La doppia pena di noi madri detenute dalle detenute di “Costituzione viva” La Stampa, 27 aprile 2023 “La reclusione travolge i familiari, rimbalza sui figli e alla sofferenza si aggiunge il senso di colpa. Il rapporto fra bimbi e genitori va protetto, anche valutando tutte le potenzialità della giustizia riparativa”. Alla fine di marzo erano 28 i bambini rinchiusi con le madri in strutture carcerarie: un numero che non si può ridurre a inevitabile danno collaterale dell’esecuzione della pena detentiva e che riassume pesanti violazioni di diritti garantiti dalla Costituzione e dall’ordinamento internazionale. Un numero intollerabile che racconta storie di emarginazione ed esclusione, di croniche insufficienze delle reti territoriali di assistenza, di ritardi e vuoti strutturali di cui, come sempre, sono i soggetti di maggiore vulnerabilità a subire gli effetti più dirompenti e a volte irrimediabili. Tuttavia a questi 28 bambini e alle loro madri potrebbero essere evitati sia il carcere sia gli Icam (5 in Italia questi Istituti a custodia attenuata per detenute madri) che pur garantendo migliori condizioni di vita restano comunque strutture carcerarie. Già dal 2011 è stata aperta la strada delle case famiglia protette che garantirebbero maggiori tutele di figli e madri, ma ad oggi quelle attivate sono soltanto due (Roma e Milano), e il problema dei bambini reclusi resta irrisolto, contraddicendo principi fondamentali fissati a garanzia del “superiore interesse del minore”. Questa contraddizione appare ancora più drammatica se allarghiamo lo sguardo a tutti i figli di persone detenute, misurandoci con i grandi numeri della figliolanza inevitabilmente travolta dagli effetti delle condanne di madri e padri. Un enorme carico di afflizione che ci interroga sul senso e sul reale perimetro della pena le cui concrete e ramificate implicazioni si estendono ben oltre il carcere. Dalle statistiche dell’amministrazione penitenziaria si ricava un dato impressionante: il 31 dicembre 2022, su oltre 56 mila detenuti (solo il 4,2% le donne) quelli con prole erano quasi 26 mila con non meno di 60 mila figli. Se poi guardiamo alle dimensioni europee della questione, restiamo senza fiato: nell’Unione europea dei 27 più il Regno Unito i bambini che vivono separati da uno dei genitori in carcere sono 800 mila, e nell’area del Consiglio d’Europa 2,1 milioni. C’è tutto un mondo di bambini che devono far fronte alla separazione dai genitori proprio nelle fasi di vita più delicate, destinate a condizionarne profondamente lo sviluppo. Bambini esposti a stigma, precarietà, povertà, violenza, disturbi dell’apprendimento, problemi di salute mentale. Sappiamo bene, noi donne ristrette, quanto la detenzione riesca ad allagare la vita dei familiari, destinatari di fatto, spesso dimenticati e invisibili, delle misure penali. Tocca innanzitutto ai figli questo carico di sofferenza che nessun codice prevede e nessun giudice dispone; e la condizione dei figli, a sua volta, rimbalza dolorosamente sui genitori, sulle madri in particolare. Per esse, alla sofferenza che il carcere in quanto tale comporta, si aggiunge il carico ancora più afflittivo dei sensi di colpa per gli sconvolgimenti che l’arresto e la detenzione provocano sulla vita dei familiari; dell’angoscia di sentirsi espropriate del ruolo materno e dell’ansia di non riuscire ad esserne più all’altezza al momento del rientro. È più che una doppia pena, e ne facciamo esperienza ogni giorno. Sappiamo che quando ci si riferisce ai bambini, si apre un ventaglio di diritti cui sono assegnate tutele e garanzie del più alto livello. I bambini sono infatti portatori di diritti cui la Costituzione assegna speciale protezione e favore. Il loro superiore e preminente interesse è riconosciuto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il rapporto del bambino con entrambi i genitori è protetto dal diritto fondamentale alla vita familiare fissato dalla Convenzione europea dei diritti umani. Come tutti i diritti, tuttavia, anche questi dei bambini devono essere bilanciati e contemperati con altri diritti, come, per esempio, quelli di sicurezza pubblica. A noi pare ragionevole, in tal caso, aspettarsi limitazioni e compressioni rese inevitabili da consistenti livelli di pericolosità e rischio criminale. Ma guardandoci attorno - e non ci sfugge certo la parzialità del nostro sguardo - vediamo che ai casi di indiscutibile gravità, si affiancano quelli, assai più numerosi e di ben minore caratura, che non sembrano avere la “eccezionale rilevanza” che il codice richiede, per esempio, per le misure cautelari carcerarie di donne incinte o madri di prole inferiore ai sei anni. Bilanciamenti assai meno dolorosi sarebbero possibili in tante situazioni: non ultime quelle che vedono Il coinvolgimento di donne Rom, espressioni di una realtà da sempre contrassegnata da diffuse forme di discriminazione, emarginazione, esclusione sociale. Per queste nostre compagne, invece, la maternità e la gravidanza finiscono per diventare delle aggravanti, degli esempi di cinica strumentalizzazione dei figli, usati per evitare il carcere o come grimaldelli per uscirne. Sarebbero probabilmente le prime destinatarie della proposta di cui leggiamo in queste settimane che giunge a prevedere la decadenza dalla responsabilità genitoriale delle donne “recidive reiterate”. Ma nella nostra esperienza di reparto, sono tante le persone la cui recidiva, più che esprimere carriere di alto profilo criminale, stili di vita violenti e di grave pericolosità sociale, riassume il ripetersi, talvolta disperato, di reati su cui è forte l’impronta della marginalità, della tossicodipendenza, del disagio mentale, dei naufragi esistenziali che tutte e tutti rischiamo specie quando si è privi di pur minimi ancoraggi sociali e familiari. Non possiamo fare a meno di pensare quanto sarebbero del tutto sproporzionate e inumane misure punitive come quelle prospettate, e quanto più che mai sbilanciato il preminente interesse del minore d’età. I numeri della recidiva non dimostrano di per sé quanto siano poco efficaci e produttive le scelte di moltiplicare e inasprire le pene? Nella necessaria risposta a fatti di reato che coinvolgono persone con responsabilità genitoriali, perché, per esempio, non orientarsi a soluzioni di giustizia riparativa, esplorandone tutte le potenzialità di tutela dei primari interessi dei bambini? Ci è difficile immaginare qualcosa di meglio di uno “spazio riparativo” perché vi abbiano piena rappresentazione obblighi, bisogni, diritti che nel loro intrecciarsi costituiscono la trama assolutamente inscindibile che connette vittime dirette e indirette, autori di reato e comunità, genitori e figli. Con tutte le cautele, le garanzie e le professionalità necessarie, il fragile mondo della minore età potrebbe entrare nello spazio riparativo dando ascolto e visibilità a bisogni e interessi così facilmente e irrimediabilmente lesionabili. L’accesso anche dei bambini a percorsi di giustizia riparativa sarebbe del tutto coerente con l’articolo 12 della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia (ne ritroviamo i motivi ispiratori anche nell’articolo 315-bis del codice civile), che prevede che ai fanciulli, se capaci di discernimento, sia data l’opportunità di esprimere liberamente le proprie opinioni su tutte le questioni e le procedure che li riguardano. Nel rispetto dei vincoli penali, tutti i soggetti a qualsiasi titolo interessati dai fatti di reato dovrebbero avere la possibilità di intervenire nella ricerca dei giusti esiti riparativi: un risultato difficile da immaginare se mancasse l’ascolto dei bambini e della pressante richiesta di una giustizia realmente a misura del loro superiore interesse. Per parte nostra, non perdiamo la speranza che questa prospettiva sia qualcosa di più dell’ingenua utopia di donne detenute che pensano che le ragioni dei figli, là fuori, anziché moltiplicare sterilmente le pene della maternità reclusa, possano suggerire forme di una più coinvolgente e feconda giustizia. Restituendoci - non ultimo - il diritto di non sentirci colpevoli di essere madri. Rendere le indagini “davvero” segrete: ecco la rivoluzione sognata da Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 27 aprile 2023 L’ipotesi a cui lavora il ministro: individuare un “responsabile” in ogni fase dell’inchiesta. I dati sono discreti: rispetto al 2019, anno che l’Ue ha preso a termine di paragone per misurare i nostri progressi e concederci i fondi del Pnrr, la durata media dei processi civili è calata, a fine 2022, dell’11,8%; nel caso del penale la riduzione del cosiddetto “disposition time” è del 10%. Certo, entro giugno 2026, cioè fra poco più di tre anni, si dovrà arrivare a un taglio dei tempi pari al 40% nel civile e al 25% nel penale. Ma la tabella di marcia è abbastanza sostenuta da consentire al guardasigilli Carlo Nordio di dedicarsi finalmente alle riforme garantiste. Al “cronoprogramma” illustrato da ultimo nell’intervista di domenica scorsa a “Che tempo che fa”. I primi step sono arcinoti: revisione di abuso d’ufficio, traffico d’influenze e misure cautelari, stretta sulle baby- gang. Materie che, entro un mese, saranno tradotte in più ddl. A giugno arriveranno altre proposte firmate da Nordio, inclusa la riforma delle intercettazioni. Che però il titolare della Giustizia vorrebbe accompagnare con qualcosa di più “rivoluzionario”: un intervento che vada oltre il divieto di trascrivere gli “ascolti”, e che rafforzi in senso più generale il “segreto d’indagine”, sancito all’articolo 329 del codice di procedura penale. Come arrivarci? Si lavora su due ipotesi. Nella prima, l’obiettivo consisterebbe nell’allungare il più possibile la fase del procedimento in cui gli atti restano segreti. Vorrebbe dire - è il senso delle riflessioni che il guardasigilli ha solo avviato con i propri tecnici - imporre l’obbligo del segreto non solo a magistrati e polizia ma anche alle parti e ai testi, in una forma assoluta e non solo, come avviene già oggi, quando il magistrato o la polizia giudiziaria sentono una persona “a sommarie informazioni” e le impongono appunto di non divulgare il contenuto del colloquio. È una possibilità che però, secondo le prime analisi compiute al ministero, presenta varie controindicazioni. Innanzitutto, il novero dei soggetti che comunque sarebbero a conoscenza degli atti d’indagine “segreti” sarebbe così ampio da impedire, di fatto, l’individuazione di una “talpa” nel caso in cui i dettagli dell’inchiesta finissero sui giornali. Si tratterebbe insomma di un vincolo pesante, soprattutto per la difesa, con un’efficacia non proporzionata ai sacrifici. C’è un altro problema, che lo stesso Nordio, a quanto pare, ben considera: una prospettiva simile esporrebbe le nuove norme al rischio che, in seguito, qualche “manina” le stravolga “a danno del diritto di difesa”, cioè nel senso di precludere agli avvocati la conoscibilità degli atti ben oltre quanto non sia previsto oggi. A questa prima impostazione si aggiunge una “subordinata”: anziché estendere la “segretezza”, inasprire la “impubblicabilità”. È il dilemma sul quale l’accademia e la stessa avvocatura penale discutono da anni: brutalmente, vorrebbe dire innalzare le pene di un misconosciuto reato già previsto dal codice, la “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento”. È l’illecito penale in cui i giornalisti incorrono, in teoria, ogni volta in cui divulgano indebitamente non solo stralci di intercettazioni ma anche altre informazioni relative all’inchiesta, ancora “impubblicabili” anche se non necessariamente “segrete”. Si tratta dell’articolo 684 del codice penale, attualmente presidiato da una sanzione che fa sorridere: lo si può cancellare con un’ammenda non superiore a 258 euro. Ovvio che nessun pm si sogni di imbarcarsi in un fascicolo per la persecuzione di un reato che, nella più grave delle ipotesi, comporterebbe una pena più bassa di quanto previsto dal codice della strada per l’eccesso di velocità. E allo stesso tempo, Nordio ben sa che difendere il segreto con un mero giro di vite sulla cronaca giudiziaria significherebbe sbilanciare le norme a danno della sola libertà di stampa. In ogni caso, agire sui tempi del “segreto”, sulla loro estensione fino, addirittura, al dibattimento, come pure al guardasigilli piacerebbe, non è impossibile ma rischia di rivelarsi velleitario. Ed ecco che lo stesso ministro, insieme con i suoi tecnici, già ragiona su una seconda strada, meno accidentata: presidiare il vincolo del segreto, fissato dall’articolo 329 del codice di rito, con una tecnica mutuata dall’ambito amministrativo: individuare formalmente, come si fa in qualunque iter di qualsiasi ministero o ente locale, un “responsabile del procedimento”. Nel caso del processo penale, vorrebbe dire che la legge individuerebbe un responsabile del segreto per ciascuna fase o passaggio delle indagini: l’ufficiale della polizia giudiziaria quando si tratta di attività strettamente investigative; il pm, il procuratore aggiunto o lo stesso procuratore della Repubblica per tutte le attività dell’ufficio inquirente; il presidente di Sezione o lo stesso presidente del Tribunale per tutti i casi in cui tocca agli uffici del giudicante preservare il segreto nella fase preliminare del procedimento. È una via decisamente meno impervia, anche se le sue ricadute concrete non sono facilmente prevedibili. Ma certo è che Nordio vuole trasferire, attraverso le nuove norme sulle intercettazioni e sul “segreto istruttorio”, soprattutto un’idea: che la riservatezza delle informazioni relative alle persone coinvolte nel processo non dovrà più essere un interesse secondario, ma una priorità per gli stessi magistrati. E se solo il principio riuscisse a farsi un po’ strada, saremmo davvero davanti a una “rivoluzione”. A quando una giornata dedicata alle vittime della giustizia-ingiusta? di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 27 aprile 2023 La scorsa settimana, cogliendo in positivo quella che mi era sembrata una sua apertura ad ammettere i suoi frequenti errori giudiziari, Le avevo chiesto di valutare la possibilità di chiedere scusa a quegli innocenti che ne hanno pagato le conseguenze. Com’era prevedibile, non l’ha fatto! Eppure avrebbe avuto mille modi, e tutti onorevoli, per far giungere la sua voce alle vittime delle sue tante inchieste sbagliate. Ho cercato, in questi giorni, di capire le sue ragioni. Probabilmente pensa che le vittime delle sue ‘retate’ non ci siano o siano così poche da non meritare le scuse. In tal caso si sbaglia e noi siamo disponibili a dimostrare che ci sono, sono tante e in qualche caso difficilmente riconducibili ad errore. Se lo ritenesse opportuno Le potremmo fornire un primo elenco, a meno che Ella non pensi che costoro, sebbene innocenti, non siano degni della sua attenzione. Libero di farlo. Ma ciò contrasta con la pari dignità delle persone e imporrebbe alla stampa libera (veramente poca) di ristabilire la verità e con essa le regole della democrazia violata. Infine, ed è questa la cosa più probabile, lei potrebbe ipotizzare che la lotta contro la ndrangheta, pur condotta con grande approssimazione e coperta da un clamore mediatico tale da trasformare insuccessi in grandi trionfi, abbia un valore tale da considerare meri effetti collaterali la vita degli innocenti stritolati nella assurda morsa mafia - antimafia. Sarebbe quest’ultima l’ipotesi più inquietante perché, come Lei mi insegna, il diritto serve a concretizzare la Giustizia e non ad aggiunge abuso ad abuso, ingiustizia a ingiustizia. Ci sembra che ci siano abbastanza ragioni per una sua risposta. Comunque, da parte nostra le rinnoviamo l’invito a chiedere scusa, o comunque a dare una spiegazione del suo diniego. Con ciò non intendiamo affatto infastidirla o farle perdere tempo perché basterebbe un attimo solo, per dare un esempio di umiltà e coraggio e ciò sarebbe di grande giovamento alla credibilità e legittimità all’impegno di quanti combattono per una società senza mafie, consorterie e poteri occulti. E per questa via, arriviamo a sognare che in un tempo non lontano, in occasione della ‘Giornata della memoria’ dedicata alle vittime di mafia, qualcuno possa accennare ai tanti, che hanno avuto la vita distrutta da una giustizia ingiusta e in qualche caso canaglia. Al Csm volano gli stracci tra il vicepresidente Pinelli e i laici di FdI di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 aprile 2023 I consiglieri eletti in quota Fratelli d’Italia non si sono presentati al plenum in polemica con la deriva “dirigista” di Pinelli (Lega). Dopo due ore la crisi è rientrata, ma l’imbarazzo resta. Giornata convulsa quella vissuta oggi dal Consiglio superiore della magistratura. La seduta del plenum, prevista per le ore 13, è iniziata con due ore di ritardo dopo che i quattro componenti laici in quota Fratelli d’Italia (Felice Giuffrè, Isabella Bertolini, Daniela Bianchini e Rosanna Natoli) hanno deciso di non presentarsi, in polemica con il vicepresidente Fabio Pinelli (Lega). Le ragioni dello scontro, anticipate sul Foglio, sono legate a un’insofferenza dei laici di FdI - e anche di diversi membri togati - per il protagonismo di Pinelli attorno alla programmazione dei lavori del Csm. Appena eletto come vicepresidente, Pinelli ha deciso di cancellare da febbraio ad aprile la “settimana bianca”, cioè l’ultima settimana del mese in cui per tradizione il Consiglio superiore è fermo e non ci sono attività nelle commissioni o nel plenum. A irritare laici e togati è soprattutto il metodo utilizzato da Pinelli: pesantemente decisionista all’interno del Consiglio e fortemente proiettato verso l’esterno, nei confronti dell’opinione pubblica, con l’obiettivo di apparire come l’uomo del cambiamento del Csm (per esempio, comunicando un aumento del 30 per cento del numero di pratiche definite rispetto al primo trimestre della consiliatura precedente e del 150 per cento solo per il mese di marzo). Visto, però, che per incrementare l’efficienza del Csm non basta approvare più pratiche, ma soprattutto istruirle e scriverle in maniera più adeguata (si pensi alle nomine, sistematicamente impugnate di fronte al Tar e al Consiglio di stato), i consiglieri hanno fatto presente l’esigenza di disporre di maggior tempo, per loro e per i funzionari amministrativi. Pinelli, però, non avrebbe voluto saperne di scendere a patti. Da qui la rottura clamorosa con i consiglieri laici in quota FdI, che, essendosi sentiti trattati come dei pària, hanno deciso di non presentarsi al plenum delle 13 e di ritirarsi in una sorta di Aventino. “Siamo convinti - hanno fatto sapere in una chat interna -, come anche affermato da alcuni colleghi consiglieri togati, che occorra una responsabile pausa di riflessione affinché si possa articolare una soluzione adeguata a garantire reale efficienza, i necessari spazi di operatività ai magistrati segretari e all’intera struttura amministrativa, nonché gli essenziali momenti di studio e approfondimento delle pratiche da trattare per tutti i consiglieri”. Non vedendo i laici arrivare, anche Pinelli ha deciso di non presentarsi, così da non formalizzare l’assenza del numero legale che avrebbe reso la situazione alquanto imbarazzante, ma di rinviare la seduta alle 15. Dopo due ore di trattative, il vicepresidente di estrazione leghista ha dovuto accettare alcuni piccoli compromessi. L’abolizione della settimana bianca è stata confermata sino alla fine dell’anno, ma nell’ultima settimana di ciascun mese la convocazione del plenum sarà solo eventuale, mentre a lavorare da lunedì a mercoledì saranno soprattutto le commissioni con maggiori carichi di lavoro: la quarta (quella per le valutazioni di professionalità), la quinta (per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi), la settima (per l’organizzazione degli uffici giudiziari) e la ottava (per la magistratura onoraria). Insomma, più che altro i consiglieri di FdI hanno voluto dare una dimostrazione di forza a Pinelli, palesando la loro insofferenza per il metodo decisionista utilizzato dal vicepresidente fino a oggi. Del resto, il regolamento interno stabilisce che il Consiglio può deliberare validamente “con la partecipazione di almeno 21 componenti, dei quali 14 magistrati e 7 eletti dal Parlamento”. Tradotto: è sufficiente che i quattro laici in quota FdI decidano di non presentarsi per bloccare l’intera l’attività del Csm. Prima di lanciarsi in altre prove muscolari, Pinelli farebbe meglio a pensarci due volte. Al Csm vincono le colombe. Il leghista Pinelli si salva ma le tensioni restano di Giulia Merlo Il Domani, 27 aprile 2023 La tensione ha dovuto salire nuovamente, al Consiglio superiore della magistratura, prima che si arrivasse a una mediazione condivisa. A fine giornata l’aria è rimasta pesante, ma la volontà prevalente tra i consiglieri era quella di archiviare giornate difficili e voltare pagina. Al plenum di ieri, infatti, il Csm è arrivato dopo giorni di incontri, telefonate e riunioni, tutte con un unico oggetto: capire come uscire dal vicolo cieco di uno scontro frontale tra consiglio e vicepresidenza, che avrebbe solo nuociuto alla credibilità dell’organo. L’oggetto del contendere era formalmente l’organizzazione del calendario del consiglio. In realtà, a scatenare l’irritazione quasi unanime - sia pur con diversi gradi di intensità - di laici e togati sarebbe stata la gestione unilaterale del vicepresidente leghista, Fabio Pinelli, sommata al suo eccessivo protagonismo. Il risultato del plenum è stato quello di una ricucitura, con votazione all’unanimità di un emendamento al calendario che era stato predisposto dal comitato di presidenza. Per arrivarci, però, è servito il rinvio della seduta di due ore a causa della mancanza del numero legale e la minaccia concreta di far saltare il plenum. La mediazione - La mediazione raggiunta è stata il frutto di un lavorio costante dei pontieri, rappresentati soprattutto dalla componente togata del consiglio. L’oggetto del contendere era l’organizzazione della quarta settimana di ogni mese, la cosiddetta “settimana bianca” in cui si sospendevano del tutto i lavori. Il vicepresidente voleva invece prevedere sempre una seduta di plenum nell’ottica di smaltire arretrato e alzare - almeno a livello di percentuale - la produttività dell’organo, mentre i consiglieri chiedevano di lavorare sì, ma concentrandosi sul lavoro in commissione e sulla stesura delle delibere, così da poter smaltire il vero arretrato pesante, ovvero quello concettualmente più delicato, delle commissioni più in sofferenza. “Per valutare l’efficienza del Csm non bisogna guardare il numero delle riunioni ma quello delle delibere”, è il ragionamento di una fonte interna al Consiglio. Per superare l’impasse, sul tavolo c’erano due proposte: quella presentata dai consiglieri laici in quota Fratelli d’Italia, che prevedeva commissioni solo il lunedì e il martedì della quarta settimana e poi quella di mediazione, nata dalla riflessione dei togati, che invece prevedeva un plenum solo “eventuale” e commissioni dal lunedì al mercoledì. Nonostante vari tentativi di trovare un punto di caduta comune, la vicepresidenza non si sarebbe inizialmente orientata per venire incontro alla richiesta del plenum. “Ma con le questioni di principio si iniziano le guerre”, è stato il ragionamento diffuso tra i consiglieri, e così quasi è stato. Forte della lettera di apprezzamento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’incremento della produttività del Csm, Pinelli avrebbe preferito proseguire sulla strada delle riunioni serrate e senza soluzione di continuità, che alcune fonti critiche hanno definito di “aziendalismo senza attenzione per la collegialità”. Questo iniziale muro contro muro ha prodotto uno slittamento della seduta del plenum di ieri di due ore, per mancanza del numero legale. A ritirarsi sull’Aventino, infatti, erano stati cinque consiglieri laici di centrodestra e in particolare il gruppo dei quattro di Fratelli d’Italia. Secondo fonti interne al Consiglio, a far infine cedere Pinelli sarebbe stato il lavoro di mediazione degli altri due membri del comitato di presidenza, i consiglieri di diritto entrambi vicini al gruppo di Unicost Luigi Salvato, procuratore generale di Cassazione, e Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione. Dopo le due ore di rinvio, l’esito è stato quello di un voto all’unanimità della proposta di calendario con recepimento degli emendamenti che hanno previsto l’eventualità del plenum del mercoledì della quarta settimana, sostiuito dal lavoro delle commissioni più in sofferenza e la sezione disciplinare. Il problema sottostante - La soluzione di merito ha lasciato soddisfatto buona parte del consiglio, tuttavia - sottolineano più fonti - “il vero punto non era quello” e nessuno voleva andare allo scontro “su un mercoledì in più o in meno”. In altre parole, nessuno al Csm voleva scatenare uno scontro del genere su un giorno in più o in meno di lavoro in plenaria. La consapevolezza diffusa era che l’organizzazione prevista da Pinelli fosse più di facciata che effettivamente produttiva di risultati concreti e la metafora più usata è stata quella di un giudice che fa udienza tutti i giorni ma poi non ha tempo di scrivere le sentenze. Il problema vero che preoccupa sulla lunga distanza sarebbe però quello delle modalità di confronto della vicepresidenza con il resto del consiglio. Se su una questione tutto sommato secondaria come quella del calendario si è arrivati al muro contro muro e sono volate parole pesantissime, l’interrogativo è cosa succederà su questioni di portata ben maggiori che presto arriveranno davanti al Csm. Il livello ulteriore dello scontro, infatti, ha visto la contrapposizione tra i consiglieri laici d’area centrodestra e in particolare tra Pinelli e gli eletti di Fratelli d’Italia. Loro, infatti, hanno innescato il braccio di ferro con il primo emendamento per eliminare il plenum della quarta settimana e poi fatto mancare il numero legale nella prima seduta convocata. Secondo una fonte interna, ci sarebbero stati anche contatti con la presidenza del Consiglio per chiederne il freno. Contatti andati però a vuoto, lasciando così Pinelli a vedersela con i consiglieri. L’intera questione avrebbe infastidito anche il Quirinale, che ha seguito da lontano ma con attezione la vicenda. Il presidente Sergio Mattarella, infatti, è anche presidente del Csm e aveva affidato a Pinelli il compito di restituire credibilità all’organo, lodandone proprio le capacità gestionali. Alla fine, la parola fine sulla battaglia del calendario è stata scritta soprattutto grazie ai consiglieri togati, che avrebbero capito quanto uno scontro tutto interno e basato su contrasti che nulla hanno a che fare con gli obiettivi costituzionali dell’organo avrebbe nuociuto al consiglio. La vicepresidenza, che ha infine dovuto capitolare (anche se nei fatti la quarta settimana sarà lavorativa come lui chiedeva, ma nelle commissioni), ne esce certamente ridimensionata. Tuttavia nell’interesse del Csm sono state scongiurate almeno per ora ipotesi peggiori. Genova. È malato, in carcere gli tolgono la sedia a rotelle perché fingerebbe... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2023 L’Associazione Yairaiha ha inviato una segnalazione urgente al ministro della Giustizia Carlo Nordio, alla direttrice del carcere di Genova Tullia Ardito, al Garante Nazionale Mauro Palma e al garante della città di Genova Stefano Sambugaro riguardo al detenuto Carmine Multari, il quale ha sofferto di una serie di patologie e ha subito una carenza di cure nei diversi istituti penitenziari in cui si è trovato ristretto negli ultimi tre anni. La compagna di Multari ha scritto all’associazione per informarla che il suo partner è stato privato della sua carrozzina dal dirigente sanitario del carcere di Genova, il quale avrebbe ritenuto che il detenuto stesse fingendo le sue patologie. Questa decisione ha comportato ulteriori privazioni per il detenuto Multari, che gli hanno impedito di svolgere anche le minime attività intramurarie, tra cui i colloqui telefonici con la sua famiglia. L’Associazione Yairaiha ha già segnalato in precedenza la situazione di salute del detenuto alle autorità competenti, senza ottenere una risposta adeguata. Tuttavia, in questa nuova segnalazione urgente, l’associazione auspica che la carrozzina venga riassegnata al detenuto al fine di tutelare dignitosamente i suoi diritti di persona ammalata prima ancora che detenuta. L’associazione ritiene che sia superfluo allegare la documentazione medica che attesta le diverse patologie di cui soffre Multari, in quanto le autorità competenti sono già a conoscenza della sua situazione di salute. L’obiettivo è quello di ottenere un positivo riscontro da parte delle autorità competenti per garantire i diritti fondamentali del detenuto e garantire una gestione adeguata della sua salute all’interno dell’istituto penitenziario. Questa segnalazione urgente mette in luce la situazione di salute precaria del detenuto e la carenza di cure nei diversi istituti penitenziari in cui è stato ristretto negli ultimi tre anni. L’Associazione Yairaiha auspica che le autorità competenti prendano seriamente in considerazione la sua segnalazione e agiscano immediatamente per garantire il rispetto dei diritti umani del detenuto. Ma cosa denuncia la compagna di Multari tramite la lettera indirizzata all’associazione Yairaiha? Afferma che il compagno, incarcerato nel 2019, ha subito l’asportazione di una neoplasia alla lingua e che il suo stato di salute è notevolmente peggiorato. Multari è stato trasferito dal carcere di Voghera al centro clinico del carcere di Opera per ricevere cure mediche, ma la situazione non è migliorata e anzi è peggiorata, in particolare a causa dell’impossibilità di curarsi come l’equipe medica che lo ha operato ha delineato in fase di post- operatorio e riabilitativo. Il detenuto ha subito un progressivo e irreversibile peggioramento, mascherato dall’istituzione carceraria come atteggiamento non collaborativo. Inoltre, Multari non ha mai fatto socialità né ora d’aria e ha chiesto il divieto d’incontro con la popolazione carceraria per evitare l’acutizzarsi di appartenenze dettate dai capi di imputazione per associazione mafiosa - a detta sua - non corrispondenti al suo reale stato in essere. La compagna si dice preoccupata e stanca di rimbalzare contro muri di gomma e di opportunismo nel cercare di ottenere giustizia per Multari, il quale è stato trasferito da Opera a Genova e gli è stata tolta la sedia a rotelle perché si dice che stia simulando. Il detenuto cade spesso, ma questo non viene preso in considerazione. Nonostante le richieste di trasferimento per avvicinarlo alla famiglia, tutto viene ignorato. Inoltre, sempre nella lettera, la compagna sottolinea che il tribunale di Verona non ha accolto mai alcuna richiesta per concedere i domiciliari a Multari, nonostante le perizie e la sua incompatibilità con il regime carcerario. Il Pm lo definisce pericoloso sulla base dell’aggravante del 416 bis, aggravante caduta per il tribunale del Riesame di Venezia, ma non presa in considerazione per il primo grado. Il mese scorso, la Cassazione ha condannato in via definitiva Multari per il primo processo in essere, non meravigliandosi minimamente che per i giudici di primo grado l’aggravante - a detta della sua compagna - sarebbe stato indotta dal suo marcato accento calabrese. Non solo. Sempre secondo quanto denuncia la compagna nella lettera indirizzata all’associazione Yairaiha, Multari è stato condannato anche per un reato da lui commesso mentre si trovava a scontare un periodo di detenzione presso il carcere di Reggio Emilia nel lontano 2004. Al di là dell’aspetto giudiziario, è chiaro che il sistema carcerario italiano presenta molte lacune e criticità, soprattutto per quanto riguarda la salute dei detenuti. La situazione di Multari non è un caso isolato, ma è il risultato di una serie di problemi strutturali del sistema penitenziario italiano. È inaccettabile che un detenuto malato venga trascurato e che le sue richieste di cure e di assistenza vengano ignorate. Il minimo sindacale è quello di restituirgli la sedia a rotelle e dargli la possibilità di avere contatti con la sua famiglia. Torino. Suicidio in carcere, condannati gli agenti che non sorvegliarono di Federica Cravero La Repubblica, 27 aprile 2023 Nessuno si accorse di Roberto Del Gaudio che creò un cappio con i pantaloni del pigiama. Sono stati condannati a 8 e 9 mesi di carcere tre agenti della Polizia penitenziaria di Torino ritenuti responsabili della morte di Roberto Del Gaudio, che si è suicidato il 10 novembre 2019 impiccandosi al finestrone della cella del carcere Lorusso e Cutugno in cui era rinchiuso per aver ucciso la moglie pochi giorni prima. Era un detenuto a rischio, Del Gaudio, e avrebbe dovuto essere controllato a vista. Invece nessuno degli agenti in servizio si accorse di lui mentre verso le dieci e mezza di sera si mise ad armeggiare per diversi minuti con i pantaloni del pigiama per creare un cappio. Eppure c’era una sala video con un monitor che inquadrava le 19 celle di quella sezione in cui c’erano i detenuti a rischio suicidio o avrebbero potuto vederlo passando di persona nel corridoio. Perché allora nessuno lo vide? “Si era rotto lo schermo, era caduto dal muro a cui era attaccato”, è stata la difesa degli imputati, assistiti dall’avvocato Marco Feno. E quelli che dovevano passare di persona a guardare nelle celle se tutto andava bene? “Erano stati richiamati da un detenuto che stava dando dei problemi”. Ma di questo secondo intervento non c’è traccia e anche sul guasto al televisore c’è più di un dubbio, visto che una consulenza ha dimostrato che non poteva essersi staccato dal muro da solo. E di fronte a tutti questi interrogativi le indagini dei carabinieri, coordinate dai pm Giulia Marchetti e Francesco Pelosi, avevano avanzato una possibile ricostruzione, ovvero che gli agenti in servizio stessero guardando la partita Juventus-Milan, quando Del Gaudio si è ucciso. Un sospetto avanzato seguendo i tempi dell’intervento: quando si accorgono del corpo senza vita del detenuto appeso alla finestra l’incontro di calcio è finito da pochi minuti. E poi ci sono le intercettazioni raccolte nell’ambito di un’altra inchiesta, quella sulle torture al padiglione C. Sono proprio dei colleghi a dare una lettura di cosa possa essere accaduto quella sera, facendo riferimento alla prassi di inserire la scheda della pay tv nel monitor del circuito di videosorveglianza quando c’erano delle partite di Serie A. A chiedere di fare luce su quanto accaduto a Del Gaudio c’era anche il legale della famiglia, Riccardo Magarelli, e l’avvocato Davide Mosso, che si è costituito parte civile per il garante nazionale dei detenuti. Napoli. Detenuto morto di infarto a Poggioreale: due medici indagati per omicidio colposo di Valerio Papadia fanpage.it, 27 aprile 2023 Concluse le indagini sulla morte di Luigi Perrone, detenuto di 56 anni, deceduto il 18 settembre nel carcere napoletano: indagati i due medici che erano in servizio. Si sono concluse le indagini della Procura di Napoli sulla morte di Luigi Perrone, 56 anni, detenuto nel carcere di Poggioreale e morto a causa di un infarto, proprio nella casa circondariale partenopea, il 18 settembre del 2022. I due medici in servizio nel carcere il 17 e il 18 settembre sono indagati per omicidio colposo: nei loro confronti, il sostituto procuratore Francesca Falconi ha inviato un avviso di chiusura delle indagini. I due medici non si sarebbero accorti dell’infarto del detenuto - Stando a quanto è emerso dalla perizia effettuata dagli esperti nominati dalla Procura, i due medici non si sarebbero accorti che Luigi Perrone avesse un infarto in corso, nonostante ne manifestasse tutti i sintomi. I due medici hanno somministrato al 56enne farmaci per tenere sotto controllo la nausea e alcuni antinfiammatori, ma non avrebbero svolto esami necessari in questi casi, come un elettrocardiogramma e un prelievo enzimatico, determinanti per svelare l’infarto. Subito dopo la morte del detenuto 56enne, lo scorso 18 settembre, la Procura di Napoli aprì una inchiesta. Dubbi sulla condotta dei medici vennero espressi anche da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. “Mi hanno raccontato dei suoi dolori. Dolori al braccio, da giorni. Ma anche vomito, interventi fatti dal medico di turno in nottata. Ma perché non è stato chiamato il 118, visto che erano tutti sintomi di un pre-infarto?” aveva detto Ciambriello. Benevento. Sovraffollamento carceri, Ciambriello: “Un problema che non interessa alla politica” do Fabio Tarallo anteprima24.it, 27 aprile 2023 Emergenza sovraffollamento nelle carceri, un tema di stretta e costante attualità che e’ stato affrontato questa mattina in un convegno organizzato da +Europa presso Palazzo Paolo V. Il teatro scelto per parlare di un problema che è italiano e campano e che, spesso, viene trattato, in maniera del tutto marginale dalla politica. Un incontro utile per parlare due tre temi principali: il sovraffollamento, appunto, la riabilitazione del detenuto e la riforma della giustizia. “Pochi parlano di questi argomenti - così ha cominciato Alfonso Maria Gallo, esponente della segretaria nazionale di +Europa - e quando se ne parla si ha l’idea che il carcere sia solo un meccanismo di punizione. In Italia c’è una situazione drammatica. Si parla troppo spesso di suicidi e non dovrebbe essere così. Chi ha commesso un errore deve essere riabilitato, allontanandosi da quell’idea di ‘buttare via la chiave’“. “A Benevento esiste un istituto carcerario importante, affollato e con tante problematiche - queste le parole di Vittorio Vallone di Benevento +Europa. Certo, da un lato ci vuole la certezza della pena ma dall’altro deve esserci la depenalizzazione dei reati minori. Non bisogna mai dimenticare che il carcere è tempo che viene tolto alle persone ma, allo stesso tempo, bisogna fare attenzione alle persone pericolose che, spesso, continuano le loro attività all’interno delle carceri”. Per la presidente dell’assemblea nazionale di +Europa, Manuela Zambrano, il gruppo politico ha “una bella componente radicale che da sempre è sul pezzo su questi argomenti. Per decenni abbiamo lavorato con Marco Pannella su questi temi. Non c’è solo la questione dei detenuti ma anche la gestione dell’ambito carcerario. Esiste un mondo fatto di persone che vivono da detenuti tra detenuti. Il tasso di suicidi tra i poliziotti penitenziari è altissimo. Il ‘Salvini’ di turno ci serve poco quando crea carceri invivibili anche per i lavoratori. Inoltre, c’è la questione dei reati minori con persone che entrano in contatti con veri criminali e si trasformano in persone che possono commettere reati più gravi. Devono esserci tante misure alternative”. Dopo questi primi saluti, il dibattito è entrato nel vivo con l’accorato intervento da parte di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. “Del carcere non se ne frega nessun partito. Tutti hanno visto quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, una ‘mattanza di Stato’ trasformata in ‘depistaggio di Stato’. Durante quel periodo, nessun deputato e senatore campano si è interessato, ci ha dovuto pensare il deputato Magi a chiedere le carte. La politica considera il carcere una risposta semplice a bisogni complessi ma il carcere non deve equivalere alla tumulazione delle persone. I problemi, pero, sono tanti. Dal 2006 non c’è stato un manipolo di coraggiosi che ha pensato ad amnistie e indulti per alleggerire il pianeta giustizia. Nessuno si occupa della polizia penitenziaria, il lavoro più duro dopo quello dei minatori. Inoltre, in 189 istituti, l’ultimo concorso per direttori è di 25 anni fa e alcuni di loro gestiscono cinque istituti in contemporanea”. Il garante Ciambriello, poi, sposta l’attenzione sulla questione delle carceri minorili. “Sono 17 gli istituti per minori: 333 ragazzi e 204 sono immigrati. Un problema che si innesta in un altro. E mancano i mediatori linguistici. Tutti hanno ascoltato la storia delle due evasioni da Airola e questi non erano figli di camorristi. A Benevento, invece, abbiamo 8 posti per detenuti malati di mente e altri 20 pronti a entrare in questo programma. Beh, dal 14 dicembre nell’istituto non entra uno psichiatra. Nel caso di queste persone, molto spesso le denunce arrivano direttamente dai familiari che sperano in un recupero nel carcere, ma il più delle volte non è così”. “Oggi parliamo di un argomento di nicchia”. Così fa il suo esordio Luigi Diego Perifano, presidente provinciale della LIDU, oltre che esponente della minoranza a Benevento. “Ho ascoltato con grande attenzione le parole del garante Ciambriello e devo dire che siamo di fronte al rischio concreto che il periodo di carcerazione diventi l’università del crimine. Le risposte non sono incoraggianti e il carcere è veramente lontano da processo di rieducazione. Il dato del sovraffollamento è una costante da decenni e questo è alla base di suicidio e autolesionismo. il dato della Regione Campania è allarmante e preoccupante: siamo di fronte al fallimento di un progetto riabilitativo. La condizione carceraria è una condizione aggravante che porta ad estreme conseguenze. Stesso problema è la mancanza di un meccanismo tra carcere e mondo del lavoro”. Atto d’accusa da parte di Perifano nei confronti della carcerazione preventiva. “È la dimostrazione più chiara di un fallimento della giustizia. Molto spesso i Procuratori ricorrono a questa misura che abbatte la dignità personale ed è un’aberrante anticipazione della pena”. La conclusione è toccata a Piercamillo Falasca, neo Vicesegretario Nazionale di Più Europa. “Si pensa, molto spesso, che sia il cittadino a volere delle risposte semplici dalla politica. Del tema della giustizia a nessuno interessa e spesso anche il mondo dell’informazione non risponde come dovrebbe. Il carcere è solo la punta dell’iceberg di un problema enorme che sta a fondo. La giustizia è come la salute, ci si accorge solo quando si crea il problema. Viviamo in un paese dove non c’è la certezza del diritto e non solo della pena. La riforma? Come +Europa saremo a favori se ne discuterà. Penso che bisogna parlare di legalizzazione delle droghe leggere adottando una soluzione complessa a un problema complesso. Dobbiamo incalzare Nordio sulla separazione delle carriere sia se siamo in opposizione che in maggioranza. Noi andiamo alla radice per risolvere un problema. Vogliamo continuare a sensibilizzare gli italiani sfidando le correnti”. Rovereto (Tn). A tu per tu con i “libri viventi”: incontri di dialogo con detenuti e volontari vitatrentina.it, 27 aprile 2023 Consultare un libro è alquanto semplice: è sufficiente recarsi in biblioteca per poter avere accesso a milioni di opere relative ai più disparati argomenti. Ci sono scritti più facilmente reperibili, altri più rari, ma ciò che ogni libro ci racconta è unico. Ci sono libri che non sono fatti di pagine e il progetto Liberi da dentro ci permette di incontrare questi inusuali libri non cartacei: i “libri umani”. Durante l’evento “Biblioteca Vivente. Lib(e)ri oltre le sbarre” si potrà, infatti, conversare a tu per tu con persone che vivono o lavorano nelle carceri e che nella quotidianità non hanno molte occasioni per far sentire la propria voce. Non saranno solo detenuti o dimessi, ma anche familiari, volontari e operatori degli istituti penitenziari. Il piccolo “tour” della biblioteca vivente nasce dalla collaborazione tra diverse associazioni: Liberi da dentro, Fondazione Franco Demarchi, Caritas diocesana di Trento e Museo Diocesano Tridentino. Il progetto è stato possibile anche grazie al sostengo della Caritro e dei Comuni di Rovereto, Riva del Garda e Trento. È stato coinvolto anche il disegnatore Fabio Vettori, che ha tradotto nel linguaggio delle sue vivaci formiche l’esperienza di persone detenute e volontari. Sono tre gli appuntamenti previsti a Rovereto, Riva del Garda e Trento. Il primo sarà sabato 29 aprile dalle 15 alle 18 presso il Ristobar Depero in Corso Rosmini 23 a Rovereto (TN). Sabato 6 maggio, in Piazza Erbe a Riva del Garda, è la Biblioteca Civica ad ospitare i “libri umani”. Infine il 25 maggio l’ultimo appuntamento sarà realizzato in Piazza Santa Maria Maggiore, nell’ambito del Festival dell’Economia. Ferrara. In scena al Teatro Comunale gli attori detenuti con “Agnusdei” estense.com, 27 aprile 2023 Lunedì 12 giugno lo spettacolo liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci, con la regia di Marco Luciano. Agnusdei, è uno spettacolo liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci, con la regia di Marco Luciano, che firma anche la drammaturgia, e la preziosa collaborazione del regista argentino Horacio Czertok, fondatore del Teatro Nucleo e ideatore del progetto di teatro carcere di Ferrara. In scena gli attori detenuti della Casa Circondariale di Ferrara. “Agnusdei” andrà in scena al Teatro Comunale di Ferrara lunedì 12 giugno alle ore 21. Lo spettacolo non intende narrare in maniera biografica la vita del politico e filosofo italiano, quanto piuttosto indagare, attraverso quadri grotteschi e sarcastici, azioni poetiche e musica dal vivo, alcuni archetipi morali e sociali, alcuni cliché, che la società continua ad alimentare quando si parla di carcere e detenzione. Questo spettacolo, che per la prima volta viene mostrato al di fuori dell’istituto detentivo, è andato in scena il 15 e il 16 dicembre presso la Casa Circondariale C. Satta di Ferrara per il festival Trasparenze di Teatro Carcere, a cui hanno assistito spettatori esterni insieme ai detenuti. “Agnusdei” è stato realizzato nell’ambito del progetto Erasmus+ KA2 “Teatro in Carcere in Tempi di Peste”, coordinato da Teatro del Norte de España e realizzato in collaborazione con Teatro Nucleo dall’Italia, Zone3 Kultur dalla Germania e Üres Ter dall’Ungheria. Ciascuna di queste compagnie teatrali lavora a progetti Erasmus nelle rispettive carceri dal 2010; “Teatro in Carcere in Tempi di Peste” nasce nel periodo della pandemia con lo scopo di trovare strategie per continuare a svolgere l’attività teatrale negli istituti detentivi. Teatro Nucleo dal 2005 lavora al progetto di Teatro Carcere con gli attori detenuti della Casa Circondariale C. Satta di Ferrara, dove la pratica teatrale è ormai divenuta un’attività quotidiana. Un gruppo di detenuti, una parte sempre quelli, una parte circolante, ha scelto il teatro come elemento della propria vita. La continuità del lavoro ha permesso uno sviluppo della funzione formativo-pedagogica dei laboratori teatrali sia per i detenuti che per gli operatori. Dall’accumulo di esperienza è maturata l’esigenza di trasformare il laboratorio da un’attività che inizia e si conchiude in sé stessa a un lavoro che ha la necessità di interagire con altre persone; gli incontri hanno assunto così in parte la forma di prove per la creazione non solo di spettacoli, ma anche di prodotti audiovisivi. Attraverso il teatro la società può incontrare i detenuti oltre la pena, lo stigma e i pregiudizi. L’antifascismo è nel Dna della Costituzione di Gian Carlo Caselli La Stampa, 27 aprile 2023 Celebrare il 25 aprile non in Italia ma a Praga è un po’ come proporre (absit iniuria…) di festeggiare lo scudetto del Napoli all’estero. Eppure il presidente del Senato non ha esitato a farlo, per di più convinto di riuscire a mettere d’accordo tutti. Ognuno - come usa dire - tira acqua al suo mulino, per cui si capisce come i nostalgici del regime (specie quelli che hanno giurato sulla Costituzione assumendo cariche pubbliche importanti) si arrampichino sui vetri per proporre una tesi assurda e indifendibile: vale a dire che l’antifascismo nella nostra Carta non è neppure menzionato. Forte è la tentazione di lasciar perdere, perché tesi così inconciliabili con la logica e il buon senso dovrebbero “capozziare” da sole, vale a dire andar giù di punta, come il “cumerdiuni” (aquilone) di cui narra Andrea Camilleri in un suo librino. Ma il silenzio sarebbe complice. Ora, è una banale ovvietà ricordare che la Costituzione (art. 49) stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ma che a derogare eccezionalmente a questo principio è la stessa Carta (art. XII disposizioni transitorie e finali) là dove vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Ne risulta con certezza che la Costituzione considera il fascismo come un irriducibile nemico della democrazia, cui va dedicata una speciale attenzione. Di tal che è del tutto evidente che proprio l’antifascismo costituisce il Dna della Costituzione e ne permea ogni fibra. Come nasce la Costituzione? C’era una volta un signore che amava indossare, e far indossare agli altri, una divisa confezionata in orbace nero. Questo signore, Benito Mussolini detto il Duce, di tanto in tanto si affacciava a un balcone, o si esibiva nella trebbiatura del grano, e ogni volta gonfiava i muscoli, induriva le mascelle… Voleva comandare tutto da solo, e di fatto fu così per una ventina d’anni (1922-1943), durante i quali ha combinato molti guai e alla fine ha portato il nostro paese alla rovina e alla tragedia della seconda guerra mondiale. Dal disastro della dittatura gli italiani si sono affrancati con la lotta partigiana antifascista. E con la consapevolezza che bisognava evitare che in futuro potesse ancora esserci un uomo solo al comando. Questo obiettivo è stato realizzato con la Costituzione repubblicana del 1948. La Costituzione fu elaborata da 556 eletti dal popolo riuniti in una Assemblea Costituente. Uomini e donne che partivano da orientamenti politico-culturali distanti: socialisti, comunisti, democristiani, liberali, azionisti, repubblicani, monarchici, cattolici, laici, credenti e non. C’era davvero di tutto! Lavorarono sodo per un anno e mezzo, insieme; e alla fine, insieme, raggiunsero un accordo di altissimo livello. Non per caso, sottolinea Piero Calamandrei, in calce alla Costituzione ci sono tre firme con un enorme valore simbolico: De Nicola, Terracini e De Gasperi. Tre nomi, tre idee che rappresentano le correnti più importanti del nostro paese (liberale, social-comunista, democratico cristiana). Vuol dire che la Costituzione non è l’imposizione di un singolo o di pochi sugli altri. Si forma col consenso dell’intero popolo italiano. Un consenso che ha come valore fondante proprio l’antifascismo. Del resto basta sfogliarla, la Costituzione, per trovare quasi ad ogni pagina una declinazione dell’antifascismo. Il fulcro, la novità assoluta della Costituzione infatti è una specie di scommessa: tenere insieme libertà e uguaglianza mediante un sistema di regole fondamentali condivise da ciascuno, grazie a un progetto di stato vissuto non come espressione di rapporti di forza o di interessi particolari, ma come garante dei diritti di tutti. Nella Costituzione ci sono le libertà “di” (pensiero, parola, riunione, manifestazione), che appartengono alla tradizione liberale e che il fascismo ha calpestato. Ma ci sono anche le libertà “da” (povertà e indigenza, ignoranza, malattia…) con i relativi diritti “a” (lavoro, istruzione, assistenza sanitaria ed economica), che scaturiscono dalla tradizione dei grandi movimenti cattolici e socialisti che il fascismo ha violentemente contrastato. L’antifascismo ripristina queste libertà (“di” e “da”) e si propone di intrecciarle - ecco la scommessa - con una prospettiva ontologicamente incompatibile col fascismo: l’uguaglianza, sia formale (art. 3, 1° comma: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge), sia sostanziale (2° comma: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono a una uguaglianza effettiva). In sostanza, dire che l’antifascismo non figura nella nostra Carta è una colossale e colpevole distorsione che sfregia la verità e la storia. Di cui per contro hanno fatto piena giustizia le esemplari parole scandite a Cuneo dal Capo dello stato per la festa della Liberazione. Chi controlla i malati psichiatrici? di Grazia Longo La Stampa, 27 aprile 2023 Quasi 700 pazienti autori di reato fuori dalle Rems che dovrebbero accoglierli. Il Garante dei detenuti: riservare le strutture solo a chi è realmente pericoloso. Carenza di posti, lunghi tempi di attesa, necessità di definire meglio la pericolosità di un malato psichiatrico, ma anche necessità di un maggiore raccordo tra giudici e medici che lavorano nelle Rems. L’omicidio della psichiatra Barbara Capovani ripropone, in tutta la sua gravità, il problema della salute mentale e della reclusione dei malati psichiatrici giudiziari, ovvero quelli che hanno commesso reati. Per loro in passato c’erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, sostituiti, per effetto della legge 81 del 31 marzo 2015, dalle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Su queste strutture sanitarie è in corso una polemica perché è evidente il cortocircuito tra posti disponibili e liste d’attesa. “In Italia esistono 31 Rems - precisa il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma - ciascuna con 20 posti disponibili tranne Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, con 150 posti e una Rems in Emilia che ne ha 35. Ma i numeri di coloro che sono “internati” o aspettano d’esserlo ci induce a una serie di riflessioni su queste strutture sanitarie che hanno preso il posto dei manicomi giudiziari”. Partiamo dai numeri. In carcere, in attesa di essere trasferiti nelle Rems, ci sono 42 persone. In lista d’attesa, con misure come la libertà vigilata o l’obbligo di firma, ce ne sono invece 675. Mentre quelli inseriti già nelle Rems sono 650. “In tutto sono 1.367 persone - prosegue Palma - un numero esorbitante se si pensa che quando chiusero gli ospedali psichiatrici giudiziari gli internati nel totale erano 698. Questo confronto deve indurci a riflettere che c’è qualcosa che non funziona. Dovuto forse al fatto che, poiché le Rems sono ritenute strutture meno drammatiche dei manicomi giudiziari, la valutazione del malato psichiatrico giudiziario forse non è sempre adeguata. A volte basta sfasciare i mobili di una stanza o sputare addosso a un poliziotto per essere ritenuto tale ma non è così. Per patologie meno gravi basterebbe appoggiarsi ai servizi territoriali, riservando le Rems solo ai pazienti realmente pericolosi”. Palma solleva, inoltre, un’altra questione: “Il 47% degli attuali internati nelle Rems è in misura provvisoria: questi “rubano” chiaramente il posto a chi ha una misura definitiva ma si trova ancora in lista d’attesa”. In altre parole può capitare che i più pericolosi siano fuori mentre invece dovrebbero stare dentro le Rems. Come si possono superare questi ostacoli? “Le Rems, purtroppo, sono un provvedimento acerbo. Occorre più personale, un maggior dialogo tra i gip che firmano le ordinanze, gli psichiatri impegnati nelle Rems e i giudici di sorveglianza. Più in generale servono più risorse e d’aiuto sarebbe anche il superamento della divisione degli psichiatri tra i sostenitori della libertà e chi rimpiange ancora la legge Basaglia” Le Rems sono distribuite sull’intero territorio nazionale, solo l’Umbria ne è sprovvista e per questo si appoggia alla Toscana. Il numero varia da regione a regione, si passa ad esempio da Piemonte e Calabria, che ne hanno 2 a testa, al Lazio con 5. Ma c’è anche chi è più tranchant del garante Palma. Come Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp, secondo il quale le Rems “andrebbero abolite perché sono un fallimento. Meglio tornare agli ospedali psichiatrici giudiziari ma con più personale e la presenza di uno Sportello di aiuto psicologico”. Di Giacomo stigmatizza i lunghi periodi che intercorrono per accedere alle Rems: “Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziari il tempo medio di attesa è di 304 giorni, con regioni come Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio in cui l’attesa arriva fino a 458 giorni. Le regioni con più detenuti in attesa sono la Sicilia con circa 140 detenuti, la Calabria con 120 e la Campania con 100. Dunque la creazione delle Rems che sulla carta dovrebbero disporre di non più di 20 posti letto si è rivelato un espediente per scaricare detenuti con gravi problemi psichici senza tra l’altro disporre di risorse ed organici adeguati”. Secondo il sindacalista “si continua a sottovalutare la presenza nelle carceri di detenuti con problemi psichici che costituiscono un terzo degli 84 suicidi dello scorso anno e aggrediscono gli agenti. La percentuale più alta dei detenuti con disturbi psichiatrici soffre di nevrosi; il 30% di malattie psichiatriche collegate all’abuso di droghe e di alcool; il 15% di psicosi”. Crepet: “Specialisti lasciati soli da 40 anni, senza ascolto non c’è cura” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 27 aprile 2023 Lo psichiatra: “Le famiglie a volte non sanno o non possono cogliere i segnali di allarme. In colloqui di un quarto d’ora un terapeuta può solo prescrivere psicofarmaci”. “Alla cura mentale manca la “c” maiuscola, quella di cui parlava Battiato. Manca l’ascolto, l’attenzione. E il tempo. Non si può ridurre il compito del terapeuta al colloquio di 15 minuti. Serve una rete di aiuto. A partire dalla famiglia”. È l’opinione dello psichiatra Paolo Crepet in un’analisi allargata di ciò che è accaduto a Barbara Capovani, psichiatra uccisa a Pisa da un suo paziente. C’è una emergenza sicurezza per chi fa questo lavoro? “Ho i miei anni e di episodi come questo me ne ricordo diversi: è, purtroppo, un rischio del mestiere. Una percentuale piccolissima, seppur di difficile quantificazione, ma c’è. Sono cose che accadono perché si ha a che fare con l’ignoto e soprattutto perché nessuno è onnipotente. Quando ho scritto il mio primo libro, “Ipotesi di pericolosità”, confrontavo le esperienze delle persone sbattute in manicomio e di quelle che restavano fuori e che erano certamente più violente, in molti casi. Se parliamo di “pericolosità sociale” e di misure per contrastarla o prevenirla, per onestà andrebbe detto che, statisticamente, è più pericolosa la razionalità delle organizzazioni criminali. È un paragone estremo, ma serve per inquadrare il fenomeno. Certo, episodi come quello avvenuto a Pisa non si possono spiegare come “nati da una brutta giornata”. C’è sempre qualcosa di più profondo, dietro. Il compito della psichiatria è cercare di prevenire, lavorare sulle probabilità”. Cosa intende? “Neanche il Mago di Oz potrebbe dire con certezza che un adolescente bullo sarà un adulto assassino. Ma ciascuno di noi è stato adolescente. Chi commette una violenza lo è stato. E forse ha vissuto quella fase così inquietante della vita senza una rete di aiuto, come quella familiare, che non ha potuto o saputo cogliere i segnali d’allarme di una psicosi che di certo non si è manifestata all’improvviso. Ci occupiamo della violenza contro altri ma prendiamo, per esempio, la violenza contro se stessi: pensiamo a una ragazza di 12 anni che si lascia morire di fame. Non è di minore raccapriccio. Ma la colpa non può essere dello Stato, come ho letto da dichiarazioni della famiglia dell’uomo che ha ucciso la collega”. Però, la sanità pubblica di certo non rende semplice il ruolo delle famiglie. Non è d’accordo? “Dirò di più: non possiamo pensare che dalla chiusura dei manicomi a oggi, la strada per la cura della mente - e dell’anima - sia la lobotomizzazione del paziente con gli psicofarmaci. Attenzione, non sono contro la chimica. So bene che in alcuni casi è necessaria. Ma non da sola. L’ascolto e la chimica sono complementari. Ma se i colloqui con un terapeuta durano un quarto d’ora, è chiaro che in quel tempo non ho possibilità di approfondire, di chiedere al paziente della sua vita. Quella che è una risorsa - che poi si trasforma in terapia - viene a mancare. Dovremmo pensare a day hospital psichiatrici, che costano meno dei reparti ospedalieri, ma che sono presidi di riferimento costanti per le famiglie che vogliono portare un figlio quando esce da scuola o un parente adulto. Perché una regione non dissemina il proprio territorio di centri come questo? In un quarto d’ora, un terapeuta può quasi soltanto prescrivere psicofarmaci e passare al paziente successivo. La verità è che da quarant’anni a questa parte la psichiatria è stata lasciata sola a occuparsi dei pazienti. Perché c’è un interesse affinché il medico di base o la struttura sanitaria di igiene mentale consumino psicofarmaci”. Si discute di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), di strutture di tutela per le persone affette da disturbi. Lei cosa ne pensa? “Franco Basaglia (ispiratore della legge n.180/78 che dispose la chiusura dei manicomi, ndr) non era uno da pacche sulle spalle e “Viva la libertà”. Conosceva l’importanza di una terapia farmacologica, se necessaria. Ma chiudere i manicomi fu una decisione importantissima: c’erano 110 mila persone chiuse lì dentro. Senza diritti. Ma io che l’ho conosciuto, di quell’approccio rivendico l’attenzione alla libertà del paziente. Quella conquistata dalle persone uscite dai manicomi è stata terapeutica. Il pittore americano Jean-Michel Basquiat era un genio sregolato. Così come Van Gogh. Cosa avremmo dovuto fare con Basquiat, metterlo in prigione e lasciare che il suo genio artistico morisse in cella? Mi ricordo che quando morì Primo Levi molti di noi vennero accusati di averlo ucciso senza averlo curato. Non esiste uno psicofarmaco che cancelli la memoria dei lager. Bisogna comprendere che il dolore, la sofferenza mentale esistono. La psichiatria deve aiutare a conviverci. Da psichiatra io devo rispettare la creatività, il genio e l’unicità del mio paziente ma anche tutelare il microcosmo che lo circonda. Avrei voluto essere capace di aiutare prima quell’uomo che ha ucciso a bastonate la dottoressa. Perché parte di quel delitto è inscritto nella sua enorme solitudine. E i social ingigantiscono tutto: se uno è paranoico, da solo in balia della rete peggiora”. Dopo la morte della psichiatra sono tornati in auge i gruppi social “antipsichiatria”. In alcuni di questi ci si rallegrava per la sorte della dottoressa: “Una in meno”. È un fenomeno di cui preoccuparsi? “Tutto ciò mi fa molta tristezza. È una cosa odiosa. Ed è frutto di un cinismo e di una cultura antiscientifica che hanno trionfato in questa bella Italietta un paio di anni fa. Così come non ti fidi dello psichiatra, non ti fidi del medico di base che ti prescrive un farmaco o del chirurgo che ti opera. È un grido contro qualsiasi forma di assistenza. Ma tornare a curarsi con le ragnatele non è possibile”. “I reati collegabili a disturbi psichici sono quotidiani, bisogna investire in strutture ad hoc” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 27 aprile 2023 Antonio Pezzuti, presidente della sezione Gip del tribunale di Firenze: “Ogni giorno la polizia decide se portare una persona davanti al magistrato o al pronto soccorso. C’è il figlio, spesso con disturbi bipolari o schizofrenia, che maltratta i genitori e il rapinatore tossicodipendente o malato di alcolismo, che arma in pugno si procura la droga. Si tratta di casi borderline che pongono al magistrato un problema di fondo: quando lo psichiatra accerta che l’indagato è pericoloso come lo conteniamo? Le Rems sarebbero la soluzione, funzionano ma non sono sufficienti”. Lo sa bene Antonio Pezzuti, presidente della sezione Gip del tribunale di Firenze. Nel suo ufficio, ogni giorno i giudici convalidano l’arresto per i reati più gravi e decidono le sorti degli imputati, rinviando a giudizio, condannando con rito abbreviato o con patteggiamento, o facendo cadere le accuse contestate dalla Procura. Un lavoro intenso come in un pronto soccorso di ospedale. “Negli ultimi 15 anni mai era successo un caso come quello di Pisa, o che un imputato aggredisse a morte un medico, un consulente o un perito. Su un altro fronte è preoccupante l’aumento dei maltrattamenti in famiglia: ogni caso impone di indagare se chi ha aggredito i genitori, la moglie o il marito soffra di disturbi psichici. Anche le rapine sono spesso connesse a disturbi psichiatrici e a tossicodipendenze”, spiega Pezzuti. È un fenomeno in crescita? “Almeno una volta la settimana arriva una richiesta di misura per maltrattamenti: spesso sono i figli che minacciano e picchiano i genitori. Ma è rarissimo che la persona indagata non sia condizionata da tossicodipendenza o malattie psichiatriche o da entrambe. Sono questi i casi più comuni e più a rischio”. Perché più a rischio? “I genitori difficilmente denunciano il figlio: sopportano a lungo e solo quando sono esasperati chiamano polizia e carabinieri. Ma è quella la situazione più a rischio anche sotto il profilo psichiatrico per l’indagato. Si deve decidere nell’urgenza e, in questi casi, va tutelata la persona offesa più che l’aggressore. Se non è palese che l’indagato sia totalmente incapace di intendere e volere, è sottoposto alla misura in carcere o di altra natura. Poi si procede all’accertamento psichiatrico che può andare avanti anche fino a tre mesi”. Il carcere è anche in questi casi la misura idonea? “Assolutamente no, ma nel bilanciamento di tutela dei diversi interessi, va tutelata la vittima. Poi si pone il problema della cura dell’indagato. Le Rems accolgono coloro che sono ritenuti molto pericolosi. Purtroppo le strutture sono insufficienti e lunghe le liste di attesa. Nel frattempo che si liberi un posto, l’indagato dichiarato parzialmente incapace di intendere resta in cella. Per i casi più gravi, la legge non prevede il carcere: si può disporre la libertà condizionata alla disponibilità dell’indagato a sottoporsi alla terapia. Per chi rifiuta scatta il soccorso psichiatrico, sempre in attesa che si liberi un posto in una Rems”. Le Rems restano l’unico strumento per il contenimento della pericolosità... “Sì, per questo occorre potenziarle e incrementare il personale specializzato. Vanno anche consolidate le comunità per accogliere gli indagati con patologie psichiatriche meno severe. Mesi fa, un uomo è stato assolto dall’accusa di omicidio volontario per vizio totale di mente e per lui il tribunale di Pisa aveva disposto il ricovero in una Rems per 15 anni. Invece è stato ricoverato in un policlinico toscano e non è accettabile. L’ospedale non può essere una struttura di contenimento della pericolosità. Nemmeno un reparto psichiatrico: occorre investire in strutture specializzate e personale qualificato”. Cannabis terapeutica, l’istituto farmaceutico di Firenze verso lo stop alla produzione dei medicinali di Nadia Ferrigo La Stampa, 27 aprile 2023 Appena un anno fa morì Walter De Benedetto, simbolo della battaglia per chi ha bisogno della cannabis a scopo terapeutico e del diritto alle cure di migliaia di pazienti. De Benedetto ha infatti voluto affrontare un processo, da cui è uscito assolto nel 2021, per avere coltivato in casa alcune piante di cannabis di cui avrebbe fatto uso terapeutico. Ne aveva diritto, per lenire i dolori. Ma lo Stato, si sa, che pure ha legalizzato l’uso terapeutico della cannabis, non è in grado di garantire scorte sufficienti. E ora si rincorre la voce dello stop alla produzione dell’istituto farmaceutico di Firenze. Quale sarà la versione che più si avvicina al vero? Quella di chi nello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze ci lavora e denuncia carenze di personale strutturali, macchinari obsoleti e la produzione di alcuni medicinali bloccata almeno fino a giugno oppure quella data negli scorsi mesi dal ministro della Difesa Giudo Crosetto, che annunciò che la produzione di medicinali a base di cannabis terapeutica non solo non si sarebbe fermata, ma al contrario sarebbe stata ampliata. “La produzione nel 2022 è stata pari a 300 kg e sono stati autorizzati ulteriori investimenti che permettono di portare la produzione a 700 kg annui - aveva annunciato il ministro Crosetto dopo il sit in dei pazienti davanti al ministero della Salute -. Lo stabilimento provvede anche all’importazione dall’estero: nel 2022 sono stati importati circa 150 kg e nel 2023 è stata aggiudicata una gara internazionale per l’importazione fino a 1200 kg”. La denuncia della Rsu: “Gravi ripercussioni sui pazienti” - Lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze è l’unica officina farmaceutica di proprietà dello Stato. Oltre ad alcune varietà di cannabis terapeutica, produce i medicinali che l’industria privata non commercializza perché i pazienti sono troppo pochi. Secondo le Rsu fiorentine, sono quattro le linee in questo momento ferme e riguardano la produzione di penicillamina, mexiletina, niaprazina, tiopronina, farmaci utili contro patologie come l’artrite reumatoide, aritmie, disturbi del sonno, calcoli renali. Il portavoce delle Rsu, Umberto Fragassi, ha denunciato “lo stato di degrado in cui versa buona parte delle altre strutture, della carenza cronica di personale a vari livelli ma, soprattutto, della mancanza di diverse figure chiave, come segnalato anche dall’autorità regolatoria (Aifa), necessarie per gestire un’officina farmaceutica secondo le norme di buona fabbricazione dei medicinali”. E mettono in guardia sul rischio di una riduzione della produzione di cannabis terapeutica. Per i lavoratori, la paura è una “scelta politica di ridimensionamento”. “Tutto ciò determina, inevitabilmente, gravi ripercussioni sulle legittime richieste di tutti i pazienti che necessitano dei farmaci salvavita che l’Istituto non riesce più ad assicurare, probabilmente, a causa di un disegno politico, in atto già da diverso tempo. - continua nella sua denuncia Fragassi -. Tale strategia, ha creato, fatalmente, una situazione di estremo disagio nel personale civile, consapevole di non riuscire più ad essere interlocutore di tutti coloro che consideravano l’Istituto la loro unica ancora di salvezza”. L’Oms: “Il fabbisogno annuale italiano è di tre tonnellate” - Come denunciato da anni dai pazienti e dalle associazioni che se ne occupano, la domanda per trattamenti con cannabis medicale sta crescendo in maniera costante e la produzione dello stabilimento fiorentino non riesce a tenere il passo. Il problema dell’approvvigionamento della cannabis esiste dall’inizio del suo uso in Italia a scopo terapeutico. Per questo nel 2015 la produzione è stata affidata allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Questo però, malgrado l’autorizzazione di produrre fino a 400-500 chilogrammi all’anno, non ha mai superato la capacità di circa 150 chili/anno. Al momento il fabbisogno italiano è stimato dall’Oms in 3 tonnellate all’anno, così alla produzione interna è stata affiancata un’importazione dall’Olanda che raggiunge circa 900 chilogrammi all’anno.Ci sono Regioni in cui non viene rimborsata e altre in cui è dispensata solo dall’ospedale. Ci sono alcuni esempi virtuosi, come Emilia Romagna, Toscana e Lombardia, ma manca comunque un piano nazionale. A inizio marzo sul sito del ministero della Difesa è stato pubblicato il nuovo verbale con l’elenco delle sei aziende, tra le quali aziende agricole alcune delle quali dedite alla produzione di cannabis light, e un’azienda farmaceutica, che sono state ammesse a passare alla seconda fase della selezione per la manifestazione di interesse per le aziende private che vorrebbero produrre cannabis medica, da conferire successivamente allo Stabilimento di Firenze. Il colonnello Picchioni: “Nessun disimpegno” - “Sul piano del personale, ci sono stati molti pensionamenti ed è chiaro che i nuovi assunti abbiano bisogno di un po’ di tempo per fare esperienza. Ma a brevissimo avremo 10 nuove immissioni e sono previsti altri concorsi per il 2023 - spiega al Corriere Fiorentino il nuovo direttore dell’istituto, il colonnello Gabriele Picchioni. Sulle strutture, non c’è alcun disimpegno, al contrario ci sono state delle ristrutturazioni molto importanti, con l’obiettivo di rafforzare lo Stabilimento, che hanno ovviamente determinato qualche blocco alla produzione. Ma ad esempio, se ora non produciamo la penicillamina, la stiamo importando”. Periferia o banlieue, “i quartieri disagiati sono tutti uguali”. Parola di rapper di Marta Blumi Tripodi Corriere della Sera, 27 aprile 2023 Paky, napoletano trapiantato fuori Milano, a Rozzano, ha all’attivo 700 milioni di streaming. Jul, marsigliese, è l’artista più ascoltato in Francia. Due ragazzi che vogliono cambiare le cose. Questo articolo è stato pubblicato sul numero di 7 in edicola il 21 aprile. Fa parte di una serie di servizi dedicati alle città. Come quello dedicato alla Milano dei Baustelle e sarà seguito, sul numero del 28 aprile, da due articoli dedicati ancora una volta a “Milano tra luci ed ombre”. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it I primi segnali di una sinergia tra le banlieue francesi e le nostre periferie risalgono al 2015, quando i PNL (noto gruppo rap parigino) si recarono in trasferta a Scampia per girare il videoclip di Le monde ou rien, inaugurando una lunga serie di scambi culturali. Otto anni dopo, a detta di molti l’hip hop italiano assomiglia ormai più a quello d’oltralpe che alla versione originaria, nata in America a fine anni 70. Affinità non solo musicali - Le affinità musicali, però, non fanno che rispecchiare quelle socio-economiche: complice la disoccupazione, la massiccia immigrazione dal Nord Africa, l’emergenza abitativa e una gioventù sempre più arrabbiata e disillusa, sono i quartieri popolari delle nostre città ad essere sempre più simili alle banlieue. Sono analoghe anche le storie di riscatto, come quelle dei rapper Jul e Paky. Marsigliese di origini corse il primo, napoletano trapiantato nell’hinterland milanese di Rozzano il secondo, hanno saputo ribaltare la sorte a loro vantaggio: in patria Jul è da due anni l’artista più ascoltato in assoluto, Paky potrebbe essere sulla buona strada per diventarlo da noi con i suoi 700 milioni di streaming. La stima reciproca li ha portati a collaborare nell’album Coeur Blanc di Jul, un progetto pubblicato nel 2022 e “nato per dimostrare che la nostra musica attraversa i confini, indipendentemente dal luogo di provenienza o dalla lingua” spiega lui, che in Paky riconosce il suo alter ego italiano. Fratelli adottivi - “Jul è mio fratello, ne sono innamorato a livello personale e artistico” rincara la dose Paky. “Mi piace la sua estrema umiltà, il suo essere vero”. In effetti Jul è famoso per essere rimasto lo stesso di quando viveva a Marsiglia nei casermoni popolari intitolati a Louis Loucheur, eminente politico francese del secolo scorso: un luogo che il quotidiano La Provence ha definito “un inferno”. Per lui niente spese pazze o atteggiamenti da rockstar, ma un grande senso di gratitudine, tanto che fin da quando era un artista emergente è sua abitudine regalare i suoi album ai fan (l’ultimo, Album Gratuit Vol. 7 , è uscito a marzo 2023), “per ringraziare chi c’era fin dall’inizio, quando la mia quotidianità era molto precaria” racconta. “Facevo il manovale in cantiere oppure lo steward a chiamata allo stadio, e nel tempo libero registravo le mie canzoni con quel poco che avevo”. Un’esperienza frustrante e faticosa, ma “non è stata una perdita di tempo: mi ha aiutato a capire cosa volevo davvero, a raddoppiare i miei sforzi nella musica”. Conti col destino - Anche per Paky la molla che lo ha spinto a investire su sé stesso è stata la voglia di cambiare il suo destino (lo racconta bene nel documentario Vita sbagliata , presentato a Rozzano il 24 marzo scorso), ma l’approccio è molto diverso: “A fare musica mi hanno spinto la rabbia e la fame, nient’altro” spiega con franchezza. “Spesso si dice che chi inizia a fare questo mestiere pensando di fare i soldi non va molto lontano: io invece ho iniziato per soldi, e se non li avessi fatti non sarei andato molto lontano comunque”. Le canzoni di entrambi raccontano di una realtà in cui manca anche lo stretto necessario per sopravvivere, e si rivolgono a chi vive lo stesso degrado e disagio. Versi che non fanno sfoggio di lusso o privilegi, e sono ben lontani dal cliché del rapper circondato di auto, gioielli e donne. I rapper delle periferie italiane e quelli delle banlieue francesi hanno senz’altro un tratto in comune: preferiscono parlare a chi condivide gli stessi trascorsi e gli stessi problemi. Uscire dalla propria zona di comfort, fisicamente e metaforicamente, è complicato, perché non è detto che gli outsider siano disposti a capire. “Evito gli infami, gli stronzi che amano i ricchi/ Sappiate che prima di qualsiasi altra cosa sono povero, potete scipparmi solo il cuore” dice Jul nel testo di J’oublie tout. “Ora che il mio conto è roseo anche se ho pochi vocaboli/ Non son bravo coi verbi e fatico a coniugarli/ In classe coi figli del centro capii che non siamo uguali” rappa Paky nell’intro del suo album Salvatore. Rime, parole e interviste - Fatta eccezione per le loro rime, i due sono famosi per essere parchi di parole, soprattutto con i giornalisti: le interviste concesse da Jul in Francia si contano sulle dita di una mano, e lo stesso vale per quelle rilasciate da Paky in Italia. “Non mi piacciono né le interviste né gli intervistatori, soprattutto le loro domande: mi fanno sentire come se fossi a un’interrogazione o a un interrogatorio” conferma Paky. “Forse sono solo consapevole che non sono davvero interessati ad ascoltare le risposte”. Per chi non ha vissuto realtà difficili come la cité Louis Loucheur o Rozzano (la cui incidenza criminale nel 2020 è stata classificata come “elevatissima” dalla Polizia di Stato) è difficile comprendere il perché di quei testi così crudi e di questa estrema diffidenza nei confronti degli esterni. Tra di loro, però, Paky e Jul si capiscono al volo. “I luoghi da ricchi, come Dubai o Manhattan, sono molto diversi tra loro, ma i quartieri disagiati sono tutti uguali” riflette Paky. Jul concorda: “La quotidianità che raccontiamo è la stessa, anche perché siamo europei e le nostre vite non sono così distanti”. Prospettive diverse - L’unica grande spaccatura, forse, sta tra chi percepisce la periferia come una prigione e chi come un’opportunità. “Marsiglia è complessa, ma per me è un’ispirazione continua, una mentalità. Quando sono via, il suo melting pot mi manca immensamente” confida Jul, che è diventato involontario testimonial del suo ex quartiere: grazie a lui, oggi è pubblicizzato perfino sul sito dell’ufficio turistico della città. Rozzano appare molto meno suggestiva a Paky, nonostante anche nel suo caso sia diventata meta di pellegrinaggio di molti suoi fan. “Mi sento di dire che purtroppo non ha nulla di bello da vedere” chiosa. “Consiglierei di andare in gita al mare o in un museo: per ora a Rozzano c’è solo droga, se non volete quella non veniteci neanche. Mi piacerebbe che le cose cambiassero, però: con il mio team stiamo pensando a dei progetti per renderla un posto migliore”. Migranti. In piazza contro il dl Cutro: “Non sulla nostra pelle” di Adriana Pollice Il Manifesto, 27 aprile 2023 Mobilitazione nazionale domani a Roma: appuntamento alle 14 in piazza dell’Esquilino per dire “Non sulla nostra pelle”. L’appello è partito dall’assemblea organizzata a marzo dal Movimento Migranti e Rifugiati Napoli, in un mese ha raccolto più di 500 firme. Tra le numerose adesioni, quella di Non una di meno, Friday for future, Pap, associazioni e comitati di solidarietà e accoglienza. Il messaggio è rivolto all’esecutivo: no al dl Cutro. Le comunità migranti contro il decreto: “Basta politiche sulla nostra pelle”“Molti di noi sono in Italia da anni, lottano, studiano, si organizzano, ottengono piccole e grandi vittorie - si legge nel testo -. È tempo di mettere insieme le comunità sul territorio, la rete di associazioni, sindacati, organizzazioni politiche che vogliono una gestione diversa delle frontiere e delle migrazioni. Il dl Cutro produrrà morti in mare e ulteriori irregolari, futuri morti in terra”. E ancora: “Abbiamo un’emergenza: impedire al governo Meloni di varare l’ennesimo decreto assassino, che toglie la protezione speciale, uno dei canali fondamentali per chi scappa dai conflitti e dalla fame. Ma da questa emergenza vogliamo partire per rivendicare tutto quello che spetta alle classi popolari. Una mobilitazione che metta al centro i diritti di quelli che vengono esclusi”. Infine: “Siamo i vostri braccianti, operai, badanti, facchini, negozianti. Siamo quelli che dormono nei ghetti dei campi, per strada, che non trovano casa, che pagano affitti stellari. Guardati dall’alto in basso, trattati in modo razzista. Siamo le donne, anche noi lavoratrici e costruttrici di questo paese, che ai vostri occhi appaiono solo come corpi da abusare. Non vogliamo farvi pena: siamo solo in cerca di una vita migliore come fate voi quando ancora oggi emigrate perché questo paese non assicura un futuro decente a nessuno”. Migranti. La stretta della Francia: “150 agenti alla frontiera italiana” di Danilo Ceccarelli La Stampa, 27 aprile 2023 Pugno duro di Macron sui flussi migratori: è il secondo “scontro” tra Parigi e Roma dopo la crisi della Ocean Viking di novembre. Emmanuel Macron teme la risacca dell’ondata di sbarchi sulle coste italiane, e per precauzione torna a blindare le frontiere: dalla prossima settimana al confine verranno dispiegati 150 agenti in più tra poliziotti e gendarmi nel dipartimento delle Alpi marittime per “fronteggiare l’accresciuta pressione migratoria” proveniente dall’Italia. Ad annunciarlo la premier Elisabeth Borne, durante la presentazione della road map del governo per i prossimi 100 giorni, durante i quali l’inquilino dell’Eliseo punta alla “pacificazione” per ripartire, mentre in tutto il Paese continuano le contestazioni contro la riforma delle pensioni recentemente approvata. Intanto, la Francia applica una nuova stretta ai suoi confini, alla quale ne dovrebbe seguire un’altra la prossima estate, quando sarà lanciata la “sperimentazione” di una “border force” che secondo quanto dichiarato da Borne “assocerà in modo più stretto le forze di sicurezza interne, doganali e militari”. “La sua applicazione dovrà essere effettiva entro sei mesi”, ha sottolineato la prima ministra. Macron corre così il rischio di aprire una nuova crisi su un dossier che da anni infiamma le relazioni bilaterali, proprio quando tra i due Paesi sembrava essere tornata un’intesa, almeno apparente. Mentre Giorgia Meloni è alle prese con l’impennata di sbarchi, il presidente francese preferisce giocare d’anticipo evitando di ritrovarsi a dover gestire una situazione incontrollabile. A preoccupare la Francia sono soprattutto i movimenti secondari legati agli arrivi sulle coste italiane, dove Parigi chiede di applicare il regolamento di Dublino che impone all’Italia la presa a carico di chi arriva. La Francia teme l’onda lunga degli sbarchi che potrebbe riversarsi sui confini con l’Italia e preferisce usare il pugno duro, come già visto in passato. Come durante la crisi della Ocean Viking, durante a quale si consumò il primo strappo diplomatico tra Roma e Parigi durante la presidenza Meloni. Dopo aver aperto il porto di Tolone lo scorso novembre per far attraccare la nave con a bordo più di 230 migranti, la Francia ha blindato il confine con 500 agenti supplementari e ha bloccato i ricollocamenti denunciando la scelta “disumana” dell’Italia. L’ultimo capitolo di una querelle fatta di accuse reciproche, respingimenti - sono circa 80, in media, i migranti respinti ogni giorno dalle autorità francesi nella sola frontiera di Ventimiglia - ed episodi. La tensione arrivò alle stelle già nel 2018, quando un furgone della Gendarmeria francese sconfinò passando per Claviere prima di lasciare due migranti africani nel territorio italiano. Ma la decisione di rafforzare i controlli al confine con l’Italia nasconde anche una debolezza di Macron sul piano interno: dopo essere riuscito a far passare a forza la tanto contestata riforma delle pensioni evitando il voto dell’Assemblea nazionale grazie al ricorso all’articolo 49.3, il governo sembra aver perso la credibilità necessaria per portare avanti gli altri testi, primo fra tutti quello sull’immigrazione. Un problema per una maggioranza che all’Assemblea nazionale è solo relativa e ha bisogno in continuo dell’appoggio del centro-destra. “Ad oggi non esiste una maggioranza per votare un simile testo, come ho potuto verificare ieri intrattenendomi con i responsabili dei Repubblicani”, ha riconosciuto la premier, annunciando il rinvio del progetto al prossimo autunno. Eppure, il presidente sperava di riappacificare gli animi delle opposizioni proprio con il pacchetto sull’immigrazione, che inizialmente prevedeva uno snellimento delle procedure di espulsione e una regolarizzazione degli stranieri impiegati nei settori dove la manodopera scarseggia. Nonostante l’impasse, però, la prima ministra ci tiene a ricordare che il dossier migratorio e la lotta ai flussi irregolari resta una “priorità” per l’esecutivo. La stretta alla frontiera con l’Italia vuole esserne la dimostrazione. Macron ricorre al pugno duro per esorcizzare i segnali di debolezza di questi ultimi giorni, concentrando l’attenzione sui confini. Poco importa se questa strategia rischia di creare nuove tensioni con l’Italia: l’importante per il presidente è risanare prima la frattura che si è consumata con i suoi concittadini. La fosca mappa delle spese militari di Danilo Taino Il Dubbio, 27 aprile 2023 Dalla mappa delle spese militari si conferma che siamo nel pieno di una rivalità tra potenze: il 56% degli investimenti militari sono realizzati da Washington, Pechino e Mosca. Ci sono parti del mondo in cui la guerra c’è, altre in cui sembra che la si prepari. La mappa delle spese militari del 2022 segnala che l’Europa è il continente nel quale si è registrato il maggiore incremento: il 13%, a 345 miliardi di dollari, secondo dati appena pubblicati da Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute. È un salto di investimenti militari che nel Vecchio Continente non si registrava da 30 anni e per la prima volta ha superato quanto si era speso nel 1989, alla fine della Guerra Fredda. È ovviamente in gran parte dovuto alla guerra in Ucraina. L’anno scorso, Mosca ha destinato all’attività militare 86,4 miliardi di dollari, un aumento del 9,2% rispetto al 2021 e pari al 4,1% del Pil russo. Per difendersi dall’aggressione, Kiev ha dovuto investire 44 miliardi, che portano a un aumento del 640% rispetto all’anno precedente: è il 34% del suo Pil (era il 3,2% nel 2021). L’invasione decisa da Putin ha anche spinto altri Paesi europei ad aumentare a due cifre le spese per la Difesa: del 36% la Finlandia, del 27% la Lituania, del 12% la Svezia, dell’11% la Polonia. Non è però solo la guerra in Europa a gonfiare i budget militari: a livello globale, nel 2022 hanno raggiunto i 2.240 miliardi di dollari, in aumento del 3,7%. E dalla mappa delle spese si conferma che siamo nel pieno di una rivalità tra potenze: il 56% degli investimenti militari sono realizzati da Washington, Pechino e Mosca. Gli Stati Uniti pesano per il 39% del totale, 877 miliardi, una crescita dello 0,7% nel 2022. L’aumento della spesa cinese è però maggiore: 4,2% sull’anno, a 292 miliardi, il che significa un più 63% in un decennio. Rispetto al 2013, i Paesi di Asia e Oceania hanno aumentato i loro bilanci della Difesa del 45%, a complessivi 575 miliardi di dollari, un trend di crescita che segnala come il bacino degli oceani Pacifico e Indiano sia ormai diventato un’enorme regione di conflitti potenziali. Il Giappone, per dire, ha aumentato il budget militare 2022 del 5,9% e del 63% in dieci anni e sta ristrutturando il settore. L’anno scorso, l’India ha investito il 6% in più del 2021 (a 81,4 miliardi) e l’Arabia Saudita il 16% (a 75 miliardi). Non tutte le spese militari sono uguali, però. Alcuni Paesi hanno obiettivi di conquista, altri puntano alla deterrenza in onore dell’antica locuzione romana Si vis pacem, para bellum. Libano. L’esercito rimpatria i rifugiati siriani verso carcere e tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 aprile 2023 La scorsa settimana l’esercito libanese ha fatto irruzione nelle abitazioni di rifugiati siriani nel quartiere di Bourj Hammoud, nella capitale Beirut e in altre località del paese. I militari hanno arrestato decine di persone trovate in condizione di irregolarità o col permesso di soggiorno scaduto e le hanno consegnati alle guardie di frontiera siriane. “Era ricercato in Siria perché aveva evaso gli obblighi di leva. Nonostante fosse registrato presso l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, hanno preso lui, sua moglie e la loro figlia e li hanno scaricato al confine siriano”. Questa è la testimonianza di Mohammed, che ha perso ogni traccia di suo fratello una volta rimpatriato in Siria. Altre centinaia di rifugiati siriani rischiano la stessa sorte. Nonostante Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani abbiano denunciato le violazioni dei diritti umani subite dai rifugiati siriani al rientro in patria - tra cui arresti, torture e stupri - le autorità di Beirut continuano a violare le più elementari norme del diritto internazionale. Ne hanno fatto le spese migliaia e migliaia di siriane e siriani. Un buon modo per distrarre l’opinione pubblica dalle enormi difficoltà che sta attraversando il Libano. Tutto il mondo è paese. Tunisia sull’orlo del baratro: l’Ue pronta a bloccare i finanziamenti Il Manifesto, 27 aprile 2023 La crisi della Tunisia rischia di precipitare definitivamente nelle prossime ore. L’Unione europea avrebbe infatti deciso di sospendere i finanziamenti destinati al paese nord africano fino a quando Tunisi non accetterà di rispettare le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale per sbloccare un prestito da 1,9 miliardi di dollari. Condizioni che riguardano l’avvio di una serie di riforme nel paese che il presidente Kais Saied non sembra intenzionato a fare. Rischia dunque di trovare un clima a dir poco teso la commissaria Ue agli Affari interni Yilva Johnsson quando questa mattina atterrerà a Tunisi per una visita ufficiale durante la quale incontrerà il ministro dell’Interno Kamal Feki con il quale dovrebbe parlare di immigrazione e sicurezza. Se il blocco dei finanziamenti deciso da Bruxelles dovesse trovare conferma, anche la strategia messa in piedi nei mesi scorsi da Roma - che aveva proposto di liberare tranche di finanziamenti man mano che le riforme venivano attuate - crollerebbe. Il Viminale ieri ha smentito che oggi, con Johnsson, in Tunisia avrebbe dovuto esserci anche il ministro Piantedosi. Il titolare dell’Interno si è recato a Tunisi il 18 gennaio scorso insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani alla ricerca di una soluzione che mettesse fine alle partenze dei barconi diretti in Italia. Al ritorno in Italia tante assicurazioni ma in realtà nulla di fatto, come dimostra il numero degli sbarchi in continuo aumento. E come dimostra la lunga serie di naufragi nei quali purtroppo perdono la vita i migranti. Almeno 200 corpi, conseguenza delle tragedie degli ultimi giorni nel Mediterraneo, si troverebbero nell’obitorio di Sfax, uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia.