Quando le Istituzioni sanno ascoltare di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2023 Ci sono direttori di carceri che hanno deciso di non interrompere quelle telefonate quotidiane, che stanno rinsaldando tanti legami famigliari. In tanti anni di volontariato in carcere, e poi anche formandomi come mediatrice penale, e ancora facendo incontrare tanti giovani studenti con persone detenute che narrano le loro storie complesse, pesanti, faticose, ho imparato soprattutto ad ascoltare, e poi ho cercato di insegnarlo anche, l’ascolto, perché penso che tanti reati siano legati a una difficoltà ad ascoltare l’altro da noi, e a provare a mettersi nei suoi panni. Ma l’incapacità di ascoltare non è solo una prerogativa dei “cattivi”: succede fin troppo spesso di trovare, per esempio, Istituzioni incapaci di mettersi all’ascolto dei bisogni delle persone. E questa incapacità è doppiamente vera quando i bisogni sono quelli delle persone detenute. Noi volontari i loro bisogni li abbiamo raccontati, in particolare quelli legati agli affetti, abbiamo fatto parlare le loro famiglie, abbiamo narrato come il Covid paradossalmente in carcere abbia finito per rinsaldare i legami famigliari con le telefonate e le videochiamate. E abbiamo spiegato anche come si stia rischiando di tornare a una triste “normalità”, che è quella dei dieci minuti di telefonata a settimana invece dei dieci al giorno “regalati” dalla pandemia. Ma ci sono Istituzioni, ci sono direttori che stanno decidendo di usare la loro prerogativa, di concedere più telefonate quando ci siano motivi di “particolare rilevanza”, per non interrompere quelle telefonate quotidiane, che stanno rinsaldando tanti legami famigliari. Succede per esempio alla Casa di reclusione di Padova, dove le persone detenute possono di nuovo suddividere tra madri, mogli, figli, nipoti questa “ricchezza” dei dieci minuti al giorno di telefonata, un autentico patrimonio la cui “rilevanza” è costituita prima di tutto dal prezioso contributo a non sfasciare le famiglie, e a non lasciar sole le persone detenute. E a non metterle maggiormente a rischio suicidio. Ma succede anche a Firenze Sollicciano, succede a Trieste, succede in altre carceri. Gentili direttori, fatelo succedere in tutte le carceri del nostro Paese, fate ogni sforzo per permettere alle persone detenute di telefonare a casa ogni giorno e di continuare a fare almeno una volta a settimana la videochiamata. E ci sarà nelle carceri un po’ di serenità in più, un po’ di solitudine in meno, forse anche qualche suicidio in meno. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Nascere dietro le sbarre del carcere italiano di Federica Sapuppo voceliberaweb.it, 29 aprile 2023 In Italia, le condizioni delle carceri e dei detenuti vengono spesso affrontate, ma raramente si considera la situazione dei bambini che nascono e crescono in carcere. Sono 21 i bambini italiani che attualmente si trovano in questa situazione, costretti a scontare una pena insieme ai loro genitori per i crimini commessi. Questi bambini, innocenti e privi di colpa, vivono tra le mura di un carcere, privati della libertà e della possibilità di godere di una vita normale fatta di giochi, scuola e amicizie. Per loro, la vita carceraria è la normalità e questo avrà un impatto devastante sulla loro formazione e sul loro futuro. Una volta usciti dalle mura della prigione, infatti, si troveranno completamente impreparati ad affrontare la società e a stringere dei rapporti sociali. La proposta di legge ritirata - La proposta di legge “Disposizioni in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori” aveva lo scopo di ridurre la possibilità che i bambini fossero costretti a vivere in carcere ma è stata ritirata lo scorso 23 marzo perché contestata dalla maggioranza. Fratelli d’Italia e Lega avevano infatti modificato l’obiettivo iniziale della legge, che era quello di tutelare i minori e non di favorire le condizioni delle madri detenute. La proposta prevedeva inoltre il differimento automatico della pena per le donne incinte o con figli di età inferiore a un anno, ma anche questa misura è stata contestata. L’interruzione dell’iter della proposta di legge rappresenta un duro colpo per i bambini che vivono in carcere e per le loro madri. Tuttavia, ci sono partiti che intendono ripresentare la legge e cercare in ogni modo di tutelare i minori che si trovano in questa difficile situazione. Una soluzione che deve essere trovata al più presto possibile - La questione va affrontata con urgenza e determinazione, perché rappresenta una vera e propria violazione dei diritti umani dei minori. È necessario trovare soluzioni che permettano ai bambini di vivere in libertà, lontano dalle mura della prigione, e garantire loro un futuro sereno. Allo stesso tempo, è importante fornire sostegno alle madri detenute affinché possano essere in grado di crescere i propri figli in modo adeguato, anche durante la loro detenzione. Soltanto così si potrà mettere fine a questa situazione ingiusta e offrire una speranza a quelle persone che oggi vivono in condizioni di estrema difficoltà. “Sconfitti i dietrologi dell’antimafia”. Parla Salvatore Lupo di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 aprile 2023 “Non serviva la sentenza della Cassazione per capire che la trattativa stato-mafia non è mai esistita. L’accusa si basava sul presupposto che Cosa nostra avesse vinto, ma non è così”, dice lo storico dell’Università di Palermo. “Sono contento del verdetto e del fatto che persone che sono state così a lungo imputate, da innocenti, si siano finalmente liberate da questa spada di Damocle. L’iter, come si sa, è stato interminabile, e il processo non è stato solo uno. C’è stata una serie di processi ‘paralleli’, che però alla fine hanno dato tutti lo stesso risultato”. Così, intervistato dal Foglio, lo storico Salvatore Lupo commenta la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha messo la parola fine al processo sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”, assolvendo gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. “Tuttavia - aggiunge Lupo - posso rallegrarmi fino a un certo punto, perché ho sempre detto fin dall’inizio che il mio giudizio non dipendeva dalle decisioni adottate in sede giudiziaria. Ho sempre detto che l’impianto dell’accusa non stava in piedi dal punto di vista storico-politico. Quindi, quand’anche fosse stato dimostrato che i carabinieri del Ros avessero commesso dei reati, questo non avrebbe affatto significato che ci fosse stata una trattativa tra la mafia e lo Stato”. Un termine, trattativa, del tutto “improprio” secondo Lupo, “tant’è vero che non esiste un reato di trattativa nel codice penale”. Tuttavia, evidenzia lo storico, “il tentativo di far passare come una trattativa quei comportamenti ha portato a una drogatura del dibattito pubblico, alla quale hanno contribuito gli stessi soggetti protagonisti del processo sul fronte dell’accusa”. “Una parte dell’opinione pubblica resterà convinta che i carabinieri del Ros sono colpevoli”, nota Lupo: “Ci si basa su un preconcetto, cioè che la verità delle questioni di mafia vada sempre ritrovata in luoghi inconcepibili e innominabili, in un gioco del rilancio all’infinito, che non può essere intaccato da alcun ragionamento o sentenza”. La verità è che “la mafia non ha vinto”, come titola un celebre volume firmato da Lupo con Giovanni Fiandaca: “Tutto l’impianto dell’inchiesta sulla Trattativa presupponeva che la mafia avesse vinto occultamente, ma così non è andata - dice lo storico - Tutte le rivendicazioni del papello, se tali si possono ritenere, non si sono mai realizzate. Già questa semplice constatazione di fatto bastava per rivelare la contraddizione interna dell’idea della Trattativa. Poi, ripeto, i tribunali avrebbero potuto anche rintracciare reati, ma così non è andata e comunque non avrebbe cambiato la constatazione di fondo, che qualsiasi cittadino italiano, se ne avesse voglia, potrebbe fare: la mafia non ha vinto. La mafia di oggi, o per meglio dire le mafie di oggi non sono assolutamente minacciose come lo è stata Cosa nostra fino al 1993”. Ciò che non è chiaro all’opinione pubblica, prosegue Lupo, “è che la lotta alla mafia non è cominciata nel 1993, ma alla fine degli anni settanta”: “È andata avanti con una serie di successi e insuccessi, e per tutto questo periodo il tentativo della mafia di trovare qualche copertura è proseguita con continuità. Quella che viene definita come la strategia del 1993, cioè di alternare le minacce e le blandizie, è stata la strategia di Cosa nostra almeno dal 1981 in poi”. A causa delle sue affermazioni controcorrente, anche dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, lei è stato oggetto di offese e calunnie. C’è chi si è spinto a inserirla nella categoria della “borghesia mafiosa”. Come ha vissuto queste accuse? “A questa rappresentazione della borghesia mafiosa e del negazionismo non ci sto proprio. Ho scritto libri di una certa importanza. In nessuna logica, se non quella faziosissima, posso essere ritenuto un nemico dell’antimafia. Capisco che siano temi sui quali ci sono divisioni profonde nella società, ma a essere calunniato in questo modo io non ci sto. Da studioso, di fronte a certi eccessi, ho detto la mia, ma questo non significa che si debba ragionare in una logica di buoni e cattivi. Queste accuse mi hanno molto dispiaciuto. Ma ho il coraggio delle mie idee, quindi dico: pazienza”. L’inesistente trattativa Stato-Mafia: vent’anni di inchieste e depistaggi di Enrico Deaglio La Stampa, 29 aprile 2023 Per i giudici non c’è mai stata. Ora bisogna chiedersi: chi ha favorito l’abbaglio? E soprattutto, perché? Ma non è, per caso, che tutto questo ventennale processo cosiddetto della “trattativa stato mafia”, si potrebbe configurare come un altro colossale depistaggio? Cioè: non è che si sono inventati questo giocattolo per distoglierci da cose che ci avrebbero fatto paura? Certo, è una tesi ardita; ma è anche giustificata dalla clamorosa sentenza della Cassazione dell’altro ieri; in pratica, i Supremi Giudici hanno informato gli italiani che l’infame scambio, il turpe complotto che ha unito Istituzioni, Quirinale, Carabinieri e Cosa Nostra non è mai esistito. Per capirci, non è che non è stato provato; no, era proprio una balla. E di quelle rudimentali, grossolane, che avrebbe essere dovuta fermare in culla. Peccato, perché c’eravamo appassionati tutti: al papello, a Massimo Ciancimino, al signor Carlo, alle telefonate dal contenuto “indicibile” tra l’ex ministro Mancino e il capo dello Stato Napolitano; al “tritolo che è già arrivato” per il giudice Nino Di Matteo. E lo Stato, quello della trattativa, quello della mafia - lo Stato Mafia, ci piaceva chiamarlo così - non gli dava il bomb jammer, che sarebbe un congegno sofisticatissimo, costoso ma necessario, l’unico che poteva salvargli la vita. E in tanti marciavano: Bombjammer! Bombjammer! Dategli il bomb jammer! Riassumo ora, per quanto è possibile, una cronologia essenziale. Uccisi Falcone e Borsellino, con l’esercito in Sicilia e la lira che crolla, bisogna far qualcosa; la polizia trova un colpevole per la strage di via D’Amelio, un ragazzo di quartiere che ha fatto tutto da solo (primo depistaggio) e i carabinieri non sono da meno; arrestano nientemeno che il Capo dei Capi, ma in casa sua non toccano niente e anzi la signora Riina riceve le sue pellicce a Corleone (secondo depistaggio). Intanto scoppiano bombe in tutta Italia e il New York Times scrive che l’Italia è sull’orlo del colpo di stato. Per fortuna però arrivano le elezioni, perdono i comunisti, vince Berlusconi e tutto finisce: bombe, morti, mafia. In questo contesto di pacificazione, più o meno nell’anno 2009, il giovane figlio di un defunto ricchissimo boss, Vito Ciancimino (storico anello di congiunzione tra corleonesi, carabinieri e grossi industriali) ha lasciato ai figli un notevole patrimonio, frutto del suo lavoro di consulenza (pare una miliardata di euro), su cui l’Antimafia sta ficcando il naso. Ed ecco che allora, che il giovane figlio di don Vito, Massimo, detto Massimuccio, che negli anni d’oro girava in Ferrari facendo lo sbruffone, diventa un “collaboratore di giustizia” e racconta ai pm di Palermo delle enormità che a loro piacciono molto; in cambio chiede solo che gli lascino vivere la sua vita: diventa, come si suol dire, un’icona dell’antimafia. Dunque Massimo racconta che suo padre e i carabinieri del Ros hanno trattato cose ignobili: in cambio dell’arresto di Riina, lo Stato ha accettato di rimettere in libertà dei pericolosissimi boss, ha lasciato libero Provenzano, ha incaricato un certo “signor Carlo” di coordinare criminali e bombe. Borsellino aveva intuito quello che stava succedendo, si era opposto e per questo è stato ucciso. Avete capito bene: dallo Statomafia. C’è anche una prova della trattativa, un “papello”, un elenco, scritto a mano da Riina proprio, con le richieste di Cosa Nostra allo Stato. Viene prodotto il papello, sembra vero, è scritto a mano, contiene dodici punti; in pratica Cosa Nostra chiede la revisione del maxi processo, di avere indietro i suoi soldi, di fare una nuova legge sui pentiti, di abolire le carceri speciali. Ma quello che colpisce è il dodicesimo punto: Riina chiede “la defiscalizzazione della benzina in Sicilia (come ad Aosta)”. Ecco, secondo me, chi si è inventato il dodicesimo punto è un genio, un vero statista. Peccato, però, che il papello sia falso. È fasullo anche il signor Carlo. Massimo dice che suo padre gli aveva detto chi era, anzi che l’aveva proprio scritto e messo in cassaforte. Lo trova, il nome è quello del capo della DIA Gianni De Gennaro, però scritto da Massimo con i trasferelli. Viene denunciato per calunnia, ma i pm non perdono fiducia in lui. Tutto il resto è solido, dicono, la sua è stata “ansia di prestazione”. Già, ma chi gli aveva suggerito di scrivere il nome del capo della DIA? Ma l’apice del dramma viene raggiunto con “le telefonate del presidente”. Siamo nel 2011 e la procura di Palermo mette sotto controllo il telefono dell’ex ministro degli Interni (ed ex presidente del Senato, ed ex vice presidente del CSM) Nicola Mancino, che sospettano di aver loro mentito. Le intercettazioni (prorogate dal Gip ogni quindici giorni) durano sei mesi e si scopre che Mancino il Chiacchierone ha telefonato 9.225 volte per un totale 41mila 827 minuti, senza dire niente di rilevante. Ma ci sono anche 19 minuti complessivi (quattro telefonate) in cui parla con il presidente Napolitano - suo vecchio amico - in occasione del Natale e di Capodanno. Siccome non siamo in Paraguay e da noi non si può intercettare il Presidente, il Quirinale ordina la distruzione dei nastri registrati. E qui parte una folata di follia tutta italiana. Si sparge come il vento nel deserto la voce che in quei diciotto minuti ci sia la prova che il presidente abbia dato l’ordine di uccidere, o qualcosa del genere; un segreto innominabile. Di Pietro: “Io spiccherei un mandato di cattura”, Beppe Grillo lo paragona al Padrino, Il Fatto Quotidiano raccoglie in pochi giorni 150.000 firme a sostegno della procura di Palermo e nel settembre 2012 in una cerimonia pubblica dal sapore mistico le consegna ad Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e all’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli in un clima di grande emozione resistenziale e costituzionale. Il comportamento di Napolitano è la prova - secondo Il Fatto - che la trattativa c’era davvero stata. E giù un profluvio di libri, spettacoli teatrali, speciali televisivi, appelli, cortei; Sabina Guzzanti, Michele Santoro, Marco Travaglio, Beppe Grillo e tutta la compagnia di giro, fino alla candidatura di Ingroia alle elezioni politiche, con la lista “Rivoluzione Civile”, che però andò malissimo. Ma appena la coraggiosa indagine cominciò ad affrontare i giudizi veri, cominciarono i guai; gli imputati venivano tutti assolti anche se i capi di accusa venivano ridimensionati. La procura di Palermo fece capire di essere in pericolo, Beppe Grillo ordinò al suo partito di esporre gigantografie del giudice Di Matteo in tutti i comuni conquistati dal Movimento Cinque Stelle. E così successe, la Roma dell’indimenticata Virginia Raggi per prima. Poi cominciò a chiarirsi un po’ lo scenario. Apprendemmo, seppure a spizzichi e bocconi, che tutta l’indagine sull’omicidio Borsellino era stata depistata fin dall’inizio, per proteggere i veri colpevoli. Che anche l’arresto di Riina non era andato come ce lo avevano raccontato. Che i giudici coinvolti in quelle indagini erano gli stessi che poi si erano inventati la “trattativa”; che la procura di Palermo e quella di Caltanissetta avevano - volutamente? - dimenticato di indagare sugli “appalti” e sugli industriali, su clan rimasti nell’ombra come quello dei Graviano, su suicidi eccellenti mai indagati nelle carceri, sui connubi tra ‘ndrangheta, Cosa Nostra e servizi segreti che cambiano tutti gli scenari. Nel ringraziare la Corte Suprema che ha posto fine a questo strazio, torna di attualità la domanda del mio amico: non sarebbe il caso di indagare su chi ha portato avanti, per una ventina d’anni, il processo della trattativa? È stato per iattanza, per incuria, per carriera, o per malafede? C’è qualcuno, un coraggioso, che può farcelo sapere? Non succederà, c’è da starne sicuri. Quasi quasi dispiace che sia finito tutto. Parla Violante. “La Trattativa? Un romanzo che ha rovinato la vita a molte persone” di Luca Roberto Il Foglio, 29 aprile 2023 “La Trattativa è sempre stata solo la narrazione di uno stereotipo che ha preso piede dopo le stragi del 1992: giudici onesti e indifesi contro politici corrotti. Si è partiti da un preconcetto, si è data fede a Ciancimino e si è andati alla spasmodica ricerca di fatti inesistenti. Con la sentenza della Cassazione che pone fine alla vicenda speriamo di esserci lasciati alle spalle un metodo: la prevalenza delle idee e dei convincimenti personali sui fatti”. Luciano Violante la stagione delle stragi di mafia, dal 1992 in avanti, l’ha vissuta in un ruolo apicale com’è la presidenza della commissione parlamentare Antimafia. È un ex presidente della Camera, uomo delle istituzioni, riconosce che la storia è fatta anche di zone grigie. Eppure nei confronti del processo imbastito a Palermo per ricostruire i presunti indicibili accordi tra criminalità organizzata e politica ha sempre nutrito una certa diffidenza. “Anzitutto, non mi è mai piaciuto sentir parlare di trattativa, senza prove. In secondo luogo, un negoziato, una forma di mediazione c’è stata, ma non ha riguardato la politica; ha riguardato un tentativo di negoziazione tra polizia e mafiosi. Anch’io mi faccio domande su alcuni fatti storici che meriterebbero una spiegazione, un supplemento di analisi, come ad esempio la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, che ha riguardato professionisti di prim’ordine. Ma tutt’altro discorso è mettere sul banco degli imputati l’intera classe politica, senza prove, tentando di costruire un coinvolgimento ad altissimi livelli, per compensare l’assenza di fatti”. In controtendenza con questo principio di buonsenso, è successo che lo stesso Violante, insieme a ministri della Repubblica, insieme allo stesso ex capo dello stato Giorgio Napolitano, siano stati coinvolti come teste nel processo sulla Trattativa. Giovedì, con l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” nei confronti degli ex carabinieri del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, assoluzione estesa anche all’ex dirigente di Forza Italia Marcello Dell’Utri, s’è capito forse con vent’anni di ritardo quanto e come ci sia stato poco rispetto per una sana contrapposizione tra la linea dell’accusa e le linee della difesa degli imputati. Quanto, in definitiva, il dibattito pubblico fosse sbilanciato su quel che spandevano i pubblici ministeri in tv e sui giornali. “C’è stato un intreccio pericoloso tra sistema giudiziario e sistema mediatico. Se ci pensiamo non è stata una deriva della giustizia, che in sostanza ha dimostrato di funzionare, smontando tesi insussistenti. Bensì del cortocircuito mediatico. Perché i media avrebbero dovuto rivendicare un’indipendenza rispetto alle procure, non limitarsi a pubblicare quanto gli veniva passato, senza fare proprie autonome verifiche”, analizza Violante. “Questo non è vero giornalismo, è giornalismo da riporto. I giornalisti devono controllare tutti i poteri, compreso quello giudiziario. E non mi ha sorpreso che alcuni dei cantori della cosiddetta Trattativa adesso stiano manifestando un certo imbarazzo”. Eppure tirare in ballo chi deteneva le redini del governo faceva troppo gola perché chi ha creduto alla linearità di questo processo potesse tirarsi indietro dal farlo. “Ripeto, il problema principale è stato credere che le idee, i pregiudizi, avessero la preminenza sui fatti. In un certo senso, sembra che si siano piegati i fatti per la ricerca disperata della conferma delle proprie tesi. È un processo partito da un’idea politica, i cui principali sostenitori hanno abbandonato la trincea. Ingroia per la politica e Di Matteo per il Csm”. Diciamo che la Trattativa è servita anche da grande indotto pubblicistico- narrativo. Forse l’unico vero lascito ora che le sentenze hanno cancellato la quasi totalità di quella narrazione a senso unico è un invito alla prudenza professionale per magistrati e giornalisti. “Ma un retropensiero mi rimane”, confessa allora l’ex terza carica dello stato. “Certo è che la risonanza mediatici che hanno avuto è stata anche un modo, il più facile, per farsi notare”. Sui giornali, nelle trasmissioni televisive, si continuerà a parlarne come se una trattativa ci sia stata, incuranti delle sentenze scritte nero su bianco? “Questo non lo so, ma essendo la Trattativa diventata una specie di spettacolo, di genere a sé, non mi sorprenderebbe. È sempre stata una storia che si prestava a una narrazione, e le narrazioni piacciono. Solo che le narrazioni poco hanno a che fare con il giornalismo, men che meno con i processi. Forse lo ricorderemo solamente come un grande romanzo, che ha rovinato vent’anni di vita a molte persone”. Manes: “La giustizia è stata usata per raggiungere un obiettivo” di Paolo Comi Il Riformista, 29 aprile 2023 “Una ipotesi ricostruttiva opinabile è diventata un martellante racconto mediatico. I fatti alla fine hanno prevalso, ma quanto accaduto nel processo “Trattativa” è inquietante”. “La storia non si lascia giudicare in un’aula di giustizia, perché il processo penale ha ad oggetto fatti ricostruiti secondo prove, ed accertati al di là di ogni ragionevole dubbio”, afferma l’avvocato Vittorio Manes che ha assistito in Cassazione il generale Mario Mori insieme a Basilio Milio ed il colonnello Giuseppe De Donno insieme a Francesco Romito. Avvocato Manes, pensa che sia stata una forzatura far entrare quanto accaduto in quegli anni nel codice penale? Si è inteso portare in giudizio la storia, sostituendosi agli storici, secondo una molto opinabile ipotesi ricostruttiva che poi è diventata una martellante narrazione mediatica, frutto di congetture, suggestioni, supposizioni, dietrologie complottistiche, teoremi. I fatti, con la loro esasperante ostinatezza, sono sempre gli argomenti più testardi, ed alla fine hanno prevalso - anche grazie al notevole lavoro dei colleghi sia dalla fase di merito - smentendo la grande narrazione della trattativa tra le istituzioni dello Stato e Cosa nostra. In questa vicenda il processo penale ha allora avuto altri fini? Nel processo Trattativa, ciò che sorprende, o inquieta, e l’utilizzo della giustizia penale come strumento di scopo, per arrivare ad un certo risultato, assumendo che un determinato accadimento sia - per qualche convincimento personale - meritevole di censura per poi ricercare una qualche fattispecie penale che sia utile allo scopo, utilizzandola come una specie di ‘guache’ dilatata ed adattata per il risultato che si intende perseguire. E mi riferisco proprio alla contestazione dell’articolo 338 del codice penale. Ma l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali non è il letto di Procuste, altrimenti diventa un esperimento di anarchia giuridica. In altri termini, Questo modo di procedere rispecchia un rovesciamento metodologico ed epistemologico rispetto alla logica consueta e corretta del processo penale, che dovrebbe sempre partire da un fatto precisamente riconducibile ad una fattispecie punitiva per verificarne, scrupolosamente, la consistenza probatoria. Un tema questo già affrontato dal professor Giovanni Fiandaca... Si. Fiandaca, grande maestro del diritto penale, lo aveva avvertito con la consueta lucidità e rigore, e alla fine credo che la Cassazione gli abbia dato ascolto. Se si ribalta questa logica il giudice - e prima di lui il pubblico ministero - si sostituisce alla legge, piegandola ai propri fini. Ed è l’eclissi della separazione dei poteri e dello stato di diritto. Comunque non si può non essere soddisfatti per l’esito del processo... Sembrerebbe un lieto fine, ma c’è ben poco di lieto e, temo, non sarà la fine di questa storia, che proseguirà in altre forme visto che si sono già levate le prime voci critiche che - paradossalmente - rivendicano solo adesso la diversità dei criteri di giudizio tra diritto penale e ricostruzione storica. Proprio per questa ragione un processo come questo non sarebbe mai dovuto iniziare, in uno stato di diritto rispettoso delle regole e ai principi. Calabria. Guerra alla ‘ndrangheta: le terre di Maria Chindamo affidate a Goel Bio di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 29 aprile 2023 L’imprenditrice agricola scomparsa nel 2016 nel Vibonese. Amministratore giudiziario dell’azienda agricola sarà la cooperativa di Goel Gruppo Cooperativo e di Comunità Progetto Sud. La decisione è di quelle che fanno sperare in un futuro indirizzato verso una maggiore legalità. E premia i risultati di un impegno costante contro la ‘ndrangheta. Il Tribunale di Palmi ha nominato Goel Bio - la cooperativa agricola e impresa sociale espressione di Goel Gruppo Cooperativo e di Comunità Progetto Sud - curatore dell’azienda agricola di Maria Chindamo, l’imprenditrice agricola e commercialista di Laureana di Borrello (Rc), aggredita, rapita e fatta sparire la mattina del 6 maggio 2016 in località Montalto di Limbadi, nel Vibonese. L’azienda, unitamente a quella del fratello Vincenzo, era già divenuta socia di Goel Bio alla fine del 2021. Sono stati i figli e lo stesso fratello di Maria Chindamo a fare istanza ai giudici, ma la decisione della Consiglio della Sezione Civile del Tribunale di Palmi rappresenta un passo in avanti importante. È uno dei primi casi in cui viene nominato amministratore giudiziario un’impresa sociale. “Se la ‘ndrangheta voleva controllare le terre di Maria - viene rimarcato in una nota - questo evento ribadisce ancora una volta il miserabile fallimento di questo presunto intento. Goel - Gruppo Cooperativo e Comunità Progetto Sud sono schierati senza mezzi termini al fianco di Vincenzo e dei figli di Maria, nell’intento di trasformare l’atto infame e disonorato della ‘ndrangheta in una potente testimonianza di libertà rivolta a tutti i calabresi”. Un risultato importante come tiene a sottolineare Vincenzo Chindamo: “Siamo soddisfatti per l’affidamento dell’azienda di Maria a Goel Bio. Vediamo nella proposta di Goel - Gruppo Cooperativo e di Comunità Progetto Sud un’anima imprenditoriale, antimafia, etica, giusta ed efficace. Apprezziamo il dono della gratuità della curatela nella ripartenza della nuova gestione, segno di affetto e vicinanza ai figli di Maria”. In rappresentanza di Goel - Gruppo Cooperativo e di Comunità Progetto Sud, don Giacomo Panizza e Vincenzo Linarello parteciperanno il prossimo 6 maggio al tradizionale incontro in memoria di Maria dal titolo “Dalle terre di Maria i colori della rinascita”. Il sit-in, come ogni anno, lo stesso giorno della scomparsa, rinnova un impegno e un appuntamento davanti all’azienda dove Maria è scomparsa, in contrada Montalto, a Limbadi. Anche quest’anno è prevista la partecipazione di scuole, di associazioni, di istituzioni e di singole cittadine e cittadini che hanno scelto di condividere la richiesta di verità e di giustizia della famiglia. L’iniziativa è promossa da: Agape, Comitato Controlliamo Noi Le Terre Di Maria, Libera, Penelope Italia Odv, Goel - Gruppo Cooperativo e Comunità Progetto Sud promotori, insieme, di Goel Bio. Umbria. Verini (Pd) chiede al Dap interventi immediati per le carceri umbria7.it, 29 aprile 2023 Le strutture penitenziarie dell’Umbria penalizzate dalla Toscana. Il senatore Pd Walter Verini ha reso noto di avere avuto un colloquio telefonico con il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) Giovanni Russo al quale ha “rappresentato la situazione delicatissima che si vive nelle carceri umbre. Episodi di violenza che si ripetono, frequenti episodi di autolesionismo da parte dei detenuti, mancanza di copertura di organici della Polizia e di altre figure professionali, presenza sempre più critica di detenuti particolarmente problematici e con problemi psichiatrici”. “Nei giorni scorsi - ricorda Verini in una sua nota - ho potuto ancora una volta toccare con mano questa realtà, visitando il carcere di Spoleto, come recentemente era accaduto a Capanne di Perugia, Terni e nello stesso carcere di Orvieto. Ho riscontrato da parte del capo del Dap attenzione e impegno a dare risposte”. “Sappiamo - osserva - che le criticità non sono solo nelle carceri umbre, ma nella regione umbra la situazione si è fatta davvero grave. Occorrono risposte rapidissime che il Dap dovrà dare ma che dovranno fornire anche e soprattutto il Governo e il ministro Nordio, che anche sul tema del sovraffollamento e dell’ordinamento penitenziario brilla per inerzia e inconcludenza”. Aggressioni all’ordine del giorno e gestione autonoma dei detenuti nelle strutture per mancanza del personale penitenziario, strutture al collasso e responsabilità a livello decentrato. Milano. Il Comune verso l’adesione alla campagna “Madri fuori” askanews.it, 29 aprile 2023 Per dignità e diritti delle donne recluse con propri figli. Il Consiglio comunale di Milano ha approvato un ordine del giorno, prima firmataria Diana De Marchi(Pd), con i colleghi di partito Alessandro Giungi, Daniele Nahum e altri, per far aderire il Comune alla campagna “Madri fuori” a favore della dignità e dei diritti delle donne madri condannate in carcere con i propri figli. È il frutto di un’iniziativa che coinvolge diverse associazioni operanti da anni nei penitenziari. Nel frattempo è in corso in Parlamento una discussione sul tema. Il primo rapporto sulle donne detenute in Italia dichiara 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le donne in carcere, evidenziano i promotori dell’Odg, provengono quasi sempre da una precedente esclusione sociale, da una debolezza economica e culturale: la composizione sociale e giuridica è quella tipica della piccola criminalità marginale. Le pene sono di solito più brevi rispetto agli uomini e ripetute. Molte donne in carcere vengono da situazioni di abusi di cui non sempre si rendevano conto. “Una serie di atteggiamenti sta rilanciando lo stigma della ‘cattiva madre’ che poggia sull’archetipo patriarcale della donna ‘doppiamente colpevole’: infrangendo la legge, queste donne hanno ‘tradito’ la ‘natura femminile’, sono venute meno alla ‘missione’ di madre” ha osservato Dice De Marchi in una nota. “Amplifichiamo la loro voce, diamo un nuovo significato, fuori dalla retorica, alla Festa della Mamma: perché sia un giorno dedicato alla libertà femminile, alla responsabilità di tutte e tutti, alla solidarietà sociale” hanno aggiunto i consiglieri comunali, in vista della ricorrenza del 14 maggio. I consiglieri invitano inoltre a diffondere l’esperienza che in questi anni il Comune di Milano, con una serie di soggetti pubblici e privati, ha promosso per i diritti delle donne detenute e dei loro figli e figlie, anche con sperimentazioni importanti e all’avanguardia nel territorio nazionale, (solo per ricordare due esempi a Milano Icam e la Casa-famiglia protetta per madri detenute e i loro bambini). Tra gli obiettivi c’è anche il patrocinio di azioni d’informazione e sensibilizzazione che si svolgeranno negli istituti penitenziari milanesi il 14 maggio. I consiglieri invitano infine la Commissione Giustizia del Parlamento ad acquisire i dati delle esperienze in atto nelle diverse regioni italiane di case - famiglia come alternativa alla pena detentiva. Roma. La Garante comunale: “Preoccupante sovraffollamento delle carceri” agi.it, 29 aprile 2023 “La dicitura corretta è Garante delle persone private della libertà personale, questo perché oltre alle carceri la competenza è sui Centri per i rimpatri di Ponte Galeria, sulle persone in trattamento sanitario obbligatorio quindi è più ampio”. Inizia con una precisazione l’intervista a Valentina Calderone, la nuova Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, nominata dall’Assemblea lo scorso 16 marzo: “La mia elezione è stata la prima dall’istituzione del Garante perché è cambiato il regolamento. Prima la nomina era fatta direttamente dal sindaco e adesso c’è l’ok dell’Assemblea capitolina. Questo dà ulteriore forza alla figura del Garante e al suo ruolo”. Con l’AGI Valentina Calderone traccia un bilancio di queste prime settimane di lavoro. “Il primo mese è stato di avvicinamento a queste realtà, che già conoscevo molto bene. Sono andata a presentarmi in veste ufficiale alle direzioni. Penso che questo lavoro sia di collaborazione con i vari enti e istituzioni che ruotano intorno a questo mondo. La prima cosa su cui ho deciso di lavorare è portare gli uffici anagrafici all’interno dei penitenziari. Le persone private della libertà hanno una serie di impossibilità ad accedere a servizi che sono basilari che sia una richiesta di residenza, una carta d’identità, un estratto di nascita. Questioni che per noi sono scontate, per chi è ristretto non lo è per niente - spiega la Garante -. Nel corso degli anni il tema dei servizi anagrafici è stato affrontato varie volte, quello che vorrei fare io in collaborazione con questa amministrazione è istituzionalizzare gli sportelli anagrafici all’interno agli istituti. Allargare la maglia dei diritti per le persone detenute è sicuramente un mio compito”. Le carceri sovraffollate - Quella del sovraffollamento delle carceri di Roma “è una situazione abbastanza preoccupante nei quattro complessi di Rebibbia tra cui quello femminile, che è l’istituto femminile più grande d’Europa, Regina Coeli e il minorile di Casal del Marmo. Sono istituti molto diversi, ma il dato certo è che c’è un sovraffollamento superiore alla media nazionale. C’è una percentuale ancora maggiore - spiega Calderone - di persone straniere e questo per esempio apre un gradissimo tema rispetto alle persone che perdono durante la pena la possibilità di avere un permesso di soggiorno, di rinnovarlo, di avere una regolarità sul territorio, precludendo loro la possibilità di avere accesso ai servizi. C’è poi la realtà di chi entra in carcere entra già malato o si ammala nel corso della detenzione. Abbiamo dunque un tema sanitario molto importante come pure lo è quello della salute mentale che è molto forte. La domanda ricorrente è se il carcere sia il luogo in cui ci si può prendere cura di queste patologie”. La Garante poi parla della situazione di Regina Coeli “che è una casa circondariale in cui non dovrebbero esserci persone con condanne definitive. Invece sono presenti almeno 200-300 detenuti che scontano pene definitive e molto lunghe. Questo non è un carcere strutturato con spazi per il reinserimento. Si sommano tanti problemi. È un vecchio monastero trasformato in carcere, con una capienza massima di circa 630 posti quando invece sono ospitati oltre 1000 detenuti. Ci sono sezioni davvero malconce dal punto di vista della struttura, delle pareti, degli impianti idrici e della mancanza di riscaldamenti. Dovremmo porre anche l’attenzione sul fatto che ora in carcere ci sono molte persone che lì non dovrebbero starci e potrebbero essere destinatarie di altro tipo di misure. Davvero tutti hanno bisogno di una misura inflittiva come quella del carcere? I dati ci dicono di no”. Le richieste dei detenuti - “Le questioni anagrafiche sono centrali. Poi la situazione del carcere ti mette nelle condizioni di dover chiedere ogni cosa. Ogni tua esigenza passa attraverso una richiesta, oltre ad essere una perdita di libertà è anche una perdita di autonomia - aggiunge la Garante -. Poi purtroppo c’è, come dicevo prima, un grande tema sanitario. Siamo in un momento in cui Roma ha una grossa emergenza legata alla carenza di personale di polizia che si occupa di traduzioni, quindi di chi si occupa dello spostamento dei detenuti per motivi giudiziari o per ragioni di salute. Sono talmente pochi gli agenti che spesso le visite mediche programmate saltano. Sicuramente va rivista l’adeguatezza di questo nucleo traduzioni perché evidente che sia insufficiente per coprire la popolazione carceraria che ha delle esigenze di cura molto importanti”. Tra i detenuti non tutti se la passano alla stessa maniera, gli stranieri stanno sicuramente peggio. “La percentuale di stranieri nelle carceri viaggia tra il 30 e il 35 per cento - rivela la Garante -. Questi numeri ci raccontano un’ulteriore verità: che le persone straniere sono peggio rappresentate dal punto di vista legale, la mancanza di domicilio e/o di residenza impedisce loro di avere accesso a misure alternative alla detenzione. La sovradimensione non è dovuta a una maggiore delinquenza, ma a minori opportunità”. Le prigioni femminili - “Io penso che il carcere non sia fatto e non sia strutturato per le donne. In Italia non si raggiunge mai il 5 per cento della popolazione detenuta, capiamo già che si tratta di una percentuale residuale. La condizione carceraria per le donne è più afflittiva, hanno più problemi di adattamento e questo provoca un aggravio psicologico - spiega Valentina Calderone. Per fortuna, dal Covid in poi, il fenomeno della presenza dei figli in carcere si è andato riducendo. L’ultima volta che sono stata in visita c’erano solo due donne con i figli minori. Da anni ci sono stati tentativi vari, anche con proposte di legge, per fare in modo che madri detenute con figli al seguito avessero un’altra sistemazione o un diverso percorso ma senza esito. Questo è un fenomeno da monitorare”. Ma non c’è solo la tematica legata ai penitenziari, l’agenda della Garante contempla anche la situazione dei migranti trattenuti nei Cpr. “In Italia ci sono 13 Cpr, nel Lazio solo uno, quello di Ponte Galeria che ospita una novantina di persone. È l’unico Cpr in Italia ad avere una sezione femminile che ospita cinque donne. Se in generale i posti per le donne in tutta Italia sono cinque mi chiedo se non ci sia un’altra sistemazione per loro. Questa è una delle miopie del sistema, perché non si capisce quale sia il senso di trattenere cinque donne irregolari in strutture così - chiarisce Calderone -. La maggior parte delle persone ospitate nei Cpr fa fatica a capire il motivo del trattenimento, non è inusuale trovarsi davanti a persone che entrano ed escono dai Cpr”. “L’altro tema poco affrontato è che spesso vengono trattenute persone provenienti dall’ex Jugoslavia, spesso rom che magari sono nati in Italia, ma sono senza documenti e cittadinanza. Persone che non hanno alcun contatto con i consolati e però si continua a non fare un ragionamento sulla regolarizzazione di queste persone, che sono poche migliaia sul territorio nazionale”. In generale tra Cpr e carcere sembra che quelli che soffrono di più siano gli stranieri per una carenza del sistema. “C’è una carenza in tutti i servizi per quanto riguarda la mediazione culturale. Recentemente all’interno dell’amministrazione penitenziaria sono stati inseriti i mediatori culturali. Ovviamente all’interno dei Cpr i mediatori sono da sempre parte dello staff - spiega la Garante -. Sia nelle carceri che nei Cpr c’è anche gente che ha subito mancanze e ingiustizie, parliamo di un’assenza della capacità di integrazione e non di grandi criminali. A volte può succedere che per sostentarsi si possa commettere qualche reato. In questi luoghi si ha la fotografia di quello che è mancato per avere una integrazione adeguata”. Catania. “Mi riscatto per Librino”, intesa Comune-Dap per lavori pubblica utilità detenuti gnewsonline.it, 29 aprile 2023 È stato siglato ieri, nella sede della Fratres Misericordia a Librino (Ct), l’accordo tra Ministero della Giustizia-Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria e Comune di Catania per l’avvio di un programma di pubblica utilità rivolto alla popolazione detenuta nelle carceri della città siciliana, come previsto all’art. 20-ter dell’Ordinamento Penitenziario. Le firme sull’intesa sono state apposte dal Direttore generale dei detenuti e trattamento Gianfranco De Gesu, su delega del Capo Dap, e dal Commissario Straordinario del Comune di Catania Piero Mattei. Secondo il protocollo d’intesa “Mi riscatto per Librino”, i detenuti in possesso dei necessari requisiti e individuati dalle direzioni dei due istituti penitenziari saranno impegnati nell’attuazione di un piano di lavoro che sarà elaborato da Misericordie Librino. Il programma di progetto, che sarà dettagliato in un successivo addendum, prevede attività di manutenzione del verde e assistenza alle persone, raccolta dei rifiuti e pubblica illuminazione e punterà anche sulla riqualificazione eco-ambientale della città. Laureana di Borrello. Dal carcere al lavoro come muratore, la “Seconda chance” di Antonio di Vincenzo Imperitura lacnews24.it, 29 aprile 2023 Grazie ai benefici della legge Smuraglia l’uomo ha ottenuto un contratto di lavoro durante l’espiazione della condanna. Verrà impiegato da un’azienda che ha aderito alla proposta dell’associazione che offre l’opportunità di un reinserimento concreto nella società. Da Laureana di Borrello a Candidoni; dal penitenziario in cui sconta la sua pena, all’azienda in cui svolgerà la mansione di muratore: una decina di chilometri scarsi che segnano l’inizio di una nuova vita per Antonio (lo chiameremo così), uno dei pochissimi detenuti in Calabria ad ottenere, grazie ai benefici della legge Smuraglia, un lavoro fuori dal carcere durante l’espiazione della condanna. Cinquanta anni, detenuto al “Daga” - l’istituto a custodia attenuata di Laureana, nel reggino - Antonio ha completato un corso di formazione professionale all’interno del carcere ed è stato dichiarato dal giudice di sorveglianza idoneo al lavoro all’esterno della struttura. A tendergli la mano, offrendo un contratto di lavoro come muratore, il Ceo di “Fattoria della Piana” Carmelo Basile che ha aderito alla proposta di “Seconda Chance”, l’associazione che fa capo alla giornalista di La7 Flavia Filippi che in Italia ha già reinserito nel mondo del lavoro oltre 160 detenuti. “Per noi questa prima esperienza con il mondo del carcere è una sfida - racconta Basile - una sfida che siamo convinti di poter vincere. Abbiamo fatto una serie di colloqui in carcere e Antonio ci è sembrato la persona adatta per entrare nella nostra azienda”. Inizierà il giorno successivo a quello dedicato ai lavoratori, il primo giorno della nuova vita lavorativa del detenuto. A bordo della sua auto raggiungerà l’azienda distante pochi chilometri dal carcere, dove farà ritorno dopo il turno di lavoro. “Abbiamo studiato bene i turni per cercare di venirci incontro il più possibile e sono sicuro che non ci saranno problemi di integrazione. Nella nostra azienda lavorano 120 persone da 17 Paesi diversi e non si sono mai verificati casi di razzismo o di discriminazione. All’inizio anche io - dice ancora Basile - avevo qualche dubbio rispetto al lavoro con i detenuti, ma poi abbiamo aderito all’iniziativa di Seconda Chance, firmando la convenzione con l’istituto penitenziario. Non abbiamo indagato sulle cause della sua detenzione, è un argomento che non ci interessa. Parliamo di persone che hanno sbagliato, ma tutti abbiamo fatto degli errori nella nostra vita. Alcuni più gravi, alcuni più spesso: noi offriamo una seconda occasione, vediamo come va. Non è escluso che questa prima esperienza possa anche continuare. Siamo anche in attesa della decisione del giudice di sorveglianza rispetto ad altre due figure professionali che abbiamo già individuato e scelto dopo i colloqui. Sono due ragazzi giovani, se la richiesta sarà accolta entreranno in squadra: uno lavorerà al caseificio, l’altro come elettricista”. La legge Smuraglia - In vigore da poco più di venti anni, la legge 190/2000 che porta il nome dell’avvocato e protagonista della guerra partigiana che ne fu il promotore, mira a reinserire nella società i detenuti, per i quali, il ritorno al mercato del lavoro dopo l’espiazione della pena è sempre molto complicato e con il rischio recidività sempre dietro l’angolo. La legge prevede una serie di facilitazioni fiscali e contributive per i datori di lavoro, che si concretizzano con un credito d’imposta di 520 euro al mese per ogni assunto. Seconda Chance - A fare da ponte tra il mondo delle aziende e quello delle carceri, in questo caso, è stata l’associazione non profit Seconda Chance, nata da un’idea della giornalista tv Flavia Filippi. “La collaborazione con Fattoria della Piana è la prima che si concretizza in Calabria per la nostra associazione, ma sono tanti gli imprenditori e i gruppi industriali che operano in Calabria con cui abbiamo allacciato i contatti e che si sono detti disponibili ad assumere detenuti. Abbiamo trovato ampie disponibilità anche nei penitenziari che abbiamo visitato in tutta la regione: a Vibo, Catanzaro, Paola e Locri. Sono certa che questo di Antonio sarà solo il primo caso di una lunga lista di nuove opportunità di riscatto e reinserimento sociale”. Chieti. In partenza il corso di formazione per volontari penitenziari chietitoday.it, 29 aprile 2023 Le lezioni a partire da sabato 6 maggio nelle sedi del Csv di Chieti e Pescara. Organizza la onlus Voci di dentro. Torna il corso di formazione per volontari penitenziari organizzato dall’associazione onlus Voci di Dentro di Chieti. Le lezioni si terranno il sabato mattina, dalle 9 alle 12, a partire dal 6 maggio nelle sedi del Csv (Centro di servizio per il volontariato) Abruzzo a Chieti e Pescara. I temi trattati saranno quelli inerenti la realtà carceraria, il volontariato, la rieducazione dei detenuti e il reinserimento sociale ma anche l’informazione e la comunicazione. “Questo percorso sul volontariato penitenziario rappresenta un importante iniziativa con cui l’associazione Voci di dentro e il Csv Abruzzo intendono formare nuove figure destinate ad operare in un importante settore del volontariato sociale. È un’occasione da non perdere - l’invito degli organizzatori - per scoprire spazi di impegno civile, allargare le conoscenze e contribuire alla visione di una società solidale, anche verso chi sbaglia, nel rispetto dei principi dell’art 3 e 27 della Costituzione e dell’Ordinamento penitenziario”. Numerosi relatori e ospiti di spessore si avvicenderanno nel corso delle settimane. Oltre agli esperti di Voci di dentro, interverranno il direttore del carcere di Chieti Franco Pettinelli, il dirigente del Dap Fiammetta Trisi, la vicecomandante Paola Bussoli, l’ex ispettore di polizia penitenziaria Maurizio La Cioppa e le capo area giuridico pedagogica delle case circondariali di Pescara e di Chieti Federica Caputo e Stefania Basilisco. I posti sono limitati; per informazioni e iscrizioni: voci@vocididentro.it Saluzzo (Cn). Marco Revelli fa conoscere ai detenuti la figura del padre, scrittore e partigiano di Vilma Brignone targatocn.it, 29 aprile 2023 L’incontro è nato in seguito alla richiesta dei detenuti studenti. All’iniziativa a ridosso della Festa di Liberazione, hanno partecipato Bruno Mellano garante regionale dei detenuti, Giulia Serale della Fondazione “Nuto Revelli”, Paolo Allemano Garante comunale dei detenuti e Presidente ANPI provinciale. Un “esempio di voglia di integrazione e conoscenza in carcere” Ieri giovedì 27 aprile nella sala polivalente del Carcere di Saluzzo, si è tenuta una conferenza incentrata sulla figura di Nuto Revelli, scrittore e partigiano italiano. Ufficiale effettivo degli Alpini durante la Seconda Guerra Mondiale, partecipò alla seconda battaglia difensiva del Don. Tra le figure più significative della Resistenza cuneese, comandò una Brigata di Giustizia e Libertà. Dopo la guerra, assunse un ruolo molto importante nella pubblicistica, promuovendo una riflessione consapevole sui fatti e sulle radici di fenomeni culturali e antropologici che hanno alimentato la storia delle nostre terre di montagna e di pianura. I detenuti del carcere di alta sicurezza “Morandi” hanno assistito all’intervento “L’ altrove di Nuto Revelli: scelte di vita e impegno civico” presentato da Marco Revelli, figlio di Nuto, sociologo e scrittore. All’incontro sono intervenuti Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti, Giulia Serale della Fondazione “Nuto Revelli onlus” e Paolo Allemano (Garante dei detenuti del Comune di Saluzzo nonchè presidente ANPI della Provincia di Cuneo. L’iniziativa che si è svolta a ridosso delle celebrazioni della Festa di Liberazione, è nata a seguito della richiesta di alcuni detenuti di conoscere meglio la figura di Nuto Revelli, emersa dopo un evento culturale nel penitenziario in collaborazione con il liceo Soleri Bertoni, l’Apm e la Fondazione “Nuto Revelli”. La Direzione del carcere saluzzese ha coinvolto oltre un centinaio di detenuti, in particolare gli studenti frequentanti le sezioni carcerarie del “Soleri Bertoni” e “Carlo Denina”. Una platea numericamente alta sulla popolazione di circa 380 reclusi. “Storia e attualità si sono intrecciati nell’incontro - racconta il garante regionale - in cui si è parlato di Resistenza, ma anche di diritti e di partecipazione democratica nella prospettiva della situazione carceraria, con interessanti interventi sia da parte da parte dei detenuti, sia da parte di operativi della Polizia penitenziaria. Un esempio di come la voglia di integrazione, riscatto e conoscenza dei reclusi del “Morandi” possa incontrarsi con il mondo culturale, associativo e istituzionale del territorio” conclude Mellano. Milano. Exagora: “Il nostro cd costa 1.000 euro, come un giorno di carcere” di Marta Blumi Tripodi Corriere della Sera, 29 aprile 2023 Il collettivo lavora con ragazzi difficili: “Non vogliamo vivere nell’illegalità, molti di noi hanno un passato difficile, di spaccio e di devianza”. La parola “redenzione” è spesso abusata, ma è l’unica che si adatta a descrivere alcune storie, come quella dell’etichetta Attitude Recordz e del collettivo Exagora. “Il nome significa letteralmente “Fuori dalla piazza”: molti di noi hanno trascorsi di illegalità, spaccio, devianza. E non vogliamo più vivere così”. A parlare è Matteo, uno dei tre fondatori, e lo fa con cognizione di causa: sta ancora finendo di scontare una condanna a 20 anni comminata nel 2011. La vicenda: amici diretti a una festa fermati a un posto di blocco, la patente ritirata, gli animi che si accendono. Nella colluttazione un carabiniere viene ferito a morte e Matteo, appena 19enne, approda nel carcere di Bollate, dove inizia un percorso di presa di coscienza, lungo e non indolore, ci tiene a sottolineare. “Ciò che ho fatto mi lacera ogni giorno, faccio fatica a conviverci. Ma ho capito che il mio compito è cercare di migliorare il contesto: per molte cose è troppo tardi per me, ma voglio dare un contributo tangibile agli altri, per un cambiamento vero”. Da detenuto si laurea in Scienze dell’educazione e comincia a scrivere poesie. Un giorno partecipa a un happening di improvvisazione fuori dal carcere: è un evento con una forte componente rap. “Non conoscevo molto l’hip hop ma i due organizzatori, Yassa e Bongi, mi convinsero a provare il freestyle. Fu uno dei momenti più felici di quel periodo”, ricorda. Passa il tempo, e Matteo diventa un educatore: esce ogni giorno per lavorare in comunità per ragazzi difficili, e la sera rientra in carcere. Yassa e Bongi, ormai amici fraterni, sognano di aprire uno studio di registrazione libero e gratuito, dove i ragazzi di periferia possano sfogare le loro frustrazioni con la musica. “Partecipammo a un bando per i fondi: vincemmo e mettemmo su un piccolo studio, prima in zona San Siro a Milano, e poi a Corvetto”. Gli artisti di Exagora sono giovanissimi, arrabbiati, perennemente tentati di scegliere la via in apparenza più facile. Il primo Ep omonimo esce a fine 2022 sulle piattaforme di streaming, e qualche giorno fa l’annuncio di una prima stampa in cd, con l’aggiunta di quattro inediti. E di una provocazione: le copie, a tiratura limitata, sono in vendita a 1.000 euro l’una, il costo che lo Stato deve sostenere per ogni giornata in carcere di un detenuto. “Se nessuno è disposto a spendere in cultura e in percorsi rieducativi per la gioventù a rischio, dobbiamo essere pronti a pagare il costo sociale dei loro sbagli”. Che non risparmia critiche a chi, nell’industria musicale, finisce per lucrare sul fascino della criminalità: “Vedo ogni giorno gli effetti sugli adolescenti, non sempre positivi. Non voglio fare il moralista, però se questi comportamenti vengono premiati finisce che molti ragazzi in carcere ci finiscono davvero”. È consapevole che c’è chi si sente a disagio se ad affrontare il tema è una persona che sconta una condanna come la sua. “Per me è difficile metterci la faccia, con il passato che ho, ma continuerò a farlo: è proprio attraverso queste battaglie che forse riusciremo a scuotere l’opinione pubblica”. Lo Stato riparta dal salario minimo di Marianna Filandri La Stampa, 29 aprile 2023 I problemi di occupazione e disoccupazione hanno bisogno dell’intervento statale. Perché? Per molte ragioni, qui ne ricordiamo tre. La prima è che il mercato del lavoro non è un vero mercato. Il lavoro non è una merce che segue i principi della domanda e dell’offerta. Tanto per intenderci se aumenta o diminuisce la richiesta di lavoro, i salari - che rappresenterebbero il prezzo della merce - non possono variare troppo. Da un lato, infatti, con stipendi eccessivamente elevati le imprese non coprirebbero i costi di produzione o erogazione di un servizio e, dall’altro, sotto un certo reddito da lavoro chi lavora non avrebbe nessuna convenienza a essere impiegato. La seconda ragione è che le relazioni tra i due lati del mercato del lavoro, l’offerta e la domanda, si basano su interessi che possono essere in contrapposizione con un certo squilibrio di potere. Coloro che cercano lavoro si trovavano in una condizione di svantaggio nell’acquisire un impiego specie quando la disoccupazione è elevata. Al contrario, chi offre lavoro, pur subendo una certa forza contrattuale dei lavoratori che fa leva sui costi di turnover per ottenere migliori condizioni lavorative, si trova in una posizione di maggiore vantaggio. Può infatti ad esempio sostituire la forza lavoro, in alcuni casi anche delocalizzando. L’ultima ragione di un intervento statale è la necessità di stabilire le regole di funzionamento del sistema. Come interagisce chi cerca e chi offre lavoro? Si potrebbe rispondere che esistono le associazioni datoriali e sindacali che hanno proprio l’obiettivo di rappresentare e tutelare gli interessi rispettivamente di imprese e di lavoratrici e lavoratori. Tuttavia, queste agiscono entro una cornice che è necessariamente definita dallo Stato. L’esempio più lampante è quello della struttura delle retribuzioni. Quest’ultima è molto eterogenea nel nostro paese, con alcuni settori maggiormente tutelati e altri decisamente meno. Eterogeneità che nei più di 900 contratti collettivi nazionali del lavoro emerge chiaramente. Sono emblematici gli ambiti dove la bassa retribuzione oraria e la conseguente presenza di lavoro povero sono più diffusi. Il premio per il peggior settore di attività economica va a “Attività amministrative e di supporto per le funzioni d’ufficio e altri servizi di supporto alle imprese”, che ha ben un terzo circa degli impiegati (34,6%) con un basso salario orario (inferiore ai due terzi di quello mediano). Rientrano in questo ambito i dipendenti dei call center, dei servizi di organizzazione eventi, dei servizi alle imprese come il recupero crediti o l’assistenza clienti. Tra i settori che peggio retribuiscono i dipendenti, al secondo posto con il 30,6%, c’è il settore “Altre attività di servizi”, una categoria residuale che comprende le attività di organizzazioni associative, i servizi di riparazione di beni personali e per la casa e una varietà di servizi personali non altrimenti classificati. Il terzo posto è infine occupato dal settore “Servizi di alloggio e ristorazione”, che comprende i lavoratori di alberghi, campeggi, ristoranti, self-service, catering, bar, gelaterie: la percentuale di occupati a basso salario è in questo caso del 23,5%. Ecco allora che i problemi della disoccupazione e dell’occupazione chiamano in causa le responsabilità dello Stato, che ha il dovere di garantire un’interazione più paritaria tra domanda e offerta di lavoro. Ma non solo. Ha il dovere di promuovere politiche che riconoscano che il lavoro non è una merce ma ha un valore fondamentale per i singoli e per la collettività. Ad esempio, potrebbe iniziare dall’introduzione di un salario minimo legale. Il “No” più forte al dl Cutro lo gridano in piazza i migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 aprile 2023 Non sulla nostra pelle. A Roma protestano migliaia di cittadini stranieri: “La protezione speciale non si tocca”. “Lottiamo per un futuro bellissimo”, dice Ruth, portavoce del movimento. Lo striscione che apre il corteo dice “Fascismo, razzismo e sfruttamento. Non sulla nostra pelle”. Lo tengono in mano le donne del movimento migranti e rifugiati. Una di loro spinge una carrozzina. Un’altra agita il cartello: “Se non sei anti-razzista sei complice”. Da queste parti la parola “razzismo” non rimanda a un’idea sbagliata da contrastare, ma a una condizione materiale che si traduce in ricatti quotidiani. Si declina spesso insieme a sfruttamento e schiavitù. “Schiavi mai”, dice uno striscione. Razzismo è per esempio quello di una ditta di noleggio pullman che il giorno prima di questa manifestazione, denunciano gli organizzatori, ha ritirato la disponibilità di due mezzi. “Non volevano portare i neri a protestare nella capitale”, dicono dal microfono. Era una delle sei contattate, insieme alle altre si è riusciti a far arrivare tutti. Dodici pullman dalla Campania, soprattutto Caserta e Napoli, e poi tanti lavoratori migranti giunti in macchina o treno, da soli o in gruppo, per non perdere questo appuntamento. Perché razzismo è anche quello del governo Meloni che con il dl Cutro vuole limitare l’accesso alla protezione speciale, condannando decine di migliaia di persone all’irregolarità. Contro quella misura a marzo sono iniziate assemblee e riunioni che hanno portato alla mobilitazione nazionale di ieri: “Non sulla nostra pelle”. “Non vogliamo essere invisibili. Ci sfruttano in mare, nei ristoranti, nelle campagne. Abbiamo diritto ad avere diritti. Siamo qui per lottare per un futuro diverso. Vogliamo un futuro bellissimo per i nostri figli”, dice Ruth. Ha 23 anni ed è la portavoce del Movimento migranti e rifugiati di Napoli. Accanto a lei Isabel tiene per mano una bambina piccola e sorridente: “Ogni due anni cambiano la legge sui documenti. Non è giusto nei nostri confronti. Senza il permesso di soggiorno non possiamo lavorare, aprire un conto in banca, andare dal medico”. Scendendo dal quartiere Esquilino verso l’Altare della patria il corteo si gonfia. Sventolano le bandiere di Potere al Popolo, del centro sociale napoletano Ex Opg Je so’ pazzo, dei ragazzi di Osa (Opposizione studentesca d’alternativa), della Ong Mediterranea e soprattutto del sindacato Usb. “In questa piazza ci sono lavoratori della logistica, braccianti da Puglia e Calabria, colf e badanti - dice Guido Lutrario, dell’esecutivo confederale Usb - Come sindacato contestiamo il vincolo tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno: è uno strumento di ricatto verso i lavoratori migranti. Sono sempre loro che subiscono gli attacchi più pesanti e la precarizzazione più dura”. Decine di fischietti alzano i decibel. C’è voglia di farsi vedere, ma anche sentire. Si canta forte, insieme: “Permesso di soggiorno, subito”, “Libertà”, “No, no, non sulla nostra pelle”. Le pettorine rosse del Movimento migranti e rifugiati di Caserta, protagonista della mobilitazione, mettono ordine tra gli spezzoni. “La protezione speciale ha aiutato tanti amici a trovare lavoro o studiare. È gravissimo limitarla. Così aumenterà lo sfruttamento nei campi, le persone finiranno per strada, dovranno interrompere gli studi”, dice Abraham. Ha 23 anni, fa il mediatore culturale a Caserta. È sbarcato a Lampedusa nel 2017. “Ero minorenne, ho frequentato la scuola e adesso sono iscritto all’università: sto studiando scienze politiche”, continua. Anche Durein fa lo stesso lavoro, è nato in Costa D’Avorio ma vive a Salerno. E infatti risponde “tengo 26 anni”, come qualsiasi ragazzo del Sud. “Basta con la paura. Noi immigrati contribuiamo allo sviluppo di questo paese. Portiamo reddito, tasse, nuove culture. Siamo una ricchezza. Questa legge del governo vuole impedirci di dare qualcosa all’Italia, vuole distruggere la nostra società”. Dalla piazza si guarda anche verso il Mediterraneo. C’è rabbia per il naufragio di Cutro. “Potevano essere salvati, potevano essere salvati”, dice un ragazzo. Un altro mostra la scritta: “Abolish Frontex”. Tanti dei manifestanti presenti sono arrivati in Italia attraversando il mare. Sanno di essere dei sopravvissuti. È anche questo dà loro la forza di lottare: per chi non ce l’ha fatta, per chi è prigioniero nell’inferno libico, per chi ancora e ancora tenterà quel viaggio, per renderne la meta un posto migliore. “Non solo per noi, ma per tutti”, ripetono al microfono. Regeni, sit-in davanti al consolato egiziano. I genitori: “Gli imputati siano processati qui” di Simona Buscaglia La Stampa, 29 aprile 2023 Manifestazioni davanti alle rappresentanze diplomatiche del Cairo a Milano e Roma. La famiglia: “È una battaglia di dignità che riguarda tutti”. “Il generale Tariq Sabir e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abedal Sharif: sono questi i nomi dei quattro ufficiali dei servizi di intelligence del Cairo imputati per la morte di Giulio Regeni e chiediamo che siano scanditi, che cada l’ipocrisia sul fatto che queste persone non siano informate del processo”. A lanciare l’appello a un sit-in organizzato ieri da diverse associazioni davanti all’ambasciata egiziana a Roma, è Vittorio Di Trapani, presidente della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana). Il prossimo 31 maggio il gup deciderà se accogliere la richiesta della Procura di Roma per un intervento della Consulta e inviare quindi gli atti alla Corte Costituzionale o decidere per il non luogo a procedere, oppure mandare gli imputati a giudizio nel processo per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore trovato morto Al Cairo, in Egitto, il 3 febbraio 2016. L’iter avviato dopo le indagini della Procura di Roma è infatti in una situazione di stallo causata dall’impossibilità di ottenere gli indirizzi di domicilio dei quattro imputati per la notifica. Durante la manifestazione è stata letta una comunicazione della famiglia Regeni, che chiede anche un intervento politico: “È tempo che l’Egitto dopo innumerevoli vane promesse collabori con il nostro Governo, ed è tempo che il nostro Governo pretenda senza se e senza ma che i quattro imputati per il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio compaiano alla prossima udienza il 31 maggio”. La manifestazione si è svolta contemporaneamente anche a Milano, al consolato egiziano: “Noi non siamo giudici, non vogliamo sostituirci alla giustizia, noi facciamo i giornalisti e abbiamo il dovere di tenere le luci accese su questo caso - precisa Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani -. È scandaloso che dopo sette anni le autorità egiziane continuino a dire di non aver ricevuto l’avviso di essere indagati. È una vergogna a cui bisogna mettere la parola fine”. In attesa dell’udienza “come presidente del sindacato nazionale, chiedo ai giornalisti di rendere pubblici da qui al 31 maggio ogni giorno su testate, giornali online, radio e telegiornali i nomi dei quattro imputati”, aggiunge Di Trapani. I sit-in sono stati promossi, tra gli altri, da Fnsi, Articolo 21 e Festival dei diritti umani in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Lazio e della Lombardia, Usigrai, Stampa Romana, Comitato Unicef Roma e Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia. “Questo era un sit-in di tutti coloro che hanno a cuore la dignità perché verità e giustizia per Giulio Regeni non riguardano solo la famiglia, è un errore gravissimo pensarlo - spiega Giuseppe Giulietti di Articolo 21 -. I depistaggi, le codardie legate a questo caso sono un problema che riguarda tutta la comunità”. Omicidio di Giulio Regeni: Milano e Roma chiedono al governo di agire di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 aprile 2023 La famiglia del giovane ricercatore italiano ucciso sette anni fa affida a una lettera-appello all’esecutivo. Intanto Il Cairo, partner mai in discussione, assume con la Ue la presidenza del Global Counterterrorism Forum. Giovedì, come previsto, l’Egitto ha assunto la co-presidenza del Global Counterterrorism Forum. Dopo il Marocco, sarà Il Cairo ad affiancare l’altra co-presidente, l’Unione europea. Una sorta di grande piattaforma fondata nel 2011 da trenta paesi di tutti i continenti per scambiarsi pratiche e politiche di anti-terrorismo. Il prossimo mercoledì, in un’apposita conferenza stampa, Ue ed Egitto inaugureranno il tandem. Sarà presente il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, lo stesso che nel febbraio 2016 aprì la lunga e dolorosa serie di insabbiamenti intorno al brutale omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni. Che l’Egitto resti solido partner dell’Europa non è mai stato in dubbio, ci ha provato - senza successo - il Parlamento europeo, inascoltato da istituzioni di Bruxelles e paesi membri. E la questione del terrorismo globale è la più citata quando si giustifica il mantenimento di rapporti con il Cairo di al-Sisi - il cui regime a luglio compie 10 anni - per la sua funzione di stabilizzatore regionale (“stabilità” che spiega la sesta posizione dell’Egitto nella classifica dei paesi che nel quinquennio 2018-2022 hanno acquistato più armi al mondo, secondo il Sipri). Ieri a ricordare quegli insabbiamenti, nella chiara intenzione di superarli una volta per tutte e dare un nome alle cose, sono stati due sit-in. Uno a Roma e uno a Milano, il primo di fronte alla sede dell’ambasciata egiziana, il secondo al consolato del Cairo. Al centro gli indirizzi dei quattro principali indiziati del rapimento, le torture e l’omicidio di Regeni, tutti membri della National Security egiziana (il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal e il maggiore Magdi Sharif). Rinviati a giudizio in Italia, ma il processo è fermo: la Procura di Roma non ha gli indirizzi dei quattro agenti, dove poter comunicare l’iscrizione nel registro degli indagati e l’apertura del procedimento nei loro confronti. Prossima udienza prevista il 31 maggio quando il gup dovrà decidere se procedere in contumacia o se rinviare la questione alla Corte costituzionale. A organizzare i due sit-in, tra gli altri, Articolo 21, Festival dei Diritti umani e Ordine dei giornalisti di Lazio e Lombardia. A Roma era presente la famiglia di Giulio che, di fronte alle mura che la separavano dalle rappresentanze del governo egiziano e con alle spalle i nomi degli agenti su quattro sedie vuote, ha affidato a Beppe Giulietti la sua lettera-appello: “È tempo che l’Egitto dopo innumerevoli vane promesse collabori con il nostro governo ed è tempo che il nostro governo pretenda senza se e senza ma che i quattro imputati per il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio compaiano alla prossima udienza il 31 maggio”. “È importante scandire i loro nomi - prosegue la lettera - perché la notizia del processo a loro carico li raggiunga ovunque si trovino e non possano più far finta di non sapere”. Russia. La lettera-appello per liberare Navalny: “Chiediamo di fermare la tortura” La Stampa, 29 aprile 2023 Margaret Atwood, Jude Law, Salman Rushdie, e più di altri cento personaggi illustri chiedono la scarcerazione. Mentre scriviamo, e come lei ben sa, Alexey Navalny è detenuto a IK-6, una delle colonie penali più dure del suo Paese. È stato tenuto sempre in isolamento, schiacciato tra le mura di cemento di una cella grande quanto quella di un canile, senza ventilazione. Le visite dei familiari e le telefonate gli sono proibite, i suoi diritti a interloquire con un avvocato sono stati cancellati. Malgrado abbia la febbre, è costretto a rimanere in piedi tutto il giorno. Aggiungiamo le nostre voci a quelle dei 600 medici russi che richiedono per lui un intervento medico immediato indipendente. Altri 100 legali russi e 100 consiglieri regionali stanno chiedendo che la tortura a Navalny si interrompa e, di nuovo, che gli sia fornita assistenza medica. Navalny sta scontando delle sentenze in carcere sulla base di accuse che in qualsiasi sistema legale indipendente non avrebbero mai potuto essere avanzate. Noi sottoscriviamo l’appello del governo tedesco, delle autorità degli Stati Uniti e dell’Unione europea chiedendone l’immediata liberazione. Farlo è in suo potere. Sottoscrivono l’appello: Michael Abramowitz (presidente of Freedom House); JJ Abrams (regista, compositore); Pamela Adlon (attrice); Paige Alexander (CEO del Carter Center); Svetlana Alexievich (giornalista, scrittrice, Premio Nobel); Anne Applebaum (giornalista, scrittrice); Margaret Atwood (scrittrice); Mikhail Baryshnikov (ballerino, coreografo); Gina Bellman (attrice); François Berléand (attore); Ingrid Betancourt (politica, attivista, scrittrice); François Bizot (antropologo); William Boyd (scrittore); John Burnham Schwartz (scrittore, sceneggiatore); Ken Burns (regista); Carole Cadwalladr (giornalista, scrittrice); Alastair Campbell (giornalista, scrittore); Éric Cantona (attore, ex calciatore professionista); Elizabeth Carling (attrice, cantante); Emmanuel Carrère (scrittore, regista); Jung Chang (scrittrice); Enzo Cilenti (attore); Christopher Clark (storico); JM Coetzee (scrittore, Premio Nobel); Costa-Gavras (regista); Benedict Cumberbatch (attore); Alan Cumming (attore); Charles Cumming (scrittore); Emma Cunniffe (attrice); Rachel Cusk (scrittrice); Richard Dawkins (biologo, scrittore); David Duchovny (attore, scrittore, cantante); Pasquale Esposito (attore, cantante, regista); Sir Richard Evans (storico); Sebastian Faulks (scrittore); Niall Ferguson (storico); Orlando Figes (storico); Kate Fleetwood (attrice); Jonathan Franzen (scrittore); Michael Frayn (scrittore); Niel Gaiman (scrittore); Henry Louis Gates, Jr. (storico, editore, regista); Jamie Glover (attore); Linda Goldstein Knowlton (regista, produttrice); Vesna Goldsworthy (poetessa, scrittrice); Philip Gourevitch (giornalista, scrittore); Roy Greenslade (giornalista, scrittore); Sienna Guillory (attrice); Nedim Gürsel (scrittore); Matt Haig (giornalista, scrittore); David Hare (regista, scrittore); Irina Higgins (neuroscienziata); Stephen Hopkins (regista); Sharon Horgan (attrice, scrittrice, regista); Anthony Horowitz (scrittore); Rebecca Johnson (attrice); Erling Kagge (scrittore, esploratore); Bentley Kalu (attore); Daniel Kehlmann (scrittore); Etgar Keret (scrittore); Jemima Khan (ambasciatrice UNICEF); David Lavin (imprenditore); Jude Law (attore); Kathy Lette (scrittrice); Marc Levy (scrittore); Dixie Linder (produttrice); Giorgio Marchesi (attore); Agnès Martin-Lugand (scrittrice); Mariana Martins (imprenditrice); Natascha McElhone (attrice); Ian McEwan (scrittore); Catherine Merridale (storica); Claire Messud (scrittrice); Tim Minchin (attore, scrittore, musicista); Herta Müller (scrittrice, Premio Nobel); Charlie Murphy (attrice); Péter Nádas (scrittore); Azar Nafisi (scrittrice, professoressa); Sylvia Nasar (giornalista); Bill Nighy (attore); Amélie Nothomb (scrittrice); Trevor Nunn (regista teatrale); Tracy Ann Oberman (attrice, commediografa); George Packer (giornalista, scrittore); Orhan Pamuk (scrittore, Premio Nobel); Daniele Pecci (attore, regista cinematografico); Maria Popova (scrittrice, poetessa); Ellendea Proffer Teasley (scrittrice, traduttrice, editrice); Philip Pullman (scrittore); Charlotte Randall (scrittrice); Dame Vanessa Redgrave (attrice, attivista); David Remnick (giornalista, scrittore, editore); Jean Reno (attore); Daniel Roher (documentarista premio Oscar); JK Rowling (scrittrice); Arundathi Roy (scrittrice); Salman Rushdie (scrittore); Alicia Sams (produttrice); Nitin Sawhney (compositore, produttore); Simon Schama (storico); Kristin Scott Thomas (attrice); Simon Sebag-Montefiore (scrittore, storico); Zaab Sethna (uomo d’affari); Claudia Silver (attrice, sceneggiatrice); Peter Cantante (scrittore, attivista); Ali Smith (scrittrice); Timothy Snyder (storico); Art Spiegelman (fumettista, editore); Samantha Spiro (attrice); Juliet Stevenson (attrice); Tom Stoppard (commediografo); Alexia Stresi (scrittrice); Arch Tait (traduttore, editore); Paul Theroux (scrittore); Olga Tokarczuk (scrittrice, Premio Nobel); Katherine Tozer (scrittrice); Mark Umbers (attore); Álvaro Vargas Llosa (scrittore, commentatore politico); Mario Vargas Llosa (scrittore, Premio Nobel); Indira Varma (attrice); Marina Warner (scrittrice, storica); Dominic West (attore); Olivia Williams (attrice); Rowan Williams (ex arcivescovo di Canterbury, poeta, filosofo, negoziatore di pace); Simon Winchester (giornalista, scrittore); Susannah Wise (attrice); James Wood (scrittore); Lawrence Wright (giornalista, scrittore); Thom Yorke (cantante, compositore); Assad Zaman (attore); Elsa Zylberstein (attrice).