi impresari che si sono stabiliti a Mestre avrebbero spodestato i “tunisini”: molto più organizzati e con prodotti migliori, hanno una manodopera di pusher cui garantiscono un tetto e un salario fisso, ma chiedono di rispettare orari e turni di lavoro precisi e il divieto di “farsi”. L’emergenza si fa visibile in città a ondate, in particolare nelle vie attorno alla stazione. Basta farsi un giro di sera e il via vai dello spaccio continua seppur discreto. Verso la fine dell’anno scorso, invece, sembrava una festa mobile. Sulla scalinata del sottopasso ferroviario, dietro le macchine in qualsiasi parcheggio, dentro un qualche bancomat o sotto un portico era abituale vedere ragazzi accasciati, alcuni con le siringhe in mano o a folate a chiedere l’elemosina, mentre via Piave e via Cappuccina, nei pressi della stazione, erano un mercato sfavillante. Negli ultimi mesi varie operazioni di polizia hanno “ripulito” in gran parte la zona. Il sindaco Luigi Brugnaro ha puntato tutto sulla sua polizia municipale. In questi sette anni di mandato, anche se non ha attivato nessun progetto di rigenerazione urbana (come chiedono invece i comitati di cittadini), ha portato a 450 il numero di agenti (ma ne vorrebbe 600) e vanta in un solo anno mille daspo urbani, un terzo di tutti quelli emessi in Italia. Scuote la testa Maurizio Dianese: “La lotta al narcotraffico non è loro competenza, non sono preparati né di fronte ai venditori né ai consumatori in difficoltà. E il risultato è che il mercato si è spostato verso il centro”. Anche in questo caso, basta farsi un giro attorno alle piazze. L’assessore alle politiche sociali, Simone Venturini, ammette che “i daspo sono un palliativo, ma solo perché non ci sono leggi nazionali severe ed efficaci contro la micro-criminalità”. Eppure, le politiche sociali sembrano in affanno, anche se l’assessore dice di aver “aumentato le risorse e riorganizzato i progetti, senza far molta pubblicità”. Operatori di strada decimati - Paolo Ticozzi, consigliere comunale di opposizione, ha tallonato da vicino la giunta Brugnaro: “Nel 2013 il Comune aveva 13 operatori di strada, oggi sono 5 e nel 2022 hanno dovuto sobbarcarsi 1123 interventi, compresi homeless e alcolisti. Riescono a fare 120 uscite all’anno, meno della metà di quello che facevano prima”. Ticozzi ha proposto tra l’altro che “gli agenti municipali abbiano una formazione specifica e siano dotati di naloxone”, il farmaco che si può usare anche sottoforma di spray quando una persona è in overdose: “La risposta è stata un no, secco”. “Dopo la grande emergenza eroina degli anni 80 sono nati servizi innovativi, sono fiorite cooperative e privato-sociale” riflette Dianese “Oggi dovremmo essere capaci di fare un salto simile, per affrontare le nuove sfide che abbiamo di fronte”. Quali sfide? Bisogna tornare al laboratorio di tossicologia: “Nei campioni cerchiamo anche i nuovi oppioidi sintetici, come i derivati del fentanile o i nitazeni, stupefacenti potentissimi che hanno causato decine di migliaia di morti negli Usa per overdose”. Tecnicamente fanno parte delle Nps, spiega Giampietro Frison, cioè “sostanze di nuova generazione i cui effetti sono in molti casi ancora sconosciuti. Le Nps non hanno sostituito le sostanze tradizionali, ma hanno creato un nuovo mercato, soprattutto online, coinvolgendo ragazzi sempre più giovani. È un mercato che ha a disposizione vere industrie farmaceutiche, soprattutto in India e in Cina”. Mentre loro annusano tutto questo, a Mestre il sindaco vieta i monopattini, per evitare che i pusher sfreccino dalla stazione al centro città. Bologna. Il call center Acli sbarca alla Dozza, contratto stagionale per 4 detenuti di Massimo Selleri Il Resto del Carlino, 30 aprile 2023 L’associazione cristiana dei lavoratori è stata tra le prime in Italia ad aver dato vita a questo tipo di iniziativa. Stanziati circa 20mila euro. Il cardinale Zuppi: “Occupazione, numeri troppo bassi: bisogna fare di più”. Una stanza adibita a ufficio, quattro computer connessi a una rete aziendale e la pazienza di ascoltare. Da martedì, il call center dell’Acli di Bologna avrà una piccola filiale all’interno del carcere della Dozza. Superate tutte le difficoltà tecnologiche, la realtà cristiana che si occupa dei lavoratori ha assunto 4 detenuti con un contratto stagionale visto che in questo periodo sono più di 700 le telefonate quotidiane che arrivano al suo centralino per prenotare un appuntamento con il Centro di assistenza fiscale bolognese, ma anche di Reggio Emilia, Ferrara e Mantova. Dopo i primi 6 mesi di prova l’obiettivo delle Acli è quello di assumere a tempo indeterminato i lavoratori rendendo stabile il nuovo ufficio all’interno del penitenziario. “È un’iniziativa molto importante - spiega il cardinale Zuppi in visita alla Dozza - perché riconsegna al carcere la sua funzione rieducativa, inoltre il lavoro è lavoro vero se restituisce dignità alla persona. Meno del 5% di chi vive in questo istituto ha un’occupazione ed è davvero un numero troppo basso. Bisogna fare di più”. I detenuti sono stati selezionati dalla direzione del penitenziario e stanno tutti scontando pene lunghe. L’obiettivo del progetto non è solo stabilizzare i primi quattro dipendenti, ma allargare questo numero. “Abbiamo detto sì - spiega la direttrice, Rosa Alba Casella - proprio perché ci è stato promesso che saremmo passati rapidamente da 4 a 8 dipendenti . Ci sono tutte le garanzie che i lavoratori svolgano in modo corretto il loro compito, ricevendo la telefonata, fissando la data dell’appuntamento per il servizio richiesto e illustrando la documentazione da presentare”. Per le Acli si tratta di una sfida importante, dovendo far coincidere i diritti e i doveri dei lavoratori con i regolamenti del penitenziario. L’investimento per la tecnologia è di circa 20mila euro, e i dipendenti avranno colloqui regolari con il proprio responsabile e seguiranno i momenti di formazione come tutti gli altri operatori dell’associazione. “Per un ente come il nostro - spiega la presidente delle Acli di Bologna, Chiara Pazzaglia - la persona non si identifica mai con il reato che ha commesso. Se si considera che normalmente in carcere viene proposta un’attività manifatturiera, siamo tra i primi in Italia ad aver dato vita a questo tipo di iniziativa”. Quella lavorativa non sarà l’unica esperienza con cui le Acli animeranno la vita dei detenuti. Attraverso la loro unione sportiva presto partirà anche la pratica del gioco del calcio con il Csi. Venezia. Nel carcere un progetto di educazione alla legalità per gli studenti dell’Enaip malpensa24.it, 30 aprile 2023 La scorsa settimana si è conclusa la 14^ edizione del progetto di Educazione alla legalità promosso dalla direzione della Casa circondariale di Varese. L’iniziativa è stata articolata in cinque incontri che hanno visto protagonisti 15 allievi di Enaip Varese e 5 persone detenute. Tra questi due gruppi si è sviluppato un dialogo su tematiche che riguardano il rispetto delle regole e il benessere che deriva da uno stile di vita “non deviante”. Il percorso - Il percorso è stato condotto dal capo Area Educativa Domenico Grieco in collaborazione con il tutor di Enaip Alessandro Manni e con l’agente di rete Simone Guazzi. La Polizia Penitenziaria ha preso parte attivamente agli incontri portando il proprio contributo attraverso la partecipazione dell’ispettore Alfio Guida. Durante l’ultimo appuntamento si è affrontato il tema delle mafie e del loro impatto criminale sulla vita di tutti i cittadini. La discussione è stata animata dalle referenti territoriali di Libera, Antonella Buonopane e Angela Lischetti. Gli obiettivi - La direttrice di Enaip Emanuela Frigerio ha espresso soddisfazione per l’iniziativa, che non vuole avere un carattere esclusivamente deterrente ma intende promuovere il valore della libertà in ogni sua forma e responsabilità. Carla Santandrea, direttrice della Casa circondariale di Varese, ha così commentato: “Il confronto con i giovani impegnati in un percorso formativo, ragazzi che stanno disegnando il loro futuro professionale rappresenta sicuramente un’occasione di riflessione e riscatto per la popolazione detenuta. Momenti come questo rappresentano l’effettiva apertura del carcere al territorio in una prospettiva di sempre più ampia partecipazione alla vita della collettività”. A breve sarà presentata la 15^ edizione del progetto che mirerà ad incrementare il numero degli adolescenti coinvolti. Napoli. Primo maggio, don Battaglia: “Senza giustizia sociale non potrà mai esserci pace” di Felice Naddeo Corriere del Mezzogiorno, 30 aprile 2023 Il vescovo di Napoli durante l’omelia della messa celebrata nello stabilimento Kimbo di Melito: “Troppo spesso i poveri offesi con generalizzazioni ingiuste”. Non c’è pace senza giustizia sociale. E non ci sono dignità ed uguaglianza senza lavoro. Sono i cardini dell’omelia dell’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, pronunciata nel corso della messa celebrata nello stabilimento Kimbo di Melito in occasione della festa del lavoro. “Sentiamo forte la necessità di giustizia sociale - ha detto il prelato - senza la quale non potrà mai esservi pace. Troppo spesso i poveri sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste, che non tengono conto della dignità, delle aspirazioni, dei sogni, dei talenti di ognuno”. L’emergenza - Il lavoro rappresenta la vera emergenza di Napoli e della sua provincia. “Se pensiamo ad esempio alle politiche delle nostre città - h proseguito l’arcivescovo - ai servizi verso i cittadini più deboli e fragili, e proviamo a farlo attraverso le chiavi di lettura della Giustizia, non potremo più limitarci a percorsi meramente assistenziali, diritti sociali che appaiono come concessioni, come un lusso che non sempre ci si può permettere. É drammatica la situazione di molti napoletani che hanno perso o perderanno il lavoro. La disoccupazione, come sappiamo bene, trascina con sé tante fragilità. Alle parole d’ordine degli ultimi decenni come competitività, produzione, profitto, crescita, si dovranno affiancare parole che, pur entrate nel lessico culturale e giuridico, sembravano assodate e si pongono invece come traguardi: solidarietà, sussidiarietà, dignità della persona e della famiglia”. Napoli. Carcere di Nisida, teatro da salvare: “Fu un dono di Eduardo” di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 30 aprile 2023 Una cordata di imprenditori guidata dal Fai per ristrutturare il teatro del carcere minorile di Nisida. Un teatro magico quello creato da Eduardo. Ricco di boiserie ed affacciato su Capri racconta l’amore di De Filippo per i “suoi” ragazzi, quelli che hanno sbagliato, ma che hanno comunque diritto a un futuro. Ma oggi quello spazio è chiuso da tanti, troppi anni. Se ne è accorta Cristiana Farina, sceneggiatrice della serie Mare Fuori, che ha lanciato un appello agli imprenditori “affinché diano una mano a riportare in vita il teatro. Oggi è chiuso per infiltrazioni, andrebbe ristrutturato. Ci sono state richieste su richieste di fondi da parte dell’istituto, ma non è accaduto nulla”. L’invito è stato poi ripreso dal direttore di Nisida, Gianluca Guida, sulla sua pagina Facebook. Il primo a scendere in campo è stato Michele Pontecorvo, presidente campano del Fai, Fondo per l’ambiente italiano: “Poche settimane fa è stata organizzata una passeggiata nel parco di Nisida, rimesso a posto dai ragazzi. Noi del Fai abbiamo avuto la possibilità, poi, di visitare un teatro unico, quello pensato da Eduardo per offrire ai ragazzi un posto dove esprimere la propria creatività”. Un impianto disegnato da Eduardo. Ma, come spiega Pontecorvo, la realtà supera l’immaginazione: “Dalle finestre della sala si vede Capri: è l’unico teatro del mondo che unisce a una macchina scenica perfetta uno sfondo incredibile. Poi abbiamo letto l’appello del direttore Guida sulle pagine di fb e abbiamo deciso di intervenire. Creeremo una rete di imprenditori che vogliano restituire il teatro ai ragazzi e alla città: quello spazio deve tornare ad essere strumento di recupero come voleva Eduardo”. Già nella seconda metà di maggio si terrà un incontro a Nisida con il direttore Guida e con gli imprenditori che hanno già aderito all’appello. “Ci rivolgeremo anche a tutti gli appassionati di teatro, e non solo a quelli napoletani. Approfittiamo dell’interesse suscitato da Mare Fuori per le vite dei ragazzi che hanno sbagliato ma non per questo devono rinunciare al futuro”. Per il progetto c’è già l’interesse della facoltà di ingegneria della facoltà Vanvitelli che studierà la fattibilità del recupero e farà da garante tecnico. “È importante fare qualcosa per salvare il teatro abbandonato - dice Francesca Vasquez, vice presidente Fai - bisogna innanzitutto realizzare un progetto capace di riportarlo allo stato dell’originaria bellezza”. Non sarà facile, perché, come spiega il dirigente delle strutture della giustizia minorile in Campania, Giuseppe Centomani: “Quello di Nisida è un cantiere sempre aperto, il teatro fa parte di uno stabile lungo una trentina di metri, in cui ci sono anche altri laboratori. Il ministero della Giustizia si è più volte interessato della vicenda: il problema è quello dei costi. Ma sul tema del recupero c’è la massima attenzione: quel luogo è importante per i ragazzi. Ci siamo mobilitati io e il direttore Guida e adesso speriamo di ottenere almeno l’autorizzazione a procedere”. Di devianza Centomani discuterà con Francesco Pinto, ex direttore del centro di produzione rai di Napoli, alla facoltà di sociologia, parteciperanno anche alcuni attori di Mare Fuori, la serie che ha messo al centro dell’attenzione generale la vita dei ragazzi all’interno dei carceri: “Un interesse che va intercettato e trasformato in iniziative concrete”, dice Francesca Vasquez. Per tutti quarantuno anni dopo resta vivo quello che Eduardo disse nel discorso che tenne in aula dopo la nomina a senatore a vita, dedicato quasi interamente ai giovani in carcere: “Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi, che sta facendo acqua da tutte le parti, possa finalmente imboccare la strada giusta. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro”. Ora qualcuno ci sta riprovando. Il soccorso all’infanzia fragile sui Treni della felicità: il volume di Bruno Maida di Giancristiano Desiderio Corriere della Sera, 30 aprile 2023 Tra il 1945 e il 1948 decine di migliaia di bambini afflitti dalla povertà vennero accolti da famiglie più agiate in altri territori d’Italia: con il quotidiano un libro che ricostruisce l’iniziativa di salvataggio. Nel 1946 Indro Montanelli, in un articolo per il “Corriere d’Informazione”, usò la parola besprizornye per indicare la grande massa di bambini abbandonati e pericolosi che vagavano nelle strade delle città italiane. La parola russa riguarda l’infanzia orfana e derelitta che dopo la Grande guerra e la rivoluzione d’Ottobre comparve nella società sovietica senza che il pur pervasivo sistema di controllo comunista fosse in grado di venire a capo della condizione dei fanciulli senza famiglia. La guerra e i bambini sono realtà e umanità che non sembrano appartenersi o che almeno non dovrebbero incontrarsi. È un’illusione. Ieri, oggi. In Ucraina i bambini sono uccisi e rapiti dai soldati di Vladimir Putin. L’infanzia è per natura il futuro di un popolo, di una nazione, di una comunità. E se con la Prima guerra mondiale il fenomeno dei bambini che divennero orfani, poveri, profughi si impose nel mondo, con la Seconda guerra mondiale la scena dell’infanzia violata si ripeté. In un rapporto dell’Unesco del 1948 si legge che in Europa erano 60 milioni i bambini che avevano bisogno di assistenza, ma la limitatezza dei fondi a disposizione delle organizzazioni internazionali consentì di portare soccorso alimentare e intervento medico a non più di quattro milioni di fanciulli per un tempo di sei mesi. L’aiuto era doveroso e solidaristico, non c’è dubbio; ma prim’ancora era necessario perché senza soccorrere i bambini abbandonati non si poteva nemmeno lontanamente pensare di poter ricostruire la cara vecchia Europa che nel giro di trent’anni aveva dato fuoco a sé e al mondo per la seconda volta. Dalla cura dell’infanzia dipendeva il futuro civile dell’Europa. E, tuttavia, come dice il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij; “Prima sfamateli e poi chiedete loro la virtù”. A quei bambini italiani visti e segnalati da Montanelli chi pensò? I Treni della felicità. Un’operazione di salvataggio di migliaia e migliaia di fanciulli che nell’immediato dopoguerra, tra il 1945 e il 1948, l’Unione donne italiane e il Partito comunista, insieme con tutta una serie di organizzazioni nazionali e internazionali, laiche e confessionali, statali e private, concepirono e realizzarono trasferendo decine di migliaia di bambini e bambine provenienti da famiglie povere di diverse parti d’Italia, prima da Milano e Torino, quindi in gran parte dal Mezzogiorno, portandoli in zone, ambienti, famiglie in cui le condizioni di vita erano migliori. A ricostruire e raccontare questa esemplare storia popolare è il libro di Bruno Maida “I treni dell’accoglienza. Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948”, in edicola con il “Corriere della Sera”. L’Emilia-Romagna fu la regione che accolse il maggior numero di bambini, ma gran parte del territorio nazionale fu coinvolto in un’operazione speciale pensata per venire incontro ai fanciulli più poveri e permettere loro di affrontare la stagione invernale al caldo e con un buon pasto giornaliero. Però, non di rado i bambini si fermarono presso le famiglie che li accolsero per un periodo più lungo oppure ritornarono da chi aprì loro la casa e le braccia o si fermarono per sempre nella loro nuova casa e nel loro nuovo paese. La formula dei Treni della felicità fu coniata dal sindaco di Modena, Alfeo Corassori, quando vide giungere i primi convogli da Roma carichi di un’umanità dolente e insieme speranzosa, se non felice. Si trattò - dice Bruno Maida - di “un’azione di integrazione e molto spesso di sostituzione dello Stato, assente in termini tanto concreti quanto legislativi, e per lo più incapace di immaginare nuove politiche nei confronti dell’infanzia dopo il Ventennio”. Bruno Maida, che è professore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino, ha già lavorato nel recente passato sul binomio guerra e infanzia: prima con La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia e poi con L’infanzia nelle guerre del Novecento (entrambi editi da Einaudi). E, infatti, non solo il suo testo è ben documentato ma mostra come nell’operazione dei Treni della felicità o dell’accoglienza vi sia una continuità storica con gli aiuti per i bambini dei lavoratori in sciopero, con i “treni della fratellanza” che portarono i bimbi viennesi in Italia dopo la Grande guerra oppure con l’arrivo dei bambini russi a Torino per sottrarli alla carestia dopo la rivoluzione e, ancora, con i “bambini di Fiume” che giunsero a Milano e a Torino. Ma, anche se l’esperienza dei Treni della felicità rimane unica, una continuità storica nel sostegno all’infanzia si avrà in tutto il Novecento fino a giungere all’accoglienza dei bambini ucraini dopo il disastro di Chernobyl. Questa continuità ci racconta una cosa fondamentale che lo storico, infatti, cerca di dire fin dal primo rigo del suo libro: la storia della cura e del soccorso dell’infanzia non riguarda solo il passato ma anche e soprattutto il presente. Non è un caso che nel libro si intreccino - e con grande dovizia di particolari che qui non possono essere riportati ma dovrebbe essere facile intuire - quattro questioni con le quali tutt’oggi dobbiamo fare i conti: povertà, questione meridionale, protagonismo femminile, infanzia. Eppure, al di là delle “questioni” ciò che caratterizza la storia è proprio il bambino. Chi sono davvero questi bambini? Tutta la vicenda è fatta dagli adulti e i piccoli sono nominati come “infanzia”. I bambini assumono un volto - dice giustamente Maida - nella finzione cinematografica: Bruno di Ladri di biciclette, Pasquale e Giuseppe di Sciuscià, Pasquale di Paisà, Esposito di Abbasso la miseria. Tuttavia, la partenza, l’addio, il distacco, il treno, il viaggio non sono finzioni. È storia. Umanissima. Allora, ecco i ricordi dei bambini - Dina, Enzo, Ugo, Paola - e le scene di fame, di malattie, di pericolo ma anche di gioco che si sono portati dietro per una vita intera lasciando la Ciociaria, Napoli, Pozzuoli e salendo su un treno che li portava verso un’altra vita o li sottraeva alla miseria e alla morte accolti da una “famiglia italiana”. “Esodo dall’abisso del Mediterraneo”: così il poeta siriano Al Jarrah cerca risposte all’apatia odierna di Shady Hamadi Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2023 “Come fa l’Europa a stare ferma, immobile, mentre osserva la sponda sud del mediterraneo divorata dal fuoco, senza capire che ad essere mangiato da queste fiamme è anche il suo stesso volto?”. È una domanda che continua a porre Nouri al Jarrah, poeta siriano, classe 1956, dopo decenni alla ricerca di una identità, culturale e sociale, che leghi le due sponde ormai divise da una storia lunga secoli. Eppure, continua al Jarrah, “com’è possibile che la coscienza europea non provi dolore, voltandosi dall’altra parte mentre lascia soli chi ha dato loro l’alfabeto, l’arte, ha costruito città mentre Roma era un villaggio di pastori e ha insegnato loro a fare il vino?”. Possibile che “oggi lasciarli soli significhi abbandonarli alla traversata del mare Mediterraneo?”. Non a caso la raccolta di poesie scelte - appena pubblicata, tradotta dalla professoressa Francesca Maria Corrao, si chiama Esodo dall’abisso del Mediterraneo, edita da Le Monier Università. Il tema dell’esodo è ormai diventato uno dei punti cardine nell’immaginazione poetica di al Jarrah. Ne sono la prova le sue precedenti raccolte di poesie, come “Una barca per Lesbo”, tradotta da Gassid Mohammed per L’Arcolaio, in cui, ancora, la traversata dei siriani, nuovi figli di Ulisse e delle macerie di Troia, è il perno dell’elegia. Per il poeta sono i figli come Telemaco a dover occupare il primo piano, passando dall’essere antieroi a protagonisti di una nuova Odissea moderna. Un’avventura che per lo stesso al Jarrah comincia in giovane età quando è costretto a lasciare Damasco e la Siria perché, come tutti gli intellettuali, diventa inviso al regime della famiglia Assad. Prima tappa Beirut, dove, poco più che ventenne, conosce e si fa conoscere dai grandi poeti arabi dell’epoca. Poi un peregrinare che lo porta prima a Cipro per poi approdare negli anni Ottanta a Londra. È qui, nel freddo nord, che al Jarrah mette radici e continua la sua attività poetica - oltre venti raccolte di poesie - accompagnata da una intensissima attività giornalistica. Fonda infatti diverse riviste. Fra tutte, bisogna ricordare Al Katiba, “la scrittrice”, 1993-1995, prima magazine nel mondo arabo dedicato esclusivamente alle autrici arabe. Mentre ad oggi continua a dirigere il premio Ibn Battuta e il Centre for arabic geographical literature. Il Mediterraneo, distesa d’acqua e di corpi, non è solo l’involontario carnefice di esodi biblici, ma genitore ormai abbandonato. È il Mediterraneo, dice al Jarrah, a rappresentare la nostra identità culturale. “Sono un poeta mediterraneo. Arabo o europeo sarebbero identità parziali”. È nella riscoperta di ciò che abbiamo in comune, a nord e a sud del mare di mezzo, che potremmo trovare le risposte all’apatia odierna. Quella che ci rende ciechi a un paese distrutto, come scrive in questi versi: Dormi nelle tende di Siria / da Acri ad Aleppo è un paese di tende/ dormi / amore mio dormi/ dormi nella coscienza morta del mondo, togli le tue mani dalla croce/ e alzati/ tu sei vivo. Una assenza di riconoscimento che si tramuta in una totale indifferenza, quasi fastidiosa. Erano giovani siriani/ o avventurosi macedoni in attesa di una barca per Atlantide/ giovani con zainetti in spalla vengono alle porte e se ne vanno, parlano una lingua straniera ai cellulari/ con voci simili ad ali spezzate… Cercando agli angoli delle nostre città; ai margini di qualche monumento o bussando alla porta di casa vicino a noi, potremmo ascoltare voci diverse. Voci che ci raccontano di un esodo alla ricerca di non una ma tante Itaca. Di milioni di esseri umani costretti all’esodo: un fluire costante verso l’esilio al quale Nouri al Jarrah, esiliato a sua volta, tenta di dare un volto chiedendoci di guardarci allo specchio per vedere l’altro. Quei diritti da garantire. “Il rischio dei servizi? Che siano livellati al ribasso” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 30 aprile 2023 L’allarme di Vanessa Pallucchi e del Forum del Terzo settore: “Prestazioni di base garantite e finanziate per tutti, o l’autonomia produrrà nuove disuguaglianze”. “In un Paese come il nostro, caratterizzato da profondi divari, dobbiamo evitare che nuove norme finiscano per approfondirli piuttosto che ridurli”. Le parole sono di Vanessa Pallucchi e la preoccupazione che esprimono è quella del Terzo settore italiano del cui Forum nazionale è portavoce. È l’allarme rispetto a un tema che il Parlamento sta (finalmente) affrontando in questi giorni con appena vent’anni - anzi ventidue - di ritardo: la definizione cioè dei “Livelli essenziali di prestazioni” (Lep) che lo Stato deve garantire a tutti i suoi cittadini, a prescindere da dove vivono. Che bella cosa, uno dice. Il rischio paventato dal Forum è che venga usata come una specie di cavallo di Troia per far passare quell’altro progetto, quello sulla “autonomia differenziata” delle Regioni, che almeno sulla carta va in direzione opposta. “In questi giorni in cui entra nel vivo l’iter del testo in Parlamento - è il monito di Vanessa Pallucchi - ci aspettiamo un ascolto reale delle varie parti sociali e del Terzo settore, soprattutto un impegno che dimostri di voler evitare pericolose fughe in avanti a scapito della garanzia dei diritti dei cittadini”. Solo un passo indietro di spiegazione per chi ha perso qualche puntata. Il compito di definire in concreto i servizi e quindi i diritti che lo Stato deve garantire a tutti i suoi cittadini rappresenta - come stabilito nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione - una competenza esclusiva dello Stato stesso. Che deve indicarne anche la copertura finanziaria. Finora non si è ancora tradotta in pratica nessuna delle due cose. Ora però ci sono delle scadenze che questo passaggio lo richiedono. In primo luogo il Pnrr, naturalmente. Ma anche la legge di bilancio 2023, connessa per questo aspetto al disegno di legge per la “attuazione dell’autonomia differenziata” tra le Regioni, attualmente all’esame del Senato, in cui si precisa fin dall’articolo 1 che “il trasferimento delle funzioni” avverrà “subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Niente definizione dei Lep, niente autonomia differenziata. Ok: qual è il problema? “È che la determinazione dei Lep - spiega la portavoce del Forum - avvenga non perché riconosciuta come un valore in sé ma solo in quanto strumentale e dunque sia svolta al ribasso, senza prevedere adeguate risorse per finanziarli e limitando il processo a un riordino di quelli esistenti, non includendo servizi e prestazioni sociali. Questo rischio va scongiurato a ogni costo per evitare che si realizzi un regionalismo delle disuguaglianze”. In altre parole: il paradosso è che proprio lo strumento pensato per evitare una disparità territoriale sui diritti da garantire a tutti possa essere utilizzato come grimaldello per promuoverla o almeno consentirla. In primo luogo perciò, ribadisce Vanessa Pallucchi, i Lep bisognerà definirli tutti, “anche quelli sociali, e aggiornare quelli dell’assistenza sanitaria, ma elencarli non è sufficiente: occorre finanziarli per renderli concretamente esigibili, programmando un adeguato investimento nel tempo e consolidando il ruolo perequativo dello Stato. Finora siamo fermi a quanto previsto dall’ultima legge di Bilancio, che prevede solo un riordino dei livelli minimi già esistenti, in tempi brevi e a costo zero. Questo solleva dubbi molto importanti: è un reale obiettivo del Governo ridurre la portata di fenomeni discriminatori che già esistono e mantenere l’unitarietà del Paese? Se sì, è impensabile perseguirlo senza un consistente investimento nel welfare”. Primo Maggio, la festa triste: “Il lavoro non è più un diritto” di Alessandra Ghisleri La Stampa, 30 aprile 2023 Il sondaggio Euromedia: soltanto per il 28% è una festività importante, il 30% crede che sia diventata propaganda. Quattro italiani su dieci si ritengono sottopagati, per il 13% l’occupazione è un’emergenza. Quest’anno il Primo maggio arriva in un momento delicato, soprattutto per gli italiani. Perché il nostro Paese ha un serio problema di impoverimento, specie per quel che riguarda il lavoro, registrato settimana dopo settimana da ogni rilevazione che dà conto delle opinioni degli italiani. L’indifferenza è il triste risultato che scaturisce dalla domanda sulla celebrazione del Primo maggio. Tra rabbia, tristezza, speranza, delusione e festa, è proprio l’indifferenza a essere generata con la maggiore frequenza. Secondo gli intervistati negli anni il Primo maggio ha assunto il ruolo di una festività priva di significato, solo vetrina e propaganda (30,2%), governata dalla politica (19,8%) e obsoleta (16,5%). Solo per un italiano su tre (28,4%) mantiene la sua importanza e il suo valore. È principalmente l’elettorato del Partito democratico a dichiararlo (58,3%). Se ci fermiamo a riflettere fa una certa impressione osservare che, anche tra l’elettorato di centrosinistra, con il tempo questa festività abbia smarrito il suo significato originario. Per i più il Primo maggio è una scusa per un ponte, come del resto il 25 aprile e, purtroppo, la mancanza del quorum dello scorso giovedì in Parlamento con l’assenza dei parlamentari nel giorno del voto sul Def offre un’ennesima conferma ai cittadini, qualsiasi siano state le giustificazioni. In ogni classifica il lavoro è sempre una voce dominante, eppure rispetto all’articolo 4 comma 1 della Costituzione - “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” - la stragrande maggioranza degli italiani dichiara di non vedere riconosciuto tale diritto nella società odierna (75,8%). E neppure rispetto al comma 2 del medesimo articolo - “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” - si ritrova una visione italiana, perché il 76,1% degli intervistati afferma di non ritrovare nulla di tutto questo nella nostra società. Sembra assurdo, ma la Costituzione italiana, celebrata e pluricitata, appare non rispettata proprio nei suoi principi fondanti. La criticità più evidente secondo i cittadini è che il lavoro oggi sia sottopagato (37,3%) soprattutto nella visione delle donne (40,2%), così al posto di portare dignità alla persona (16,8%) si trasforma in un’emergenza (13,1%) e in uno strumento gestito in maniera antiquata (10,9%). Sono proprio i più giovani tra i 18 e i 24 anni, prossimi al mercato del lavoro, che ne lamentano i maggiori disagi e non ne riconoscono lo strumento per la costruzione di un futuro. Del resto le manifestazione del 25 aprile e del Primo maggio non fanno registrare alcun cambiamento nelle intenzioni di voto degli italiani, poche sono le evoluzioni che registrate nel sondaggio realizzato per Porta a Porta tra il 26 e il 27 aprile. Rispetto a 15 giorni fa (ultimo sondaggio su La Stampa) pochi sono i cambiamenti rilevanti: un +0,5% per il Movimento 5 Stelle (15,7%) e la perdita di consenso di Fratelli di Italia (-0,6%). Carlo Calenda con Azione e Matteo Renzi con Italia Viva, ora divise, generano una crescita totale sulla somma della loro ex alleanza dello 0,7%, che tuttavia non può essere metro di paragone (le precedenti rilevazioni prendevano in considerazione un’unica formazione politica). Riflettendo sui dati, ciò che pensano gli italiani del Primo maggio rispecchia ciò che pensano del lavoro, e a tratti della politica. La domanda riflette una risposta mancata: paghe inferiori alle attese, navigare a vista tra le emergenze, sciatteria nella gestione, metodi antiquati ecc… Di anno in anno cresce la percentuale di persone maggiorenni che non partecipano alla vita politica. Un’adesione che potrebbe avvenire in maniera indiretta per qualche elettore, leggendone o parlandone, oppure in via attiva partecipando a cortei e manifestazioni e che, tuttavia, a oggi tiene lontano un italiano su tre (26,3% dati Istat 2021). Nulla cambia e tutto si perpetua e così, come recita una freddura, se al desiderio di un bambino per un unicorno alato da trovare sotto l’albero di Natale gli chiedessimo qualcosa di più reale, lui ci potrebbe domandare un lavoro per aiutare la sua famiglia e pianificare il futuro… Sarà proprio allora che ci faremmo in quattro per trovare la leggendaria creatura. La dignità non può dipendere dal reddito: la svolta necessaria per un lavoro libero di Massimo Cacciari L’Espresso, 30 aprile 2023 La rivoluzione tecnologica riduce la necessità di occupati. È un’occasione da cogliere per svincolare il valore della persona dal mercato. Non è utopia. Ecco come si può fare. 1° Maggio, giornata del lavoro. E dei milioni di precari, sotto-occupati, disoccupati. Repubblica fondata sul lavoro. Quale lavoro? Fino a quando non ci porremo con sobrietà e disincanto questa domanda la retorica più frustra continuerà a imperversare. Mai lo sviluppo economico-tecnologico ha prodotto una riduzione del lavoro necessario più drammaticamente rapida e intensa. Ciò è nella natura del sistema di produzione sociale che domina ormai il pianeta e che chiamiamo capitalismo - e tuttavia oggi essa si manifesta, almeno in Occidente, con tratti qualitativamente nuovi e con effetti sociali dirompenti. Il flusso innovativo, il salto tecnologico e organizzativo, attraverso momenti di crisi, tendevano in passato a sostituire vecchie forme di lavoro con altre altrettanto di massa. Così è stato nel passaggio tra primario e grande industria manifatturiera, e ancora tra questa e i nuovi settori del terziario. L’innovazione oggi funziona riducendo ovunque sistematicamente e massicciamente il bisogno di forza-lavoro. Gli stessi servizi alla persona sono coinvolti nel processo, basti pensare agli effetti che già si stanno verificando nella sanità o nella formazione. L’idolatria per digitalizzazione, on line, robotica, intelligenza artificiale (idolatria che è l’opposto di una esatta valutazione delle loro straordinarie potenzialità liberatorie, come vedremo subito) insieme all’ideologia della perfetta sostituibilità della comunicazione con la semplice informazione, sembrano oggi rendere queste tendenze complessive del nostro “modello di sviluppo” anche culturalmente inarrestabili. Il salto tecnologico, inoltre, poteva produrre in passato nuove polarizzazioni di classe. Oggi non hai che un polo egemone, per quanto possa al suo interno presentare elementi di fortissima competizione e anche di contraddizione - dall’altra parte hai una moltitudine di individui, che erogano il proprio lavoro come tali, senza alcuna capacità di dar vita a forme di solidarietà e organizzazione. Da un lato gli addetti al Sistema, dall’apparato tecnico-scientifico connesso al potere economico, politico e militare, ai cosiddetti “creativi” a vario titolo (e “creativi” nel nostro Paese sono senza dubbio anche le legioni degli evasori) - dall’altro, non la plebe (come si dice erroneamente, poiché la plebe è concetto giuridico e politico), ma una moltitudine di precari, oscillante tra lavoro dipendente incerto, fasi più o meno lunghe di disoccupazione, ricerca affannosa di impiego, percorsi di riqualificazione. È tempo, penso, di prendere il toro per le corna. Arrestare il processo è impossibile. Lo potrebbe soltanto un’apocalisse politica globale. Frenarlo, contenerlo è affare miope, anche se a volte misericordioso. Non resta che una strada positiva, propositiva, non reazionaria e niente affatto fantastica. Lo sviluppo di cui abbiamo parlato ha generato e continua a generare grandi ricchezze. Ma di per sé esso produce squilibri di ogni genere e intollerabili ingiustizie. Assurdo elemosinare lavoro - è l’uso di questa ricchezza che occorre saper contrattare e indirizzare. La Repubblica è fondata sulla dignità dell’uomo, non sul fatto che egli debba per forza esercitare un lavoro per cui riceva un reddito sufficiente a vivere. Lavoro, sarebbe bene ricordarlo, non è un termine “felice” (labor ha la stessa radice di labeo, cado, non mi reggo, sono a terra) - e altrettanto poco lo è “occupazione” (perché dovrei essere un “occupato”? sono forse una cittadella conquistata dal nemico? Mi ha sconfitto qualcuno?). La mia dignità consiste nel poter svolgere un’attività, nell’essere causa attiva nel campo che avverto come mia professione. La Repubblica deve operare per il fine che tutti siano posti nella condizione di esercitare liberamente l’attività per la quale si sentono vocati. La dignità della persona non può dipendere dal suo essere-al-lavoro. La ricchezza prodotta, che è sempre un prodotto sociale, della interrelazione tra gruppi sociali, deve poter garantire a ciascuno secondo i suoi bisogni, a prescindere dal suo essere-occupato. Ognuno deve potersi sentire attivo e libero, e partecipe alla produzione di ricchezza sociale, anche se non riesce, per una fase o per sempre, a collocarsi nel mercato (altro termine davvero bestiale!) del lavoro, così come attualmente si configura. Anche standone fuori, momentaneamente o meno, si possono elaborare proprie idee, formare progetti con altri, scoprire proprie capacità, senza doversi sentire delusi, frustrati, emarginati. E magari accrescere la potenza del cervello sociale, secondo prospettive imprevedibili. È un’etica del lavoro paleo-borghese, cupamente disciplinare, quella che fa sostanzialmente dipendere il valore di una persona dalla retribuzione che è in grado di ottenere. Il valore della mia attività va liberato dal riconoscimento di cui essa gode sul mercato. La politica sappia mettere a disposizione i mezzi affinché l’intelligenza di ciascuno possa vivere e operare liberamente. Si tratta di utopia? Niente affatto - è una prospettiva resa concretamente possibile dallo sviluppo delle forze produttive, dall’inserimento onnipervasivo delle nuove tecnologie in tutti i settori di attività. O saremo capaci di questa piccola rivoluzione culturale intorno all’idea di lavoro e poi a trarne le necessarie conseguenze pratiche e politiche, oppure rassegniamoci a miriadi di battaglie di retroguardia, impotenti testimoni di uno sviluppo che moltiplica le disuguaglianze e distrugge ogni forma di comunità. L’incontro tra Landini e don Ciotti: “Non c’è legalità senza uguaglianza” di Riccardo Chiari Il Manifesto, 30 aprile 2023 Legalità e democrazia. Migliaia di persone a Scafati, cittadina del salernitano, alla manifestazione in difesa del Fondo agricolo Nicola Nappo, confiscato alla camorra e sotto attacco con continui furti e atti vandalici. In corteo Cgil e Flai, Libera e Alpaa. Maurizio Landini: “Una lotta anche per il diritto di poter lavorare con dignità, per realizzarsi”. Resistenza e lavoro, uniti nella difesa di un grande fondo agricolo confiscato alla camorra. Perché la lotta contro le mafie, il caporalato e il lavoro nero è resistenza quotidiana nell’Italia di oggi. “Una lotta anche per il diritto di poter lavorare con dignità - aggiunge Maurizio Landini - con un lavoro che sia fondato sulla possibilità per le persone di realizzarsi”. Parole che rimbalzano in una piazza Vittorio Veneto strapiena, segno tangibile del successo della manifestazione “La legalità ha radici profonde” organizzata a Scafati, grosso centro del salernitano, per rispondere ai tre recenti raid vandalici ai danni del Fondo “Nicola Nappo”, il bene confiscato più grande della provincia. Anche per rispondere a chi, come Matteo Salvini e il presidente campano Vincenzo De Luca, vorrebbe rimettere in vendita i terreni “sul libero mercato”. Riportandoli, di fatto, nelle mani della camorra. Insieme la Cgil e Libera, con la Flai e l’Alpaa che gestiscono con l’associazione “Terra Vi.Va” i 120mila metri quadrati di terreni sequestrati al clan Galasso, riqualificandoli e restituendoli alla comunità. E con gli attivisti del fondo, fra cui spiccano i tanti ortolani dell’associazione “Orto dei 100 passi” impegnati a coltivare e produrre sia generi alimentari che socialità, che quasi non credono ai loro occhi vedendo arrivare tante delegazioni della Flai, dalla Calabria, dalla Sicilia, fino alla Toscana. Le musiche popolari dei gruppi che hanno trovato nel fondo un luogo accogliente dove poter suonare accompagnano un corteo di migliaia di persone. Un risultato non scontato in una città di 55mila abitanti che è medaglia d’oro della Resistenza, ma che ha visto sciogliere per due volte il consiglio comunale per le infiltrazioni della criminalità. “Chi non salta camorrista è”, cantano i manifestanti, compresi i migranti di Gioia Tauro. Dal palco prende la parola Giuseppe Carotenuto che presiede l’Alpaa: “La dovevamo fare questa manifestazione, anche per dare voce ai tanti terreni confiscati alle mafie che sono nella stessa nostra situazione. Ma noi resisteremo, un minuto più della camorra”. Poi Giovanni Mininni, segretario generale della Flai: “Questa non è una manifestazione rabbiosa. Noi dimostriamo oggi che la nostra forza è la gioia, è la prospettiva, è l’umanità. Un’umanità che parte dalle cose concrete che il Fondo Nappo fa, e che vuole indicare allo Stato che devono essere fatte, in territori dove la camorra opprime anche gli spazi democratici, dove la politica non a caso è sempre più debole. E chi ne paga le conseguenze sono le lavoratrici e i lavoratori”. Mininni ricorda l’importanza di Libera in questo cammino virtuoso, anche sul piano legale per difendere il Fondo Nappo dalle pretese della malavita, e ancor prima promuovendo la legge di iniziativa popolare che portò alla confisca dei beni mafiosi. Così quando sale sul palco don Luigi Ciotti lo accompagna un’ovazione: “Se la politica non costruisce la giustizia sociale - ammonisce - diventa criminogena. E non c’è legalità se non c’è uguaglianza. Ma purtroppo questo paese sta vivendo una profonda emorragia di umanità, basta vedere come trattiamo i migranti”. Maurizio Landini apre criticando il “decreto lavoro” del governo sia nel metodo che nel merito: “Aumenta la precarietà e l’insicurezza”. Affermando poi senza mezzi termini che “il taglio del reddito di cittadinanza è una follia”. Infine tira le somme della giornata: “Trasformare i beni confiscati in una possibilità di riconquista della democrazia e di lavoro è doppiamente importante. E penso ci sia bisogno di mandare un messaggio più generale, che chieda alle istituzioni e al governo di fare tutto ciò che è necessario per fare in modo che queste esperienze possano produrre. Perché la vera sconfitta della malavita organizzata è quella di far prevalere la forza dello Stato, dei cittadini, della democrazia”. La lotta dei sardi contro le basi militari e i poligoni sull’Isola non si ferma di Diletta Bellotti L’Espresso, 30 aprile 2023 La Sardegna è il luogo più militarizzato d’Europa tra poligoni (anche pericolosi per la salute) e basi. La protesta degli abitanti è una battaglia contro i guasti dell’industria bellica. Gli appunti che tengo per il 25 aprile sono molteplici e debitamente onerosi: ogni anno cercare di riscrivere una definizione di antifascismo che sia alla portata dell’idra di fascismi che ci attornia. Tra tutti, l’avvicinarsi della mobilitazione del prossimo 28 aprile, a Dèximumannu (Decimomannu) in Sardegna, mi fa sottolineare con forza a penna: l’antifascismo è antimilitarismo, l’antifascismo è contro ogni imperialismo. Un modo utile per sciogliere i nodi dei sillogismi che abbiamo, coscienziosamente, scolpito sulla pietra, è ripercorrere la resistenza sarda. Per farlo, un filo da seguire inizia nel 1969, con la rivolta di Pratobello, in cui la popolazione locale si oppose, con successo, all’occupazione dell’esercito italiano per delle esercitazioni militari. Da lì, non si è mai spenta la resistenza per la liberazione del territorio sardo, contro l’esercito italiano e la Nato. Al momento attuale, sono 37.374 gli ettari militarizzati sull’isola, con annessa un’occupazione e un inquinamento aereo e delle falde acquifere incommensurabile. Non c’è luogo, in Europa, più militarizzato della Sardegna. Il 65% del demanio militare italiano, ovvero delle opere permanenti adibite a difesa nazionale, è sull’isola. Tra le varie “servitù militari”, come si dice in gergo, troviamo i due poligoni più grandi d’Europa: a Teulada, con un’estensione di 134 km quadrati, ovvero più dell’intera città di Cagliari. A Salto di Quirra c’è invece un poligono sperimentale che ha visto lanci di missili al torio, notoriamente radioattivi, famigerato luogo, infatti, di sfacelo sanitario: la cosiddetta sindrome di Quirra. Si aggiungono la basi di S’Ena Ruggia, di lago Omodeo e di Capo Frasca; l’ultimo di 1.500 ettari, con appunto l’annessa base di Decimomannu, con uno spazio aereo gestito dall’Aeronautica italiana in ambito Nato; oltre che un numero indefinito di basi “segrete” di cui non si conosce la superficie esatta né le attività svolte. In Sardegna, durante le esercitazioni viene utilizzato un numero equivalente all’80% del munizionamento totale sparato sul territorio italiano. Storicamente, la povertà e la marginalità sociale sono state strumentalizzate dal governo e le amministrazioni locali per tentare di piegare una popolazione alla militarizzazione e alla colonizzazione delle risorse. Ricordiamo con imbarazzo la dichiarazione dei generali che lodavano, qualche mese fa, le esercitazioni Nato in Sardegna, per le “straordinarie opportunità per il turismo e le lavanderie” offerte all’isola. La repressione nei confronti di chi lotta per la propria terra non si fa mai attendere: in ambito del processo Lince, sono sotto inchiesta 43 attivisti appartenenti al movimento sardo contro l’occupazione militare con diverse accuse, di cui cinque con aggravante di terrorismo (270 bis), per le lotte tra il 2014 e il 2018. È devastante l’uso da parte dell’industria bellica del territorio sardo, terra dove viene delocalizzato il coinvolgimento italiano nei conflitti mondiali e dove viene occultata e invisibilizzata la responsabilità delle guerre imperialiste e la scelta, giornaliera, di foraggiare gli eserciti a scapito di territori che non dovrebbero appartenere a nessuno se non a chi li abita. La speranza è nella prassi sarda, narrata nella canzone, in sardo nell’originale, della rivolta di Pratobello: “Non banditi, ma partigiani hanno dimostrato ai capitalisti che solo con il bastone e con le mani Orgosolo manda via i fascisti”. La proliferazione degli arsenali. Ora l’Atomica non più un tabù di Gianluca Di Feo La Repubblica, 30 aprile 2023 La Russia che riarma la Bielorussia, gli Usa che offrono uno “scudo” alla Corea del Sud. E le basi europee, Italia compresa, accolgono bombe più moderne. L’equilibrio del terrore si sta pericolosamente incrinando. La terribile equazione messa a punto durante la Guerra Fredda per tenere a freno gli arsenali nucleari, senza però riuscire a smantellarli nel trentennio della pace, comincia a perdere pezzi. Vengono schierate altre testate, sospesi accordi di garanzia e soprattutto inaspriti i toni retorici del confronto: è come se l’invasione dell’Ucraina avesse provocato una slavina, all’inizio lenta ma che accelera ogni giorno, rischiando di riaprire i cancelli dell’Apocalisse. Nei discorsi dei leader gli ordigni atomici non sono più un tabù: stanno diventando un argomento quotidiano, spingendo dal Baltico al Pacifico a interrogarsi sulle prospettive concrete di impiego delle atomiche. In Bielorussia i preparativi per l’arrivo delle testate promesse da Putin sono stati completati. I piloti dei caccia Sukhoi 25 e il personale dei missili Iskander hanno terminato l’addestramento: entrambi opereranno nella regione occidentale, proprio sui confini della Nato. Sono state mostrate le esercitazioni dei semoventi e i lavori per ripristinare la vecchia base nascosta tra i boschi, dismessa alla fine dell’Urss. Adesso manca solo la consegna delle bombe russe destinate ai reparti di Lukashensko. Una mossa decisa con l’intento di provocare una reazione a catena. La Polonia, che negli scorsi mesi aveva avviato colloqui con gli Stati Uniti per valutare il posizionamento nel Paese di ordigni americani, finora non ha reagito: la Casa Bianca sta facendo di tutto per impedire la proliferazione e ha discretamente promesso che le batterie contraeree di Patriot non lasceranno il Paese, tutelato comunque dai trattati atlantici. Le stesse motivazioni hanno spinto il presidente Biden ad annunciare “lo scudo nucleare” sulla Corea del Sud, in cambio della rinuncia di Seul a costruire una propria capacità autonoma. Un’intesa puramente difensiva, che di fatto ha scavato una crepa nei rapporti di forza su cui fa leva il ministero degli Esteri russo: “È un passo destabilizzante - ha dichiarato Mosca - che può scatenare una corsa agli armamenti”. Si tratta di un nuovo fronte, quello asiatico, che non era mai stato protagonista del duello atomico. Ora non bisogna fare i conti solo i disegni imprevedibili di Kim Jong-un, che continua a perfezionare missili e ogive, ma anche con il rapido sviluppo dell’Esercito Popolare cinese: Pechino vuole portare da 400 a 1.500 le sue testate, senza bisogno di rispettare accordi che non ha mai siglato. Questa potenza lancia un’ombra sinistra su due continenti e potrebbe condizionare le scelte di altre nazioni. Tra le più preoccupate c’è l’Australia, che dopo avere varato l’acquisto di sottomarini a propulsione nucleare ha preso in considerazione l’adozione dei bombardieri “invisibili” B-21. Il governo di Canberra non intende dotarsi di atomiche, ma i recenti atterraggi dei B-52 venuti dagli States hanno riacceso la discussione sulla presenza di quelle statunitensi. Non è un caso. Il Pentagono oggi deve cambiare strategia e misurarsi per la prima volta nella storia con lo scenario di una duplice sfida: alla Russia si è aggiunta la Cina e questo impone di ridefinire tutti gli schemi della deterrenza. Il problema era già stato affrontato in maniera muscolare dalla presidenza Trump che nel 2018 ha ordinato di incrementare la produzione di “noccioli” al plutonio per modernizzare tutte le testate, con un programma che punta a realizzarne ottanta l’anno entro il 2030. Per questo oltre ai laboratori di Los Alamos, quelli del Manhattan Project dove vennero messe a punto le bombe di Hiroshima e Nagasaki, si sta trasformando l’impianto di Savannah River. Washington però non intende abbassare la guardia nei confronti di Mosca. Dieci giorni fa un aereo molto speciale ha attraversato l’Europa evitando il più possibile di sorvolare la terraferma: si è mosso lungo rotte illogiche per restare sul mare ed è sceso su tre basi altrettanto particolari. Per questo si ritiene che il C-17 Globemaster abbia trasferito trenta nuove B61-12 per rimpiazzare le vecchie “bombe tattiche” di Ghedi (Brescia), Pordenone (Aviano) e di Incirlik, in Turchia. Sono custodite da personale americano per essere impiegate anche dalle squadriglie alleate, incluse quelle dell’Aeronautica italiana. L’operazione top secret, pianificata da tempo, è venuta a coincidere con il momento di massima tensione internazionale. Sulla carta, queste armi hanno la stessa carica distruttiva di quelle che sostituiscono - sono inferiori a 50 kilotoni ossia circa due volte quella dell’ogiva che rase al suolo Nagasaki - ma possono penetrare nel suolo, aumentando l’effetto devastante. Mostri che l’umanità sperava di avere dimenticato e che tornano a minacciare il futuro del pianeta: l’orologio che indica simbolicamente quanto manca all’Apocalisse segna 50 secondi. L’allarme non era mai stato così drammatico, neppure nei giorni più cupi della Guerra Fredda, Libia. “Africani torturatori”. Al-Zawiya si solleva contro le milizie di Ester Nemo Il Manifesto, 30 aprile 2023 Un video di presunte torture su giovani libici fa esplodere la rabbia contro le autorità locali e quelle di Tripoli. Ma il timore ora è che a pagare siano i migranti. A ovest della capitale libica, è da Al-Zawiya è che si imbarcano tantissimi subsahariani. E sono loro oggi i più a rischio dopo i disordini scaturiti da video pubblicati online di torture perpetrate su giovani libici. I responsabili, secondo l’opinione pubblica, sarebbero non meglio identificati “africani”. Al soldo, dicono, delle milizie attive ad al-Zawiya. Che mercoledì scorso si è sollevata, in prima fila gli studenti universitari: hanno prima sospeso le lezioni e poi chiamato alla disobbedienza civile contro le autorità locali e nazionali. In Piazza dei Martiri hanno dato alle fiamme copertoni, poi hanno bloccato le strade e chiuso gli ingressi a una delle più grandi raffinerie libiche. Moltissimi giovani, giovedì all’alba, di fronte alla sede della sicurezza, hanno letto le loro richieste: sospensione del consiglio comunale, elezioni municipali, licenziamento del responsabile della sicurezza della città e ritiro dei mezzi militari. Alla fine i veicoli militari se ne sono andati venerdì mattina. Ma il problema che resta è di legittimità: quella dei ministeri di Interni e Difesa del governo con sede a Tripoli, ritenuti i responsabili della repressione interna, e quella più generale di un esecutivo che gode di un’autorità dimezzata dalla presenza, nell’est della Libia, di un esecutivo rivale. I timori maggiori, però, restano quelli dei migranti subsahariani, accusati in toto di farsi mercenari per le milizie locali, parte di quell’arcipelago di gruppi armati che ha diviso la Libia in una galassia di città-stato. C’è chi vede in quei video la scusa per una caccia alle streghe che destabilizzi Tripoli e il suo premier Abdulhamid Dbeibeh. Tra i principali indiziati il primo ministro di Tobruk, Fathi Bashagha, che su Facebook ha rilanciato le immagini che hanno scatenato in Al-Zawiya una rabbia che montava già: il 23 aprile scontri tra milizie rivali avevano ucciso quattro civili. A fine febbraio due i morti in scontri tra un gruppo legato al ministero degli Interni e un altro alla Difesa di Tripoli. Nemmeno lì c’è unità. Stati Uniti. L’impegno di Biden per i giornalisti americani detenuti illegalmente all’estero di Alberto Simoni La Stampa, 30 aprile 2023 All’annuale appuntamento “White House Correspondents’ Association Dinner” il presidente ha dedicato i primi dieci minuti del suo intervento a Evan Gershkovich, il reporter del Wall Street Journal accusato di spionaggio in Russia. Il presidente americano Joe Biden ha usato il palco dell’annuale White House Correspondents’ Association Dinner per confermare l’impegno della sua Amministrazione a favore dei giornalisti americani detenuti ingiustamente in Russia, Siria e in altri Paesi. La cena dell’associazione dei giornalisti che costantemente seguono la Casa Bianca si è svolta nel centralissimo hotel Hilton a Washington. Ed è una tradizione che il presidente ogni anno vi partecipi. Solo Donald Trump, in perenne conflittualità con la stampa l’aveva disertata e aveva attaccato i media e l’associazione (WHCA) definendola ormai morta. Biden ha parlato davanti a 2.600 ospiti fra giornalisti, vip, personaggi della politica, esponenti dell’Amministrazione e ha detto che “la stampa è il pilastro della democrazia”. Ha quindi citato Thomas Jefferson sottolineando che a un governo senza stampa, preferisce una stampa senza governo. Quindi ha dedicato i primi dieci minuti del suo intervento - durato 21 minuti, contro i 15 del 2022 - per ricordare gli sforzi per riportare a casa Evan Gershkovich, il reporter del Wall Street Journal accusato di spionaggio in Russia. In sala c’erano i famigliari dei giornalisti. Molti degli ospiti indossavano una spilla con la scritta “Free Evan”. Ha ricordato poi la vicenda di Austin Tice, ex marine, tre tour in Iran e due in Afghanistan, giornalisti inghiottito dal regime siriano sin dal 2012. Il Dipartimento di Stato ritiene che sia ancora vivo e Biden ha ribadito alla madre Debra Tice, presente in sala, che la sua Amministrazione farà ogni sforzo. “Abbiamo fede per Austin, non ci arrenderemo”, ha detto Biden. Tra gli ospiti anche Brittney Griner, la cestita dei Phonenix Mercury che ha trascorso quasi dieci mesi in una cella in Russia. È stata liberata il 9 dicembre. A lei è stata dedicata una standing ovation quando il presidente l’ha indicata e ringraziata fra le persone in sala. Brittney era al tavolo della CBS insieme alla moglie Cherelle. Quindi il presidente ha ricordato Paul Whelan, americano detenuto dal dicembre del 2018 in Russia e i cui sforzi per liberarlo insieme a Griner sono falliti lo scorso anno. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a entità russe - l’FSB - e ai “Guardiani della Rivoluzione” iraniane per le detenzioni illegali due giorni fa evidenziando ulteriormente gli sforzi per contrastare le azioni contro i giornalisti che avvengono in Paesi come Birmania, Venezuela, Iran, Siria (li ha citati il presidente). “Questa sera il nostro messaggio è questo: il giornalismo non è un crimine”, ha quindi concluso il presidente ribadendo l’importanza di difendere con la stampa le democrazie contro le autocrazie. La cena è stata aperta con un video di Arnold Schwarzenegger che ha evidenziato l’importanza di una stampa libera. Tamara Keith, presidente della WHCA e reporter della NPR, ha detto che ci sono centinaia di giornalisti detenuti ovunque nel mondo solo per aver fatto il proprio lavoro. Il presidente Biden era seduto al tavolo d’onore sul palco insieme a Kamala Harris e al comico Roy Wood. Nel suo discorso, come da tradizione, il presidente ha ironizzato e scherzato. Sui media, su Trump, sulla sua età, sulla causa di diffamazione di Dominion Voting Systems contro Fox News. La cena dei corrispondenti è una delle tradizioni più longeve e attese a Washington. La prima fu nel 1921, ma fu solo nel 1924 che i presidenti - allora fu Calvin Coolidge - cominciarono a parteciparvi. Generalmente ci sono sempre dei comici o degli artisti a tenere un keynote speech. Israele. A Tel Aviv nuova protesta di massa contro la riforma della giustizia open.online Un fiume di persone a Tel Aviv è sceso in strada per la 17esima settimana consecutiva di proteste contro la riforma giudiziaria del governo di Benyamin Netanyahu. Secondo quanto riportato dai media locali, le manifestazioni nella giornata di oggi, 29 aprile, sono andate avanti in 150 luoghi del Paese con circa 200mila persone coinvolte. “Mai arrendersi”, una delle scritte giganti apparse sugli striscioni tenuti dalla folla. Al grido di “democrazia” e “libertà”, le migliaia di persone hanno percorso il viale Kaplan di Tel Aviv con bandiere e cartelli in difesa della Corte Suprema, nel mirino della nuova riforma pensata per ridurne i poteri. A intervenire in un video messaggio diffuso durante la manifestazione nella capitale israeliana il premier spagnolo Pedro Sanchez, anche presidente dell’Internazionale socialista: “L’organizzazione ha sempre lottato per la libertà, l’eguaglianza, la giustizia e la democrazia”, ha detto, “e come molti di voi sanno, questi sono valori che non possiamo dare per scontati e per i quali occorre lottare ogni giorno”. Nelle ultime ore il leader dell’opposizione Yair Lapid, parlando alla dimostrazione a Kfar Saba, ha attaccato il ministro della giustizia Yariv Levin, uno degli ideatori della riforma. “Lo stesso uomo che ha dichiarato guerra alla Corte Suprema non può, e non potrà, essere lo stesso che nomina il prossimo presidente della Corte Suprema”, ha dichiarato. Mentre la Knesset, il parlamento di Israele, si prepara a riprendere la sua attività dopo un momento di pausa, con il governo che appare intenzionato ad approvare alcuni provvedimenti legati alla riforma, gli organizzatori delle proteste hanno annunciato per giovedì prossimo una nuova manifestazione. Messico. Una carovana migrante contro la crisi umanitaria di Caterina Morbiato Il Manifesto In 3.500 si sono messi in cammino in direzione del confine con gli Stati uniti per chiedere diritto al libero transito e giustizia per le 40 persone morte il mese scorso nell’incendio del centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. La corruzione delle forze dell’ordine, le estorsioni di gruppi criminali e la miseria rendono gli spostamenti sempre più letali. “Tapachula è un carcere a cielo aperto”, mi dice Danny Turcio, honduregno di trentotto anni. In questa città rovente, al confine tra Messico e Guatemala, Turcio ci è arrivato circa due mesi fa, abbandonando la sua casa di Tegucigalpa per sfuggire alla morsa delle estorsioni che gli venivano imposte sia dalla polizia come dalle gang Mara Salvatrucha 13 e Barrio 18. Sono le due del pomeriggio di domenica 23 aprile. Siamo nel paesino di Álvaro Obregón, nello Stato del Chiapas. Danny Turcio non è l’unico honduregno ad essere qui oggi: lo accompagnano centinaia di altri connazionali che, come lui, hanno deciso di lasciarsi alle spalle Tapachula per unirsi alla Carovana migrante Via crucis e cercare di avvicinarsi, anche se solo per una manciata di chilometri, agli Stati Uniti. La carovana, organizzata dall’associazione per i diritti umani Pueblo Sin Fronteras, è partecipata anche da persone provenienti da Venezuela, El Salvador, Nicaragua, Sudan, Cina e altri paesi del mondo. Sono in circa 3.500 ad essersi messi in cammino chiedendo il diritto al libero transito e giustizia per le 40 persone morte il mese scorso nell’incendio del centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. Nel 2021 gli arrivi di persone migranti al confine meridionale del Messico sono aumentati esponenzialmente, con quasi 90 mila domande di riconoscimento dello status di rifugiato registrate nella sola Tapachula dalla Commissione messicana per l’assistenza ai rifugiati (Comar). Tuttavia, le procedure delle autorità di migrazione procedono troppo lentamente e migliaia di persone rimangono intrappolate a Tapachula in condizioni difficili, con accesso limitato ai servizi di base come cibo, acqua e alloggio. Rischiano inoltre di cadere vittime di reti criminali che sfruttano la vulnerabilità di coloro che fuggono da crisi politiche, economiche e di sicurezza nei loro Paesi d’origine. “Non ho mai creduto nelle carovane”, continua Turcio, e mi spiega che ha deciso di unirsi a questa marcia collettiva dopo aver calcolato che la sua procedura di immigrazione sarebbe potuta durare fino a settembre. “Il sistema è molto lento. Se perdo il lavoro, come sopravvivo? Il governo non investe più fondi per accelerare le pratiche”. A differenza di molti altri migranti, Turcio ha avuto la fortuna di trovare lavoro come stagionale in una piantagione di mango dove caricava casse da 70 kg per 12 ore al giorno. Con quello che gli pagavano, circa 300 pesos (15 euro) a giornata, non riusciva però a vivere un’esistenza degna. Tapachula, l’entrata meridionale per eccellenza al territorio messicano, è una piccola città con un’antica storia migratoria. Nel 2006, in questa città dello Stato del Chiapas è stato inaugurato il centro di detenzione per migranti Siglo XXI, il più grande del Paese. Negli ultimi anni, sempre più persone di diverse nazionalità arrivano fino a qui per poi cercare di raggiungere gli Stati uniti. Percorrendo rotte infinite e pericolose -come il Tapón de Darién, la selva che segna il confine tra Colombia e Panama, una delle regioni più letali al mondo per i migranti- arrivano da Haiti, Kirghizistan e Camerun. C’è chi può dormire in hotel, comprare un permesso d’immigrazione -grazie alla corruzione sistemica che esiste nell’Istituto nazionale di migrazione - e andarsene rapidamente. La maggior parte dei migranti però rimane bloccata in questa “città trappola” per mesi, impiegata in lavori sottopagati, o vendendo empanadas di pollo e uova, taniche di gas o schede telefoniche in alcune piazze del centro storico. “Sono in questa carovana per evitare la corruzione che esiste in Messico. Mi sento più sicuro a viaggiare così, possiamo superare i posti di blocco migratori dove ti chiedono soldi o ti deportano”, dice Jorge, un giovane originario dell’Ecuador. A Ventanas, una città della provincia de Los Ríos, Jorge era fornitore di legname. Con la sua attività poteva vivere in modo dignitoso. Quello che sta vivendo ora -un esodo iniziato quasi tre mesi fa attraverso sei Paesi- gli pesa addosso come un brutto sogno dal quale non riesce a svegliarsi. La vita di Jorge e della sua famiglia ha subito una brusca svolta quando gruppi criminali hanno iniziato a imporgli la vacuna, ovvero un’estorsione mensile. A partire dal 2022 in Ecuador l’estorsione ha registrato un aumento preoccupante e nei mesi recenti a Tapachula si è iniziata a registrare la presenza di sempre più persone provenienti da questo Paese. La frustrazione causata dal limbo legale spinge molte persone a lasciare Tapachula senza aver ottenuto i documenti migratori e ad affrontare una strada piena di difficoltà: assalti, posti di blocco migratori, estorsioni tanto da parte di gruppi criminali come delle autorità. Ecco perché l’annuncio della carovana, con volantini affissi in tutto il centro della città, ha attirato così tante persone. Spostarsi in carovana, come un corpo unico, non evita tutti i pericoli, ma garantisce un minimo di protezione. Avendo la possibilità di muoversi insieme a migliaia di altre persone e avendo sentito parlare dei lunghi tempi delle Comar, in questa città-carcere Jorge non ha voluto rimanerci nemmeno un giorno in più. Dopo aver percorso più di 60 chilometri a piedi con temperature superiori ai 35 gradi, Jorge e Danny sono arrivati, insieme al resto della carovana, fino alla cittadina di Villa Comaltitlán. È qui che, dopo giorni di trattative, lo scorso giovedì l’Istituto nazionale di migrazione (INM) ha annunciato che rilascerà ai partecipanti della carovana un permesso per motivi umanitari affinché possano muoversi “in maniera regolare” nel territorio messicano per 45 giorni. La notizia della concessione dei permessi migratori è stata inizialmente festeggiata da coloro che hanno preso parte alla carovana migrante. Bisognerà ora vedere se i tempi per le pratiche saranno finalmente umani o se di nuovo la gente verrà intrappolata in un’asfissiante burocrazia. D’altra parte, lo scioglimento di questa camminata collettiva e sofferta -in cui, inoltre, un cittadino honduregno ha perso la vita- fa diminuire sia l’attenzione dei media sia la pressione sul governo di Andrés Manuel López Obrador in materia migratoria. Intanto, a un mese dalla tragedia di Ciudad Juárez, la giustizia langue. Per l’incendio era stato citato in tribunale Francisco Garduño, capo dell’INM. Garduño è stato però rilasciato questo mercoledì e rimarrà in carica nonostante le accuse contro di lui per l’esercizio improprio del servizio pubblico.