Lettera aperta a Papa Francesco dalla redazione di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2023 Caro Papa Francesco, vogliamo rivolgerti un pensiero e una richiesta accorata. Il pensiero è per la tua salute, che ci sta particolarmente a cuore, la richiesta è di non dimenticarti di noi detenuti, e delle nostre famiglie. “Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. […] L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Partiamo da queste tue considerazioni, espresse nell’enciclica “Fratelli Tutti”, per denunciare le condizioni in cui noi carcerati ci ritroveremo fra pochi giorni. Dopo la chiusura delle porte delle carceri, a causa della pandemia, sia alle visite dei parenti, che a tutto il resto della “società civile”, dopo le rivolte avvenute principalmente per quelle restrizioni e per la paura di essere lasciati soli, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva invitato tutti i Direttori degli istituti di pena a incrementare quanto più possibile i colloqui telefonici con i nostri famigliari. Così in molte carceri da allora abbiamo potuto effettuare una telefonata al giorno di dieci minuti. Siamo andati avanti in questa maniera per circa tre anni. Inoltre, i colloqui in presenza sono stati sostituiti con la videochiamata, così da permetterci di mantenere i contatti con le nostre famiglie. Prima della pandemia a noi carcerati era consentita una telefonata alla settimana - sempre di dieci minuti - e sei ore di colloquio visivo al mese. Se ci pensi bene, sei ore al mese fanno tre giorni all’anno, tre miseri giorni da dedicare alle nostre famiglie. A Padova però le telefonate erano due a settimana, grazie alla disponibilità dei direttori che si sono succeduti alla guida della Casa di Reclusione a usare la loro discrezionalità per autorizzare una telefonata in più a settimana, in considerazione della situazione di particolare difficoltà in cui si trovavano le persone detenute anche prima del Covid: basta pensare al sovraffollamento, alla mancanza di personale, ai suicidi, agli atti di autolesionismo. Ora, pare che la cessata emergenza pandemia stia portando a una “normalizzazione” da parte dell’amministrazione, con il ritorno alla telefonata settimanale per larga parte delle persone detenute, rispetto a quello che dovrebbe essere riconosciuto come un diritto agli affetti della persona detenuta. Per tre anni non si sono verificati problemi legati alla sicurezza, anzi, la telefonata giornaliera ha rasserenato gli animi e avvicinato le famiglie più che mai; inoltre non c’è stato nessun aggravio di spesa per l’amministrazione penitenziaria, perché le telefonate sono a carico delle persone detenute, come del resto sono sempre state anche quando erano una sola alla settimana. E su questo vorremmo aggiungere che sarebbe importante che si pensasse a sostenere le persone detenute più disagiate, per permettere anche a loro di chiamare spesso i loro cari. E quanto al personale, poco e affaticato dalle tensioni e da un clima di sfiducia e ansia, dalle telefonate in più per le persone detenute può solo guadagnare un po’ di serenità in un lavoro, certamente non facile. Ci chiediamo per quale motivo si vuole far ripiombare nella solitudine e nella disperazione noi carcerati e le nostre famiglie. Sembra quasi una volontà di vendetta nei confronti di chi ha sbagliato, volontà di punire e punire e basta. Nonostante nelle prigioni italiane solo nell’anno 2022 si siano registrati 84 suicidi, in larga parte dovuti alla solitudine e all’abbandono, e alla mancanza di empatia da parte della società rispetto alla sofferenza di chi sta in carcere. Ma tu Papa Francesco di empatia ne hai sempre dimostrata tanta, ecco perché scriviamo a te e chiediamo di farti avere questa lettera. Di fronte alla drammatica EMERGENZA dei suicidi, auspichiamo che i direttori delle carceri, il DAP, la magistratura di Sorveglianza, la politica in generale, possano ragionare sull’opportunità di fronteggiare questa situazione incrementando, e non riducendo, le opportunità di riavvicinamento tra i carcerati e le proprie famiglie. Non ci sembra che questo implichi avere sconti o favori, anzi, sarebbe un’opportunità per chi amministra la Giustizia di mostrare un altro volto, quello inedito della tenerezza, “un modo inaspettato di fare giustizia”, come lo hai definito proprio tu, Papa Francesco. Caro Papa Francesco, in occasione della prima Giornata di Studi dopo la pandemia, alla Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova, il 19 maggio 2023, che porterà in carcere centinaia di cittadini a dialogare con molte persone detenute e con i loro famigliari, e si intitolerà proprio “La tenerezza e la Giustizia”, ti chiediamo di intervenire, se puoi, attraverso un collegamento in videoconferenza, per farci ascoltare le tue sagge parole e per farci sentire la tua vicinanza. La tenerezza e la Giustizia “La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”. (Papa Francesco). 19 maggio, Casa di reclusione di Padova Un battito di ciglio di Mattia Feltri La Stampa, 2 aprile 2023 Chiedo: è diritto tenere in cella per centodieci giorni, in detenzione preventiva, Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo? È diritto averle fatto trascorrere le prime sedici ore in carcere senza riscaldamento e senza acqua? È diritto negarle gli arresti domiciliari e negarle di stare con la figlia che ha due anni? È diritto negare da quasi quattro mesi a una bambina di due anni il diritto di stare con la madre? È diritto tenere in carcere i bambini per non scarcerare le madri? È diritto negare a questi bambini il diritto minimo di crescere in case famiglia con le loro madri per il gusto di incarcerare madri sospettate di usare i loro figli per non andare in carcere? È diritto ma, soprattutto, è logica? È diritto, poiché è finita la pandemia, sottrarre la possibilità ai detenuti di fare una telefonata al giorno a casa, e tornare a una sola telefonata a settimana? È diritto o è burocrazia? È diritto o è vendetta? È diritto, poiché è finita la pandemia, proibire a un bambino o a un ragazzo di salutare ogni giorno il padre incarcerato? È diritto - come ha scritto qui ieri magnificamente Massimo Cacciari - vietare all’anarchico Alfredo Cospito di leggere la Bibbia poiché è sottoposto al 41-bis, il famoso carcere duro? È diritto vietargli di leggere la Bibbia perché lo si giudica ancora pericoloso? È diritto o è ferocia? Lo chiedo soprattutto alla premier, alla donna, alla madre e specialmente alla cristiana: è diritto? E lo chiedo a tutti noi, che ogni giorno chiediamo diritti: abbiamo il diritto di pretendere diritti, noi che davanti alla violazione del diritto, il più basilare, non battiamo ciglio? “Il condannato è una persona di cui bisogna difendere la dignità”. Il coraggio del giudice Morosini di Davide D’Alessandro huffingtonpost.it, 2 aprile 2023 Il presidente in pectore del Tribunale di Palermo, parla ai giovani laureandi di Giurisprudenza della Luiss e li invita a non smarrire la passione civile: “Troppo spesso in Italia si professa la politica del buttare la chiave”. Non capita tutti i giorni che il Presidente in pectore del Tribunale di Palermo parli ai giovani laureandi di Giurisprudenza, a quelli che vengono definiti “i giuristi” di domani, a chi si ritroverà nelle Aule delle Istituzioni ad amministrare la giustizia o a legiferare sulla stessa. Eppure, ieri pomeriggio, presso l’Università Luiss, il magistrato Piergiorgio Morosini, sotto l’attenta regia della professoressa e avvocato Paola Balducci, a coronamento del corso di Processuale penale ed Esecuzione penale, prima ha ascoltato con estrema attenzione gli studenti mentre simulavano un procedimento di sorveglianza con tanto di arringhe e sentenza finale, poi si è rivolto loro con un discorso toccante, di rara umanità: “Mi congratulo per la preparazione, la professionalità, ma soprattutto per la passione con cui avete affrontato questi temi. Ritengo che la passione civile sia, soprattutto in questo momento storico, nella nostra società di oggi, un ingrediente fondamentale per affrontare materie che riguardano la persona, la dignità, la speranza di ogni detenuto. Ricordatevi che magistrati e avvocati hanno responsabilità notevoli. Le persone che incontrerete, che vorranno difendere i loro diritti nelle aule dei tribunali, non vi dimenticheranno mai, poiché vivranno esperienze irripetibili. Il cittadino non dovrà avere paura, ma fiducia nella vostra condotta. Vale per chi accusa, per chi difende e per chi giudica. Mi rendo conto che per una società che si fonda molto su profitti e bilanci, possa sembrare un discorso un po’ datato, ma il circuito giurisdizionale ha a che fare con le persone, con la loro dignità, con le loro speranze, con le loro paure. La passione civile del professionista è determinante”. Morosini, autore di due libri di rilievo, “Il Gotha di Cosa Nostra” e “Attentato alla giustizia. Magistrati, mafie e impunità”, pur operando contro il crimine, non ha mai smarrito la consapevolezza di un pericolo, di un rischio fatale: opporre crimine a crimine, abisso ad abisso, male a male. Esiste il crimine, esiste il colpevole, esiste il condannato, esiste il detenuto, ma esiste anche la dignità di chi ha sbagliato, la tutela nei confronti della persona: “Il condannato è, per la nostra Costituzione, una persona di cui bisogna difendere la dignità del luogo in cui è detenuto. Pensate soltanto al tema dello spazio delle celle, alle metrature. Non è qualcosa di così scontato nell’Italia, nell’Europa e nel mondo di oggi. Il tutto è messo costantemente in discussione da molti attori pubblici. Dovete interrogarvi, anche durante la parte finale di questa esperienza accademica in una Università prestigiosa: perché accade questo nel dibattito pubblico, che finisce per influenzare le scelte legislative, dell’esecutivo e talvolta anche le tre comprensioni della magistratura che valuta i casi? Non è un discorso che potete sottovalutare, quello del clima che si respira nel Paese di fronte a certi temi. Perché troppo spesso, nel nostro Paese, si professa la politica del “buttare la chiave”? Il carcere, inteso solo come luogo di contenimento, in modo che il detenuto non commetta altri reati e finisca per placare l’allarme sociale, purtroppo è un tratto permanente dell’esperienza penalistica italiana. Mario Sbriccoli, storico del diritto, che conoscerete, ha scritto sui tratti permanenti del sistema penale italiano. Ci sono radici storiche che spiegano certi fenomeni. In Italia ci sono organizzazioni criminali che permangono da oltre 150 anni, finendo per definire lo specchio della fragilità del nostro paese. I fatti di sangue hanno contribuito a rafforzare la mentalità del “buttare la chiave”, ma noi abbiamo avuto un costituente che con lungimiranza ha guardato alla dignità e alla speranza di chi ha sbagliato, una speranza di ravvedimento e di reinserimento. Dobbiamo allora saper distinguere e attenerci a quanto ci è stato insegnato, a quanto vi viene insegnato, per far sì che ci sia fiducia e non paura nei confronti del vostro operato. Mi auguro, anzi sono certo, che la passione civile che avete dimostrato vi accompagni e vi guidi nella vostra ormai imminente professione. Non conta se da magistrati o da avvocati”. Trasmettere l’applauso dei laureandi, l’emozione nei loro volti, le segrete speranze che hanno nel cuore, non è semplice. La professoressa Balducci ha ringraziato caldamente l’amico Morosini, gli ha fatto tanti auguri per il nuovo, complicato incarico e, rivolta ai giovani, con la loro stessa emozione, li ha salutati con una raccomandazione: “Non abbandonate mai i vostri sogni!”. Come non li ha mai abbandonati il magistrato, che torna a Palermo, città luminosa con un tribunale sempre esposto al carico di nuvole e di pioggia. Ma domani è un altro giorno anche per lui. “Non garantire il rapporto e gli incontri tra i genitori detenuti e i figli viola i diritti umani”: la sentenza della Cedu di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2023 La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha accolto il ricorso di un padre detenuto a cui era stato negato di vedere la figlia di dieci anni. Il rischio, secondo i magistrati lituani, era che l’incontro con i familiari o anche con la sola bambina potesse compromettere le indagini. La Cedu ha sanzionato la Lituania, ricordando che il rapporto tra padre e figlio va garantito, a prescindere dal reato, sulla base dell’articolo otto della Convenzione Onu per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L’uomo, ristretto nel carcere di Kaunas, in Lituania, era stato arrestato nel 2019 per traffico internazionale di stupefacenti. Secondo l’accusa, sarebbe stato l’esponente di spicco di un’organizzazione criminale che spostava grossi quantitativi di sostanze illecite tra Paesi Bassi, Lituania e Russia. Pur essendo in custodia cautelare in carcere, era riuscito diverse volte a procurarsi telefoni cellulari, con cui comunicava con l’esterno. Il pubblico ministero lituano l’aveva messo sotto stretta osservazione perché temeva che il detenuto entrasse in contatto con membri della sua organizzazione rimasti a piede libero. In aggiunta, gli aveva proibito visite e telefonate da chiunque eccetto il suo avvocato. Le richieste di vedere moglie e figlia erano state respinte diverse volte. “È sospettato di aver commesso reati gravi e gravissimi insieme a un gruppo organizzato”, avevano motivato i giudici. I magistrati gli avevano lasciato vedere la figlia una volta a tre mesi dall’arresto, dopo aver letto la relazione di uno psicologo per cui la bambina aveva sviluppato ansia e stress, forse dovuti alla reclusione del padre. Alle richieste successive, in cui l’indagato aveva invocato il primario interesse del minore, era seguito un rifiuto dopo l’altro. Dopo due ricorsi persi in appello in Lituania, l’uomo si era rivolto a Strasburgo, dove la Cedu ha contraddetto i giudici lituani. “Secondo le regole penitenziarie europee, anche quando le visite non sono fattibili su base settimanale, devono essere agevolati colloqui proporzionalmente più lunghi e meno frequenti, che consentano l’interazione bambino-genitore”, si legge nella sentenza. La corte di Strasburgo ha condannato lo Stato lituano a pagare 5mila euro di danni morali al detenuto e ha ammesso il ricorso. “È una vittoria”, commenta l’associazione Children of prisoners Europe che monitora i diritti dei bambini di persone recluse nelle prigioni europee. Per Cope, questo verdetto ricorda che “gli stati devono fare di tutto per tutelare il diritto di mantenere un legame sano tra i bambini e i loro genitori in carcere”. L’associazione è tra i promotori delle Raccomandazione del Consiglio d’Europa, una convenzione siglata nel 2018 da 47 paesi europei per tutelare il rapporto tra figli minori e detenuti e basata su una carta in vigore in Italia dal 2014, voluta dall’associazione Bambini senza sbarre e rinnovata nel 2021 dal Ministero della Giustizia e dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Un passaggio di questo testo, che ha fatto da supporto alla Cedu per formulare la sentenza, ribadisce che a tutela dello sviluppo del minore, genitore e figlio dovrebbero incontrarsi entro una settimana dall’ingresso in carcere e da quel momento avere contatti frequenti e regolari (art. 2 della Carta nazionale dei diritti dei figli di detenuti e art. 17 della Raccomandazione del Consiglio d’Europa). Il meccanismo però è ancora discrezionale, perché nessuno dei paesi firmatari ha tradotto in legge le raccomandazioni. Di conseguenza, episodi come quello avvenuto in Lituania non sono isolati. Tra i più noti, il caso di Eva Kaili, che avrebbe visto la figlia per la prima volta dopo un mese dall’ingresso in carcere. Anche allora, associazioni come Cope e hanno sottolineato l’urgenza di regolamentare una procedura unica e vincolante per i figli di detenuti in Ue. Ma nel frattempo, nulla è cambiato. Terni. Suicida l’uomo fermato per aver ucciso la moglie. L’avvocato: “Doveva essere sorvegliato” Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2023 Si è impiccato in carcere a Terni dove era stato portato in seguito al fermo per il femminicidio della moglie. Xhafer Uruci, 62 anni, aveva accoltellato a morte la donna, 56 anni. Nella notte tra giovedì e venerdì era stato sottoposto a fermo dalla polizia con l’accusa di omicidio volontario. Era stato bloccato subito dopo il delitto nella stessa casa dove la coppia di origini albanesi viveva. Secondo quanto riporta l’Ansa l’uomo era da solo in una cosiddetta cella di transito. Una procedura prevista in attesa dell’udienza nella quale il gip doveva esaminare la richiesta di convalida di fermo. L’uomo aveva già incontrato lo psicologo del carcere. La cella nella quale si è ucciso, inoltre, è vicina all’infermeria del carcere. I soccorsi sono stati quindi immediati ma per Uruci non c’è stato niente da fare. “Mi chiedo, come mai questa persona non era tenuta sotto stretta sorveglianza h24, a meno di due giorni dal grave fatto di sangue” dice l’avvocato Giorgio Cerquetti, difensore d’ufficio. Nell’interrogatorio davanti agli inquirenti l’uomo, bloccato in casa subito dopo il delitto, aveva chiesto scusa ed era apparso molto confuso. Il legale: “La sua condizione era precaria. Mi chiedo se ci sia stata la doverosa attenzione” - “Questa mattina - ha detto ancora l’avvocato Cerquetti - sono andato nel carcere di Terni per avere un colloquio con il mio assistito in vista dell’udienza di convalida che doveva essere ancora fissata. Lì ho incontrato il pubblico ministero che mi ha informato dell’accaduto. Nessuno mi aveva avvertito prima, sul posto c’era già personale della Usl, la polizia penitenziaria e quella di Stato”. “La sua condizione mentale - prosegue il legale parlando dell’uomo fermato - era assolutamente precaria, come era parso evidente a me, ma anche all’autorità giudiziaria, quando giovedì sera era stato sentito in questura. Ho avuto subito la percezione di una persona disturbata, sconvolta, mi è bastato parlarci qualche minuto. Impressione confermata anche nel successivo interrogatorio da parte del pm. Dai resoconti giornalistici ho appreso dei suoi problemi di salute, del fatto che assumesse farmaci, e queste condizioni problematiche, fisiche ma pure mentali, mi sono sembrate palesi. Anche per questo non lavorava più da anni. Mi chiedo se ci sia stata la doverosa attenzione, in carcere, verso una persona così provata e a poche ore dall’omicidio”. Dodicesimo suicidio da inizio anno -”Siamo al 12esimo suicidio di un detenuto nelle carceri italiane, cui aggiungere un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che solo qualche giorno fa si è tolto la vita in Campania. È una carneficina che si ha il dovere di fermare - commenta Gennarino De Fazio, Segretario Generale Uilpa Polizia Penitenziaria - Sovraffollamento detentivo, deficienze organizzative strumentazioni e tecnologie inadeguate e organici carenti in tutte le figure professionali, solo alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, spesso si traducono nell’inflizione di una pena di morte di fatto. Servono misure emergenziali e parallele riforme strutturali che reingegnerizzino l’architettura dell’esecuzione penale e, in particolare, quella carceraria. Il Governo passi dai proclami ai fatti, non c’è più tempo”. Anche il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe interviene: “Purtroppo - afferma il segretario per l’Umbria, Fabrizio Bonino - il pur tempestivo intervento dell’agente di servizio non è servito a salvare l’uomo, che è stato trovato impiccato alle sbarre della cella. Abbiamo sempre detto che la morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato”. Il sindacato: “Serve un netto cambio di passo “- Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi è quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Il suicidio di un detenuto, e dall’inizio dell’anno sono stati già 12 - afferma -, più un poliziotto che si è tolto la vita pochi giorni fa, rappresenta un forte stress per il personale di polizia e per gli altri detenuti e sconforta che le autorità politiche, penitenziarie ministeriali e regionali, pur in presenza di inquietanti eventi critici, non assumano adeguati ed urgenti provvedimenti”. Capece lancia poi un appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Serve un netto cambio di passo - afferma - sulle politiche penitenziarie del Paese. È necessario prevedere un nuovo modello custodiale. Ne abbiamo parlato anche recentemente con il sottosegretario alla Giustizia Del Mastro che ci è sembrato particolarmente sensibile. A lui abbiamo ribadito che tutti i giorni i poliziotti penitenziari devono fare i conti con le criticità e le problematiche che rendono sempre più difficoltoso lavorare nella prima linea delle sezioni delle detentive delle carceri, per adulti e minori. Mi riferisco alla necessità di nuove assunzioni nel Corpo di polizia penitenziaria, corsi di formazione e aggiornamento professionale, nuovi strumenti di operatività come il taser, kit anti-aggressioni, guanti antitaglio, telecamere portatili. Tutte misure promesse da mesi dai precedenti vertici ministeriali ma di cui non c’è traccia alcuna in periferia”. Il garante dei detenuti: “Sovraffollamento e carenza di organici” - “Il secondo suicidio dall’inizio dell’anno al carcere di Terni deve essere motivo di riflessione e non di facili conclusioni” dice l’avvocato Giuseppe Caforio, Garante per la Regione Umbria delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. Parlando con l’Ansa il garante evidenzia soprattutto il problema del sovraffollamento e della carenza degli organici. “Le carceri umbre e segnatamente quello di Terni - sottolinea Caforio - stanno vivendo un momento delicato dovuto almeno a tre fattori concomitanti: ci sono circa 550 detenuti a fronte di una capienza prevista per 450, di cui 150 con problematiche psichiatriche serie con molti di loro incompatibili con la carcerazione; gravi carenze di organico nella polizia penitenziaria con Terni che ha il rapporto più deficitario tra numero di detenuti e agenti penitenziari; carenze sanitarie specie di psicologi e psichiatrici”. Per il Garante “il suicidio di un detenuto è una sconfitta del sistema e getta scompiglio psicologico fra i detenuti e fra gli agenti penitenziari alterando i delicati equilibri dell’intera comunità carceraria”. “Encomiabile in questo contesto - prosegue - è il lavoro della polizia penitenziaria che con abnegazione e umanità spesso si sostituisce al personale sanitario. Per arginare l’attuale contesto occorre una task force di psicologi e psichiatri che possa essere di supporto in una sorta di burnout ai detenuti e agli agenti penitenziari fortemente provati da eventi come quelli dei suicidi e dell’autolesionismo”. Perugia. Tre neonati in carcere: lo scandalo (e la mobilitazione) di Fulvio Fulvi Avvenire, 2 aprile 2023 Tre mamme appena arrestate, portate nello stesso penitenziario con i loro figli neonati. Tre bebè dietro le sbarre, lo scandalo che non avrebbe dovuto più ripetersi e su cui la politica è andata in frantumi qualche giorno fa, cancellando la buona legge che per evitare questa ingiustizia era nata ed era stata sostenuta nella passata legislatura. Una situazione eccezionale che ha provocato una mobilitazione del già scarso personale di vigilanza. C’è tutto il male e anche tutto il bene del sistema carcerario italiano nella vicenda che sta coinvolgendo in queste ore la casa circondariale “Capanne” di Perugia. È qui che le tre donne coi loro piccoli sono state rinchiuse. Uno dei bambini, quello di un anno e mezzo - gli altri hanno due e sei mesi - non sta bene e ha bisogno di cure e assistenza medica. Entrata in cella, la madre non sapeva cosa fare, era disperata ed è scattata quindi una gara di solidarietà tra gli agenti di polizia penitenziaria per cercare di risolvere l’emergenza: chi è andato in farmacia a comprare le medicine, chi al supermercato per gli omogeneizzati e i pannolini, un altro ha chiamato un pediatra. E nell’operazione a sostegno della reclusa e del suo bambino si sono coinvolti anche la direttrice della struttura, Bernardina Di Mario, e il comandante dei poliziotti, Fulvio Brillo. Insomma, hanno fatto tutti ciò che non era nelle loro competenze. Ma l’emergenza ha riguardato anche le altre due mamme, stordite dall’impatto col carcere e angosciate perché, oltre ai neonati da accudire dietro le sbarre, hanno dei figli minori dai quali, con il loro arresto, sono state separate. E anche a loro è arrivato il conforto del personale. A denunciare la vicenda delle tre mamme è stato il garante deí detenuti della Regione Umbria, Giuseppe Caforio, il quale ha parlato di un “contesto di particolare sofferenza” sottolineando come gli addetti alla sorveglianza “si sono fatti in quattro per risolvere il problema”. “Il carcere è un mondo complesso e articolato - ha commentato il Garante - che costituisce comunque una comunità dove ci sono anche esempi di grande solidarietà e umanità”. “A fronte di tante notizie brutte che arrivano dal carcere come suicidi, autolesionismi e disperazione a volte ci sono esempi illuminanti con la polizia penitenziaria e gli amministrativi che fanno cose meravigliose”. “Quella carceraria - ha aggiunto Caforio - è una realtà della quale non si ama parlare e invece le testimonianze che arrivano da lì possono migliorare la società. Con una funzione di prevenzione, un esempio che può essere un deterrente per chi intende commettere reati e per fa sì che chi ha sbagliato possa avere un percorso di riabilitazione e un’opportunità bisogna sempre concederla”. L’istituto di pena perugino, dove sono ospitate una cinquantina di detenute, la maggior parte delle quali straniere, non è, però, l’unica “perla” del sistema carcerario italiano in quanto a “braccia aperte” e generosità. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nelle 192 carceri del nostro Paese sono 23 le mamme recluse e 26 i bambini con meno di sei anni che scontano assieme a loro la pena dietro le sbarre anziché in una casa-famiglia protetta. Serve un provvedimento sulle detenute madri. Ma l’8 marzo scorso la Commissione Giustizia della Camera ha bloccato, a causa di una raffica di emendamenti presentati dalla maggioranza per stravolgerne il testo, la proposta di legge Serracchiani, poi ritirata: affermava il principio sacrosanto del “mai più i bambini in carcere con le loro madri” e prevedeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili lasciando però la possibilità che i piccoli venissero reclusi con le genitrici negli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) qualora sussistessero “esigenze cautelari di particolare rilevanza”. Reggio Calabria. Con Seconda Chance opportunità di lavoro ai detenuti di Vincenzo Comi citynow.it, 2 aprile 2023 Una cerniera tra imprese e detenuti. Una nuova possibilità per chi ha sbagliato. Un’opportunità da cogliere al volo, per le aziende e per chi si trova in carcere. Un’occasione di riscatto per cambiare vita. È la sintesi di Seconda Chance, il progetto virtuoso che permette a grandi e piccoli imprenditori di abbattere il costo del lavoro compiendo un gesto di grande valenza sociale. Nato grazie ad una intuizione della giornalista del TgLa7 Flavia Filippi, ‘Seconda Chance’ rispolvera la legge Smuraglia che offre ingenti sgravi fiscali e contributivi a chi assume, anche part time a detenuti in articolo 21, cioè ammessi al lavoro esterno. Seconda Chance opera direttamente sul campo, cercando adesioni tramite un attivo “porta a porta”, nella consapevolezza che solo una sistematica azione artigianale può vincere diffidenze e scetticismi. Abbiamo ospitato all’interno della nostra redazione la giornalista Flavia Filippi che ha scelto CityNow per presentare il progetto in città: “È un programma che mira a coinvolgere detenuti ed aziende. Un ponte tra il carcere ed il mondo delle imprese. Offriamo la possibilità agli imprenditori di venire nelle carceri con noi a valutare se tra i detenuti a fine pena, ammessi già al lavoro esterno, ci possa essere qualcuno che fa al caso loro. Abbiamo procurato circa 150 posti di lavoro in Italia e moltissime aziende note hanno assunto molti detenuti”. Il progetto, già noto in Italia, ha già portato i suoi effetti positivi in molte città. E qualche imprenditore del nostro territorio ha già abbracciato e sposato il progetto. “Ringrazio con tutto il mio cuore Carmelo Basile di Fattoria della Piana ed il suo staff per aver creduto nel progetto. Ha già effettuato alcuni colloqui nel carcere di Laureana di Borrello incontrando 22 detenuti e sta valutando l’inserimento in azienda di alcuni di loro”. Camerieri, muratori, manovali, aiuto cuoco, giardinieri o meccanici. Gli imprenditori hanno la possibilità di ricercare molte figure professionali. “C’è un credito di imposta di 520 euro al mese ovvero 6.000 euro l’anno. L’imprenditore può contattare la nostra referente regionale all’indirizzo calabria@secondachance.net esprimendo il desiderio di andare in una delle tante carceri in Calabria per incontrare i detenuti ammessi all’art. 21 che possono lavorare fuori”. L’imprenditore farà un accordo ed una convenzione con il carcere pagando lo stipendio direttamente alla struttura che lo verserà sul conto del detenuto. “Ogni responsabilità è in capo al carcere - spiega Flavia Filippi - Agli imprenditori dico, provate! Si tratta di persone già riabilitate e ‘filtrate’ dal carcere”. Seconda Chance, iter garantito dalla Legge Smuraglia - “In Veneto e Lombardia la legge viene sfruttata e applicata, dalla Toscana in giù è semisconosciuta. Il beneficio fiscale consiste in un credito d’imposta per ogni assunto (nei limiti del costo sostenuto) di 520 euro al mese per i detenuti e di 300 euro per chi è in semilibertà. Per gli assunti part-time, lo sconto è proporzionale alle ore lavorate”. La legge prevede inoltre un secondo aspetto interessante. “Gli imprenditori possono visionare i locali abbandonati degli istituti penitenziari con la possibilità di prenderli in comodato di uso gratuito”. Nespresso, McDonald’s, Acqua Vera sono solo alcuni dei brand conosciuti in Italia che hanno già sposato Seconda Chance. Adesso tocca agli imprenditori calabresi tendere una mano ai detenuti inserendosi in un progetto che in Italia è risultato già vincente. Treviso. A Santa Bona i detenuti potranno imparare a saldare da professionisti: avviato il progetto “Oltre le sbarre” di Luca Vecellio qdpnews.it, 2 aprile 2023 Alcuni studi hanno dimostrato che l’occupazione di un ex detenuto determina una minore propensione a delinquere di nuovo: il lavoro, quindi, diventa lo strumento attraverso il quale un detenuto può pensare al proprio futuro, con una graduale reintroduzione nella società al netto dello stigma che il carcere inevitabilmente comporta. Questa considerazione è il mantra di una sinergia che continua a operare nella Provincia di Treviso da circa trent’anni e che sta per raggiungere un nuovo obiettivo. Alla Casa circondariale Santa Bona di Treviso venerdì sono state presentate due nuove opportunità per le persone confinate nella struttura, che hanno potuto fare domanda per frequentare un corso di alfabetizzazione informatica e un corso di saldatura. Attualmente la struttura penitenziaria conta 209 persone, metà italiani e metà stranieri. Le richieste di partecipazione ai corsi, organizzati da Fondazione Opera Monte Grappa e dalla Caritas, sono state molte, tanto che è stato necessario procedere con una selezione: tra i parametri per la scelta dei quattordici corsisti (che vanno dai 23 ai 50 anni, sette per corso), oltre all’eventuale carico familiare del detenuto, c’è il tempo della pena, proprio perché questa proposta vuole andare incontro anche alle necessità del mondo del lavoro. La figura del saldatore, che richiede una specializzazione non scontata, è particolarmente ricercata dalle aziende. Come avevamo già visto in un approfondimento del 2019, la cooperativa “Alternativa ambiente”, che già da trent’anni opera all’interno della casa circondariale di Santa Bona, rappresentata alla conferenza stampa di ieri dal presidente Marco Toffoli, offre già da tre decadi opportunità di lavoro ai detenuti: assemblaggio di dispositivi elettronici (della Came), semplici lavori di falegnameria e in agricoltura, con una coltura di funghi e un allevamento di quaglie. C’è anche un reparto che si occupa della digitalizzazione dei documenti amministrativi e una sede distaccata a Vascon che simula l’allontanamento dal carcere, portando le persone a lavorare in un ambiente protetto. È interessante sapere che i detenuti vengono assunti con un contratto di lavoro regolare. Da quest’esperienza dell’ufficio educatore l’interesse di aumentare il grado di specializzazione di chi, fuori dalle mura del carcere, vuole reinserirsi nella comunità e di conseguenza questi due corsi che prendono il nome “Oltre le sbarre”, si svolgeranno tra fine marzo e il mese di maggio in dodici lezioni da due ore e mezza per quanto riguarda l’informatica e invece sette incontri da quattro ore per quanto riguarda la saldatura. Alla conferenza di venerdì c’erano anche don Paolo Magoga, presidente della Fondazione Opera Monte Grappa, e don Davide Schiavon della Caritas Tarvisina, oltre al direttore della Casa Circondariale Alberto Quagliotto: “Rappresento qui la mia soddisfazione - ha commentato il direttore, - per una sinergia tra più soggetti, che si sono uniti per raggiungere un obiettivo concreto: la ripartenza della società. Il collegamento tra i detenuti e ciò che sta oltre le sbarre dev’essere un ponte per lanciare un messaggio”. Nel corso della conferenza è stato ricordato l’appuntamento del 6 aprile alla Mostra solidale di Fonte, che verrà estesa anche ai detenuti. Dopo la mostra, che raccoglie scultori e pittori del territorio, le opere verranno esposte a cavalletto anche all’interno della casa circondariale. Pescara. Dal caso Cospito alle carceri sovraffollate Il Centro, 2 aprile 2023 I seminari organizzati dall’Anf sull’esecuzione della pena e le norme penitenziarie. Esecuzione della pena, tribunale di sorveglianza, vicenda Cospito, sovraffollamento delle carceri, hanno portato alla ribalta della cronaca anche aspetti del diritto penale poco noti ai più, quelli appunto legati all’esecuzione della pena ed alla normativa penitenziaria. Dopo che sia intervenuto un provvedimento giurisdizionale di condanna ed acquisita in modo irreversibile la responsabilità penale dell’autore, subentra una fase autonoma, distinta rispetto a quella cognitiva, ma normalmente alla stessa conseguente, quella dell’esecuzione della pena, che comprende l’attuazione di quei provvedimenti diretti all’attuazione del comando sanzionatorio contenuto nel titolo esecutivo che costituisce la cosa giudicata, alla risoluzione delle questioni attinenti al titolo stesso e al controllo della rispondenza tra contenuto sanzionatorio e scopo rieducativo della pena. E sarà proprio questa la materia oggetto di una serie di sei seminari organizzati dall’Associazione Nazionale Forense di Pescara, in programma da aprile e giugno nella sala conferenze delle Torri Camuzzi, con la partecipazione in veste di relatori di avvocati, magistrati ed operatori della giustizia che operano in questo specifico campo. “Si tratta di sei incontri”, spiega l’avvocatessa Marina Vaccaro, esperta del settore e tra i coorganizzatori dell’iniziativa, “che si prefiggono di esaminare i temi essenziali dell’esecuzione penale, con particolare attenzione alle azioni ed alle tecniche di tutela anche alla luce delle recenti riforme. La situazione nel nostro Paese non è delle più semplici, il controllo giurisdizionale in sede sovranazionale ha censurato più volte l’attuale situazione penitenziaria nazionale, in particolare con riferimento al fenomeno del sovraffollamento carcerario, ossia l’enorme divario tra la capienza massima e quella effettiva esistente all’interno degli istituti penitenziari. In questi sei seminari”, continua, “oltre a fornire le conoscenze istituzionali ed applicative del sistema, favorendone il più ampio utilizzo, si cercherà di attuare una didattica strutturata in modo da favorire il dialogo fra magistrati, avvocati, funzionari pubblici e studiosi”. Interverranno ai seminari Maria Rosaria Parruti, presidente del Tribunale sorveglianza dell’Aquila, Cecilia Angrisano, presidente del Tribunale dei minori dell’Aquila, Marta D’Eramo e Maria Merlino dell’Ufficio di Sorveglianza di Pescara, Marina Tommolini della Procura della Repubblica di Pescara, Stefania Basilisco, funzionario giuridico pedagogico del Ministero di Giustizia, Luana Capretti dell’Ufficio Uepe di Pescara, e le avvocatesse Alessandra Michetti, Fabiana Gubitoso e Vaccaro. Per informazioni sullo svolgimento dei seminari ci si può rivolgere alla sede Anf presso il Tribunale di Pescara. Roma. Lo sportello dove c’è posta per chi non ha un nome di Angelo Ferracuti La Stampa, 2 aprile 2023 La Casa dei diritti a Roma dà assistenza agli stranieri privi di ogni documento. Ottenere l’iscrizione anagrafica è necessario ma difficile, colpa della burocrazia. La Casa dei diritti sociali si trova dietro la stazione Termini, in un vecchio palazzo del quartiere Esquilino. Pochi metri quadri dello sportello di ascolto all’entrata, una piccola stanza confinante e un minuscolo ufficio sul retro. Arrivano persone con le loro storie scritte sui corpi, nelle espressioni dei visi. Storie che a volte non riescono nemmeno a raccontare, iniziate in altri continenti, che si sono perse come loro. È un parlatorio continuo di tutte le lingue del mondo in questo piccolo confine dove da una parte del vetro discorrono migranti e dall’altra sono in ascolto figli di stranieri di seconda e terza generazione, i sei volontari del Servizio civile. Le voci si rincorrono, creano un cortocircuito acustico nel brusio indistinto. A Roma ci sono storicamente comunità straniere, è da sempre città aperta. Qui arrivano stranieri dalla Puglia, dalla Campania, dalla Calabria, dove lavorano alla raccolta dei pomodori e delle olive, oppure dal Nord. Ma anche italiani, persone anziane che si trovano in estrema povertà o ragazzi sbandati. Tra i tanti è passato anche un monaco russo dissidente perseguitato e torturato dalla polizia putiniana, cosa che gli è stata riconosciuta dal tribunale nella pratica da rifugiato. Molti dei trenta stranieri che ogni giorno si rivolgono allo sportello vengono per l’iscrizione anagrafica, che permette loro di richiedere o rinnovare il permesso di soggiorno e avere l’assistenza sanitaria, per la quale serve anche un documento d’identità. Senza quel foglio di carta non esisti, resti in un sottomondo randagio e invisibile. “A volte si crea un vuoto - spiega Gennaro De Luca, operatore legale che lavora qui da dieci anni, capelli corti e barba brizzolata, nel piccolo ufficio sul retro - molti si trovano in un limbo e uscirne è molto complicato, soprattutto per chi vive in strada e non ha un contratto di affitto”. Adesso si sta lavorando a un accordo per la procedura dell’iscrizione anagrafica fittizia per i senza fissa dimora con il Comune di Roma. C’è già una proposta di delibera, ma molti si perdono nei labirinti tortuosi delle procedure. “Devi inviare una richiesta via mail ai servizi sociali del municipio dove dimori, e già questo è un problema per chi non possiede un computer, o non ne ha mai scritta una”, dice Gennaro. Successivamente ti convocano, ti rilasciano una attestazione di prima analisi che viene inviata al tuo indirizzo di posta elettronica con il formulario di iscrizione che deve essere compilato correttamente, stampato e rispedito all’ufficio anagrafico. “Noi diamo assistenza in queste cose che sembrano banali, ma chi vive per strada non è capace di scrivere in italiano, spesso non capisce quello che legge - racconta, - quando il muro della lingua è invalicabile i nostri mediatori li accompagnano”. L’appuntamento - Ma non finisce qui. Dopo c’è un altro appuntamento per l’iscrizione anagrafica e il certificato di residenza. Alcuni sono vulnerabili, tossicodipendenti o con problemi psichici, si dimenticano di presentarsi, oppure non sono in grado di raggiungere i luoghi. Allora i tempi si allungano. “Possono passare mesi, mesi - ripete De Luca - cinque, sei, anche di più, e magari manca il codice fiscale, oppure la scansione non si legge bene, intanto queste persone ritornano; poi c’è il paradosso di quelli che non possono richiedere l’iscrizione anagrafica perché non hanno un documento valido, oppure è scaduto”. In quel caso quando uno si reca in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno gli chiedono l’iscrizione anagrafica, poi gli rilasciano un documento che si chiama 10 bis, un preavviso di diniego dove c’è scritto che manca il certificato di residenza, è un documento identificativo ma non d’identità, non sempre viene accolto dall’amministrazione pubblica creando un conflitto con gli sportelli immigrazione della questura. E ancora ritardi, rinvii. Per non dire delle donne nigeriane con bambini che hanno chiesto asilo politico in Italia e poi si sono trasferite in Germania per lavoro o perché vittime di tratta, e infine sono state rispedite da noi: “Si apre la procedura Dublino, che stabilisce la competenza territoriale tra Stati e dura molti mesi, e con quel documento è praticamente impossibile fare l’iscrizione anagrafica e al servizio sanitario nazionale, richiedere un documento d’identità o lavorare”. L’Esquilino è un viavai, un hub, una porta d’ingresso e di fuga dalla città, quartiere dalla realtà frantumata, complessa e di conflitti, degrado, emarginazione, violenza. Ma anche luogo ricco di associazionismo e di iniziative virtuose come la Scuola multietnica Di Donato, Piazza Vittorio partecipata, Binario 95 per l’accoglienza diurna. E, appunto, la Casa dei diritti sociali, un’associazione di volontariato laico impegnata dal 1985 nella promozione dei diritti umani, dove anche altri volontari, legali, giuslavoristi, offrono consulenze gratuite, e accanto c’è la scuola di italiano. Tre giorni - “Da qui vediamo il mondo che ci scorre davanti - dice ancora De Luca - i profughi ucraini, gli afghani dopo il ritiro delle truppe Usa. Quando c’è un conflitto dopo tre giorni le vittime ce le ritroviamo qui”. Fuad è un operatore sociale figlio di padre egiziano e madre marocchina, capelli scuri e carnagione olivastra. Parla arabo, spagnolo, inglese e italiano, sta seguendo un ragazzo nigeriano che ha ottenuto l’asilo politico, è vestito di scuro, un cappellino con la visiera, deve rinnovare il permesso di soggiorno ma è un senzatetto: “gli abbiamo dato un sacco a pelo, lo stiamo aiutando per fare una residenza fittizia”. Quando ha iniziato era molto colpito dalle storie degli altri, si sentiva coinvolto, “ma nel corso del tempo ti accorgi che per aiutarli non devi farti toccare dalle emozioni ma concentrarti sul loro problema e cercare una soluzione”. Fuad mi fa conoscere Badshah, viene dal Bangladesh e lavora come aiuto cuoco, vuole portare qui sua moglie e ha un posto letto in una casa comune, sta cercando un appartamento, ma nessuno vuole fargli un contratto regolare, “difficile, difficilissimo”, dice. Hafid invece viene dal Sudan, spiega la mediatrice marocchina che parla con tutti gli arabofoni. È un ragazzone alto, sorridente e dai modi dolci che fa il muratore. Oggi è molto contento, ha avuto il nulla osta per il ricongiungimento famigliare con moglie e tre figli piccoli. “Sono due anni che vivo qui e sto diventando matto, non capisco niente”, dice. Prima è stato in Libia, poi in Francia, “fortuna che al lavoro, nei cantieri, riesco almeno a comprendere quello che devo fare”. Per il resto vive nel suo isolamento linguistico, in una specie di mondo a parte. Come il ragazzo nigeriano ventenne di cui parla Laura Bisegni, la responsabile della Casa dei diritti sociali. Uscito dal carcere dopo una condanna per spaccio si è ritrovato per strada. Aveva il documento scaduto da due anni e non riusciva a chiedere il rinnovo, al commissariato non gli avevano voluto fare la denuncia di smarrimento. “Sono carne da macello, la disperazione di non avere niente da perdere li porta a fare tutto pur di sopravvivere, mandare i soldi a casa a quelli che hanno finanziato il viaggio - dice Laura - lo abbiamo ascoltato, ci ha raccontato la sua storia, e mentre parlava concitato è scoppiato in lacrime, lo respingevano tutti da giorni, nessuno parla con me diceva, aiutatemi a tornare a casa”. La fuga impossibile di Lea Garofalo e il coraggio di stare dalla parte giusta di Lucio Luca La Repubblica, 2 aprile 2023 “La scelta di Lea”, un bel libro scritto da Marika Demaria per Zolfo Editore, ripercorre la storia di una donna coraggiosa che ha pagato con la vita la sua decisione di stare dalla parte giusta. Quando nasci a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, e a soli nove mesi ti uccidono il padre in un agguato di ‘ndrangheta, la tua vita probabilmente è segnata per sempre. Se i tuoi fratelli, tuo zio, si intestano una assurda vendetta che porterà soltanto a una faida e tanti altri morti ammazzati, capisci che prima o poi da lì devi fuggire se solo vuoi dare un senso alla tua esistenza. Lea Garofalo cresce in una famiglia ‘ndranghetista. La nonna le ripete sempre che “il sangue si lava con il sangue”. A nove anni scopre che il fratello nasconde le armi in camera sua, a tredici si innamora di un ragazzo più grande e decide di seguirlo a Milano. Ma anche in questo caso la realtà non cambia. Carlo, l’uomo che ama, è un trafficante di droga. Per conto della famiglia Garofalo gestisce lo smercio di eroina e cocaina nella zona di via Paolo Sarpi. A diciassette anni Lea rimane incinta e nel 1991 nasce Denise, che cresce nello stabile di via Montello, dove il clan del compagno e dei fratelli subaffitta illegalmente stamberghe agli immigrati. Poi Carlo finisce in carcere, Lea gli dice che tra loro è finita, litigano e devono intervenire le guardie per salvare la povera ragazza aggredita dal detenuto. Lea e Denise si trasferiscono a Bergamo e per i primi tempi sembra andare tutto bene. Nel 2002 però la loro macchina viene bruciata: è un avvertimento del fratello Floriano. Lea decide di tornare a Petilia Policastro, ma a luglio viene aggredita sempre dal fratello, che non accetta la sua scelta. Decide quindi di rivolgersi ai carabinieri, diventando una testimone di giustizia. Viene sballottata da un capo e l’altro dell’Italia per ragioni di sicurezza, apprende che il fratello è stato ucciso per punire il suo pentimento, dopo qualche anno torna in Calabria e firma la sua condanna a morte. Carlo esce di prigione, riesce a contattarla, allontana la figlia con una scusa e, a quel punto, picchia e strangola Lea. Era il 24 novembre del 2009. Il clan si occupa di far sparire il cadavere, Carlo arriva persino a dire a Denise che la madre ha voluto soldi ed è fuggita. In pratica che ha abbandonato sua figlia, l’unica cosa per la quale viveva. Ma sarà proprio Denise, il suo coraggio, a far sì che la verità sulla fine di Lea Garofalo venga finalmente a galla. Per quel delitto sei imputati vengono condannati all’ergastolo, Denise continua a vivere sotto protezione. La beffa, però, era ancora dietro l’angolo: per lo Stato Lea Garofalo non è una vittima di mafia, perché ai suoi assassini, per “problemi burocratici”, non è stato applicato durante il processo l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma almeno nel 2013, grazie all’aiuto dell’Associazione Libera, anche per Lea Garofalo è stato possibile celebrare funerali civili e pubblici. C’erano don Ciotti, il sindaco Pisapia e la stessa Denise, anche se a distanza e protetta dalle forze dell’ordine. “La scelta di Lea”, un bel libro scritto da Marika Demaria per Zolfo Editore, ripercorre la storia di una donna coraggiosa che ha pagato con la vita la sua decisione di stare dalla parte giusta. Una storia di ribellione e coraggio. Sullo sfondo di un dramma sconvolgente, che si dipana tra la Calabria e la Lombardia, si stagliano omicidi insoluti, traffici di stupefacenti e il profilo di una criminalità organizzata padrona di interi territori. Una storia da incubo, di cui la narrazione asciutta che l’autrice ci trasmette dall’interno del processo diventa documento eccezionale, una denuncia insostituibile. Chi vuol boicottare le firme digitali per i referendum di Franco Corleone L’Espresso, 2 aprile 2023 Pochi giorni fa a Montecitorio è andata in scena una rappresentazione surreale. Il governo era chiamato a rispondere a una interpellanza urgente del deputato Riccardo Magi, segretario di +Europa, sulle ragioni del blocco della attivazione della piattaforma per la raccolta delle firme digitali per i referendum e per i progetti di legge di iniziativa popolare, previsti dagli articoli 75 e 138, 71 della Costituzione. La sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro ha ribadito quanto già affermato dal sottosegretario Alessio Butti, titolare della delega all’Innovazione tecnologica: responsabile sarebbe il ministero della Giustizia. Infatti il governo oggi dice che nel 2021 era stata realizzata “nei tempi previsti” una versione consona della piattaforma, completando il test di applicazione. Ripercorriamo allora la vicenda. La legge n. 178, che nasce nel dicembre 2020 (modificata dal decreto legge del maggio 2021, n. 77), istituiva un fondo apposito per la raccolta delle firme digitali. Il 9 settembre 2022 un altro decreto stabiliva caratteristiche e modalità di funzionamento. Brutalmente si può dire che con Mario Draghi e con il ministro Vittorio Colao tutto procedeva correttamente per garantire l’esercizio di un diritto legato alla tanto sventolata accelerazione e snellimento delle procedure indicate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ora il governo Meloni confessa di avere “da tempo” avviato le necessarie interlocuzioni con il ministero della Giustizia, finalizzate a definire una collaborazione tesa a far sì che sia quest’ultimo a prendere in carico la gestione. In conclusione, desolatamente, viene prospettato un ritardo di altri 4-5 mesi rispetto a quello già enorme e inspiegabile di più di un anno. La crisi della democrazia e della partecipazione dei cittadini alle elezioni sono di una evidenza accecante e la fiducia nelle istituzioni tende ad azzerarsi. D’altronde se lo Stato, il governo e addirittura il ministero della Giustizia boicottano una legge per rendere i cittadini protagonisti, come potrebbe essere diversamente? Forse è proprio questo l’obiettivo, difendere il potere che è stato conquistato grazie a una legge truffa e rendere il Parlamento un’aula sorda e grigia. Siamo di fronte a una eterogenesi dei fini sesquipedale: un ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che si proclamava liberale e garantista, sta inanellando una serie di provvedimenti liberticidi, dal decreto anti- rave a quello anti-scafisti, dalla proclamazione dello stato etico e totalitario nel caso Cospito fino ad assistere inerte alle proposte della galera per i bambini delle madri detenute, alla cancellazione del reato di tortura e per lo stravolgimento dell’art. 27 della Costituzione. Ebbene, siamo a un punto decisivo. Lo straordinario successo della raccolta delle firme per un referendum sulla legalizzazione della canapa rappresentò la dimostrazione che il cambiamento era possibile. Ci volle la decisione tartufesca della Corte Costituzionale guidata da Giuliano Amato nel febbraio 2022 per impedire la rivoluzione gentile. Che fare? Un assedio nonviolento in via Arenula, per cominciare. L’obiettivo è semplice: dare la parola ai cittadini e farli decidere sui diritti, in nome della ragione e sconfiggendo l’arroganza. Se per salvare la Terra serve la Giustizia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 2 aprile 2023 Mentre modi e tempi di intervento per la tutela dell’ambiente e per la lotta al riscaldamento globale sono al centro del dibattito sociale e di quello strettamente politico, più di un segnale indica che anche su questi temi emerge la ricerca dell’intervento dei giudici. Un intervento che si vuole non politico, non ostante che pochi problemi siano più politici di questi. Grandi questioni infatti si contrappongono e chiedono equilibrio e proporzione, come quelle che riguardano la transizione verso nuove tecniche e modalità di produzione, lasciando quelle presenti, inquinanti. Il passaggio alle auto elettriche ne è un esempio, ma la produzione agricola e l’uso dei prodotti chimici ne sono un altro, persino più urgente. Le soluzioni possibili promuovono o invece colpiscono interessi notevoli di gruppi sociali (e Paesi) diversi. Anche una volta trovata la soluzione adatta all’uno o all’altro aspetto di queste questioni, resta sempre delicata la definizione dei tempi e della protezione delle aree territoriali e dei lavoratori che finiscono marginalizzati. Questioni altamente conflittuali, non ostante l’apparente vasto consenso in favore di politiche ambientaliste e l’allarme diffuso per le implicazioni che riguarderanno le generazioni future. È recente, ad esempio, il grande successo elettorale ottenuto in Olanda dal partito BBB, definito “agro-populista”, contrario alla politica verde del governo. Tutto ciò è per definizione politico, sia per quel che riguarda i criteri decisionali, sia per il tipo di responsabilità che assumono i decisori. Eppure, è recentissima la decisione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ove siedono i rappresentanti dei governi, di chiedere alla Corte Internazionale di Giustizia di fornire il suo avviso sugli obblighi degli Stati per contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti. All’avviso che la Corte renderà è assegnato un gran peso morale, essendo però privo di effetti giuridici vincolanti. Negli stessi giorni la Corte europea dei diritti umani ha tenuto una udienza riguardante due ricorsi nella stessa materia. Con il primo, contro la Francia, si sostiene che i ritardi e le omissioni del governo nel prendere le misure necessarie per diminuire le emissioni ad effetto serra e raggiungere i limiti già fissati, comportano rischi per la vita del ricorrente e offendono il suo diritto al rispetto della vita privata ed anche della possibilità di usare normalmente il suo domicilio. Il secondo ricorso, contro la Svizzera, è stato presentato da un’associazione ambientalista i cui soci sono persone anziane, che sostengono che per le ondate di calore e per l’inerzia del governo nel contrastare il riscaldamento globale rischiano la vita e comunque patiscono nella loro vita privata. Sia il diritto alla vita, che il diritto alla vita privata sono riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Se la Corte riconoscesse il fondamento dei due ricorsi potrebbe, non solo dichiarare la violazione della Convenzione e stabilire un indennizzo a favore dei ricorrenti, ma anche indicare ai governi quali misure siano da adottare. In Italia, per anni nella vicenda dell’ILVA abbiamo visto contrapporsi le logiche giudiziarie fondate sulla applicazione della legge che protegge la salute delle persone e quella politica ne che affronta le ricadute sul piano dell’economia e della occupazione. E il legislatore - non si sa quanto consapevolmente - ha riconosciuto alla magistratura un nuovo e indiscutibile campo di azione di grande impatto economico e politico. Avendo aggiunto all’art. 9 della Costituzione l’obbligo per la Repubblica di tutelare “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, la applicazione che i giudici faranno delle leggi sarà doverosamente “costituzionalmente orientata”. Talora con maggior protezione dell’ambiente, ma certo con scelte di indubbio carattere e conseguenze politiche. Nella loro diversità - se non altro per la natura diversa dei giudici coinvolti - i fatti esposti hanno tratti comuni. Intanto malgrado le frequenti proteste per il protagonismo dei giudici e la loro politicizzazione, in nessuno di questi casi sono i giudici ad aver cercato l’occasione di esprimersi. Ricerca politica di appoggi che sollevino dalla responsabilità di decidere o fiducia in logiche diverse da quelle proprie della politica spingono a cercare l’opera dei giudici, siano essi internazionali o nazionali. Uno dei tanti esempi della debolezza e inettitudine dei luoghi deputati all’azione politica: anche quella dei parlamenti, sede diretta di espressione della sovranità del popolo. Migranti. Lo scandalo dei mediatori culturali senza stipendio di Carmen Baffi e Gaetano De Monte L’Espresso, 2 aprile 2023 Formalmente autonomi, prestano la loro opera per gli enti pubblici, attraverso le cooperative che si aggiudicano gli appalti. Ma da mesi non sono retribuiti. “Ho lavorato per le prefetture di Novara e Verona, ma soprattutto di Brescia, come interprete e mediatrice. Mi sono stati pagati i biglietti del treno, ma non le ore di lavoro. L’unica prova che ho è una dichiarazione della prefettura di Brescia che attesta che ho lavorato per un totale di 187 ore”. Sharmin Akter viene dal Bangladesh. Parla il bengalese e l’urdu, e per questo inizia a lavorare per gli enti pubblici italiani. In Italia si contano 1.150.627 persone provenienti dagli Stati africani settentrionali e occidentali, il mediatore interculturale è perciò una figura fondamentale. Gli ambiti di intervento di questa figura professionale sono ampi: spaziano dal sistema educativo e formativo, salute, giustizia, pubblica amministrazione, sicurezza e accoglienza di primo livello fino al settore privato no-profit. In Italia la figura del mediatore è “gestita” da cooperative attraverso una serie di gare d’appalto che mettono a disposizione delle prefetture, degli hotspot o delle Asl i lavoratori del settore. Si tratta, di fatto, di un rapporto lavorativo di tipo subordinato. In cosa consiste questa subordinazione lo dice l’articolo 2094 del Codice civile, stabilendo che in cambio della retribuzione il lavoratore si impegna a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto. Nei fatti, però, i mediatori interculturali messi a disposizione degli enti pubblici da parte delle cooperative in Italia vengono inquadrati come lavoratori autonomi e occasionali, guadagnando a fronte di significative responsabilità, anche in termini giuridici, in media solo 12,5 lordi all’ora. Chi tutela i lavoratori? A difendere i lavoratori in attesa di stipendio è il Coordinamento dei mediatori interculturali d’Italia, che ha raccolto contratti e ricevute firmate dai mediatori che sperano ancora di vedere un accredito sul proprio conto. Il Coordinamento - come spiega a L’Espresso la sua portavoce Roberta Ruà - ha intenzione di dar vita a una vertenza nazionale per far sì che le cooperative sociali risarciscano i mediatori. “Pagamenti erogati saltuariamente, sono da tempo una costante per i lavoratori che prestano servizio a chiamata presso istituzioni di vitale importanza”. I sindacati di base e il coordinamento puntano il dito contro gli enti pubblici, i quali “non assumono direttamente, ma appaltano al Terzo settore la gestione del personale con appalti al ribasso”. Abbiamo chiesto ripetutamente al ministero dell’Interno se, data la situazione, ci sia almeno l’intenzione di internalizzare il servizio di mediazione, così da riconoscere l’importanza cruciale del ruolo e la professionalità dei lavoratori del settore, ma non hanno risposto. “Riteniamo grave che gli enti pubblici si lavino le mani di fronte a questa vicenda, di cui, almeno in parte, sono stati informati”, dicono dai sindacati Adl Cobas e Clap che, insieme al Coordinamento, hanno voluto rendere pubblica la situazione di un nutrito gruppo di mediatori interculturali, la maggior parte dei quali dipendenti della cooperativa Synergasia di Roma. Sull’orlo del fallimento - Sharmin a partire da marzo 2022 ha lavorato per 12 mesi per la Synergasia. Lei, come centinaia di altri mediatori interculturali che hanno prestato servizio per la stessa onlus, è ancora in attesa dello stipendio: “Ho ricevuto solo la notula del primo mese, ma il resto dei soldi, duemila euro circa, non li ho mai ricevuti. Synergasia ha anche smesso di rispondermi al telefono”, spiega Sharmin. “Molti miei colleghi non hanno ricevuto nulla. Una mia amica deve ricevere ancora 700 euro”, conclude. Synergasia lavora in diverse regioni d’Italia. È specializzata nell’offerta di lingue rare, che negli ultimi anni, grazie al mutamento delle tratte migratorie, risultano sempre più richieste dagli enti pubblici. La cooperativa sociale è leader del settore e fa incetta di appalti da quando è nata, nel 2010. Lo deve all’esperienza del suo presidente, Jamil Ahamade Awan, un 64enne di origini indiane. Awan conta infatti, su 25 anni di collaborazione con la Caritas diocesana di Roma al fianco del suo fondatore, Monsignor Luigi Di Liegro. La cooperativa continua a impiegare regolarmente i propri mediatori all’interno delle commissioni territoriali che esaminano le domande di protezione internazionale, ma gli stipendi dei dipendenti, compresi quelli amministrativi, risultano in forte ritardo. L’Espresso ne ha chiesto conto direttamente al presidente Awan, il quale, dalla sede romana della società, ammette lo stato di sofferenza della cooperativa: “Il nostro Durc risulta irregolare a causa di alcune anomalie su un rateizzo del 2020, ma le abbiamo regolarizzate. Dovremmo ricevere 500mila euro dalla Pubblica amministrazione, credito che potremmo utilizzare per saldare i debiti, ma l’Inps non riesce a sostituirlo e quindi resta questo blocco”. Il Durc, cioè il Documento unico di regolarità contributiva cui fa riferimento Awan, è un certificato che attesta la regolarità del soggetto che lo richiede nei confronti di Inps, Inail o le casse edili nel caso di aziende che applichino i contratti dell’edilizia ed è indispensabile per le aziende che vogliono partecipare a gare d’appalto pubbliche. Si tratta, quindi, di una dichiarazione di conformità riguardo a obblighi contrattuali come quelli contributivi e previdenziali. “Siamo bloccati da ottobre per la burocrazia. Ho deciso anche di abbandonare alcune realtà perché se non posso pagare è inutile accumulare crediti e allo stesso tempo debiti”, afferma Awan, il quale solo in un secondo momento affronta la questione degli stipendi arretrati: “Sono 4-5 mesi che non riesco a pagare i collaboratori, ma è tutto scritto, è pur sempre un lavoro pubblico”, dice. E sugli arretrati di un anno: “Sono la minoranza, saranno una ventina, ma le assicuro che sono sempre stati pagati regolarmente”, sostiene. I ritardi sugli stipendi e un Durc irregolare però non hanno impedito a Synergasia di continuare a partecipare e vincere appalti: “Stiamo lavorando con la commissione territoriale di Milano, di Torino e con il ministero dell’Interno”. Non solo, a ottobre del 2022 Synergasia si è aggiudicata anche l’appalto per i servizi di interpretariato e traduzione presso la commissione territoriale della prefettura di Treviso per un lavoro da svolgere in un periodo che va dal 1° novembre 2022 al 31 dicembre 2023. L’importo totale corrisposto alla Synergasia sarà di euro 290.660. E di questi pochi finiranno in tasca dei mediatori culturali, con tempistiche che sono ancora tutte da capire. Dopo alcuni giorni dal primo contatto, il consulente del lavoro della cooperativa comunica che il Durc è stato regolarizzato. Tuttavia, ricontattato per conferma e per capire come sia stato possibile aggiudicarsi gli appalti in presenza di tale irregolarità negli ultimi 4 mesi, Awan non ha più inteso dare risposta. Migranti. Quell’inferno chiamato Rotta balcanica di Bianca Senatore L’Espresso, 2 aprile 2023 Afgani, siriani, pakistani e bengalesi. Ma anche africani costretti a partire per la crisi climatica. Scelgono la via interna, tra le più battute per raggiungere l’Europa. Attraversano confini su confini. Tra filo spinato, abusi delle polizie di frontiera, freddo, fame. Non c’è solo la rotta via mare. Lo sa bene Alì che in tre mesi, dall’Afghanistan, ha attraversato sette Paesi e ora è qui a Fiume, in Croazia, a riposare al sole tiepido del mattino. I suoi compagni di viaggio stanno ancora dormendo sulla banchina del binario morto della stazione, avvoltolati nelle coperte fino a sparire, come in un bozzo di lana. Alì vuole parlare e raccontare la sua storia, perché è scampato ai talebani che volevano ammazzarlo e che hanno trucidato suo fratello e suo cugino. Erano tutti e tre poliziotti in forze al governo di Ashraf Ghani. “Ci ho messo sei mesi per arrivare qui da Kapisa, a Nord di Kabul. Ho attraverso dapprima il Pakistan, poi l’Iran e la Turchia. E poi dalla Turchia sono passato in Bulgaria, da dove ho iniziato a risalire i Balcani attraverso la Serbia, la Bosnia. E ora sono qui in Croazia. Ma all’imbrunire mi rimetterò in cammino verso la Slovenia e poi l’Italia”, spiega Alì. Le sue scarpe sono maciullate e i suoi compagni sono così magri che è quasi incredibile come possano aver camminato per migliaia di chilometri su gambe tanto sottili. Perché la rotta balcanica è dura, aspra, faticosa, difficile. Non è percorribile da tutti. Ecco perché alla stazione di Fiume in maggioranza sono ragazzini, uomini in forze. Le donne e i bambini sono pochi. Chi non ce la fa a risalire il fianco est dell’Europa, in Turchia è costretto a pagare i trafficanti e a salire sui barconi. In questo piccolo avamposto sul lato della stazione di Fiume ci sono dei piccoli prefabbricati, uno con bagni e docce, l’altro è adibito a magazzino per cibo, vestiti e medicine. In fondo c’è un tendone dove i migranti possono ripararsi quando fa freddo e non si può stare all’aperto. Ma i ragazzi sono sempre troppi e molti, irrimediabilmente, restano fuori. “Facciamo quel che possiamo. Siamo una quindicina e riusciamo a fare tutto questo grazie all’aiuto di tanti cittadini, ma soprattutto grazie all’Arcivescovado e alla Caritas di Fiume”, racconta Sara, una delle volontarie che gestisce il punto d’accoglienza. Mentre indica i binari, aggiunge: “Questi poveri ragazzi non possono essere abbandonati. Ogni tanto arriva qualcuno veramente malconcio, eppure non riesce a credere che lo vogliamo aiutare. Sono così abituati a dover pagare per qualunque cosa o a essere maltrattati che non si fidano all’inizio”. Sabah al khair, Sara. Ciao, Sara: la salutano come fosse una vecchia amica, anche se l’hanno appena conosciuta e tra qualche ora andranno via. È quasi tempo di rimettersi in cammino. Dalla Croazia il viaggio riprende in direzione Slovenia, con un autobus che li porta fino a Buzet, a pochi chilometri dal confine. Da lì i migranti proseguono a piedi, ancora attraverso le montagne, sfidando la bora e magari anche un orso. Se si percorre la stessa strada in macchina, s’incrocia il muro metallico di filo spinato che segna il confine tra i due Paesi. Anche se la Croazia, ora che è entrata in Schengen, lo dovrebbe smantellare. Il cammino è tortuoso, non è una passeggiata. “In qualche ora, se sono di buona lena, i ragazzi riescono ad arrivare al confine italiano e poi scendono verso Trieste oppure verso Gorizia”. A raccontarlo sono Micol, del coordinamento di Udine, e Massimo, un attivista di Gorizia. In città, alcune persone hanno deciso che non si potevano lasciare queste persone all’addiaccio, senza coperte, cibo o acqua, specialmente d’inverno. E così, con un’efficace organizzazione in turni, il gruppo si ritrova alle 23 circa alla stazione per aiutare chi è appena arrivato dalla rotta balcanica. “All’una di notte la stazione chiude, quindi i ragazzi sono costretti a spostarsi fuori. E così, per non farli morire di freddo, diamo loro le coperte e portiamo latte, biscotti. Per rifocillarsi un po’”, spiega Massimo. Lui e Francesca, un’altra delle attiviste del gruppo, fanno prima una tappa nella sede cittadina del Forum Gorizia, che ospita un magazzino pieno di vestiti e viveri. Presi cracker, coperte e succhi di frutta, corrono alla stazione perché è quasi mezzanotte, ma ci sono ragazzi che ancora arrivano, spaesati e sfiniti. Sono per lo più afgani, siriani, pakistani e bengalesi. Ma di recente, notano i volontari, ci sono flussi consistenti dal Burkina Faso, compresi tanti bambini. “Ci raccontano di essere arrivati in aereo fino a Belgrado, capitale della Serbia, e poi di aver percorso l’ultimo tratto a piedi”. I migranti provenienti dall’Africa occidentale non sono frequenti sulla rotta balcanica, ma ultimamente sono aumentati di numero. Si sono registrati arrivi anche dal Burundi e dal Congo. Quando queste persone hanno confidato i motivi che le hanno spinte a muoversi, hanno spiegato che nel loro Paese mancano cibo e acqua. Sono i migranti climatici, cui l’Unione europea non sta dando grande attenzione. Dopo le recenti stragi nel Mediterraneo, l’interesse della politica italiana ed europea si è concentrato sulla Libia e sui viaggi per mare. Ma, in realtà, la rotta balcanica è tra le più battute. Da lì nel 2022 sarebbero entrate in Italia circa 13 mila persone e nel 2023 il numero potrebbe facilmente essere superato. Già a gennaio, infatti, ne erano arrivate oltre 1.100. Sia perché durante l’inverno il flusso non è diminuito sia perché i trafficanti hanno raddoppiato mezzi e capacità, oltre che le tariffe. “Le polizie di frontiera ci hanno picchiato spesso o hanno chiesto soldi anche solo per farci ricaricare un’ora il telefono a una presa della corrente di una stazione di bus”, racconta Faisal, anche lui afgano: “Ma nessuno ci ha spinti a partire, siamo scappati per poter sopravvivere”. Ucraina. È arrivata la quinta carovana pacifista con aiuti e generi di prima necessità di Fabrizio Floris Il Manifesto, 2 aprile 2023 Consegneranno 30 furgoni con 20 tonnellate di cibo, farmaci e 20 generatori. Stop the War Now: “Siamo volontari disarmati”. È arrivata questa mattina ad Odessa la carovana della rete “Stop The War Now” formata da oltre 180 organizzazioni della società civile italiana. Un gruppo di 150 volontari provenienti da numerose città italiane si è messo in viaggio con 30 furgoni carichi di 20 tonnellate di aiuti umanitari e 20 generatori di corrente. I generatori sono stati acquistati grazie alla raccolta fondi avvenuta nelle sedi della Cgil e al contributo della Diocesi di Bologna e sono stati donati ai centri di accoglienza gestiti dal sindacato Fpu e all’ospedale Pediatrico di Odessa, serviranno ad alimentare dissalatori per l’acqua, rifugi anti-aerei e alcuni centri per la distribuzione di aiuti umanitari della Caritas. Può sembrare poca cosa ma come ha spiegato Erri De Luca, uno dei volontari, “noi siamo dei disarmati volontari che portano assieme alla fraternità qualche genere di sussistenza, medicine, cibo, generatori. Dimostriamo un po’ di fraternità. L’Ucraina si trova in uno dei deserti della storia, noi portiamo qualche goccia che in un deserto non è mai sprecata”. L’arrivo a Odessa è stato accolto da Yevgen Drapiatyi vicepresidente della Federation of Trade Unions of Ukraine “vivevamo e lavoravamo in pace, ha detto, ma adesso nei nostri cieli piovono missili che oscurano il sole e uccidono le persone”. La città di oltre un milione di abitanti sarebbe stata fondata grazie a un napoletano di origine spagnola, José de Ribas, nato a Napoli nel 1749. “E infatti - secondo Stefano Gennaro Smirnov, ingegnere coordinatore del progetto dell’associazione Papa Giovanni XIII ad Odessa e Mykolaiv - ricorda molto Napoli. La città che viveva dell’economia del porto e del turismo veniva già da due anni di sofferenza per la pandemia del Covid si è dovuta poi completamente fermare per la guerra: il porto è bloccato è ovviamente non c’è turismo, non c’è lavoro e dato che anche le entrate del Comune si basano sui redditi degli abitanti (imposta sui redditi qui va al Comune) anche il pubblico fa fatica, i sussidi non bastano e quindi la gente si arruola anche solo per avere uno stipendio. Sono gli effetti a lungo termine della guerra”. Poi, riprende Gennaro, “essendo un Paese dotato di energia nucleare tutte le infrastrutture si basano sull’energia elettrica: dalla rete idrica al riscaldamento, alla cucina domestica venendo a mancare l’elettricità per i bombardamenti non c’è l’acqua (che è tirata su dai pozzi con pompe elettriche), non ci si può riscaldare e non si può cucinare perché il modo più comune si basa su piastre elettriche”. Noi, spiega Alberto Carandini, vorremmo passare “dai rapporti di forza, alla forza dei rapporti”. Lungo la strada che arriva alla città da sud paludi, frutteti e campi si alternano ad una fattoria solitaria che rompe la monotonia della campagna, pescatori solitari si confondono tra le canne e ogni tanto l’oro irradia la cupola di una chiesa, mente i posti di blocco si ripetono, si intravedono i bunker e trincee scavate e gli onnipresenti cavalli di frisia. È primavera: fiori rosa, gialli e bianchi adornano il paesaggio, ma è una primavera feroce, che fa male, perché erompe tra i palazzi bombardati e i buchi dei proiettili che aprono i muri dei palazzi. Come se la morte nella vita si scambiassero un bacio: è un bacio a distanza, la morte resta morte e la vita resta a vita come qualcosa che non si incontra con l’orizzonte non abbraccia. Invece la guerra è entrata nel circuito della normalizzazione, è diventata endemica, un fatto naturale come la pioggia e la primavera. E mentre i volontari del furgone n. 4 cantano Cambia todo cambia di Mercedes Sousa, ti chiedi se tutto cambia perché la violenza che è intrinseca ad ogni guerra non cambia mai. Teresa in prima linea con la Siria nel cuore: “Mi batto per questo popolo” di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 aprile 2023 Quando la terra ha tremato a Gaziantep, in Turchia, Teresa non ha pensato a sé. Ma a tutti i pazienti bloccati negli ospedali al di là del confine, in Siria. “Mi sono precipitata in strada, l’ho capito subito che era una catastrofe di proporzioni mai viste”. Colonna portante della missione di Medici Senza Frontiere in Turchia e Siria, coordinatrice e operatrice medico da 29 anni, Teresa Graceffa è minuta, piccola di statura. Ma diventa un gigante quando si tratta di combattere per i più deboli. Nata in provincia di Aragona 54 anni fa, come tanti siciliani sa bene quanto possa fare male la terra quando trema. “In pochi secondi ho realizzato che la nostra missione da umanitaria si sarebbe trasformata in un’operazione di emergenza. Al mattino eravamo già al lavoro. Come primo paziente, abbiamo assistito un bambino che era arrivato in ospedale ad Atme, vicino a Idlib, con il 40 per cento del corpo ustionato”. Tutto intorno, sia in Siria che in Turchia, in quelle ore è il caos. Sono morti in migliaia. Le strade sono bloccate, non c’è benzina e non c’è cibo. “Prima del terremoto casi così gravi, pur essendo il nostro l’unico centro per ustionati in Siria, li trasferivamo in Turchia. Ma ora, anche da questa parte del confine, molti centri non funzionano più. Così abbiamo salvato quel bambino a distanza, dando istruzioni al nostro staff locale in remoto. Ma è solo uno. Per tanti non siamo riusciti a fare niente”. Teresa non entra in Siria da dieci anni. Anche allo staff internazionale di Medici Senza Frontiere vengono dati i permessi con il contagocce. La politica e le geopolitica non hanno come priorità l’assistenza umanitaria, ognuno pensa per sé e gli egoismi dei dittatori non fanno altro che peggiorare la qualità di vite già messe in pericolo da 12 anni di guerra. La ong di Teresa è una delle poche a operare in quella regione così tormentata, dove in più di tre milioni vivono in trappola tra i raid del regime di Damasco e i ricatti delle milizie jihadiste filo turche che controllano l’aerea. “Mi sono sempre battuta per questa gente. A tutti, compresi i suoi superiori, Teresa non fa altro che ricordalo. “Vi sembra che stiamo facendo abbastanza per loro?”. E grazie a lei, tanti siriani sono riusciti a sopravvivere e avere una seconda opportunità. Ma ora, da quando il terremoto ha portato altra morte e macerie, in Siria le cose vanno ancora peggio. “Gli sfollati vivono tutti nelle tende, i farmaci che mandiamo non sono abbastanza. E quello che mi preoccupa di più - e che dovrebbe essere la priorità - è la salute mentale di quelle persone traumatizzate”. Serve tutto: medicine, dottori, generi di prima necessità, strutture dove curare per primi i bambini e le donne: “Ci vorrebbero - aggiunge - anche degli elicotteri per trasferire i pazienti più gravi oltre confine e maggiore accesso per il personale internazionale specializzato”. Teresa sa bene cosa significhi vedersi rivolgere contro un’arma o trovarsi in situazioni di pericolo. “Quando ero in Eritrea con delle volontarie italiane e locali ci hanno sparato. Abbiamo percorso chilometri, ferite. Io avevo una pallottola nella gamba. Siamo pure rimaste bloccate nel Paese per qualche mese ed è dovuto intervenire il governo italiano per evacuarci”. Tornata a casa, Teresa si prende una “pausa”. Lavora come infermiera a Lugo di Ravenna. Ma non ce la fa a stare ferma. Deve andare dove la terra brucia, trema e uccide. “All’epoca avevo 40 anni. Niente mi tratteneva a casa. Così mi sono rivolta a Medici Senza Frontiere”. La prima meta, l’Uganda. “Una bella missione, seguivo un progetto per l’Hiv e la tubercolosi”. Poi altre urgenze in giro per il mondo, compresa Parigi dove lavora in un centro vaccinale durante l’emergenza Covid. Fino alla “sua” Siria. Gaziantep ormai è casa. “Nelle ore successive al terremoto la nostra guesthouse è diventata un rifugio, abbiamo aperto le porte a tutti”. Perché se hai un problema è Teresa che chiami. Lei che aiuta sempre tutti anche mentre intorno il mondo sta crollando. Stati Uniti. San Quintino, si cambia di Luca Celada Il Manifesto, 2 aprile 2023 La California trasforma il suo incubo securitario in una prigione riabilitativa “modello norvegese”. Da qui sono passati Charles Manson, Eldrige Cleaver e tutto l’immaginario del “carcere duro”. Johnny Cash suonò due volte per i detenuti di San Quentin, nel 1958 e poi nuovamente nel 1969. Quest’ultimo concerto venne registrato dal vivo per Johnny Cash at San Quentin. Sulla playlist del disco c’erano cavalli di battaglia come A boy named Sue e Walk the Line ma la canzone accolta da un vero boato dai detenuti, guardati a vista quel giorno dai secondini armati, fu sicuramente la ballata che augurava all’odiata istituzione una pronta e focosa fine. La più antica prigione californiana è aperta dal 1852, due anni appena dopo la stessa fondazione dello stato ai tempi della febbre dell’oro. Edificata su un promontorio che sporge nella baia di San Francisco dalla costa di Marin County, appena passato il Richmond Bridge, il penitenziario ospita oltre 3.000 detenuti, compresi quasi 700 nel famigerato braccio della morte. Tecnicamente la pena di morte in California è ancora in vigore ma da 17 anni di fatto non sono state eseguite condanne, e nel 2019 il governatore Gavin Newsom ha reso ufficiale una moratoria sine die su nuove esecuzioni. Il vecchio carcere (“possa bruciare all’inferno” canta Cash fra gli ululati dei prigionieri) è la più antica istituzione pubblica in California e - come per altre “mitiche” prigioni americane (Sing Sing, Attica, Leavenworth, Pelican Bay, Angola, Guantanamo…) - fa parte della mitologia penale del paese che ospita un quarto di tutti i carcerati del pianeta. L’elenco di quelli passati da San Quentin testimonia la criminalità di un paese violento e ne rispecchia la storia di tensioni sociali. Qui hanno scontato pene Charles Manson, Eldridge Cleaver delle Pantere Nere e Sirhan Sirhan, condannato per l’assassinio di Robert Kennedy. Dietro le mura di pietra grigia sono passati l’attore “tarantiniano” Danny Trejo e “l’outlaw” country Merle Haggard. E negli anni qui sono state messe a morte centinaia di persone. Quando si attivava la famigerata camera a gas (e successivamente le flebo di veleno), lo spiazzo fuori dai cancelli era luogo di protesta e di veglie - ricordo in particolare quella nel 2005 per Stanley “Tookie” Williams, membro fondatore dei Crips diventato autore di libri, per la cui grazia si batté all’epoca un ampio movimento - invano, il governatore Schwarzenegger si rifiutò di fermare il boia. Ci sono state poi le rappresentazioni in cinema e letteratura, a cominciare dal Vagabondo delle stelle, il romanzo che vi ambientò Jack London nel 1915. Numerosi poi le raffigurazioni hollywoodiane, ne La fuga (1947), Humphrey Bogart evade dopo essere stato ingiustamente condannato. Lo raccoglie per strada Lauren Bacall che lo nasconde e lo aiuta a cambiare volto con una plastica facciale per cercare di scagionarlo. La lista passa da Prendi i soldi e scappa di Woody Allen (1968) e arriva a Fruitvale Station (2013), il fulminante esordio di Ryan Coogler. Pesa molto sull’immaginario collettivo, insomma, come simbolo di carcere duro, questo luogo mesto, pieno di fantasmi, come la cattiva coscienza di un paese con oltre 2 milioni di persone dietro le sbarre. E quello che con buona ragione è stato definito un complesso penale-industriale, un gulag permanente e autoperpetuante, sostenuto da molteplici interessi e da una concezione punitiva di giustizia che viene dagli albori, colorata, al solito, da discriminazione razziale e usata come strumento di controllo sociale. In questa concezione integralista il carcere è mezzo di punizione e vendetta (“retribution”) per i reati compiuti e, malgrado la mole di studi scientifici che ne indicano la maggiore efficacia, la riabilitazione rimane un principio assai aleatorio. In realtà uno dei luoghi dove l’idea si era fatta strada fu proprio la California, almeno nella stagione di progresso sociale negli anni 60 e 70, quando amministratori innovatori avevano tentato di applicare una filosofia più illuminata mirata al reinserimento dei detenuti e la diminuzione della recidiva. Ma fu una breve stagione. Le politiche progressiste furono presto vittime della deriva conservatrice e giustizialista innescata dal reaganismo. La “pubblica sicurezza” è diventata tema sempre più ricorrente delle campagne politiche e la “soluzione” immancabilmente proposta, l’inasprimento delle pene detentive e la revoca delle sentenze condizionali, con l’effetto di aumentare ancora la già enorme popolazione carceraria che sconta sentenze anche pluridecennali per accumulo anche di reali lievi. Dal 1985 al 2006 i detenuti in California sono passati da 50.000 a più di 170.000. Nell’escalation securitaria ogni riferimento alla riabilitazione è diventato anatema per un ipertrofico complesso penitenziario affiancato poi dal florido settore commerciale delle prigioni private. Gli istituti di pena sono diventati miraggio per molte località economicamente depresse degli hinterland, cittadine della provincia e del deserto dove un nuovo carcere poteva significare la creazione di lavoro - di personale e guardie - necessario a sostenere l’economia locale, una geografia di definitiva emarginazione in cui i carcerati sono diventati materia prima di un boom costruito sulla privazione della libertà. In questo contesto la polizia penitenziaria è assurta a una delle lobby più potenti del settore pubblico. Una volta introdotta la privatizzazione, gli si sono affiancati interessi con ogni incentivo per mantenere alto il tasso di incarcerazione e opporsi a tutte le riforme atte a favorire la riabilitazione. Ironicamente fu il governatore-terminator Schwarzenegger a iniziare ad invertire la rotta agli inizi degli anni 2000, sotto il suo mandato al nome del dipartimento carcerario venne aggiunta la parola “riabilitazione.” La legalizzazione della cannabis ha portato a un sostanziale alleggerimento delle condanne e ad indulti per reati di droga leggera che avevano tenuto decine di migliaia di persone in carcere. Fra i penalisti intanto hanno preso piede teorie più scientifiche che confermano l’utilità di misure riabilitative nel ridurre il tasso di recidiva ostinatamente alto, attestato oltre il 60% nei tre anni dopo il rilascio e fino al 77% dopo cinque anni (i numeri sono simili per l’Italia.) Ogni studio e rapporto conferma al contempo quanto le percentuali si abbassino ove vengono intrapresi programmi di studio e qualificazione professionale dei prigionieri prima del rilascio. Paesi come la Norvegia dove sono implementati su larga scala - e dove l’intera esperienza detentiva è volta verso il reintegro sociale dopo il rilascio - registrano invece un abbassamento di recidiva fino a meno del 20%. Di qui l’intenzione, annunciata dal governatore Gavin Newsom, di adottare in California il “sistema norvegese,” a cominciare da un esperimento pilota proprio nel carcere simbolo. Invece della brutalità normalizzata e del regime repressivo che ha caratterizzato la storia di San Quentin, il carcere diventerà banco di prova per formazione professionale, servizi sociali e psichiatrici e un’infrastruttura modello per la riabilitazione preventiva atta a minimizzare la probabilità di ricaduta dei detenuti al termine della pena. Convertire San Quentin alla carcerazione etica e umanitaria, mirata a recupero e reinserimento rappresenta certo una inversione ad U in uno stato dove vige ancora l’uso diffuso del “solitary” - l’isolamento permanente simile al 41-bis - per cui migliaia di detenuti sono sepolti vivi in istituzioni “supermax” (in tutti gli Usa se ne stimano attorno a 48.000.) La riforma implicherà anche la chiusura definitiva del braccio della morte e il reinserimento dei condannati nella popolazione generale. Il presidente Bukele mette El Salvador dietro le sbarre di Gianni Beretta Il Manifesto, 2 aprile 2023 Dopo un anno di “stato d’eccezione” Bukele festeggia il carcere più grande delle Americhe. E rivendica la sospensione dei diritti per ripulire le strade dalle bande giovanili. Esattamente a un anno dalla proclamazione dello “stato d’eccezione” in El Salvador, Nayib Bukele ha il vento in poppa come nessun altro capo di stato latinoamericano, con almeno il 67% dei salvadoregni pronto a rieleggerlo il prossimo anno. E c’è da essere sicuri che, controllando i tre poteri dello stato, modificherà la costituzione che ne vieterebbe la ricandidatura. L’appena 40enne presidente può vantarsi infatti di aver disarticolato le fatidiche maras (bande giovanili) che avevano convertito El Salvador in uno dei paesi più violenti della terra in tempo di pace. Due le organizzazioni che imperversano (o, forse ormai, imperversavano) dagli anni ‘90: la Mara Salvatrucha (MS 13) e la Barrio 18, entrambe nate a Los Angeles e trapiantate in El Salvador via via che i figli d’immigrati venivano deportati dopo aver scontato una pena in California. Si calcola che fossero 70mila i giovani che controllavano in particolare le periferie delle città mediante le estorsioni a qualsiasi attività del quartiere. Chi sgarrava veniva ucciso; e le donne violate. Senza contare poi le dispute fra loro per queste zone, amplie quanto marginali. In una disperante guerra fra poveri, visto che quelle residenziali dei benestanti sono rimaste sempre ben protette. Dopo aver negoziato con le pandillas per i primi due anni presidenziali una sorta di non belligeranza, dal tragico ultimo weekend del marzo 2022 (in cui furono assassinate 87 persone) Bukele ha sospeso alcune garanzie costituzionali e mobilitato esercito e polizia. Da allora 64mila giovani sono stati arrestati (fra loro 1.200 minorenni) con procedimenti giudiziari approssimativi. Il presidente twittero è arrivato poi a costruire a Tecoluca a tempo di record il più grande carcere delle Americhe (e forse del mondo), denominato Centro di Confinamento del Terrorismo, capace di ospitare fino a 40mila mareros, con 19 torri di vigilanza e una recinzione elettrica a 15mila volts. Che ha fatto scattare le ennesime critiche di diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani. Cui Bukele ha replicato in un discorso pubblico: “Ci rimproverate di violare i diritti di questi poverini criminali perché gli togliamo i materassi; ma dove eravate quando loro toglievano la vita a tanti salvadoregni?”. Sull’argomento è sorta poi paradossalmente una querelle fra lo stesso Bukele (che in origine proveniva dalle fila del partito Fmln della ex guerriglia salvadoregna) e il presidente colombiano Gustavo Petro (ex guerrigliero del M 19) il quale ha fatto osservare che “nel nostro paese abbiamo ridotto il tasso di omicidi non con megacarceri ma con scuole e università”, fino a ridurre da 90 (nel 1993) agli odierni 13 i morti ammazzati per centomila abitanti. La risposta di Bukele, che al contrario ha ricevuto la visita e il plauso del senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, è stata questa: “Voi ci avete impiegato trent’anni e noi in meno di un anno siamo scesi a una sola cifra e - ha aggiunto - quei morti non si recuperano”. In effetti quella di Bukele rischia di rivelarsi un’insidiosa scorciatoia autoritaria che non va alla radice della povertà e delle disuguaglianze sociali di questo minuscolo quanto densamente popolato paese, dove l’oligarchia storica le tasse di fatto non le paga neanche oggi; e anzi ha sempre trattato i suoi sottoposti come dei peones. Sta di fatto che girare per le strade del tormentato El Salvador non è mai stato così tranquillo. E se prima una buona fetta dei suoi abitanti subiva terrorizzata le minacce delle bande, oggi si avventura a denunciare ogni sopruso. Augurandosi che duri. Da ultimo, sulla fallimentare legalizzazione del bitcoin di cui Bukele fu l’apripista planetario nel settembre 2021, la sua circolazione si è ridotta ai minimi termini. Anche se il presidente continua ad acquisirlo nonostante il fallimento di numerose piattaforme cripto nel mondo con truffe miliardarie a centinaia di migliaia di piccoli e medi investitori. El Salvador. Bukele, un potere basato su amici e “vocazione di vendetta” di Simone Ferrari Il Manifesto, 2 aprile 2023 Il giornalista e scrittore Oscar Martínez (El Faro): “Degli oltre 90 morti in cella in questi mesi, nessuno aveva avuto una condanna. Erano anziani, operai o fattorini che portavano una pizza in un quartiere controllato dalle pandillas”. Il Salvador vive da un anno in stato di emergenza. Militarizzazione delle città, arresti massivi di membri delle maras e processi sommari hanno ridotto drasticamente i tassi di omicidio del paese, rendendo Bukele il presidente più popolare dell’America Latina. Dietro l’enorme macchina della propaganda governativa si nascondono però detenzioni di innocenti, eliminazione dello stato di diritto, accordi sotterranei con le maras e decine di morti nelle carceri governative. Lo scrittore e giornalista salvadoregno Oscar Martínez, autore di diversi romanzi che esplorano in profondità le violenze centroamericane e caporedattore de El Faro, è una delle più risonanti voci continentali ad aver denunciato le ombre che si celano dietro i fari della propaganda governativa di Bukele. Le politiche securitarie di Bukele sembrano accompagnate da un consenso generalizzato nella popolazione salvadoregna. È effettivamente così? Sì. I dati non mentono: Bukele oggi è il presidente più popolare del continente. Da quando è al potere, nel 2019, ha mantenuto un appoggio popolare superiore all’80%. Vincerà senza dubbio le elezioni incostituzionali del 2024 (una nuova candidatura sarebbe contraria alla Costituzione) e governerà El Salvador fino al 2029. Questo è un fatto. Proprio grazie all’appoggio popolare ha modificato le regole del gioco a suo favore. Controlla i tre poteri dello Stato ed ha trasformato il suo governo in un regime autocratico. Con qualche tinta di democrazia ma ben più evidenti segnali di autoritarismo. La figura di Bukele sta diventando un nuovo riferimento politico per alcune destre latinoamericane, in fase di riconfigurazione dopo le multiple sconfitte elettorali degli scorsi anni (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù). La sua opacità ideologica sembra trovare stabilità solamente nella lotta alle maras. Crede che Bukele si stia proponendo come modello fondazionale di un nuovo “populismo conservatore” continentale? Da tempo mi sto chiedendo se effettivamente Bukele costituisca un modello nuovo, se sia riuscito a cambiare le regole, se abbia inventato una nuova forma di consolidamento del potere in America Latina. Ma credo di no. Bukele ha semplicemente utilizzato meglio alcuni strumenti, con un ottimo tempismo. I patti clandestini con le maras non sono cosa nuova nel Salvador. Lo ha fatto l’FMLN nel 2012. La centralità del tema della sicurezza e le politiche di repressione carceraria nemmeno: il primo piano “mano dura” fu lanciato nel 2003 dal presidente conservatore Francisco Flores. Non è una questione di originalità. Bukele ha saputo leggere i segnali del paese, ha raccolto le istanze di una società poco democratica e facilmente polarizzabile. Una società disperata dai tradimenti della classe politica, che non vuole più promesse di uno statista, ma miracoli di un messia. Non chiede politiche pubbliche, ma un piano di salvezza. Bukele non ha inventato nulla di nuovo. Ha solo messo insieme alcune delle peggiori formule del potere autocratico continentale. In certi tratti ricorda Fujimori: un mago della propaganda che riesce a imporre come generalizzata la sua rappresentazione del nemico. Sfruttando un ‘nemico facile’: le organizzazioni criminali delle maras, verso cui la popolazione non ha alcuna empatia... No. E per capirlo bisogna fare un passo indietro. Una delle peggiori lezioni che il Salvador ha dato al mondo è che la fine di una guerra non implica l’inizio di una pace. La fine di una guerra si decreta. La pace si costruisce. El Salvador non ha mai vissuto un processo di riconciliazione. Non si è mai costituito un tessuto sociale fondato sul dialogo. Ciò ha permesso la prosperazione delle Maras: gruppi criminali che hanno imbarbarito la popolazione più povera del paese. Gruppi le cui identità culturali si sono fondate sul sadismo: più efferato sei, più punti guadagni nella gerarchia del gruppo. Per questo non esiste nessun tipo di solidarietà da parte della società civile. Al contrario, dilaga una vocazione di vendetta e un’allergia a comprendere le ragioni per cui questi gruppi sono sorti. I processi politici sono stati così inefficienti che ora la popolazione chiede solo la morte dei pandilleros. Il politico che la promette ottiene risultati elettorali. Va avanti così dal 2003. Se in cambio si propongono alternative di repressione intelligente, sistemi di indagine indipendenti, progetti di reinserimento in società, non si vincono le elezioni. Al salvadoregno è stata insegnata una logica nefasta: la violenza si risolve con i proiettili. Questa “vocazione alla vendetta” è intercettata anche mediaticamente da Bukele, che sta costruendo una vera e propria narrazione della repressione: i video che diffonde sui social network raccontano in una prospettiva eroica il trattamento inumano verso i pandilleros incarcerati... Le famose immagini dalle carceri, che stanno facendo il giro del mondo, sono un montaggio cinematografico di propaganda. Bukele ha realizzato un vero e proprio casting per trovare i personaggi più adeguati. Ha scelto le duemila persone più tatuate, possibilmente con una M e una S sulla testa, tra le 64mila persone arrestate durante lo Stato di emergenza. La maggioranza di esse non ha alcun tatuaggio. È stato dimostrato che un’importante percentuale delle persone arrestate non hanno alcun vincolo con le maras. Oltre 90 persone sono morte nelle carceri in questi mesi e nessuna di loro aveva ricevuto una condanna da parte di un giudice. Reportage giornalistici hanno evidenziato che tante delle persone che oggi stanno sopravvivendo a stento nelle prigioni sono state arrestate solo perché i poliziotti hanno ritenuto che fossero troppo nervosi quando si sono avvicinati a loro. Bukele ha scelto di mettere in scena ciò che voleva mostrare. Se mostrasse con la stessa eloquenza ciò che sta succedendo davvero nelle carceri, la percezione sarebbe completamente differente. Lo Stato di emergenza sta provocando la morte di anziani, operai, fattorini arrestati mentre consegnavano una pizza in qualche quartiere controllato dalle maras. Ma ciò che sta mostrando è altro: una produzione cinematografica propagandistica. Come è possibile verificare oggi ciò che sta accadendo nelle prigioni salvadoregne? In nessun modo. Nelle carceri è stato proibito l’accesso alle organizzazioni umanitarie internazionali e ai pastori evangelici. Non ci sono informazioni pubbliche sul numero dei detenuti per carcere, sugli indici di sovraffollamento. Uno dei tratti caratteristici del regime di Bukele è la chiusura comunicativa verso ciò che non si deve sapere. Se in termini di politica e sicurezza siamo a un passo dall’essere una dittatura, in termini di informazione pubblica lo siamo già. Racconti un sistema di potere capillare che necessita di una struttura governativi solida e fedele. Quali sono le figure politiche che affiancano Bukele? Bukele ha costruito il suo nucleo di potere intorno alla sua famiglia e ad alcuni amici intimi. I suoi due fratelli non hanno incarichi ufficiali ma hanno un’enorme influenza nel governo. Il presidente dell’assemblea legislativa è un amico fraterno. È una cupola famigliare di potere nazionale. Deputati e ministri sono lacchè con profili politici mediocri. Seguono gli ordini della cupola. Tra Bukele e i funzionari c’è però un anello di congiunzione: un gruppo di venezuelani che provengono dai gruppi di opposizione a Maduro. Sono legati a Leopoldo López e guidati da Sara Hannah. Entrarono in Salvador alcuni anni fa per offrire consulenze a Bukele in epoca di elezioni. Oggi stanno replicando qui le persecuzioni antidemocratiche che dicono di aver sofferto in Venezuela. Sono il secondo circolo di controllo del Paese: un potere occulto che gestisce i legami tra la famiglia Bukele e il resto dei funzionari. Ti interpello come scrittore e giornalista: raccontare gli abusi del governo più popolare del continente è un atto doppiamente coraggioso. I risultati della repressione violenta delle maras hanno generato un mostro mediatico che si autoalimenta con facili consensi popolari, ignorando abusi di potere sistematici, ingiustizie giudiziarie e morti per mano dello Stato. In un contesto così respingente, quale credi che sia la ricetta migliore per narrare la realtà del Salvador oggi? É una situazione complicata. Non ho intenzione di sfumarla: io scrivo per una società che mi detesta. È così. C’è un nucleo di lettori che legge i nostri reportage con criterio. Ma la maggior parte della popolazione salvadoregna è sommersa in un discorso di matrice religiosa: credono ciecamente in Bukele, e si negano a ricevere ogni tipo di informazione che metta in dubbio la loro fede politica. Cosa bisogna fare? Innanzitutto, il giornalismo non può essere condizionato dai lettori e dalle loro credenze. Non è un concorso di popolarità. Come diceva Martín Caparrós, il giornalismo consiste nel raccontare alla gente ciò che non vuole sapere. Se dovessi fare una metafora, ti direi che ciò che facciamo è assimilabile alle onde che sfidano gli scogli. Lo scoglio non ha nessuna intenzione di smettere di essere scoglio. Solo onde solide e costanti possono eroderlo. Poco a poco, scalfiscono muri impenetrabili. Si tratta solo di continuare a fare giornalismo, documentando tutto al meglio, con la massima attenzione al dettaglio. In un momento come questo, un errore giornalistico avrebbe ricadute nefaste.