Quelle telefonate che ti “riattaccano alla vita” Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2023 Lettera aperta ai direttori penitenziari e, per conoscenza, al Capo DAP, dottor Giovanni Russo e al Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, dottor Gianfranco De Gesu. In un Paese in perenne emergenza, le uniche emergenze che quasi nessuno vuole vedere sono quelle che riguardano il carcere. Eppure è appena finito l’anno dei record, 84 suicidi, mai così tanti, e questa è una emergenza vera perché la gente sta morendo in carcere. Sostiene uno dei massimi esperti di suicidi, lo psichiatra Diego De Leo, che certo prevenire i suicidi è molto difficile, ma almeno si può cercare di creare una forma di protezione: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo ‘di fuori’ non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane”. Quelle telefonate che sono un’accelerata agli affetti delle persone in carcere Scrive un detenuto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”. Secondo l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Ma quei contatti sono invece una miseria: 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, che vuol dire che un genitore detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno. Il Covid ha portato ulteriore isolamento e sofferenza, e anche le prime rivolte, i morti, la paura. Ma per fortuna qualcuno ha capito che non era la criminalità organizzata a far esplodere le carceri, ma l’angoscia e la rabbia delle persone detenute, spaventate di essere lasciate sole e di non sapere nulla del destino dei loro cari. E si è trovata l’unica soluzione accettabile, dare un’accelerata agli affetti delle persone in carcere introducendo “il miracolo” delle videochiamate e la forza che ti viene dalle telefonate quotidiane. E così le persone si sono ritrovate a chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e a rivedere le loro case e le famiglie lontane con le videochiamate. Gentili direttori, non è motivo “di particolare rilevanza” l’aver chiuso il 2022 con 84 suicidi? “Radio carcere” dice che le telefonate a breve potrebbero non essere più quotidiane o comunque molto frequenti, ma noi non ci crediamo. Non vogliamo credere che i direttori, che hanno la possibilità di concedere più telefonate per motivi “di particolare rilevanza”, rinuncino a un potere, che per una volta è davvero un “potere buono”, di far star meglio le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge, ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana (o comunque molto frequente)? Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Oltre alle videochiamate sostitutive dei colloqui e in numero non inferiore, lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità a quella che la Corte Costituzionale nell’ordinanza N.162/2010 definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Nessuna rieducazione, resta solo la punizione di Giuseppe Belcastro e Cesare Gai* Il Riformista, 28 aprile 2023 Prosegue a ritmo serrato il macabro conteggio. Dall’inizio di questo 2023, 16 esseri umani, 16 persone, detenute e perciò affidate alla cura dello Stato, hanno deciso che è meno gravoso uccidersi che vivere in carcere. Toglie il fiato, pensarci. È ancora nell’aria l’eco di un tempo politico recente nel corso del quale buttare la chiave è stata la parola d’ordine di improvvisati pensatori del diritto e del processo. Ma, passato quel tempo, pensavamo che la nuova temperie culturale avrebbe finalmente messo a fuoco l’acuta tragicità del “tema dei temi”, provando almeno a ragionare seriamente su come ricucire la ferita che il carcere italiano infligge ogni giorno da decenni alla Carta Costituzionale. Siamo i primi a ritenere che il carcere rappresenti talvolta la risposta istituzionale alle esigenze di tutela della collettività, ma viene da chiedersi se la deriva che negli ultimi tempi ha contraddistinto la gestione delle strutture penitenziarie non esprima la completa sconfitta di quel principio costituzionale scolpito nell’art 27 che ormai sembra dimenticato. Si sta sempre lì a salmodiare sulla necessità di contenere il sovraffollamento, di fare prevenzione, di rendere più dignitosa la disgraziata esistenza di chi, talvolta suo malgrado, con questa terribile esperienza ha avuto in sorte di confrontarsi. È come se, nell’idea collettiva, ci fosse ancora tempo per parlarsi addosso, senza avere ben chiaro di cosa si stia effettivamente discutendo, non solo nelle prospettive tecniche che una discussione di questo tipo inevitabilmente comporta, ma pure negli aspetti più semplicemente umani. In questo tempo sospeso viviamo noi, avvocati penalisti, che con la sofferenza di questi luoghi si confrontano ogni santa mattina, assorbendo il dolore di chi sta dentro una cella ma pure di chi, stando fuori, è comunque detenuto: i figli, le mogli, i mariti, le madri, i padri, i fratelli, le sorelle di questi ultimi della terra. Ma è solo per questo peso sul cuore che la Camera Penale di Roma, al congresso UCPI di Pescara, ha reiterato ancora una volta una mozione che impegna la Giunta dell’Unione a operare perché tornino nell’agenda politica quei provvedimenti di clemenza che il disastro delle carceri italiane impone. Amnistia e indulto sono un impegno indifferibile. Ed è per lo stesso motivo che vorremmo restasse sempre acceso il riflettore su quel ganglio giurisdizionale deputato al funzionamento dell’esecuzione penale che è la Giurisdizione di Sorveglianza e che invece, nel nostro Distretto, è letteralmente al collasso. A nulla sono valse le astensioni, le proteste e le plurime interlocuzioni tentate con la locale magistratura di sorveglianza per provare a garantire alla pena la sua finalità rieducativa, mentre occorre tristemente prendere atto che una delicata materia quale quella dell’esecuzione penale venga relegata ai margini della giurisdizione, trascurata in termini di risorse e resa ancora meno accessibile attraverso scelte sconsiderate che precludono al difensore qualsiasi tipo di attività in grado di agevolare la decisione del Magistrato o del Tribunale di Sorveglianza. Sappiamo delle carenze di risorse anche umane in cui il Tribunale di Sorveglianza naviga, ma questo non ci allevia quel peso sul cuore, tanto più nei casi in cui, nelle pieghe di quei deficit, si annidano sicuri alibi per l’insipienza; e, ahinoi, ne abbiamo quotidiana prova. Abbiamo indetto ancora un’assemblea dei soci per il 3 maggio e discuteremo su altre iniziative che alimentino la riflessione su una nuova idea della esecuzione penale e releghino il carcere al ruolo di parte del tutto; una parte, auspichiamo, sempre meno rilevante. Discuteremo del Tribunale di Sorveglianza e della necessità che qualcuno riesca a farlo funzionare. Ma non è più il tempo di approcciare la questione come fosse materia per iniziati: è fuori dalle aule e dai convegni che occorre parlare del carcere, di cosa sia, di cosa dovrebbe essere. È fuori dalle aule che occorre far capire alla collettività che quelli dentro sono esseri umani, tali e quali a noi, con il loro carico di sciagura e molta meno fortuna e che, anche quando hanno sbagliato, non meritano il degrado in cui li abbiamo costretti. Serve un sussulto di coscienza, uno scatto di reni. Non ci sarà forse, nemmeno stavolta. Ma noi continueremo a chiederlo in ogni modo che ci sia consentito. Non siamo noi a girare il chiavistello alla sera serrando le sbarre, ma quel peso sul cuore ci rende questa storia così gravosa che a volte ce ne dimentichiamo. *Camera Penale di Roma Quei bambini privati della libertà, una condizione che grida vendetta di Luigi Manconi La Stampa, 28 aprile 2023 Innocenti assoluti e vittime dell’autoritarismo penale del governo, la loro unica colpa è il vincolo di sangue. La lettera pubblicata ieri da La Stampa, scritta dal gruppo “Costituzione viva” delle detenute del carcere di San Vittore di Milano, è un importante documento di letteratura civile. La dimostrazione inconfutabile che l’art. 27 della Carta Costituzionale, al terzo comma, non racconta un’utopia quando parla di “rieducazione del condannato”, ma indica una concreta, concretissima opportunità. Anche il carcere, questo nostro sistema penitenziario tetro e sordido, questa istituzione chiusa, patogena e criminogena, può offrire una qualche possibilità di salvezza. Ma cosa c’entra tutto questo con Vittorio Foa, antifascista e tra i fondatori del Partito d’Azione, e con Fratelli d’Italia? Si vedrà, ma intanto torniamo alla lettera da San Vittore. Il testo rivela che i suoi autori sono cittadini consapevoli e orgogliosi di esserlo; e che la critica argomentatissima che vi si legge, oltre a corrispondere puntualmente a verità, mostra la via per la riforma profonda di una condizione che grida vendetta davanti a Dio e agli uomini: quella degli “innocenti assoluti”. Ovvero, i bambini da zero a tre anni reclusi in carcere con le proprie madri. Chiunque sia prigioniero rivendica, a suo modo e a vario titolo, la propria innocenza. Che lo sia o meno sotto il profilo giudiziario è tutt’altro discorso, ma ciò che più conta è che tutti o quasi, imputati e condannati, avvertono come iniquo lo stato di cattività e vi si ribellano. Chi non può ribellarsi sono, appunto, gli “innocenti assoluti”, nati in carcere o entrativi neonati, la cui sola colpa - come in una tragedia greca - è il vincolo di sangue che li lega a donne titolari di una colpa. Questi minori patiscono offese gravi ai loro sensi nella fase del più delicato sviluppo e subiscono alterazioni rispetto alla vista, all’udito, al tatto. L’impossibilità di uno sguardo lungo e senza sbarre, di rumori ordinari propri di una vita ordinaria, di contatti fisici spontanei e liberi e il peso degli odori acidi e acri dell’atmosfera carceraria: tutto ciò condiziona gli anni della prima infanzia e influisce su quelli successivi. Già nel 2001 la cosiddetta “legge Finocchiaro” (modificata nel 2011) affermò l’incompatibilità tra maternità e infanzia e carcere e dispose che “le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse a espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza”. La legge funzionò solo parzialmente, e in questi oltre vent’anni un numero di bambini oscillante tra i 18 e i 74 sono stati detenuti. Per varie ragioni: a causa di pregiudizi e resistenze di una parte della magistratura, per vischiosi ostacoli burocratici, per l’oggettiva difficoltà a trovare soluzioni residenziali dove scontare la pena. Eppure, dalla riforma del 2011, una scelta capace di pressoché azzerare il numero di “bambini galeotti” c’è: la norma prevede, infatti, la realizzazione di case famiglia protette dove venga garantita sia la sicurezza, sia la possibilità dei bambini di crescere in un ambiente che non ne mortifichi le risorse, non ne spenga gli stimoli, non ne riduca le potenzialità. In altre parole, un ambiente non carcerario. Ma l’incredibile e meschina avarizia della nostra finanza pubblica ha consentito che, finora, si rendessero disponibili appena due case famiglia, una a Roma e una a Milano. Quella stessa norma, tuttavia, presenta limiti gravi. Da qui un nuovo disegno di legge in materia, presentato nella scorsa legislatura a prima firma del deputato del Pd Paolo Siani e riproposto in quella attuale. Ma, il 22 marzo scorso, nella commissione Giustizia della Camera, la maggioranza di destra approvava delle proposte che prevedevano la detenzione per le madri, nel caso (non infrequente) di recidiva, e l’inapplicabilità della misura del differimento dell’esecuzione della pena per le donne incinte o con un figlio che abbia meno di un anno. Così, il testo risultava totalmente snaturato, tanto da indurre il Pd a ritirarlo. La prima responsabilità è di Fratelli d’Italia che, più ancora della Lega, persegue una politica giudiziaria tutta concentrata sull’estensione massima della risposta penale, sull’innalzamento delle pene e sul ricorso al carcere come, tendenzialmente, sola sanzione applicabile. Tutto ciò si chiama autoritarismo penale e rappresenta uno dei tratti che qualificano i regimi autocratici. Ripetiamolo per l’ennesima volta: in Italia non c’è alcun “pericolo fascista”, certo, ma la storia e la scienza politica insegnano che le democrazie autoritarie sono state e sono numerose nel mondo. Combatterle è un dovere, sapendo che la questione della giustizia, delle pene e delle sanzioni, dei tribunali e delle carceri, è fondamentale. Una grande personalità, opportunamente citata in questi giorni, Piero Calamandrei, nel 1945 fondava la rivista Il Ponte. In un fascicolo speciale, pubblicato quattro anni dopo, veniva chiesto a numerosi esponenti dell’antifascismo il loro pensiero sul carcere. Vittorio Foa (otto anni di prigionia fascista) così rispondeva: “dopo un certo numero di anni nella coscienza del recluso la pena non può finire. Ogni pena è a vita. Ma si rifletta che le privazioni materiali del carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l’organismo umano si adatta con facilità, ma che il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo”. La conclusione è: “Nessuna pena detentiva dovrebbe perciò superare i tre, e al massimo i cinque anni”. Che si condivida o meno una tale radicale riforma, non la si attribuisca comunque a una sorta di delirante miraggio. Dietro c’è la tragedia dell’esperienza patita: “Bisogna vedere le carceri, bisogna conoscerne il dolore per dargli valore”. (Piero Calamandrei). Cospito, dopo la sospensione dello sciopero della fame migliorano le sue condizioni di salute La Repubblica, 28 aprile 2023 Il medico dell’anarchico recluso al 41bis: “Mangia cibi solidi. Si sta risolvendo il deficit neurologico, possiamo parlare di scampato pericolo”. Migliora lo stato di salute di Alfredo Cospito, l’anarchico recluso al 41 bis. Dopo aver sospeso, lo scorso 19 aprile, lo sciopero della fame che aveva iniziato il 20 ottobre del 2022, Cospito è “in buone condizioni ed è aumentato di peso arrivando a toccare 74,7 kg”. Lo riferisce, in un audio, il medico Andrea Crosignani al legale dell’anarchico, Flavio Rossi Albertini, dopo averlo visitato nel reparto penitenziario del San Paolo di Milano dove è detenuto. “Prosegue il percorso di prudente rialimentazione - dice il medico di fiducia. Mangia cibi solidi, carne di pollo e vitello e ha ridotto gli integratori calorico-proteici”. Inoltre, “si sta risolvendo il deficit neurologico periferico” che gli aveva causato problemi di deambulazione nell’ultimo periodo del digiuno. “La situazione va verso un graduale miglioramento - conclude il dottore - Possiamo parlare di scampato pericolo”. A questo punto è probabile che l’anarchico venga trasferito di nuovo nel carcere di Opera. La settimana scorsa Cospito ha deciso di interrompere lo sciopero della fame, durato sei mesi, dopo che la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’articolo del codice che “vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. “Una vittoria oggettiva”, l’ha definita l’avvocato Flavio Rossi Albertini. Trojan, aumentano gli spiati ma nessuno controlla i controllori di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 28 aprile 2023 Il procuratore di Milano Marcello Viola sentito in Commissione Giustizia al Senato: “Strumento fondamentale, ma c’è il rischio di conseguenze sproporzionate”. “Il trojan è uno strumento fondamentale per le indagini”, afferma Marcello Viola, procuratore di Milano, ascoltato ieri dalla Commissione giustizia del Senato nel corso dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni voluta dalla presidente Giulia Bongiorno (Lega). “È chiaro - prosegue - che si tratta di un mezzo formidabile di investigazione, che consente di entrare come pochi altri dentro l’ambito oggetto di investigazione: il trojan è spesso oggi il solo strumento che possa penetrare canali criminali di comunicazione o di scambio di informazioni utilizzati per la commissione di gravissimi reati contro le persone. Mi rendo però conto della estrema invadenza di questo strumento, con il rischio anche di conseguenze sproporzionate rispetto alle esigenze di contrasto di talune tipologie di reato”, ha aggiunto il procuratore di Milano, sottolineando come sia necessario “un corretto equilibrio tra esigenze investigative, diritto di informazione e tutela della privacy”. “Spetta al legislatore fare delle scelte operando uno specifico bilanciamento di interessi particolarmente rigoroso, indicandoci per quali reati si possa optare per una più incisiva limitazione della segretezza delle comunicazioni, della riservatezza, della tutela del domicilio, rispetto alle contrapposte esigenza di tutela della collettività a fronte di specifiche categorie di reato”, ha quindi precisato Viola. A Milano lo scorso anno sono state effettuate 3119 intercettazioni, di cui 148 con i captatori. Il numero dei rigetti delle richieste del pm da parte del gip si attesta mediamente sul 10 percento, segno, ha ricordato Viola, di un “adeguato controllo giurisdizionale”. Per quanto riguarda le società accreditate preso la procura di Milano, nel 2017 venne fatto un bando dove esse indicavano, oltre ad una serie di informazioni, anche il settore di competenza: telefoniche, telematiche o ambientali. Era stata valutata la possibilità di un bando di gara per l’aggiudicazione dei servizi, ma, d’intesa con la procura nazionale antimafia, si decisi di soprassedere in attesa della pubblicazione del decreto ministeriale, poi adottato lo scorso ottobre, che ha specificamente individuato e descritto le prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione, unitamente alle relative tariffe. A seguito di ciò è stata predisposta una scheda-confronto tra il listino adottato presso la Procura e quello ministeriale, con un “fuori listino” per prestazioni particolari, come ad esempio l’uso di software in grado di dare una lettura aggregata dei dati. Circa la sperimentazione a livello nazionale sul monitoraggio degli accessi, delle operazioni e degli interventi sui server delle imprese fornitrici dei servizi, Milano e Napoli erano state individuate come sedi pilota. La sperimentazione ad oggi non ha avuto però seguito. Punto “dolente” riguarda invece il sequestro dei cellulari finalizzato all’acquisizione di messaggistica memorizzata sugli stessi, tema che, precisa Viola, “in ragione della rilevanza e delicatezza evidenzia l’opportunità di valutare un intervento legislativo che possa condurre a una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”. Accade con sempre maggiore frequenza che per esigenze d’indagine penale venga disposto il sequestro di dispositivi di comunicazione mobile (cellulari e smartphone) finalizzato all’acquisizione di chat, email, mms e sms. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il sequestro (strumentale) del dispositivo è senz’altro legittimo, ma a condizione che abbia carattere temporaneo. In altre parole, il sequestro dell’apparato può dirsi proporzionato se temporaneo e finalizzato solo ad estrarre i dati nello stesso memorizzati, prevedendo l’immediata restituzione non appena eseguita la cosiddetta copia forense. “Dopo queste operazioni è necessario distruggere i dati inizialmente sequestrati per evitarne la loro illecita diffusione. Ricordo che sul cellulare sono spesso contenute informazioni che riguardano la sfera sessuale, le convinzioni politiche o quelle religiose, tutte informazioni che se divulgate possono compromettere, anche in maniera irreparabile, il rapporto della persona con il prossimo”, puntualizza il procuratore. Positiva, sempre per Viola, la gestione dell’archivio riservato delle intercettazioni: “Un importante strumento di chiusura delle intercettazioni inutilizzabili o non rilevanti a fini di giustizia che ha dimostrato di funzionare, e pare adeguato rispetto al fine di evitare le fughe di notizie, da attribuire, semmai, al fattore umano”. Problemi ci potranno essere per la sua capienza: già oggi, l’archivio digitale della procura è infatti al limite della sua capacità, tanto che il ministero ha provveduto ad aumentare lo spazio di archiviazione disponibile. La vera riforma sarebbe depenalizzare l’abuso d’ufficio a sanzione amministrativa di Antonella Trentini* Il Dubbio, 28 aprile 2023 Il ministro Nordio, nel più ampio pacchetto di riforme annunciate in queste settimane, ha reinserito l’abuso d’ufficio, su cui stanno scorrendo prematuri fiumi di inchiostro, considerando che le misure previste non sono state ancora formalizzate in testi normativi positivi. Su almeno un paio di punti sembra esserci, tuttavia, grande convergenza. In primo luogo, sulla grande competenza professionale riconosciuta da avvocati e magistrati al ministro Nordio, specifica nell’ambito dei reati delle pubbliche amministrazioni. Sul versante dei contenuti, in tanti siamo convinti che occorra smentire il refrain secondo cui riformare certe norme significa compromettere le esigenze di legalità, specie in un momento storico in cui l’astrattezza delle previsioni confligge con la celerità dei procedimenti imposta dal Pnrr. Le statistiche sono incontrovertibili e dimostrano che la quasi totalità dei procedimenti avviati contro amministratori e dipendenti si sono conclusi con assoluzioni e tanta tribolazione, tanto da portare gli interpreti a coniare la categoria metagiuridica di “burocrazia difensiva”, per indicare forme di immobilismo protettivo. Il ministro Nordio è nel giusto se considera il grande divario tra i messaggi veicolati dai media e la realtà dei fatti in tale ambito e, con la consapevolezza del buon senso, cerca di coniugare il principio di legalità con il principio di certezza del diritto, perché gli enti pubblici deputati a dare risposte ai cittadini devono poter lavorare in un perimetro chiaro. Se volgiamo lo sguardo al secolo passato ci accorgiamo che sin dagli anni 60 l’abuso d’ufficio veniva additato come “un relitto borbonico incompatibile con il principio di legalità”. Tale affermazione era peraltro corroborata dal fatto che il concetto di abuso dei poteri inerenti alle funzioni pubbliche era basato sul concetto amministrativistico di “vizio di legittimità”, tanto che la Corte costituzionale nel 1965 (pronuncia n. 7/ 1965) individuò l’abuso d’ufficio con il compimento di un atto amministrativo illegittimo, in quanto viziato da “violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere”, da cui conseguiva una sanzione piuttosto modesta. Al ministro Nordio suggeriamo, quindi, di ascoltare gli antichi commentatori dell’art. 323 del codice Rocco: se è vero che l’abuso d’ufficio veniva individuato nel compimento di un atto amministrativo illegittimo, perché viziato da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere (tipici vizi patologici e non dolosi dell’atto amministrativo), allora perché non depenalizzare del tutto il reato ascrivendolo a sanzione amministrativa, atteso che indubbiamente le sanzioni amministrative pecuniarie, sono più facilmente applicabili ed hanno da sempre rappresentato un campo del diritto (amministrativo)? La sanzione amministrativa è la conseguenza giuridica di un illecito amministrativamente censurato al quale il nostro ordinamento ricollega, in via principale, il pagamento di una somma di denaro ed in via secondaria o concomitante, provvedimenti che limitano il godimento di beni. Fra il congruo numero di illeciti penali già trasformati in illeciti amministrativi, con lo scopo di dare a questi ultimi un inquadramento giuridico autonomo, potrebbe ben figurare anche l’abuso d’ufficio. Ciò comporterebbe lo snellimento dei lavori dei tribunali penali e la conseguente traslazione dei processi alle autorità giurisdizionali amministrative, per attrazione funzionale. Non servono riforme timide, servono riforme coraggiosamente efficaci; servono solide regole da applicare e chiare sanzioni contro la loro inosservanza da parte dei detentori dei poteri pubblici. D’altra parte, se per i cittadini la “certezza delle regole” rappresenta un fattore di sicurezza, cosicché se questa certezza manca e il cittadino sbaglia, la pratica per costui significa rimetterci in proprio, per chi opera per conto della P. A. sbagliare significa calvari lunghi e costosi, sui quali vengono troppo spesso riversati gli errori di normative troppo frettolose, di difficile applicazione e farraginosità, con passaggi troppo bruschi tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ regime. In questa logica occorre rivedere norme percepite come incriminatorie trasformandole in acceleratorie/semplificatrici, perché sapere che in caso di errori si incorre in responsabilità sanzionatoria e non in un lungo calvario e pubblico ludibrio qual è il processo penale, sarebbe il vero deterrente alla burocrazia difensiva o paura della firma. *Avvocato, Presidente Unaep Assolti ma rovinati: medici vittime del panpenalismo di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 aprile 2023 Malasanità, scagionato l’85% dei sanitari. Ma sullo scudo penale il magistrato Cisterna invoca cautela. I numerosi contenziosi che si aprono in materia di responsabilità medica molto spesso finiscono su un binario morto. Le denunce per casi di malasanità hanno come esito, il più delle volte, l’assoluzione del medico. Si tratta di un tema dal grosso impatto sociale ed economico, che riguarda il funzionamento della giustizia, con l’intasamento dei Tribunali, e mette al centro chi deve affrontare un procedimento giudiziario: primi fra tutti i medici. Questi ultimi spesso vengono sbattuti in prima pagina sui giornali e sui telegiornali, perché ritenuti protagonisti di errori. Vicende che distruggono la vita privata e lavorativa del professionista, per non parlare della gogna mediatica che trova una sponda pure nelle “piazze” dei social. “Prima di risolvere tutte le questioni giudiziarie e accantonare definitivamente la mia vicenda giudiziaria - confida al Dubbio un medico che vuole restare anonimo - ho dovuto attendere oltre dieci anni. Tanto ci è voluto per tagliare il fatidico traguardo del giudizio definitivo davanti al Tribunale. In molti mi hanno considerato un professionista poco attento, per non dire poco capace. Anni di studio e di sacrifici offuscati da una vicenda che prima di essere chiarita ha richiesto tempo e danaro”. Considerazioni amare condivise da Musa Awad, consigliere dell’Ordine dei Medici di Roma, impegnato pochi giorni fa nella presentazione, in Campidoglio, del “Rapporto 2021 sui conflitti e sulla conciliazione” pubblicato da Maggioli Editore in collaborazione con l’Istituto regionale di Studi Giuridici del Lazio “Arturo Carlo Jemolo”. “Le controversie in medicina sono tante - commenta Awad - ma l’85% delle presunte denunce per casi di malasanità finisce in una assoluzione per il medico. Come Ordine dei Medici abbiamo tutto l’interesse a ridurre le controversie e a cercare di chiuderle attraverso la conciliazione, senza arrivare in Tribunale. Già nel 2005, in tempi non sospetti e prima del legislatore, abbiamo istituito presso l’Ordine dei Medici di Roma lo sportello “Accordia”, una sorta di organismo di conciliazione fra le parti, medici e cittadini, proprio per risolvere le controversie. Siamo stati inoltre tra i primi a partecipare all’Osservatorio della conciliazione del Tribunale di Roma”. Qualcosa per i medici che incappano in vicende giudiziarie potrebbe però cambiare, come ha riferito in una intervista al “Messaggero” il ministro della Salute, Orazio Schillaci. Chiaro il messaggio del responsabile delle politiche sanitarie: depenalizzare gli errori medici, ad esclusione del dolo, e porre argine alla cosiddetta medicina difensiva (si veda anche Il Dubbio del 28 marzo scorso). “Dai dati che abbiamo - afferma Schillaci - gran parte delle cause giudiziarie contro i medici finiscono in un nulla di fatto, nell’assoluzione. Per questo va depenalizzato il reato. E poi la medicina difensiva è un male. Porta i medici a prescrivere troppi esami, ingolfa le strutture, aumenta le liste di attesa. E le dico da medico: confonde anche il medico curante che da tanti, troppi, accertamenti deve trarre le conclusioni. Bisogna prescrivere a ciascuno solo gli esami di cui il paziente ha realmente il bisogno”. Predica equilibrio Alberto Michele Cisterna, presidente della Tredicesima Sezione civile del Tribunale di Roma, dove operano sedici magistrati impegnati in via esclusiva in materia di responsabilità professionale. In tale ambito, la responsabilità sanitaria è prevalente con circa l’85% del totale dei casi. “La sindrome da denuncia da parte dei pazienti o dei loro familiari - sottolinea Cisterna - è un dato di fatto. Tante volte si getta discredito sulla sanità per cui le parti sono sempre convinte che sia successo qualcosa o che qualcosa sia andato storto per colpa di qualcuno. Tutto ciò avviene per una sorta di pregiudizio, per una percezione non tranquillizzante del modo in cui la sanità funziona. Tale situazione genera denunce ed esposti, che si indirizzano verso la Procura della Repubblica con la necessità di provvedere. Si tenga presente che la legge Cartabia ha dato una svolta, perché impone per l’iscrizione di un cittadino nel registro delle notizie di reato una soglia di elementi indiziari particolarmente qualificata. Non è più una iscrizione che si effettua automaticamente. Imporrebbe e impone una vigilanza da parte del pubblico ministero e una certa attenzione nell’individuare non già intere filiere di soggetti responsabili, come accaduto tante volte, ma di selezionare l’iscrizione nei confronti di soggetti che effettivamente appaiono attinti da elementi meritevoli di accertamento”. La normativa vigente ha avuto un impatto sulla riduzione dei contenziosi. “Bisogna dare atto - commenta il magistrato del Tribunale di Roma - che con la legge Gelli il numero di cause che vengono introdotte nei confronti dei medici è sceso vertiginosamente. Per le prestazioni rese nell’ambito di strutture complesse, ospedali, cliniche o presidii, le cause contro i sanitari sono pochissime. I danneggiati prendono ormai in considerazione direttamente la struttura e questo ha portato ad un decremento notevole delle cause. Lo studio di Eurispes pone l’attenzione sugli accertamenti svolti, che riguardano i medici, le strutture e le specializzazioni. Una ricerca che non riguarda tutte le cause di responsabilità professionale sanitaria, ma soltanto gli accertamenti svolti in via preventiva”. Sulla presa di posizione del ministro della Salute, Cisterna riflette in maniera approfondita: “Il tema dell’abolizione del reato colposo è molto delicato, nel senso che vorrebbe dire escludere le fattispecie colpose delle lesioni e dell’omicidio in relazione ad atti sanitari. Si tratta di fare una scelta politica estremamente onerosa. Comporta che anche di fronte a fatti di negligenza molto grave il reato non ci sia. Facciamo l’esempio del chirurgo che entra in sala operatoria ubriaco. In tal caso potremmo ravvisare una colpa, una negligenza, ma manca il dolo. Dovremmo poi ragionare se c’è un dolo eventuale. Si tratta di capire se si intende circoscrivere la responsabilità penale alla sola colpa grave. Su questo è già intervenuta la legge Gelli”. Il legislatore fa le leggi, il magistrato le applica. “Non mi permetto di sindacare - conclude Cisterna - sulle scelte del legislatore. La condanna del medico gravemente negligente è una necessità pubblica, non riguarda il solo paziente, ma attiene anche al fatto che occorre perseguire soggetti in grado di fare danni. Immagino che la proposta del ministro vada nel senso di circoscrivere la responsabilità penale colposa ai soli casi di colpa grave. Imprudenza, imperizia e negligenza sono tre elementi che, se espressi a livello grave, hanno un costo sociale che non si può aggirare”. La (non) trattativa Stato-mafia, assolti per “non aver commesso il fatto”: è Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2023 La trattativa Stato-mafia non solo non è più presunta, ma non c’è mai stata. La Corte di Cassazione ha annullato - senza rinvio - la sentenza d’appello, riformulando l’assoluzione nei confronti degli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Da “Il fatto non costituisce reato”, gli ermellini li hanno definitivamente assolti con “non hanno commesso il fatto”. Quindi non solo sono innocenti, ma non hanno veicolato alcuna minaccia mafiosa nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Ricordiamo che il capo d’accusa è infatti “minaccia al corpo politico dello Stato”. Un teorema che ha fatto acqua da tutte le parti fin dall’inizio. E infatti ha perso i pezzi durante questo decennio di travaglio giudiziario pompato mediaticamente. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono stati assolti già dal primo grado. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Assolto con formula piena in secondo grado e confermata dalla Cassazione. Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre è già uscito di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d’Appello ha fin da subito dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire. E di fatto, le loro tesi sono stati già smontate da vari giudici: Ciancimino è risultato contraddittorio, calunnioso e anche fabbricatore di una prova rivelatasi una patacca: il fantomatico “papello di Riina”. Poi c’è Brusca che - come hanno evidenziato i giudici di primo e secondo grado che assolsero Mannino - si è fatto chiaramente suggestionare dalle notizie, dai processi in corso e non per ultimo da chi lo interrogava. Il giornalismo non è cinema, bisogna raccontare i fatti scremati dalle suggestioni e tesi giudiziarie inconcludenti che hanno causato un danno enorme all’opinione pubblica. Ma non solo. Hanno infettato il dibattito politico su argomenti importanti, seppur divisivi, sul funzionamento dello Stato di Diritto. Sono nati addirittura movimenti politici, pensiamo al Movimento Cinque Stelle, che ne hanno tratto linfa vitale per la propaganda populista giudiziaria. Ma pensiamo anche a destra che usa la storia totalmente infondata del non esistente “papello di Riina” per affermare la necessità o addirittura l’indurimento del 41 bis. La lotta alla mafia, soprattutto negli anni terribili delle stragi, necessitava non solo del coraggio, ma anche della competenza. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, veleni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Antonino Caponnetto: “È finito tutto” disse a un giornalista, uscendo dall’obitorio dopo l’ultimo saluto a Paolo Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia. Di fatto lui era il responsabile a livello nazionale del reparto criminalità organizzata dei Ros. Decise, quindi, una strategia in due tempi: sensibilizzare i suoi ufficiali per avere fonti confidenziali di maggiore qualità e creare una struttura per la cattura dei latitanti, tra cui in particolare Totò Riina. Quest’ultimo non solo perché era il capo di Cosa nostra, ma anche perché l’allora maresciallo Antonino Lombardo gestiva una fonte che aveva riferito una buona strada per arrivare a Riina, dicendo che ‘tutte le strade per catturarlo passavano per la Noce, i Ganci e i fratelli Sansone, clan dell’Uditore’. Mori dette l’incarico all’allora capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, per il primo gruppo. Cosa che poi, grazie anche al coordinamento di altri elementi sopravvenuti come la cattura in Piemonte dell’ex autista Di Maggio (utile solo per il riconoscimento del capo dei capi) da parte dell’allora generale Delpino, si arrivò alla cattura di Riina. Ogni tassello è stato fondamentale per concludere l’operazione dei Ros. Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, per due indagini che portarono all’arresto dello stesso, e alla condanna in via definitiva per associazione semplice. Sempre all’inizio del 1992 Ciancimino fu condannato per associazione mafiosa. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi rapporti sia con la politica che con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattare Vito Ciancimino. Ribadiamo un concetto: gli ex Ros non hanno mai negato che ci sia stato un contatto preliminare tra loro e Ciancimino. La procura di Palermo è stata avvisata - compreso del contenuto dell’interlocuzione - subito dopo che è andato via Giammanco e si è insediato Caselli come nuovo capo procuratore. Nulla di scandaloso o inedito. D’altronde, per capire bene di che cosa si sta parlando, bisogna premettere che i pentiti non nascono dal nulla. Lo ha spiegato molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. Ed è esattamente quello che hanno tentato di fare Mori e De Donno con Ciancimino, con l’aggiunta di volerlo in qualche modo “reclutare” per entrare nel sistema degli appalti. Operazione fallita, perché subito dopo - per ordine dell’allora ministro della giustizia Claudio Martelli (lo testimonia lui stesso) - Ciancimino è stato sbattuto al carcere romano di Rebibbia. Punto. Dopodiché tutto è stato stravolto, tra pentiti come Brusca che ritrattano la loro memoria a seconda di quello che apprende nei notiziari e nei processi, e il figlio di don Vito che collaborava con la procura calunniando e fornendo prove farlocche, mentre nel contempo riciclava il “tesoro” di suo padre. Non solo. Come oramai è collaudato ai tempi del caso Tortora, si aggiungono altri pentiti (e presunti testimoni) di serie b che improvvisamente si accodano nell’accusare Mario Mori di aver fatto cose “indicibili”. Ora c’è il sigillo definitivo in questo travaglio che dura da vent’anni. Processati i Ros di allora per ben tre volte. Dalla mancata cattura di Provenzano, la cosiddetta mancata perquisizione del covo (che però covo non era) di Riina fino alla (non) trattativa Stato- mafia. Assolti su tutto. E ci mancherebbe visto che sono tesi pieni di congetture, utili magari per le prossime serie su Netflix. Speriamo non più per un’aula giudiziaria. Stato-mafia, processi e polemiche politiche dall’Arma fino al Quirinale: la parola fine dopo oltre 10 anni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 aprile 2023 Stato-mafia, processi e polemiche politiche dall’Arma fino al Quirinale. La parola fine dopo oltre 10 anni. Sul filo del traguardo finale, il processo alla cosiddetta trattativa Stato-mafia perde anche l’ultimo pezzo, quello che teneva in piedi il ricatto di Cosa nostra veicolato attraverso rappresentanti delle istituzioni: bombe, e minacce di altre bombe, per convincere il governo alla retromarcia sulle più pesanti misure antimafia. A cominciare dal “carcere duro” per i boss. Gli ex generali dei carabinieri Antonio Subranni e Mario Mori, come l’ex colonnello Giuseppe De Donno, erano stati assolti già in appello, ma “perché il fatto non costituisce reato”; avevano fatto la trattativa ma con l’obiettivo di fermare le stragi che il 1992 e il 1993 avevano già insanguinato l’Italia, e avrebbero continuato a farlo. Nessun “dolo” (nemmeno eventuale) di rafforzare la minaccia mafiosa. Ora invece la Cassazione dice che i tre carabinieri “non hanno commesso il fatto”, e la minaccia dei mafiosi (condannati anche in appello) è stata solo “tentata”. Dunque non si sa neanche se sia arrivata al governo. Indagini e dibattimenti - Un’assoluzione più radicale che non mette in discussione solo l’impianto dei pubblici ministeri di primo e secondo grado ma pure - sembra di capire, in attesa delle motivazioni - le valutazioni dei giudici d’appello sul comportamento dei carabinieri in favore dell’ala meno violenta di Cosa nostra, guidata da Bernardo Provenzano, contrapposta a quella di Totò Riina. Era la parte che restava all’accusa: un pezzo di Stato che favorisce un pezzo di mafia, al di là delle valutazioni tecnico-giuridiche sull’esistenza o meno del reato. Ora la Cassazione pare aver cancellato anche questo segmento, e chiude un processo durato dieci anni. L’indagine invece molto di più, sempre accompagnata da polemiche e contestazioni non solo in ambito giudiziario, ma anche - soprattutto - politico. E per certi versi si può considerare ancora in corso, visti gli incroci con l’inchiesta tuttora aperta a Firenze su ipotetici mandanti esterni delle stragi del ‘93 (in cui è indagato l’ex senatore forzista Marcello Dell’Utri, anche lui assolto definitivamente ieri per la trattativa, come in precedenza l’altro politico coinvolto, il democristiano Calogero Mannino) e con il processo-cugino di Reggio Calabria sulla ‘ndrangheta stragista, dove il boss mafioso Giuseppe Graviano è stato condannato in primo e secondo grado per due omicidi commessi al di là dello stretto a gennaio del ‘94; sempre con lo scopo di ricattare lo Stato. Il processo che s’è chiuso ieri ha preso le mosse dalle traballanti, e in gran parte sconfessate, dichiarazioni di Massimo Ciancimino, una sorta di “maggiordomo della trattativa” che accoglieva in casa i carabinieri del Ros e li vedeva dialogare col padre Vito, subito dopo la strage di Capaci che aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta. Le parole di Mori - Di “trattativa” con l’ex sindaco mafioso di Palermo agli arresti domiciliari aveva parlato, del resto, lo stesso generale Mori testimoniando al primo processo di Firenze; senza immaginare che quella parola si sarebbe poi tramutata, qualche lustro più tardi, in un capo d’imputazione contro di lui; aggiuntosi a quelli formulati per la mancata perquisizione al covo di Totò Riina, dopo il suo arresto nel gennaio 1993, e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nell’autunno del 1995: altri processi e altre assoluzioni, che però non hanno mai scacciato le ombre. Riproposte come elementi d’accusa prima nell’indagine e poi nei dibattimenti sulla trattativa. Conclusi da verdetti inizialmente favorevoli alla Procura di Palermo, che nel frattempo cambiava vertici e volti. L’udienza da Napolitano - In primo grado - in aula c’erano il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, dopo che Antonio Ingroia aveva abbandonato la toga per la politica - la raccolta delle prove durò cinque anni e arrivò fino al Quirinale, con la testimonianza dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel corso dell’indagine era stata intercettata la sua voce, mentre parlava con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino; ne scaturì un conflitto approdato alla Corte costituzionale, insieme a incomprensioni e polemiche mai sopite. Nel 2018 giunse la condanna per tutti gli imputati (tranne Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza). Tre anni dopo, in appello, verdetto ribaltato a metà: condanna per i mafiosi e assoluzione per i carabinieri e Del’Utri. Con motivazioni molto pesanti per gli ex ufficiali dell’Arma, protagonisti di “un’iniziativa quanto mai improvvida oltre che in totale spregio ai doveri del loro ufficio e ai loro compiti istituzionali”, dalla quale derivò “una sorta di ibrida alleanza” con la fazione mafiosa di Provenzano, siglata per “indicibili ragioni di “interesse nazionale”: meglio la “strategia della invisibilità e della sommersione” che le bombe. Accusa senza voce - Contro quell’assoluzione, giudicata contraddittoria, la Procura generale di Palermo aveva fatto ricorso in Cassazione, ma nell’aula della sesta sezione l’accusa è rimasta senza voce: i pm della Corte suprema, infatti, hanno chiesto un nuovo processo per i carabinieri non per ottenere una condanna, ma perché non ritenevano sufficientemente provati i fatti alla base del verdetto. La Cassazione è andata oltre, arrivando da sé all’assoluzione più ampia. Chiudendo definitivamente un processo, ma - c’è da scommettere - non le diatribe per come è stato aperto e condotto fino all’ultimo grado di giudizio. Fine della trattativa di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 aprile 2023 La Cassazione chiude senza rinvio la lunga storia del processo Stato-Mafia. Assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per politici e carabinieri del Ros, prescrizione per i boss mafiosi. La parola fine alla storia giudiziaria della trattativa Stato-mafia la mette la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, annullando senza rinvio le condanne dei boss mafiosi e confermando le assoluzioni dei politici e dei carabinieri del Ros. Un finale inglorioso per la procura di Palermo (quella del 2012, Ingroia e Di Matteo i pm protagonisti dell’accusa), per quanto annunciato dalla sentenza di appello e prima dalle assoluzioni definitive in processi paralleli di Calogero Mannino, il politico Dc presunto motore della trattativa, e dei Ros dei Carabinieri che sarebbero stati il tramite dello scambio criminale la mafia. Se il processo di appello aveva ribaltato le condanne di primo grado, assolvendo Dell’Utri per non aver commesso il fatto, i Ros Mori, Subranni e De Donno perché il fatto non costituiva reato, condannando solo i boss mafiosi Bagarella e Cinà (il medico mafioso che ha protetto la latitanza di Riina e Provenzano), la Cassazione è andata oltre. Oltre anche le richieste della procura generale, per la quale bisognava rinviare gli atti all’appello in quanto le accuse ai boss mafiosi non erano sufficientemente provate. La sesta sezione penale ha deciso invece di confermare l’assoluzione di Dell’Utri accogliendo le tesi dell’appello: l’ex senatore non avrebbe trasferito le richieste di Cosa nostra a Berlusconi, presidente del Consiglio. Assolti anche i carabinieri del Ros, ma questa volta con formula piena. Se per l’appello avevano sì preso parte nella trattativa, veicolando le richieste dei mafiosi, ma solo al fine di interromper le stragi e dunque il fatto non costituiva reato, per la suprema Corte va “esclusa ogni responsabilità degli ufficiali negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico”. Sorte migliore anche per i boss della mafia, anche per loro il processo trattativa si chiude qui. Al posto del rinvio, infatti, gli ermellini hanno riqualificato il reato: non più minaccia a corpo dello stato ma tentata minaccia, dunque pena edittale più bassa e, come da comunicato, la Cassazione “ha dichiarato la prescrizione nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà in relazione alle minacce ai danni dei governi Ciampi e Amato, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato”. Questo processo, come altri prima, è stato celebrato fuori dalle aule di giustizia e questo è un male. C’è chi ha costruito la sua carriera immeritatamente su questo processo. La verità giudiziaria è che ci fu solo un tentativo di trattativa. La Cassazione ha confermato infatti “la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di Cosa nostra cercarono di condizionare con minacce i governi Amato, Ciampi e Berlusconi, prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa”. Per l’avvocato dei Ros, Vittorio Manes, “è stato definitivamente chiarito che hanno agito nel pieno rispetto delle leggi e dei loro doveri, anche a costo della propria incolumità, pur di difendere lo stato dalla violenza stragista”. “Questo processo, come altri prima, è stato celebrato fuori dalle aule di giustizia e questo è un male - ha commentato Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice Paolo - e c’è chi ha costruito la sua carriera immeritatamente su questo processo”. Non vacilla l’ex pm Ingroia, oggi avvocato: “L’esito di questa vicenda processuale non è incoraggiante per i cittadini. La sentenza ha acclarato che si è tentato di porre sotto minaccia lo stato, che c’è stata una trattativa, ma lo stato ha deciso di auto assolversi”. Sì, la Trattativa stato-mafia era una boiata. Parla Fiandaca di Luca Roberto Il Foglio, 28 aprile 2023 “La sentenza della Cassazione conferma che questo processo non sarebbe mai dovuto esistere. E mostra le distorsioni del sistema giudiziario e mediatico”, dice il professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo. “E insomma alla fine avevo ragione a sostenere che il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia fosse una boiata pazzesca. Un pasticcio giuridico, non si sarebbe mai dovuto fare”. Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo, la sentenza della Corte di cassazione sulla Trattativa è una specie di cerchio che si chiude. Nel 2012 scrisse un saggio in cui spiegava per filo e per segno perché facesse acqua da tutte le parti. “Per quanto possa essere compiaciuto che le mie critiche fossero giuridicamente fondate, questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana”, dice oggi Fiandaca. Secondo Fiandaca, uno dei più autorevoli giuristi italiani, “negli ultimi dieci anni, piuttosto che ergersi al ruolo di sociologi, storici, moralizzatori, a Palermo avrebbero potuto dedicarsi a tutt’altri processi, invece di farsi guidare dai loro pregiudizi e andare alla ricerca di un’ipotesi di reato che non esisteva”, dice al Foglio. “Eppure questo processo ci dice molto anche delle derive del circuito mediatico e politico. Perché sono abbastanza sicuro che una parte della stampa continuerà a dire che una trattativa c’è stata e che i giudici della Cassazione non sono adatti a esprimersi in quanto troppo distanti dalla drammaticità dei fatti. Ecco, questo calpestio delle regole del diritto è aberrante”. Sul Foglio lo abbiamo scritto più e più volte: il processo sulla Trattativa è stato viziato sin dalla sua origine. “Perché da subito si è capito che ci fosse una sproporzione tra l’accertamento di un reato e la volontà di ricostruzione storica. È evidente che i pm sono andati all’avventurosa ricerca di un ipotetico reato perché muovevano da un pregiudizio storico-morale. Che peraltro gli ha impedito di definire bene cosa fosse questa Trattativa, visto che nei diversi filoni d’indagine parlano di ipotesi diverse, slegate da una regia unitaria”. Nel ragionamento di Fiandaca, l’inconsistenza dell’accusa è sempre risieduta nell’articolo 338 del codice penale, violenza ai danni di corpi dello stato. Vista dalla prospettiva di un’assoluzione così piena, “per non aver commesso il fatto” nei casi di Mori, De Donno e Subranni, si capisce perché il penalista parli adesso di “realtà piegata a uno storytelling mediatico. La stampa avrebbe potuto fare di meglio, piuttosto che schiacciarsi sulla linea dell’accusa. E non parlo solo del giustizialismo alla Travaglio, anche i grandi giornali come Repubblica hanno rinunciato al loro ruolo di controllo”. Dopo 11 anni resta la domanda sul perché si sia andati alla ricerca di un quadro coerente che esplicasse quella stagione storica attraverso le aule del tribunale. “Credo che la stessa definizione di Trattativa fosse enfatizzatrice e fuorviante. Si è voluto a tutti i costi considerare coinvolta la politica, quando, anche qualora fosse emerso qualcosa di vicino al quadro accusatorio, avrebbe dovuto riguardare istituzioni come l’arma, semmai”. A proposito di arma, chi risarcirà adesso servitori dello stato che hanno passato anni nei processi, vedendo infangata forse per sempre la propria immagine pubblica? “E come vuoi risarcirli? Hanno perso dignità, onore, speso oltre vent’anni a cercare di difendersi”, risponde Fiandaca con un po’ di sconforto. “Non ho interesse a difendere personalmente gli imputati, ma quello a cui sono andati incontro è ingiusto”. Ingroia, Di Matteo, Scarpinato, Morosini. Possiamo dirlo, dopo tutti questi anni, che il processo sulla Trattativa è servito più che altro a lanciare carriere tra politica e magistratura? “Non so se siano state davvero carriere o tentativi di carriera”, ci risponde allora Fiandaca. “Certo tutto questo è stato reso possibile da una degenerazione tutta italiana: e cioè credere che l’accertamento giudiziario funzioni solo qualora serva a confermare tutte le nostre verità predeterminate. Ma i processi non si fanno con i pregiudizi. E quel che viene stabilito nel dibattimento è più importante di quel che si scrive sui giornali. Forse questo processo servirà almeno a ricordarci quanto in questo paese sottovalutiamo la cultura del diritto”. Trattativa Stato mafia, il peccato originale che le sentenze non cancellano di Lirio Abbate La Repubblica, 28 aprile 2023 I fatti del 1992 non si possono dimenticare con una sentenza di assoluzione definitiva per i carabinieri e gli altri imputati. Perché si tratta di una storia, riportata anche nelle motivazioni della decisione della Corte d’appello di Palermo che la Cassazione ha confermato, che non può essere processata nelle aule di giustizia: perché sono fatti che non rientrano nel Codice penale, ma appartengono alla dignità di una società che vuole essere contro la mafia. Trentuno anni fa lo Stato era stato piegato da Cosa nostra che aveva piazzato l’esplosivo sotto l’autostrada di Capaci, facendo saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone e dei suoi agenti di scorta. E 57 giorni dopo un’altra esplosione uccideva Paolo Borsellino e i poliziotti che avevano provato a proteggerlo. In quel frangente storico era lo Stato, e non Cosa Nostra, ad essere in ginocchio. E questa debolezza è stata dimostrata proprio in quei giorni da alcuni uomini con le stellette che hanno bussato alla porta dei corleonesi per chiedere un’apertura di dialogo. Forse quei carabinieri non si aspettavano, restando spiazzati, che il mafioso con il quale erano andati a parlare, Vito Ciancimino, veicolasse a Salvatore Riina il loro invito ad aprire un dialogo, che nelle intenzioni di Cosa Nostra era destinato ad altri, probabilmente ai politici che stavano al governo. Questi fatti non si possono cancellare con una sentenza di assoluzione definitiva per i carabinieri e gli altri imputati. Perché si tratta di una storia - riportata anche nelle motivazioni della decisione della Corte d’appello di Palermo che la Cassazione ha confermato - che non può essere processata nelle aule di giustizia. Perché sono fatti che non rientrano nel Codice penale, ma appartengono alla dignità di una società che vuole essere contro la mafia. Appartengono a chi si è sempre posto dall’altra parte della barricata, quella contro Cosa Nostra. E non si può accettare l’idea di sedersi a parlare con i boss, soprattutto quando questi hanno scatenato l’infermo contro uomini dello Stato. La richiesta di avere un dialogo nell’estate del 1992 è partita dagli uomini delle istituzioni e non viceversa. Nei confronti dei mafiosi non si può immaginare se non un contrasto frontale, duraturo, a tutto campo, senza cedimenti di sorta, anche quando diventano silenziosi e sembrano dormienti, così apparendo meno pericolosi. Il mafioso dovrebbe essere terrorizzato dallo Stato e dai suoi rappresentanti e non dovrebbe nemmeno poter immaginare di dialogare con loro. Ma questo è accaduto nel 1992 e non si può dimenticare. Il tentativo iniziale di ricucire con Riina il filo di un dialogo - così come è stato rappresentato in questi tre gradi di giudizio - nell’intento di stemperare la tensione e far tacere le armi, comportava un grave rischio: quello di galvanizzare, come in effetti poi è accaduto, le fila dell’ala stragista, rafforzandone il convincimento che la strategia di attacco frontale allo Stato fosse la strada più sicura per strappare concessioni o costringere le istituzioni a più miti consigli nei riguardi di Cosa Nostra. Nel senso di abbassare l’intensità dell’azione repressiva e ammorbidire sul versante carcerario il trattamento dei detenuti mafiosi. Quella richiesta avanzata da autorevoli rappresentanti delle istituzioni con le stellette è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dello Stato e un segno tangibile di cedimento al clima di violenza e di intimidazione mafiosa, alimentando la spirale della violenza mafiosa, invece di stemperarla. Per i giudici si è trattato di “un’iniziativa quanto mai improvvida”. La vicenda della trattativa, a distanza di trentuno anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, rimane uno degli avvenimenti più opachi che ha attraversato i rapporti tra mafia e antimafia. E adesso il compito dell’accertamento della verità è destinato al giudizio degli storici. Le video chiamate in carcere diventino la norma di Giovanna de’ Manzano Il Piccolo, 28 aprile 2023 Se i sentimenti avessero una logica controllabile, sarebbero ragionamenti. Al netto di un senso socialmente indotto di vergogna e al netto di una dilagante ipocrisia, beato chi non si è mai trovato in attesa di una telefonata da parte di una persona cara detenuta in carcere. Angoscia, impotenza, senso di abbandono sono gli stati d’animo di chi, da libero, vive il tempo come sospeso e attende. Chi scrive si è ritrovata catapultata esattamente in quella condizione di attesa. Figuriamoci come si sente chi libero non è. Da disposizioni contenute nell’Ordinamento penitenziario le telefonate consentite sono nel numero di una a settimana per dieci minuti; può essere concessa una telefonata supplementare per esigenze particolari (esempio: padre carcerato di due figli che vivono con le rispettive mamme). Le telefonate sono a carico del detenuto, quindi solo chi ha soldi può telefonare. Con la pandemia sono state introdotte le video chiamate al posto dei colloqui in presenza, nel numero quindi di sei al mese, ciò per contenere gli effetti dell’isolamento, cioè rivolte, morti, paura. Le chiamate normali sono state aumentate a una al giorno. D’altra parte sono stati 84 i suicidi nelle carceri di tutta Italia nell’anno 2022. È indubbio che le video chiamate cambiano la qualità del rapporto e la qualità della vita per chi sta dentro e per chi sta fuori dal carcere. Si consideri poi che nel carcere di Trieste il numero di stranieri detenuti è alto, per cui per loro vedere i parenti lontani è spesso impossibile per tutta la durata della detenzione se non in video chiamata. A fronte di chi ritiene che il sistema carcerario sia allo stato fallimentare quanto meno sotto il profilo rieducativo e di reinserimento sociale del condannato, auspico veramente che il “miracolo” delle video chiamate, con la forza d’animo che deriva dai contatti quotidiani, che ti riattaccano alla vita, diventi la regola. Stati che io considero di emergenza a parte, uno vero è quello dato della condizione carceraria, di cui ci si dimentica troppo spesso. Puglia. Nelle carceri settimana tragica con due suicidi e un morto per infarto Giornale di Puglia, 28 aprile 2023 “Mentre è ancora viva la commozione tra la gente per la tragica morte della dottoressa Capovani uccisa da un malato psichiatrico a Pisa (che ora in carcere si diletterà ad aggredire i poliziotti rimanendo impunito), una situazione analoga sarebbe potuta accadere nel carcere di Taranto nella giornata di lunedì 24 aprile, quando un paio di detenuti con problemi psichiatrici (con licenza d uccidere rilasciata dallo stato italiano), al reparto infermeria avrebbero accerchiato e poi minacciato prima a parole e poi con delle lamette utilizzate per la barba (occultate nei vestiti), due dottoresse di cui una specialista in psichiatria impedendo loro di allontanarsi dal reparto”. Lo rende noto il Sappe Puglia. “Fortunatamente - prosegue la nota - l’unico poliziotto presente non si è perso d’animo, e mentre lanciava l’allarme via radio, riusciva a tenere a bada i detenuti fino all’arrivo dei rinforzi che sono riusciti a scongiurare il peggio. Sempre a Taranto nella giornata di domenica 23 un detenuto di origini siciliane arrestato il giorno prima si suicidava ancora prima della convalida prevista il giorno dopo(ma poteva entrare in carcere visto che la legge Severino-porte girevoli-dispone che gli arrestati debbano essere rinchiusi in carcere solo dopo la convalida dell’arresto?); e poi ancora violenza con detenuti del nuovo padiglione che hanno sfondato il gabbiotto in cui si riparava il poliziotto, poiché non volevano aspettare l’arrivo dell’infermiere. La giornata di domenica si chiudeva a Taranto con altra violenza in quanto due detenuti che in altri reparti del carcere si auto lesionava con una lametta(uno) mentre un l’altro in preda ad un raptus devastava la camera in cui era ristretto. Non iniziava meglio la settimana poiché, sempre a Taranto, nella notte di 24 un detenuto di origini tarantine definitivo con due anni da espiare (per maltrattamenti) è morto per arresto cardiaco, lo stesso era stato appena dimesso dall’ospedale per un malore avvenuto il giorno prima. Nella giornata di martedì invece - aggiunge - un detenuto ristretto nel carcere di Trani, nativo di Andria di circa 50 anni si è suicidato nella propria stanza legando i lacci delle scarpe ed impiccandosi alle grate della finestra. Lo stesso doveva scontare altri 5 anni per ricettazione e resistenza. Torino. Inaugurato al carcere delle Vallette lo sportello per i detenuti a fine pena torinoggi.it, 28 aprile 2023 Fornire alle persone in procinto di concludere il periodo di detenzione strumenti utili per affrontare l’uscita dal carcere, evitando il disorientamento che caratterizza il ritorno alla libertà. Con questo obiettivo nasce lo Sportello di Rete Civica - Dimittendi, inaugurato questo pomeriggio nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino dagli assessori Pentenero, Rosatelli e Tresso e da numerosi enti e associazioni che operano nel carcere. Lo Sportello si rivolge a tutti i cosiddetti dimittendi che sono residenti a Torino e che stanno scontando gli ultimi due anni di pena detentiva; a chi è, in particolare, privo di solide reti familiari, sociali ed economiche e ha bisogno di un accompagnamento nelle fasi delicate che precedono e seguono la conclusione del periodo di detenzione. Nel concreto, lo Sportello supporterà i detenuti fornendo assistenza per l’iscrizione ai centri per l’impiego, per l’individuazione di soluzioni abitative per i permessi o per il dopo pena, per il rinnovo e la richiesta dei documenti di identità. E ancora, al dimittendo saranno proposte attività formative finalizzate a trovare un lavoro una volta uscito dal carcere, e messi a disposizione gli strumenti utili per rinforzare le reti sociali necessarie per il reinserimento e il rafforzamento dell’occupabilità. Lo Sportello di Rete Civica - Dimittendi nasce all’interno di un percorso di co-progettazione che prevede quattro azioni integrate da svolgere nell’arco di dodici mesi in collaborazione con la rete dei soggetti e dei servizi già presenti nel carcere (l’ufficio della Garante, l’anagrafe, i servizi sociali) e gli enti selezionati tramite un apposito bando (Sinapsi, Si Può Fare, ACLI, Ovale Oltre le sbarre - Rugby, Casa di Carità) in sinergia con lo Sportello Lavoro della Regione Piemonte. Il servizio sarà un punto strategico anche per l’erogazione di servizi di supporto al di fuori del carcere, nonché per l’attivazione di percorsi di riabilitazione al lavoro anche attraverso la collaborazione con gli enti che operano all’interno dello Sportello Lavoro finanziato dalla Regione Piemonte. Per questo motivo all’interno del progetto di Sportello di Rete Civica sono anche previsti dei percorsi formativi altamente professionalizzanti: 36 persone (tra dimittendi e non) usufruiranno della parte formativa trasversale “Stem & Cultura del Lavoro” della durata di 12 ore; 12 persone usufruiranno della parte formativa professionalizzante “Formazione e Inserimento Professionale” della durata di 500 ore; almeno sei persone verranno avviate al lavoro attraverso tirocini di inclusione socio lavorativa della durata di sei mesi. Per i dimittendi che avessero bisogno di un accompagnamento individualizzato per il reinserimento sociale e/o lavorativo è prevista la possibilità di attivare una “dote individuale di inclusione”, per poter rispondere alle necessità e ai bisogni che emergeranno durante il percorso di accompagnamento. Il budget messo a disposizione prevede un importo medio per ciascuna dote di 1.800 euro, da utilizzare in acquisto di beni e servizi secondo le specifiche necessità della persona. Inoltre, con l’obiettivo di supportare ulteriormente le persone che presto torneranno in libertà, si darà continuità all’interno del carcere alla pratica del rugby, sport di squadra che, per le sue caratteristiche, può contribuire a rinforzare le capacità relazionali e sociali utili per il prossimo reinserimento nella comunità e nel mondo del lavoro, a rafforzare l’autostima, ad educare al rispetto delle regole, al lavoro di gruppo e alla capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Il progetto che istituisce lo Sportello prevede anche una Cabina di Regia, di prossima costituzione con un protocollo d’intesa - di cui faranno parte Città di Torino, Ufficio del Garante della Città di Torino, direzione della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino e dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino (Clinica Giuridica) - che avrà i compiti di coordinamento, supervisione, monitoraggio e messa in rete. L’assessora alla Sicurezza e al Sistema Carcerario della Città di Torino, Gianna Pentenero, ha dichiarato: “Con questo sportello forniremo gli strumenti concreti di cui possono aver bisogno le cittadine e i cittadini che rientrano in società dopo aver terminato di scontare la propria pena. L’esperienza del carcere deve diventare sempre più una parentesi rieducativa della vita e non un momento di sradicamento e alienazione che alimenta il circolo della recidiva che purtroppo caratterizza il sistema nel suo complesso. Questo strumento, inoltre, diminuendo il rischio di delinquere di chi esce e favorendo il suo reinserimento nella società contribuisce a rendere la nostra città più sicura e inclusiva”. L’assessore ai servizi civici della Città di Torino, Francesco Tresso, ha aggiunto: “L’attivazione di questo sportello ha l’importante significato di considerare il carcere un quartiere della città, e come tale un luogo dove erogare servizi in un’ottica di prossimità. Servizi che in questo caso hanno la funzione, fondamentale, di accompagnare al reinserimento nella vita sociale la persona detenuta, una volta giunta a fine pena. Si tratta di un ulteriore sforzo della nostra amministrazione di andare incontro alle esigenze e ai bisogni di tutti i suoi cittadini”. Modena. Salute in carcere, attività motorie per i detenuti con patologie croniche Il Resto del Carlino, 28 aprile 2023 Consentire ai detenuti che soffrono di patologie la possibilità di fare attività fisica in carcere migliorando così il loro stato di salute e prevenire situazioni critiche intercettando per tempo il disagio. È il progetto ‘Benessere detenuti’ che coinvolge la Casa circondariale di Modena e la casa di reclusione di Castelfranco Emilia con la collaborazione dell’azienda Usl di Modena - nello specifico i tecnici dell’attività motoria preventiva ed adattata della Medicina dello sport - il distretto sanitario di Modena diretto da Andrea Spanò e il programma di Medicina penitenziaria. Si tratta di un progetto unico nel suo genere in Emilia-Romagna (particolarmente innovativo anche a livello nazionale) e rientra nelle azioni di promozione della salute in carcere che vedono figure professionali inserite nell’equipe di Medicina penitenziaria con lo specifico obiettivo di promuovere salute, in un contesto come quello del carcere dove le persone sono più vulnerabili. Le prime attività sono iniziate nel 2021 dall’esigenza di consentire anche ai detenuti con patologie croniche di poter praticare attività fisica durante la detenzione al pari di altre persone che praticano sport in carcere grazie a varie associazioni. Già da tempo la Medicina dello sport offre un percorso di attività motoria adattata per le persone con patologie croniche in base ad uno specifico protocollo regionale e lo stesso tipo di percorso è stato proposto nella casa circondariale di Modena e nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia. “L’obiettivo è quello di migliorare l’andamento di alcune patologie croniche che in carcere tendono ad aggravarsi come il diabete, le cardiopatie, problemi muscolo-scheletrici, l’obesità”, spiega Vittorio Laviola responsabile del Programma di Medicina penitenziaria dell’azienda Usl di Modena. Sono oltre un centinaio, tra le due strutture di detenzione, i detenuti coinvolti fino ad oggi nel progetto che viene attuato dal dottor Vincenzo Acchiappati, chinesiologo tecnico dell’attività motoria preventiva ed adattata del dipartimento di Cure primarie dell’azienda Usl di Modena che è entrato a far parte dell’equipe di Medicina penitenziaria. “Le attività si svolgono in uno spazio dedicato per una seduta a settimana - spiega Acchiappati - I detenuti partecipano volentieri e vediamo segni di miglioramento”. Reggio Calabria. Il Garante Muglia: “Le parole per costruire relazioni e rieducare i detenuti” di Anna Foti ilreggino.it, 28 aprile 2023 Ieri mattina l’incontro nella cornice del Polo culturale Mattia Preti di Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria. L’importanza del linguaggio per preservare l’identità della persona detenuta quale membro della comunità sociale al di là della restrizione della libertà. Il linguaggio come strumento di sintesi delle relazioni sociali ed educative all’interno del carcere. Il linguaggio come viatico essenziale per favorire una effettiva rieducazione dell’uomo, che durante la detenzione è chiamato a sperimentare e delineare nuovi percorsi e un futuro di segno diverso rispetto al passato. Così si declina in una realtà carceraria, il ruolo essenziale del linguaggio che media qualunque contatto con la realtà. Un potenziale che rivela la portata negativa devastante se non improntato ai giusti principi di rispetto e inclusione. Da qui il titolo dell’incontro odierno “Parole e carcere: la fabbrica del linguaggio” promosso dal garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia. L’incontro, svoltosi a Reggio nella cornice del Polo culturale Mattia Preti di Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, è stato aperto dai saluti di numerose autorità. Parole e carcere - L’evento, moderato dallo stesso garante regionale Luca Muglia è stato scandito da tre ricche relazioni. Ha aperto Roberta Travia disquisendo di “Vita detentiva, identità e diritto”. Cristiana Cardinali ha poi approfondito “Le parole per il cambiamento: espressione autobiografica, progettualità inclusiva e agire educativo nel trattamento penitenziario”. Ha chiuso, con “Le parole sono pietre: perché è importante evitare di scagliarle impropriamente” Silvano Tagliagambe. “Nel rilevare e affrontare le criticità del delicato settore carcerario, dalla formazione alla sanità, ci siamo resi conto che la chiave di volta per interventi efficaci è il linguaggio. Un linguaggio in grado di superare pregiudizi ed etichette che di fatto impediscono le relazioni e costruiscono solo gabbie. Con l’ausilio delle neuroscienze e dell’area educativa, la possibilità di cambiamento e di trasformazione delle persone è concreta. Da qui l’idea dell’autorevole confronto di oggi. Crediamo che il carcere necessiti di un linguaggio calibrato sulle specificità del contesto. Un linguaggio che sia fabbricato “dentro” per ricostruire e ripristinare il legame e l’appartenenza alla comunità che non vive la detenzione”. Lo ha sottolineato il garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia. Identità e detenzione - “Nella ritualità del carcere analizzare il senso dell’uso di parole e di espressioni in un contesto linguistico diverso da quello usuale porta a conoscere quindi, i motivi che guidano il senso delle persone nel loro quotidiano interagire e a comprendere la visione culturale che essi attribuiscono alla realtà del mondo chiuso. In tutto questo l’identità non deve disperdersi ma deve rivestire un ruolo fondamentale nel percorso di rieducazione. Questo non deve solo tendere a evitare la perdita dell’identità stessa, a causa della restrizione della libertà, ma deve anche concorrere a un suo confronto con il passato e con il presente proiettato nel futuro. Un confronto che possa permearla di nuova vitalità. In questa ottica il linguaggio è fondamentale quale strumento di comprensione, essenziale in un contesto di per sé ristretto e dove è fin troppo facile sperimentare lo smarrimento, strumento di estensione dello sguardo che dall’errore si allarghi alla possibilità di trasformazione e nuova vita. Una trasformazione che è progresso per la società se è vero che la condizione carceraria riguarda coloro che stanno dentro me essa, come problema di civiltà, è prima di tutto un problema di chi sta fuori”. Lo ha evidenziato Roberta Travia, dottoressa di ricerca in diritto civile dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Una nuova narrazione di sé - “Il dispositivo autobiografico, inteso come nuova e dinamica narrazione di sé, costituisce l’innesco per la revisione critica, per noi punto di partenza verso il cambiamento. L’autobiografia non è un racconto solitario ma un racconto che parte da sé affinché questo sé venga posto in relazione con tutto quello che ci circonda. Un processo dinamico che dal passato, vive il presente e si proietta nel futuro. La nostra esperienza punta a valorizzare talenti che gli stessi detenuti potrebbero non avere mai coltivato prima ed è incentrata sull’espressione autobiografica veicolata dai tanti linguaggi dell’arte come la pittura, il teatro, la danza. Dunque non solo un’autobiografia scritta. Riteniamo che questi percorsi conferiscano senso e compiutezza al tempo della pena e operino nella direzione di quel risarcimento educativo che è dovuto da parte di una società che non ha saputo prevenire la devianza”. Lo ha messo in luce Cristiana Cardinali, professoressa a contratto del Dipartimento di Scienze Umane della Lumsa di Roma, che conduce esperienze nella casa circondariale di Latina. Mai fermare il tempo - “Il processo dinamico generato normalmente dal linguaggio, in carcere assume un’importanza essenziale. Non deve, dunque, tendere a fermare il tempo. Per un detenuto il pericolo maggiore è restare bloccato nel momento del reato. Una cristallizzazione che il linguaggio e le relazioni dinamiche possono impedire. Invece le relazioni statiche, alimentando quella cristallizzazione, ostacolano la costruzione dell’identità personale e la ricerca e l’individuazione di uno scopo. Ostacolano la possibilità di un riscatto e di cambiamento reali e quindi l’effettivo reinserimento sociale. Il linguaggio deve, invece, sempre accompagnare verso un nuovo senso di appartenenza. Nelle “Memorie di una casa morta” Dostoevskij, che conobbe la prigione di Omsk, interroga di volta in volta i personaggi sulle vicende che li hanno condotti in carcere. Una successione di storie, una raccolta di racconti di personaggi a renderlo consapevole dell’esigenza vitale di liberarsi del “catalogo di etichette”. Un simile catalogo lo si deve buttare via, perché le etichette sono un ostacolo alla comprensione di quello che ci circonda. Una comprensione invece essenziale per ricominciare e prendere coscienza del superamento dell’azione delittuosa”, ha concluso Silvano Tagliagambe, professore emerito di Filosofia della scienza dell’Università di Sassari. Varese. Educare alla legalità: confronto tra studenti dell’Enaip e cinque detenuti varesenews.it, 28 aprile 2023 Il progetto, promosso dalla Direzione della Casa Circondariale di Varese, era articolata in cinque incontri con un dialogo su tematiche che riguardano il rispetto delle regole e il benessere che deriva da uno stile di vita “non deviante”. La scorsa settimana si è conclusa la XIV° edizione del progetto di Educazione alla Legalità promosso dalla Direzione della Casa Circondariale di Varese. L’iniziativa è stata articolata in cinque incontri che hanno visto protagonisti 15 allievi di Enaip Varese e 5 persone detenute. Tra questi due gruppi si è sviluppato un dialogo su tematiche che riguardano il rispetto delle regole e il benessere che deriva da uno stile di vita “non deviante”. Il percorso è stato condotto dal Capo Area Educativa Domenico Grieco in collaborazione con il tutor di Enaip Alessandro Manni e con l’Agente di Rete Simone Guazzi. La polizia Penitenziaria ha preso parte attivamente agli incontri portando il proprio contributo attraverso la partecipazione dell’Ispettore Alfio Guida. Durante l’ultimo appuntamento si è affrontato il tema delle mafie e del loro impatto criminale sulla vita di tutti i cittadini, la discussione è stata animata dalle referenti territoriali di Libera, Antonella Bonopane e Angela Lischetti. La direttrice di Enaip Emanuela Frigerio ha espresso soddisfazione per l’iniziativa che non vuole avere un carattere esclusivamente deterrente ma intende promuovere il valore della libertà in ogni sua forma e responsabilità. Carla Santandrea, direttrice della Casa Circondariale di Varese ha commentato “il confronto con i giovani impegnati in un percorso formativo, ragazzi che stanno disegnando il loro futuro professionale rappresenta sicuramente un’occasione di riflessione e riscatto per la popolazione detenuta. Momenti come questo rappresentano l’effettiva apertura del carcere al Territorio in una prospettiva di sempre più ampia partecipazione alla vita della collettività”. A breve sarà presentata la XV° edizione del progetto che mirerà ad incrementare il numero degli adolescenti coinvolti. Milano. Gli attori di “Mare fuori” incontrano i giovani detenuti del Beccaria di Simona Buscaglia La Stampa, 28 aprile 2023 L’iniziativa è stata possibile grazie alla Fondazione Francesca Rava con il suo progetto “Palla al centro”, nato dalla collaborazione con il Tribunale per i minorenni e il Centro per la Giustizia Minorile per la Lombardia. Quella di ieri è stata una mattina speciale per i giovani detenuti dell’Istituto Penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano: alcuni attori della celebre serie tv “Mare Fuori” hanno varcato la soglia dell’Ipm per incontrarli. L’iniziativa è stata possibile grazie alla Fondazione Francesca Rava che con il suo progetto “Palla al centro”, nato dalla collaborazione con il Tribunale per i minorenni di Milano e con il Centro per la Giustizia Minorile per la Lombardia, cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del disagio giovanile, provando ad abbattere i pregiudizi e la stigmatizzazione dei ragazzi entrati nel circuito penale. L’obiettivo è quello di creare un ponte tra “dentro e fuori” per la loro futura inclusione sociale e lavorativa. Durante l’incontro con Vincenzo Ferrera e Clara Soccini (che in “Mare Fuori” sono rispettivamente l’educatore Beppe e la cantante Giulia, detenuta nel carcere minorile che fa da sfondo alle storie principali della fiction) sono state proiettate alcune scene particolarmente significative della serie tv, episodi che avvicinavano le esperienze dei ragazzi detenuti nella fiction a quelle vissute dai giovani dell’Ipm Beccaria. I protagonisti di “Mare Fuori” sembrano avere un futuro già scritto ma decidono di combattere per avere una seconda opportunità: “È stato un incontro molto emozionante per i ragazzi, questa fiction ha riprodotto molte dinamiche in cui si sono riconosciuti, soprattutto nella voglia di riscatto - racconta Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava - spesso loro non hanno una famiglia e una rete sociale alle spalle, ma hanno dei sogni e vogliono uscire dai meccanismi perversi che li hanno condotti nell’Ipm, gli stessi che hanno visto nella serie tv, che ha mostrato loro la possibilità di un finale diverso”. I ragazzi hanno parlato con gli attori dei loro progetti per la vita fuori dall’Ipm e alla fine dei racconti l’attrice Soccini ha cantato il brano “Origami all’alba”, che è già disco di platino:”I giovani erano grati per aver avuto l’occasione di incontrare dal vivo quegli attori che hanno ammirato nella serie tv, si sono sentiti ascoltati e visibili, dei ragazzi presi in considerazione” prosegue Rava. Con il progetto “Palla al centro” la Fondazione prova a far ripartire da zero i giovani detenuti: “senza vinti e vincitori - conclude la Presidente - mettiamo tutti allo stesso livello, organizziamo attività pratiche, ad esempio corsi di giardinaggio e di informatica. Sono ragazzi che hanno tanta voglia di fare ma non hanno avuto al loro fianco un vero sostegno, non hanno avuto quell’opportunità che noi invece cerchiamo di creare, anche aiutandoli nella ricerca di un lavoro”. All’incontro hanno partecipato, oltre ai ragazzi e al personale dell’Istituto Beccaria, la Direttrice dell’Ipm, Maria Vittoria Menenti, e Paola Pannicelli, Produttrice di Rai Fiction. Brescia. Il Vangelo sospeso apre il cuore di Veronica Bernasconi lavocedelpopolo.it, 28 aprile 2023 Si è conclusa l’iniziativa promossa dalla Libreria Paoline. Sono stati raccolti 1.100 Vangeli da consegnare ai detenuti di Verziano e Nerio Fischione. I libri sono divertimento, spunti di riflessione, una buona occasione di miglioramento e di libertà interiore. La lettura è da sempre una forma di evasione e formazione, ma questa può assumere un valore molto profondo per chi vive in una condizione di mancata libertà e di sofferenza. Se ci sono libri che possono cambiare la vita, cosa può fare il Vangelo che è Parola incarnata e “incartata”, dialogo reale con Gesù? Il Vangelo può aprire le porte alla luce, regalare messaggi di speranza. A partire da queste riflessioni è nato l’incontro di domenica pomeriggio 23 aprile 2023 presso il convento dei padri Francescani di Brescia organizzato dalla libreria Paoline e dai cappellani delle Case di reclusione di Brescia. L’evento voleva essere un momento di ringraziamento e di scambio per tutti coloro che durante la Quaresima hanno contribuito in vari modi all’iniziativa del “Vangelo sospeso”. Prendendo alla lettera una parola di Gesù: “Ero carcerato, e siete venuti a trovarmi”, è partita il 22 febbraio 2023 e si è conclusa il 2 aprile. Si è sviluppata molto concretamente nella raccolta di Vangeli di diversi tipi, acquistati presso la Libreria Paoline, e destinati alle persone detenute nelle carceri di Brescia “Nerio Fischione” e “Verziano”. Chi ha aderito, ha acquistato un Vangelo, scritto una dedica con un incoraggiamento e un ricordo a chi vive la dura realtà del carcere e lo ha lasciato in un’apposita cesta. Inoltre ci sono state circa 20 parrocchie coinvolte in prima persona nell’iniziativa. Le ragazze e i ragazzi di diverse fasce di età, infatti, si sono impegnati a portare avanti l’evento gestendo un banchetto alla fine delle celebrazioni eucaristiche. Il progetto di solidarietà “Vangelo sospeso”, prende spunto dall’idea napoletana del caffè sospeso. La creatività e generosità molto concreta dei partenopei da anni ha dato vita alla prassi di entrare in bar e pagare, insieme al proprio caffè, anche uno in più per chi verrà dopo e non potrà pagarlo. Ma perché solo il caffè? E perché anche per chi non può permettersi di andare direttamente? I Vangeli raccolti sono stati consegnati ai detenuti che li desideravano dai cappellani delle carceri insieme al vescovo, mons. Pierantonio Tremolada, il giovedì santo durante l’offertorio della messa. Il grazie è stato al centro dell’appuntamento di domenica 23 aprile. È importante, come Chiesa, essere vicini a chi sperimenta la difficile realtà della reclusione e sensibilizzare al tema, perché tutti possiamo prendere coscienza di quello che dice anche papa Francesco: “Perché loro e non io? Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare”. Tutti sbagliamo nella vita, prosegue Francesco, “ma l’importante è non rimanere sbagliati”. Cita un canto degli Alpini che invita a non restare per terra, una volta che si è caduti. Rialzarsi anche grazie a chi aiuta a risollevarsi, senza mai guardare dall’alto in basso chi è caduto, perché “è indegno”. “Tante volte noi nella vita troviamo una mano che ci aiuta a sollevarci: anche noi dobbiamo farlo con gli altri: con l’esperienza che noi abbiamo, farlo con gli altri”. Inoltre è bello ringraziare e condividere con tutti coloro che hanno contribuito a raccogliere 1.100 Vangeli le sensazioni di chi li ha ricevuti. I cappellani don Stefano Fontana, don Adriano Santus e don Faustino Sandrini, sollecitati dalla giornalista Anna Della Moretta, hanno raccontato il momento della consegna dei Vangeli, ma anche cosa significa vivere le relazioni in una realtà come quella delle carceri. Tutti hanno sottolineato come i piccoli gesti di vicinanza e di attenzione sono fondamentali per ridare fiducia, speranza e calore umano in una situazione spesso di solitudine. Particolarmente significativa è stata la testimonianza di chi ha trascorso un periodo a Verziano, raccontando le fatiche ma anche il desiderio di rinascita e la gratitudine per coloro che si sono fatti prossimo. Tocca a ciascuno vivere come Gesù ci mostra nel Vangelo: senza giudizio sulla persona, con attenzione a chi si trova in situazioni difficili, dando la fiducia di poter ricominciare. Che il Vangelo sia per tutti fonte di vita nuova. Torino. Convegno al carcere Lorusso e Cutugno su Giulia di Barolo, la marchesa dei detenuti di Chiara Genisio La Voce e il Tempo, 28 aprile 2023 Un lungo caloroso applauso ha reso omaggio a Cosima Buccoliero, la direttrice della Casa Circondariale torinese Lorusso e Cotugno: un riconoscimento alla sua opera, ma anche un saluto perché dopo appena due anni dal suo arrivo il 2 maggio passerà le consegne a Elena Lombardi Vallauri, direttrice delle due carceri di Alessandria, per andare a dirigere l’Istituto penale di Monza. Un ringraziamento ancora prima che iniziasse il suo intervento al convegno “Giulia di Barolo. Icona del passato e sfida per il presente” organizzato il 19 aprile nel teatro della Casa circondariale in occasione dei festeggiamenti per il Bicentenario del Distretto Sociale, promossi dall’Opera Barolo per conoscere l’attività dell’Associazione Carlo Tancredi e Giulia di Barolo. “Abbiamo scelto” ha spiegato la presidente Silvia Orsi “di presentare la figura di Giulia che è l’ispiratrice della nostra storia non in città ma all’interno di queste mura dove da più di 20 anni accompagniamo dentro e fuori le persone che hanno vissuto l’esperienza di essere private della propria libertà”. Citando lo scrittore polacco Ryszard Kapu?ci?ski, ha rimarcato: “ogni volta che l’uomo ha incontrato l’altro si é trovato di fronte a tre possibilità, poteva scegliere la guerra, poteva circondarsi con un muro, poteva instaurare un dialogo”. Su questa linea si è dipanato l’incontro. Raccontare l’Italia all’epoca di Giulia di Barolo partendo da Platone é stato il percorso narrativo del filosofo Aldo Rizza. Illuminante nell’illustrare il ruolo svolto da Giulia Colbert nel preparare l’Unità d’Italia, lei una francese della Vandea che alla corte di Napoleone conobbe colui che divenne suo marito, il conte Tancredi. Nel loro salotto torinese si riunivano per conversare intellettuali, politici come D’Azeglio, Cavour, Pellico e molti altri. L’azione concreta dei due coniugi verso i poveri potrebbe oggi essere paragonata ad una “finanziaria”. Rizza si è poi soffermato nel tratteggiare i vari aspetti del Risorgimento, “non una rivoluzione, ma una categoria nuova”. Lo storico Andrea Pennini ha condotto il pubblico nella dimensione della carcerazione femminile a Torino negli anni del Risorgimento e non solo. È in questo contesto che opera Giulia, ricoprendo anche il ruolo di Soprintendente. Una donna straordinariamente moderna, come ha evidenziato Maria Teresa Pichetto, già docente di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche di Torino “nelle sue memorie scriveva che la detenzione non deve essere solo detentiva ma rieducativa”. Al percorso educativo Maria Teresa Pichetto ha dedicato molti anni e ancora con passione continua, attraverso l’ideazione e l’opera del Polo Universitario per studenti detenuti, il primo aperto in Italia nel penitenziario torinese. Tra il pubblico anche il presidente dell’Opera Barolo, Luciano Marocco, Angelica Musy che con la sua fondazione offre opportunità di lavoro ai detenuti ed ex detenuti, Monica Gallo, Garante delle persone detenute di Torino e Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo universitario penitenziario dell’Università di Torino e presidente della Cnupp, Conferenza nazionale universitaria dei Poli penitenziari. “Un incontro nel nome di Giulia, ma anche di tutte le donne che ogni giorno rendono il carcere una istituzione più umana”, ha ricordato in conclusione Cosima Buccolieri, oltre a ribadire l’importanza di un maggior coinvolgimento della società civile, “se il tasso della recidiva è così alto vuol dire che il carcere non funziona”. Non è un caso se i detenuti che frequentano il Polo Universitario hanno una recidiva pari a zero. Napoli. Sting nel carcere di Secondigliano, con una chitarra speciale di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile 2023 La popstar inglese a pranzo con i detenuti nella giornata trascorsa per realizzare il videoclip della nuova versione di “Fragile”, dedicata a loro ed eseguita con la chitarra che i reclusi hanno realizzato con il legno dei barconi dei migranti. “Sono qui per onorare il lavoro delle vostre mani”. Così Sting si è presentato stamattina ad oltre cento detenuti del penitenziario di Secondigliano che per un giorno si sono sentiti veramente liberi. Fra loro alcuni di Articolo 21, gli universitari e i rappresentanti di altri padiglioni. Ma dalle finestre hanno assistito all’incontro anche alcuni ergastolani. In tanti hanno ascoltato alcuni brani del repertorio della popstar britannica e cantato con lui per un evento indimenticabile. Un regalo in musica che li ha ripagati, probabilmente, di tanti giorni tristi. Ed eccoli ad applaudire, ad essere parte attiva perché il tutto dovrà rientrare in un videoclip in cui gli stessi detenuti saranno protagonisti. Il concerto speciale si è tenuto all’aperto, negli spazi dove i reclusi lavorano il legno e realizzano gli strumenti con il fasciame dei barconi dei migranti. È qui che hanno costruito anche la famosa chitarra con cui Sting ha suonato le sue hit, insieme al quartetto d’archi, tra cui “Fragile”, in una versione nuova ascoltata proprio qui a Napoli, ed “Every breath you take”. Ma Sting si è seduto anche a tavola con i detenuti, con i quali ha condiviso un pasto tipicamente napoletano: gnocchi, polpettone e patate. Il tutto per mantenere la promessa fatta qualche mese fa all’ex parroco del Rione Sanità, padre Antonio Loffredo. Era stato proprio il sacerdote a proporgli questo incontro, questa occasione. Fra gli ospiti, oltre alla direttrice del carcere, Giulia Russo, la vicepresidente del Senato, Maria Domenica Castellone, la responsabile dell’amministrazione penitenziaria Lucia Castellano, il cappellano del carcere don Giovanni Russo, il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Quest’ultimo ha commentato: “Sono grato alla Casa dello Spirito e delle Arti e a padre Antonio Loffredo per avere regalato questa occasione che ha trasformato per qualche ora la reclusione in inclusione”. Sting ha lasciato il carcere a pomeriggio inoltrato felice. Ma lo sono stati anche i detenuti. Liberi e fortunati, per aver deciso di partecipare al progetto Metamorfosi, promosso da La Casa dello Spirito e delle Arti di Milano, nato da un’idea di Arnaldo Mondadori. Psichiatria. Le storie di Antonia e Bruno, vite recluse di non “normali” rifiutate dalla “civile” Italia di Roberto Saviano Corriere della Sera, 28 aprile 2023 Esistono storie che chi sa per quale motivo crediamo essere lontane da noi. Lontane fino a quando qualcuno che conosciamo ci racconta di vicende familiari in tutto simili a quel caso di cronaca rimasto sepolto per anni nella nostra memoria. Ci sono percorsi che potrebbero essere gestiti con umanità e, quando questo non accade, è inutile dare responsabilità ai soggetti coinvolti in prima persona: è come comunità, come società nel suo insieme che dovremmo interrogarci e pretendere che si agisca per il miglioramento, per la cura del singolo, per la presa in carico di chi non è autosufficiente, di chi non ce la fa da solo. Più volte mi sono chiesto come sia possibile che si facciano barricate nel nostro Paese per sottrarre alla cella le detenute con figli al seguito. Si tratta di poche decine di persone, ma il dibattito finisce sempre per virare al becero e al disumano, tipo: “I buonisti vogliono le scippatrici rom fuori dal carcere”. Ormai è un dato di fatto, la politica che fa comunicazione e la comunicazione che fa politica, fanno sempre finire ogni legittima richiesta in vacca. Divide et impera: è così che si amministra ed è così che si spacciano informazioni, alimentando timori, facendo crescere l’ansia, la paura, la diffidenza. E allora tutto ciò che vira dall’orrido percorso definito della “normalità” è da temere. E, se possibile, da isolare, richiudere, confinare. Sarebbe una conquista di civiltà se verso il carcere si avesse la stessa empatia e apertura che si ha verso le fiction sul carcere, ma questa è un’altra storia… forse. Ma no, non è un’altra storia, ci commuoviamo e ci sentiamo migliori di fronte alla finzione, ma solo perché la realtà e la verità dei fatti ci spaventano. Nel 2017 esce il libro Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio scritto da Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito (editore Sensibili alle foglie) e racconta quello che è accaduto ad Antonia Bernardini, vittima della reclusione manicomiale. Il 27 dicembre del 1974, Antonia Bernardini, internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli da oltre quattordici mesi, dà fuoco al materasso del letto di contenzione al quale è legata da 44 giorni consecutivi. I soccorsi non giungono in tempo e Antonia viene trasferita nel reparto ustionati del Cardarelli di Napoli in gravissime condizioni. Morirà pochi giorni dopo per le ustioni, il 31 dicembre del 1974. La tragedia di Antonia sconvolse l’opinione pubblica e generò un importante confronto politico e mediatico sulla gestione dei manicomi giudiziari e civili. In seguito alla morte di Antonia, il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli fu chiuso e questa fu una grande conquista di civiltà. Oggi la piazza dedicata ad Antonia Bernardini si trova a Napoli, nel quartiere Avvocata, nello spazio antistante l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli. È uno spazio pieno di significato e varrebbe davvero la pena passarci e dedicare un pensiero a chi, virando dall’orrido percorso della “normalità”, riceve un trattamento inumano che talvolta porta alla morte. La storia di Antonia mi ricorda una notizia ascoltata pochi giorni fa. Credo fosse sabato 15 aprile… mi ha colpito perché il fine settimana è sempre il momento di interruzione degli affanni, è come se cercassimo pace, riposo, serenità. Ascoltavo la rassegna stampa di Radio Radicale. Mi sembra che ai microfoni ci fosse Marco Taradash che raccontava una vicenda portata all’attenzione dei media da Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna. Bruno è un uomo di 50 anni affetto da picacismo, un disturbo che porta a ingerire qualunque cosa, commestibile e non. Bruno è da 24 anni internato nel centro Aias di Cortoghiana, una frazione di Carbonia, nel sud della Sardegna. Bruno ha, da 16 di quei 24 anni, le mani avvolte da bende e una maschera di ferro che non è un presidio medico ma gli viene messa perché non commetta atti di autolesionismo. Quello di Irene Testa è un appello: possibile che un essere umano debba vivere come Hannibal Lecter? Che una sola persona, che ha bisogno di cure costanti e attenzione continua non possa ricevere dal Paese in cui è nato e vive l’assistenza di cui ha bisogno? Che tutto debba essere lasciato alla cura della famiglia? Che Paese è quello che non riesce, da 16 anni, a farsi carico della vita di Bruno? Il nuovo consulente del Dipartimento antidroghe: “Contrario a ogni legalizzazione” huffingtonpost.it, 28 aprile 2023 “Non esistono droghe leggere”. Lo afferma Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, leader del Family Day, esponente del Movimento per la vita, convinto anti-gender e da oggi consulente del Dipartimento antidroghe del governo Meloni. Gandolfini rivendica la nomina, “sono stato scelto per la mia competenza professionale e la mia carriera scientifica: sono neurochirurgo e psichiatra e da anni mi interesso all’impatto che le droghe hanno sul sistema nervoso centrale e sul corpo”, e anche la sua contrarietà alla legalizzazione della cannabis “perché da un punto di vista scientifico-tossicologico non esistono droghe leggere”. E ha già in mente un percorso “politico” per il suo nuovo incarico. “La mia azione si muoverà su tre fronti - spiega senza tentennamenti - il contrasto incondizionato alla droga, l’informazione capillare nelle scuole, la prevenzione e, dove necessario, la repressione del traffico di droga”. Gandolfini racconta di aver “accumulato tanta esperienza sul campo. Ho notato che c’è un grande clima di collaborazione tra i responsabili delle varie comunità terapeutiche e le istituzioni, dai ministeri, al governo alle forze di polizia. Stiamo ascoltando le proposte e le esigenze di chi ha a che fare quotidianamente con questi poveri ragazzi giovani e giovanissimi caduti nella spirale della tossicodipendenza e ne trarremo tesoro”. Sui cannabis shop ribadisce la sua contrarietà ma sottolinea anche che “adesso questa non è una priorità”. Una scelta precisa del governo Meloni quella di nominare Gandolfini, un deciso cambio di passo rispetto al governo Conte dove la ministra Fabiana Dadone, che aveva la delega all’Antidroga e che nella precedente legislatura aveva firmato una proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis. Nel novembre 2021 aveva convocato la Conferenza nazionale sulle dipendenze, ben 12 anni dopo l’ultima, e anche in quell’occasione aveva aperto alla legalizzazione delle droghe leggere. A rendere noto Gandolfini alle cronache è stato soprattutto il successo del Family day che si è tenuto a Verona nel 2016: dopo per lui in molti immaginavano un ruolo in politica. Anche prima delle ultime elezioni del 2022 si era fatta strada l’ipotesi di una candidatura tra le fila del centrodestra che poi però non si è concretizzata. Oggi, l’incarico del governo in uno dei temi che l’esponente conservatore, da sempre schierato dalla parte della famiglia tradizionale, ha più a cuore. Matrimoni combinati, la forza che aiuterà altre ragazze a denunciare di Karima Moual La Repubblica, 28 aprile 2023 Solo corpi da possedere, controllare, vessare e gestire. Dal padre al marito fino alla morte, con il benestare e la protezione di una cultura comunitaria, da clan familiare dove non c’è posto per l’amore ma solo per l’obbedienza. Succede ancora una volta, e nel nostro paese, che una ragazza di origine indiana strappi il velo dell’ipocrisia e della violenza che vive e subisce in nome di regole patriarcali alle quali sembra essere difficile ribellarsi. L’ultima della lista era Saman, ed è ancora fresco e doloroso l’epilogo della sua storia e la forza che la spinse a ribellarsi finendo per essere uccisa. Nel bolognese, c’è Yasmin (nome di fantasia) picchiata, minacciata di morte e ridotta praticamente in schiavitù non solo dai genitori ma anche dalla zia e dalla nonna. Donne che odiano le donne, che parlano il vocabolario del patriarcato e che rendono la via della libertà delle loro sorelle piú lunga e faticosa. Yasmine, che non è certo una bambina ma una ragazza di 19 anni, era invece trattata da minore, le era concesso soltanto di andare a scuola perché dopo il diploma, l’aspettava il matrimonio in India, con uno sconosciuto designato dalla famiglia. Ha detto più volte no, perché l’amore l’ha scelto qui in Italia con un altro connazionale, ma nella casa del patriarcato non ci sono donne che decidono. La storia di Yasmin ci ribussa alla nostra porta per ricordarci che c’è una battaglia violenta e sanguinosa che si sta consumando tra le mura di casa in famiglie che provengono da paesi lontani di cui non capiamo le lingue, gli intrecci culturali e la complessità di usi e costumi che pensavamo di aver lasciato alle spalle ma che per mille motivi ci riguardano, per senso di civiltà ma anche per misurare lo stato di salute di un paese che costruisce pacifica convivenza e opportunità, e quindi non dobbiamo né possiamo trascurare. La battaglia di ragazze forti, coraggiose, che fanno un passo verso emancipazione e libertà, ribellandosi ai loro padri padroni e alle loro famiglie misogine, deve diventare anche nostra. Sì, è sempre maledettamente la stessa storia. Giovani figlie e sorelle, trattate solo come corpi, carne da offrire, una promessa, un contratto, un futuro già prestabilito in continuità con usi e costumi che nonostante le migrazioni, anni di residenza e lavoro si fatica a debellare perché a mancare è la contaminazione e l’integrazione con “l’altro”. Yasmine come Saman e le altre che si ribellano, sono la rottura tra passato, presente e futuro. Sono lo scontro generazionale che brucia. Sono il simbolo della contaminazione e l’integrazione ai valori dell’uguaglianza, dei diritti e delle libertà. Se prima queste ragazze rimanevano con la testa bassa per paura, rispetto e devozione adesso si intuisce che sta iniziando un’altra storia. E allora si denuncia girando le spalle alla violenza anche se sacralizzata dalla parola “famiglia” e dalla certezza che la denuncia significherà recidere radici troppo profonde. Yasmin può piantare le sue radici altrove, perché nel momento in cui ha iniziato a raccontare alle professoresse il suo dolore e le sue ferite ha capito che può esserci un altro inizio per lei. La scuola che diventa una famiglia di amore e protezione. Quella di Yasmin sarà anche una storia maledettamente uguale alle altre, di giovani che subiscono violenza e soprusi in nome di culture misogine, ma questa volta è anche una storia di ribellione a lieto fine che bisogna raccontare perché tante altre possano emergere, liberarsi. Dobbiamo gridare forte: non siete sole. Gran Bretagna. Stella Moris: “Ora liberate mio marito Julian Assange” di Anna Lombardi La Stampa, 28 aprile 2023 Avvocatessa dei diritti umani a Roma. “È molto provato dal carcere. Le accuse contro di lui sono un attacco alla libertà di stampa”. “Mi batto per la liberazione di Julian Assange perché è mio marito e voglio che venga a casa da me, Gabriel e Max: i nostri figli di 6 e 4 anni. Ma soprattutto perché ritengo la sua voce di intellettuale e giornalista necessaria. Oggi più che mai”. Stella Moris, 39 anni, sudafricana, è l’avvocatessa dei diritti umani che dopo avergli dato due figli, ha sposato un anno fa il fondatore di WikiLeaks. L’organizzazione che dal 2007 ha svelato file top secret sulle guerre in Afghanistan e Iraq e i detenuti di Guantanamo e Abu Ghraib, ma pure documenti di case farmaceutiche e le email di Hillary Clinton (che fecero pensare a legami con la Russia per influenzare le elezioni 2016). Nata Sara Gonzalez Devant, ha cambiato nome per meglio svolgere ricerche quando è entrata nel team di difesa dell’australiano Assange. Era il 2011 e lui era rifugiato nell’ambasciata londinese dell’Ecuador per sfuggire all’accusa di stupro in Svezia (archiviata nel 2017). Pesa quella di spionaggio da parte degli Stati Uniti che ne chiedono l’estradizione. Per questo dal 2019 è nel duro carcere di Belmarsh, in attesa della decisione britannica. Moris era a Roma alla presentazione, nella sede della Federazione Nazionale Stampa, del libro edito da Fazi Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione di Nils Melzer, ex relatore speciale delle Nazioni Uniti sulla tortura. Poche ore dopo, a Napoli ha ricevuto il premio Fonseca “per il suo coraggio nel difendere il diritto alla libertà di stampa nel mondo”. La storia di suo marito è stata raccontata in molte chiavi. Cosa aggiunge il nuovo libro? “È un’inchiesta cruciale. La vicenda di Julian è stata raccontata da diverse prospettive, è vero. Ma questo libro, firmato da un riconosciuto esperto mondiale di Diritto Internazionale Umanitario, ricostruisce con rigore come si sia voluta sviare l’attenzione dell’opinione pubblica da quel che WikiLeaks diceva e dai segreti sporchi che svelava, costruendo a tavolino un’immagine denigratoria del suo fondatore. Per anni si è tentato di trasformarlo in mostro. Poi di cancellarlo, negandogli voce, perfino immagine. Un metodo intimidatorio, un avvertimento a tutti coloro che ne avrebbero voluto raccogliere il testimone”. È per questo che ha deciso di diventare la sua voce? “In realtà ho taciuto per anni. Ho avuto a lungo paura per me e per i bambini. La nostra relazione, iniziata nel 2015, è stata resa pubblica durante la pandemia. Quando provammo a chiedere il rilascio di Julian per meglio salvaguardarne la salute. In quanto sua compagna, alla petizione fu allegata una mia lettera e a quel punto la mia identità divenne pubblica. Solo allora iniziai a parlare. Capii che avevo più paura per la vita di Julian che per noi tre. Il vero rischio era che i bambini continuassero a crescere senza quel padre finora incontrato solo in carcere. Da allora parlo dell’uomo che conosco, ben diverso da come è stato raccontato finora. Sperando di smuovere l’opinione pubblica che tanto può fare per lui”. Qual è il suo messaggio? “La verità riguarda tutti. Quello che hanno fatto a Julian è un attacco a tutti coloro che vogliono raccontare la verità. Il 3 maggio è la giornata mondiale della libertà di stampa e chiedo, in quell’occasione, di ricordare mio marito Assange”. Quali sono le sue condizioni di salute di cui si è parlato tanto? “Si deteriorano ogni giorno di più. Ha avuto un infarto a ottobre 2021 e da allora prende farmaci quotidianamente. Il neuropsichiatra Michael Kopelman, che lo ha visitato più volte in carcere, ha affermato che soffre di depressione e se lo estradassero potrebbe tentare il suicidio. Io lo temo. Lontano da me e dai suoi figli potrebbe crollare. Oggi a salvarlo è il fatto che vede crescere il sostegno nei suoi confronti. Gli da molta forza. Ma Julian è affamato di connessioni. Ogni sviluppo politico, scientifico, culturale lo stimola. La sua linfa è cercare di capire. Non ha però accesso a Internet, e il suo contatto col mondo sono io, che vado a trovarlo ogni volta che posso. Con me e con pochi altri parla al telefono. Di recente gli hanno permesso di sentire il suo caro amico Daniel Ellsberg, che sta morendo. Sì, l’ex analista che nel 1971 diffuse i Pentagon Papers”. E la sua situazione legale al momento qual è? “Procede: lentamente. Contro l’estradizione abbiamo fatto domanda d’appello, ma in Gran Bretagna non è un diritto automatico. Una prima richiesta non è stata accolta e ora ne abbiamo depositata una seconda davanti all’Alta Corte con argomentazioni diverse. Si basa sull’articolo 10 e riguarda la libertà d’espressione, ma anche il fatto che in America Julian non avrebbe un processo equo: gli Stati Uniti intercettarono i suoi meeting con gli avvocati nell’ambasciata ecuadoriana, violando il diritto alla difesa. Addirittura, nel 2017, l’amministrazione Trump ipotizzò di farlo rapire: forse per ucciderlo. Ma più che nella giustizia britannica, io spero in una soluzione politica. Segnali in questo senso arrivano dal governo australiano. Il premier Anthony Albanese ha ripetuto più volte che Julian non dovrebbe più essere in prigione. Non solo per far piacere ai suoi elettori, spero”. Chelsea Manning, che fu la fonte di tante rivelazioni di WikiLeaks è libera. Assange no. Come lo valuta? “Innanzi tutto voglio sottolineare che Julian si è sempre e solo riferito a Manning come “presunta fonte”: d’altronde non ne ha mai rivelata nessuna. Se Manning fu arrestata, è perché si svelò a un informatore. A suo credito si può dire che passò ulteriori 10 mesi in carcere per essersi rifiutata di comparire davanti al Grand jury per testimoniare contro Julian. Voglio qui ricordare che mio marito è sotto accusa in quanto direttore di WikiLeaks. Le informazioni gli arrivavano da altri, la sua “colpa” è aver deciso di renderle pubbliche. Detto questo, fu Barack Obama, nel suo ultimo giorno da presidente, a concedere la grazia a Manning dopo aver sempre detto che non avrebbe perseguito Assange per il suo ruolo: sarebbe stato un precedente difficile da gestire. È stato Trump ad accanirsi. Mi delude però che Biden non abbia cambiato posizione”. Gran Bretagna. “La battaglia di Julian riguarda tutti, assieme a lui muore la libertà di stampa” di Orlando Trinchi La Stampa, 28 aprile 2023 La moglie del co-fondatore di WikiLeaks a Roma per la presentazione del libro di Nils Melzer: “Mio marito sottoposto a tortura, in una democrazia sana non dovrebbero esistere prigionieri politici”. “Voglio che mio marito torni a casa: la sua battaglia non riguarda ormai solo lui ma tutti noi, il nostro diritto di vivere in una società civile”. La voce dell’avvocata e difensore dei diritti umani Stella Morris Assange - dal 23 marzo dello scorso anno moglie di Julian, a cui ha dato due figli, Gabriel e Max, di 6 e 4 anni - si leva dal palco della sede romana dell’Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana) durante la presentazione del libro dell’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura Nils Melzer, Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione (Fazi Editore). In segno di solidarietà, diciannove sigle sindacali di giornalisti di diversi Paesi europei (compresa quella inglese), in sinergia con l’Fnsi, hanno deciso di dichiarare da oggi Julian Assange iscritto ai loro Sindacati. Il numero di aderenti potrebbe aumentare nei prossimi giorni. Nato in Australia - più precisamente nella città di Townsville - cinquantun anni fa, Julian Paul Assange - all’anagrafe Julian Paul Hawkins - è assurto agli onori delle cronache nel 2010, per aver rivelato per mezzo dell’organizzazione divulgativa WikiLeaks, di cui è co-fondatore, documenti statunitensi secretati ricevuti dall’ex militare Chelsea Manning - una “presunta” fonte, come il giornalista ha sempre puntualizzato - e riguardanti svariati crimini di guerra. Dall’11 aprile 2019 è detenuto nel Regno Unito nel carcere di Belmarsh - che venne definito la “Guantanamo inglese” quando, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, ospitò sospetti stranieri imprigionati senza accuse formali -, prima per violazione dei termini della libertà su cauzione in relazione alle accuse di stupro, poi archiviate, da parte della Svezia, poi per la richiesta di estradizione inoltrata dagli Stati Uniti d’America, dove è incriminato per violazione di segreti di Stato. Il 21 aprile 2022 la Westminster Magistrate’s Court di Londra ha emesso nei suoi confronti l’ordine formale di estradizione negli Usa. Il sistema WikiLeaks viene perseguito nella persona di Assange: si tratta realmente di un’organizzazione irresponsabile che ha danneggiato delle persone? “Il governo americano ha fatto tante affermazioni in questo senso. In realtà, durante il processo a Chelsea Manning, ma anche in occasione di diverse sessioni relative all’estradizione di Julian, rappresentanti governativi hanno ammesso sotto giuramento che le rivelazioni non hanno mai messo a rischio la vita di alcun dipendente del governo statunitense”. A suo avviso, quali ricadute potrebbe avere il caso Assange sul giornalismo d’inchiesta e, più in generale, sulla libertà di stampa? “Questo caso rappresenta la più grande minaccia alla libertà di stampa a livello internazionale. Prima di tutto in quanto criminalizza la ricezione e la pubblicazione di informazioni vere. In secondo luogo perché l’America sta applicando le proprie regole in materia di segretezza in maniera extra-territoriale, fra l’altro nei confronti di un cittadino che non è nemmeno americano: si va delineando un nuovo modello, secondo cui sarebbe possibile perseguire qualunque giornalista o editore in qualsiasi parte del mondo”. Riguardo il trattamento riservato ad Assange, è lecito parlare di tortura psicologica? “Sono sua moglie, ho assistito alle sue sofferenze e a come la prigione l’abbia ridotto. Direi senz’altro di sì, ma anche diversi psicologi ed esperti indipendenti concordano”. Ha riscontrato una qualche forma di parzialità o arbitrio da parte dei giudici, delle istituzioni politiche e governative e della stampa internazionale? “Non c’è alcun dubbio che la persecuzione e il danno alla reputazione di Julian sia avvenuto a molti livelli. Il libro di Nils Melzer ricostruisce bene i diversi aspetti dei numerosi attacchi perpetrati contro la sua persona. Di certo, Julian è stato silenziato ancor prima di venire arrestato: già un anno prima del suo arresto il governo ecuadoriano gli aveva impedito di parlare in pubblico. Oltretutto, abbiamo assistito alla diffusione, nelle principali testate internazionali, di storie prive di fondamento, con l’evidente obiettivo di infangare il suo nome. Penso ad esempio a un articolo a tutta pagina pubblicato dal “Guardian”, in cui si sosteneva che il responsabile della campagna presidenziale di Trump, Paul Manafort, avesse visitato più volte Assange all’interno dell’ambasciata ecuadoriana, notizia che poi lo stesso giornale è stato costretto ad ammettere essere falsa”. Riguardo la sua espulsione dall’ambasciata ecuadoriana, è possibile parlare di atto politico? “L’ascesa al potere in Ecuador di Lenín Moreno ha mutato gli assetti geopolitici del Paese. Lo stesso Moreno aveva manifestato l’intenzione di migliorare i rapporti con gli Usa e, ai suoi occhi, Assange si prestava ad essere una pedina perfetta da usare per ottenere delle concessioni da parte degli americani. Basti pensare come, nel giro di pochi mesi dall’espulsione di Julian dall’ambasciata, il governo ecuadoriano abbia ricevuto miliardi di aiuti dal Fondo Monetario Internazionale”. Trova eccessivo che un detenuto politico non violento come Assange sia recluso nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh? “In una democrazia sana non dovrebbero esistere prigionieri politici e Julian non si troverebbe in prigione, figurarsi in un carcere di massima sicurezza riservato a terroristi e pericolosi estremisti. Le condizioni in cui è detenuto sono estremamente ristrettive, è controllato giorno e notte. I nostri incontri sono sorvegliati dalle guardie della prigione e non vi è spazio per alcuna privacy”. Quali saranno i prossimi passaggi della vicenda giudiziaria? “In questo momento è in corso una duplice procedura d’appello, sia nei confronti dell’esecutivo britannico che ha autorizzato l’estradizione - o quanto meno non intende ostacolarla -, sia nei confronti delle Corti che l’hanno approvata. L’High Court of Justice (l’equivalente della Corte Suprema in Italia), tuttavia, non ha alcun obbligo legale ad accogliere il nostro appello, quindi stiamo ancora aspettando di sapere se avremo anche solo la possibilità di presentarlo”. È ancora possibile evitare la sua estradizione negli Usa? “Questo è un caso politico, quindi non saranno dei tecnicismi legali a liberare Julian. Molto, se non tutto, dipenderà dall’evoluzione del contesto politico, e in tal senso ci tengo ad evidenziare quanto stia accadendo in Australia, dove, per la prima volta dall’inizio di questa storia, il governo si appresta a chiedere all’America una qualche forma di risoluzione della vicenda. Ciò costituisce un passo in avanti e mi infonde speranza, soprattutto considerata l’accresciuta importanza dell’Australia nel contesto dell’alleanza occidentale. Gran Bretagna. Meloni e Sunak, intesa sui migranti: “Uniti contro gli arrivi irregolari” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 28 aprile 2023 Meloni ha incontrato giovedì il premier britannico: firmato un memorandum per la cooperazione strategica. Proteste contro di lei, che ironizza: “Bene, ero preoccupata, era da un po’ che non succedeva”. Si chiudono nello studio di Rishi Sunak per oltre un’ora. Senza cellulari. Insieme agli staff visitano praticamente tutta la residenza del premier britannico, compresi alcuni angoli da museo, la stanza della Thatcher, alcuni pezzi dello scrittoio che fu di Churchill. La visita a Downing street di Giorgia Meloni va secondo le previsioni, il feeling con il premier britannico è migliore di quanto previsto: alla fine i risultati sono la firma di un memorandum di cooperazione strategica fra i due Stati molto articolato, una piena sintonia sull’Ucraina (si discute di comune addestramento dei militari di Kiev), un endorsement del capo di governo inglese sulle capacità di Meloni di “garantire stabilità economia” all’Italia. Quando dopo due ore Sunak e Meloni lasciano la sede del governo britannico, diretti a Westminster per vedere i mosaici più preziosi della Cattedrale di Londra, entrambe le delegazioni sono più che soddisfatte. Una piccola contestazione sfiora il passaggio del corteo, danno della “fascista” alla Meloni, che poco più tardi, nel suo albergo, non si scompone: “Ho sentito gente che gridava: ho chiesto al primo ministro ma lui mi ha risposto “qui c’è sempre qualcuno che protesta”. Erano contro di me? Bene, finalmente, è una buona notizia. Non vengo contestata da un po’ di tempo e cominciavo a preoccuparmi”. Davanti alle telecamere i due leader si scambiano complimenti reciproci. Per lui è “meraviglioso accogliere il premier italiano grande alleato su tanti fronti”. “Noi siamo nazioni che hanno una forte partnership ma che possono fare ancora di più, insieme possiamo fare un grande lavoro, dagli investimenti reciproci al settore della difesa”, scandisce Meloni. Che, contrariamente a quanto previsto, e a quanto viene messo nero su bianco nel resto del memorandum, appoggia senza remore la linea politica di Sunak, contestata anche in Gran Bretagna, contro le migrazioni irregolari. Se nel documento i due Paesi si ripromettono di lavorare insieme sul tema, ritengono “necessario un cambio di passo nel nostro approccio alla politica migratoria”, ma tenendo conto “degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea”, di fronte alle telecamere Meloni non fa alcun distinguo: “Apprezzo quanto sta facendo Sunak, e anche sul tema del Ruanda, con le garanzie necessarie in termini di diritti umani cosa viene contestato? Il Ruanda è inadeguato perché sta in Africa? Anche io ho sempre sostenuto la necessità di creare hotspot in quei Paesi”. Il punto è che la legislazione britannica in discussione in queste settimane prevede alcuni istituti giuridici, come la detenzione per 28 giorni al momento dell’ingresso “illegale” su suolo inglese, che nella Ue o in Italia sarebbero considerati incostituzionali. Ma su questo doppio registro, o apparente contraddizione, Meloni preferisce non soffermarsi. Importante per lei è la cooperazione con Londra per “rendere prioritaria la dimensione esterna delle politiche migratorie come soluzione strutturale per prevenire la migrazione irregolare e stabilizzare i flussi”. Oggi Meloni chiuderà la visita con un ricevimento all’ambasciata italiana, alla presenza di imprenditori italiani e britannici. Poi si fermerà nella capitale inglese insieme alla famiglia, per una breve vacanza privata. Singapore. Giustiziato per la cannabis senza potersi difendere di Piero Zilio* Il Riformista, 28 aprile 2023 Tangaraju Suppiah è la prima vittima del boia nell’isola-stato dall’inizio dell’anno. Condannato per favoreggiamento e cospirazione del traffico di marijuana, gli è stato negato l’interprete, i suoi legali non hanno avuto accesso alle prove. Negli ultimi 30 anni, il sole del venerdì non è mai sorto per le oltre 500 persone impiccate nella prigione di Changi a Singapore. Venerdì era il giorno del boia. Ma l’anno scorso qualcosa è cambiato. I familiari dei condannati a morte hanno cominciato a ricevere le notifiche di esecuzione in un qualsiasi giorno della settimana. È stato così anche per Leela Vathy, sorella di Tangaraju s/o Suppiah. Suo fratello è stato giustiziato mercoledì 26 aprile per favoreggiamento e cospirazione del traffico di 1.017,9 grammi cannabis. Si tratta della prima esecuzione di quest’anno nell’isola-stato sull’equatore. Il caso di Tangaraju fa riflettere. Arrestato nel 2017 e condannato a morte nel 2018, il quarantaseienne singaporiano non ha mai toccato la droga di cui avrebbe progettato il traffico. Come sottolineano gli attivisti del Transformative Justice Collective, il suo caso si è basato su una serie di prove circostanziali. Tutto è partito dalla presenza dei suoi numeri di telefono nella rubrica di due uomini arrestati dall’Ufficio Centrale della Narcotici di Singapore. Il telefono di Tangaraju, però, non è mai stato recuperato per essere analizzato. I testimoni e le dichiarazioni dei due uomini che lo hanno accusato non sono mai stati resi noti alla difesa durante il suo processo. Al contrario, Tangaraju è stato interrogato senza un avvocato, e ha firmato una deposizione senza poterla capire interamente: durante l’interrogatorio gli è stato infatti negato l’interprete. Nel 2020 la sorella di Tangaraju si è rivolta all’avvocato e difensore dei diritti umani Ravi Madasamy, che ha iniziato a lavorare al suo caso in parallelo a quello di altri 25 condannati a morte. Ravi ha fatto in tempo a salvarne uno, ingiustamente condannato alla pena capitale, ed è riuscito a rimandare l’esecuzione di altri 11 prigionieri, ma a causa delle sue dichiarazioni sul sistema giudiziario di Singapore la sua licenza è stata sospesa. Tangaraju non è riuscito a trovare un altro avvocato disposto a rappresentarlo a Singapore, dove chi difende i condannati a morte rischia di dover sostenere personalmente gli alti costi processuali. Lo stesso Ravi ha dovuto pagare decine di migliaia di dollari per i casi che ha seguito. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato più volte le azioni disciplinari contro gli avvocati. Ma con sempre meno tempo a disposizione, Tangaraju ha chiesto ugualmente la revisione del caso, e pur senza una consulenza legale ha deciso di autorappresentarsi davanti alla Corte. La sua domanda è stata respinta due mesi fa. A nulla sono valse le decine di appelli di clemenza consegnati a mano domenica scorsa presso la residenza della Presidente di Singapore. Oggi dovrebbero essere 54 i detenuti nel braccio della morte della prigione di Changi in attesa di salire sul patibolo in un giorno qualsiasi della settimana. Le autorità non divulgano tempestivamente questi dati e le esecuzioni avvengono in silenzio, spezzato solo dal grido dei familiari che decidono di condividere il proprio dramma con la stampa e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani. L’anno scorso sono state impiccate 11 persone, tutte per piccoli reati di droga. La storia di Tangaraju è purtroppo molto simile a quella di molti altri detenuti. Come quella di Nazeri bin Lajim e Abdul Kahar, impiccati nel 2022, e di Syed Suhail bin Syed Zin, in attesa di esecuzione. Tutti loro hanno conosciuto la droga e il carcere minorile fin da bambini. Sono diventati adulti entrando e uscendo dalla prigione, avendo come unico riferimento un contesto privo di cure, comprensione, o altro tipo di supporto se non la punizione. E mentre Singapore inasprisce le pene per i trafficanti, multa gli avvocati e persino i cittadini che provano la cannabis all’estero, la Tailandia ne legalizza l’uso ricreativo e la Malesia abolisce la pena di morte. Anche in Europa la situazione è molto diversa. In Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Austria il possesso di piccoli quantitativi di cannabis per uso personale è stato depenalizzato. In Spagna, Lussemburgo e Repubblica Ceca è addirittura legale coltivare un numero ridotto di piante. A Malta l’uso ricreativo è legale. Che si sia favorevoli o contrari alla pena di morte, il caso di Tangaraju, impiccato mercoledì con l’accusa di aver progettato il traffico di un chilo di cannabis, punta i riflettori su due principi alla base della giustizia: la proporzionalità della pena e la dimostrazione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. *Fotoreporter