Donne in carcere, un 14 maggio fuori dalla retorica di Grazia Zuffa Il Manifesto, 26 aprile 2023 “Sono colpevole di reati… ma io i miei bambini li ho sempre curati, mandati a scuola, tenuti bene… Non ci reputano capaci di occuparci dei nostri figli solo perché abbiamo agito fuori dalla legge. Vogliono toglierci i figli che sono l’unica speranza per un futuro diverso”. Sono le parole di due detenute, una nel carcere di Pisa, l’altra del carcere di Lecce (dal volume “La prigione delle donne”, Ediesse, 2020): le più incisive per comunicare il senso della campagna Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, coi loro bambini e bambine. Se ne discuterà oggi, in un webinar aperto, nel corso dell’assemblea annuale della Società della Ragione. Ricostruiamo il contesto da cui è partito l’attacco alle donne madri in prigione e la risposta conseguente. Le elezioni anticipate hanno impedite l’approvazione della proposta di legge Siani che allargava la possibilità di misure alternative per le madri in carcere coi loro bambini, istituendo case-famiglia protette. Poche settimane fa la Camera dei deputati ha ripreso l’esame di quella proposta (a firma in questa legislatura di Debora Serracchiani), ma inaspettatamente Fratelli d’Italia e Lega hanno presentato emendamenti peggiorativi della legge in vigore. Perciò, Serracchiani ha scelto di ritirare la sua proposta. Invece di dare un contributo a come lasciare definitivamente alle spalle lo scandalo dei bambini che crescono in carcere insieme alle madri, nonostante siano condannate perlopiù per reati minori, il sottosegretario Cirielli ha rilanciato la sua iniziativa legislativa (della precedente legislatura) per togliere la responsabilità genitoriale alle donne condannate in via definitiva. Sarebbero “madri indegne”, “madri degeneri”, questa la motivazione. Che intanto rimangano in carcere, insieme ai loro figli. La risposta al rilancio ideologico della “cattiva madre” - sulla base dell’idea della donna che ha commesso reato “doppiamente colpevole” perché col reato ha tradito la “missione di madre” - è stata immediata. E si è concretizzata nell’appello Madri Fuori. Si legge nell’appello: “L’aggressione ai diritti delle madri detenute è rivolta a tutte le donne; a sua volta è la punta di diamante contro l’idea di pena finalizzata al reinserimento sociale (secondo Costituzione); in ultimo è un attacco a un’idea di società inclusiva, tollerante, rispettosa e accogliente delle differenze”. L’appello lancia una iniziativa fortemente simbolica, a sostegno delle donne detenute e dei loro figli, contro lo stigma della “doppia colpa”: dedicare a loro la tradizionale Festa della Mamma (14 maggio), perché, fuori dalla retorica, sia un giorno dedicato alla libertà femminile, alla responsabilità di tutti e tutte, alla solidarietà sociale. Parlamentari, consigliere e consiglieri regionali, garanti delle persone private della libertà, volontarie e volontari del carcere, sono invitati a visitare le donne detenute in occasione della Festa della Mamma, a discutere con loro della “doppia” e ingiusta pena, a dare concreta testimonianza del rifiuto dello stigma che le colpisce. Oggi, nel webinar citato, si farà un primo bilancio delle adesioni all’appello: particolarmente importante quella della Conferenza Nazionale del Volontariato, ma anche delle reti di volontariato locali, come le reti di Milano, Brescia, Venezia e Firenze promotrici di “servizi alla genitorialità”, per aiutare detenuti e detenute a mantenere rapporti con i figli). E si creerà una rete per coordinare le iniziative preparatorie della giornata della Mamma nelle carceri (vedi a Torino il 13 maggio e a Milano il 15 maggio). Torniamo alla denuncia delle detenute. Facciamo sì che la loro voce trapassi le mura del carcere, con l’impegno di tutte e di tutti. Per il programma e il link al webinar di mercoledì 26 aprile, ore 17: www.societadellaragione.it/assemblea2023 Gli psichiatri forensi: maggior potere ai giudici tutelari e realizzare nuove strutture Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2023 Preoccupazione e determinazione dalla Società italiana di psichiatria forense sull’agguato mortale alla collega di Pisa per sollecitare le Istituzioni a risposte concrete. “È imprecisato il numero dei soggetti considerati “pericolosi” che minacciano tra gli altri medici, infermieri, avvocati, magistrati e insegnanti, ai quali non si riesce a fornire una risposta di cura o rieducazione. Non sono così “malati” da poter essere sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio - precisa Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria forense - che comunque dura una settimana e loro stessi non si ritengono “malati” per sottoporsi volontariamente ad alcuna forma di trattamento. Tuttavia, non appaiono così “sani” da poter essere arrestati e custoditi in carcere senza un accertamento psichiatrico”. Quando dal dissenso si passa alla rabbia e alla violenza - “Queste persone attribuiscono il loro disagio interno alla società o ad alcune categorie di questa che diventano il loro persecutore; hanno delle idee così bizzarre che difficilmente vengono considerati “sani”. Talvolta si mimetizzano in gruppi o associazioni alternative in cui ci sono correnti di pensiero come quella antipsichiatrica, terrapiattisti, cercatori di Ufo che comprendono persone rispettabili e tutt’altro che violente. È un argomento delicato perché da un lato non si riescono a prevenire omicidi di sanitari come quello di Pisa, e dall’altro non si vuole impedire alle persone di manifestare il proprio dissenso o pensiero in qualunque ambito anche molto originale. Bisogna impedire però - spiega Zanalda - che dal dissenso si passi alla rabbia e da questa alla violenza che viene agita da quei soggetti meno dotati intellettivamente che non riescono a dominare l’impulso violento”. Rivedere l’attribuzione dei pazienti alle Rems - “Bisognerebbe poter contenere e rieducare queste persone dal momento in cui diventano reiteratamente minacciose, individuando delle soluzioni restrittive che non sono né il carcere né la Rems (Residenze per l’esecuzione delle Misure di Sicurezza). Molti dei pazienti in Rems non hanno una malattia psichiatrica certa: si tratta di detenuti assegnati alla Rems per disturbi di personalità antisociale e dipendenza da sostanze o marginalità sociale, che non vanno confuse con le malattie mentali che possono usufruire dei percorsi residenziali nelle strutture di cura” Le Rems - continua Zanalda - dovrebbero accogliere solo autori di reato giudicati, in maniera definitiva, infermi o seminfermi di mente, socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni meno restrittive”. Sui 709 ospiti ricoverati nelle 31 Rems distribuite sul territorio nazionale, oltre la metà sono destinatari di misure provvisorie, analoghe alla custodia cautelare in carcere. In molti casi si tratta di detenuti non affetti da una patologia mentale conclamata che vengono ‘etichettati’ come psichiatrici e assegnati alle Rems senza avere un’indicazione clinica. Persone che sottraggono posti a chi ne ha davvero bisogno e che dovrebbero andare in carcere o essere presi in carico da altri servizi sociosanitari rieducativi. Per queste ragioni si può ritenere non necessario aumentare i posti nelle Rems ma poter indirizzare le persone con disturbo antisociale di personalità in altre situazioni rieducative. Tra queste già esistono le “case di lavoro” sottoutilizzate e sottorappresentate. Per curare bisogna prevenire ma non vi sono strumenti per poter limitare pazienti con noti comportamenti violenti prima che venga commesso un grave reato”. Più potere al giudice tutelare - “L’accesso nelle carceri, nelle case di lavoro o nelle Rems avviene solo successivamente a un reato grave. Vi è la necessità di strutture comunitarie nuove, educative e contenitive il cui accesso prescinde dalla condanna ma potrebbe attuarsi attraverso la segnalazione al Giudice Tutelare da parte delle Agenzie deputate alla tutela e alla cura della persona, come già avviene in molti Paesi dell’Unione Europea. È necessario pertanto realizzare nuovi percorsi rieducativi - conclude Zanalda - in particolare per quei soggetti con disturbo antisociale di personalità che non beneficiano di trattamenti psichiatrici tradizionali. Per loro risulterebbero utili percorsi contenitivi e di rieducazione di lunga durata a cui se non costretti non si sottopongono. Il problema della psichiatria trattamentale è un tema estremamente attuale tanto che durante il recente Convegno della Psichiatria Forense si è discusso su come individuare nuovi modelli di intervento da proporre alle Istituzioni come risposta concreta a questa nuova emergenza”. Il no alla separazione delle carriere compatta le toghe dell’Anm di Valentina Stella Il Dubbio, 26 aprile 2023 Da AreaDg a Unicost, passando per “Articolo 101” e Md: tutte le correnti della magistratura contro la riforma di Nordio: “Vogliono o un pm avvocato della polizia”. Prima il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto all’assemblea dell’Unione Camere Penali venerdì, poi lo stesso guardasigilli domenica a Che tempo che fa, ieri in una intervista alla Stampa il sottosegretario Andrea Ostellari: tutti concordi nell’annunciare che il governo dopo l’estate presenterà un disegno di legge per la separazione delle carriere. I dettagli ovviamente non sono stati specificati dai tre ma come hanno ripetuto tutte le riforme passeranno per uno stesso tavolo a cui siederanno avvocati, magistrati, accademici. Lo scopo è archiviare la stagione degli scontri. Intanto gli avvocati guidati da Gian Domenico Caiazza hanno applaudito, essendo una loro storica battaglia. E la magistratura? Si preannuncia uno scontro epico tra toghe e governo come ai tempi di Berlusconi o saranno disposte a trattare senza alzare barricate o minacciare scioperi? Di certo ascoltando i vertici dei gruppi associativi dell’Anm tale previsione sarebbe incostituzionale, porterebbe il pm sotto il controllo politico, minerebbe l’autonomia e indipendenza della magistratura e rappresenterebbe un grave danno per i diritti dei cittadini. Ma vediamo cosa ci hanno riferito nel dettaglio i vertici dei gruppi associativi dell’Anm. Per il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di Area Dg, “la separazione delle carriere sarebbe un danno inestimabile per la giustizia italiana. Il pm è stato disegnato dalla Costituzione e dal Codice Vassalli quale presidio delle garanzie dei cittadini. Per questo è sottratto al controllo della politica e unito alla magistratura giudicante dallo stesso statuto, dalle stesse garanzie e dalla stessa carriera. Fuori da questo modello c’è solo un pm avvocato della polizia e esecutore delle politiche repressive del governo in carica. La recente iniziativa disciplinare del ministro Nordio sui giudici della Corte di Appello di Milano la dice lunga su quale sarebbe il peso esercitato su un pm non più unito alla giurisdizione”. Anche Rossella Marro, presidente nazionale Unicost, critica fortemente l’ipotesi di riforma: “Nel giorno della celebrazione del 25 aprile, giungono nuovamente le voci di una riforma costituzionale che potrebbe condurre alla separazione delle funzioni e delle carriere di giudici e pubblici ministeri. È evidente il portato di una riforma di tal fatta. Determinerebbe in modo inesorabile la sottoposizione dei pubblici ministeri al potere esecutivo, con uno stravolgimento dell’architrave costituzionale fondato, all’indomani della esperienza della dittatura fascista, sulla separazione dei poteri. L’autonomia e indipendenza della magistratura è presidio a tutela dei cittadini e garanzia del principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge”. “Speriamo che non ci sia nessuno sconto epico - dice al Dubbio Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica - ma solo un confronto aperto all’ascolto ed alle ragioni dell’altro. La nostra preoccupazione è tutta concentrata sugli effetti negativi per le garanzie ed i diritti dei cittadini, sottesi ad un’eventuale riforma”. La separazione delle carriere, per il pm di Reggio Calabria, “sembra ormai un mantra logoro, ripetuto per inerzia, esistono già efficaci distinzioni che limitano moltissimo il cambio di funzioni da giudice a pm e viceversa, davvero non si intende in che modo la riforma potrà tutelare meglio la terzietà del giudice. Piuttosto, bisognerebbe prevedere che, all’inizio della carriera dei magistrati, vi fosse la possibilità di svolgere entrambi i ruoli, per una migliore conoscenza e consapevolezza della complessità insita nelle due funzioni. Un pm allontanato dalla giurisdizione cederà lentamente il suo ruolo di controllore della polizia giudiziaria e di tutore dei diritti dei cittadini nella fase delle indagini preliminari, per assumere quello di avvocato della polizia, per come avviene in tutti i Paesi in cui è prevista la separazione delle carriere. Temo di percepire i primi segnali verso riforme della giustizia che pregiudicano i diritti e le garanzie, al fine di ridurre la libertà della giurisdizione soggetta solo alla legge. Un grave vulnus ai diritti di tutti i cittadini”. Infine per Andrea Reale, esponente dell’Anm con i 101: “La separazione delle carriere già esiste in fatto, avallata da tanta parte della magistratura associata in questi anni. Temo piuttosto un altro gioco delle parti, cui parteciperanno i partiti “politici” della magistratura e il governo per dare l’ennesimo, deleterio, scossone all’assetto costituzionale della magistratura, imbrigliando la Pubblica Accusa e rendendo il giudice un mero burocrate, più attento alle statistiche e alle performance, che a rendere il servizio pubblico cui è chiamato. Se non anche a modificare definitivamente la natura del Consiglio superiore della magistratura. Di “epico” resterà soltanto l’azzeramento delle prerogative dei magistrati, presidio della libertà delle persone”. Magistratura indipendente preferisce al momento non commentare, in attesa di conoscere il testo che presenterà il governo. I pg e la “trattativa”. “In 3.000 pagine di sentenza, nessuna minaccia allo Stato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2023 Fiumi di inchiostro nella stragrande maggioranza dei giornali, centinaia di trasmissioni televisive, libri, docufilm e non per ultimo le migliaia di pagine delle motivazioni dei giudici sulla sentenza del processo della cosiddetta “Trattativa Stato- mafia”, ma non si è mai riusciti a dimostrare come, dove e in che modo gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno avrebbero veicolato la presunta minaccia mafiosa al governo. Ed è quello, in estrema sintesi, che si sono chiesti i sostituti procuratori generali della Cassazione. Tante parole, suggestioni, ipotesi, ma finora la prova non è stata affatto dimostrata. “Il fatto non costituisce reato”, è la sentenza di assoluzione nei confronti dei carabinieri che erano il fiore all’occhiello del giudice Giovanni Falcone. Ma il problema che si sono posto i Pg della Corte Suprema, è che di questo fatto non ve ne è traccia. E se questo fatto c’è stato, ma in questi 15 anni di processo tra il primo e secondo grado non è stato provato, allora rimane assurdo che non vi è dolo. Per questo, i procuratori generali chiedono l’annullamento della sentenza nei soli confronti degli ex Ros. Se la minaccia è stata veicolata, allora il dolo c’è. Ma se non c’è stata, meritano l’assoluzione con la formula più ampia. Ovvero: il fatto non sussiste. La tesi trattativa, nel corso degli anni, è già stata decostruita pezzo per pezzo. Colui che venne considerato il mandante politico della trattativa, ovvero l’allora ministro Calogero Mannino, è stato definitivamente assolto. Sono rimasti quindi gli ex Ros che, dialogando con don Vito Ciancimino, avrebbero preso da soli l’iniziativa di “trattare” per fermare le stragi, veicolando la minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Tale “minaccia” potrebbe essere stata per via orale o per via del cosiddetto papello di Riina. Entrambi appunto delle ipotesi non dimostrate. Il papello consegnato da Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, si è rivelato una grossolana manipolazione. Rimane l’ipotesi che la minaccia sia stata veicolata oralmente dai carabinieri. Ma come, dove e a chi? I giudici non sono riusciti a dimostrarlo. Nella requisitoria, i procuratori generali della Cassazione, hanno, di fatto, bacchettato le motivazioni della sentenza di secondo grado. Ovvero che i giudici avrebbero “dovuto selezionare i fatti rilevanti ai fini dell’integrazione della minaccia qualificata al Governo, verificandone l’accadimento facendo applicazione della regola BARD”. Ma che cos’è questa regola, fondamentale per una sentenza? BARD sta per “beyond any reasonable doubt”, ovvero “Colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio”. Non si può emettere una sentenza per “approssimazione”. E i Pg della Cassazione sottolineato che le motivazioni avrebbero “dovuto portare a individuare chiaramente chi ha detto cosa a chi e, soprattutto, in quale modo”. E nelle 3000 pagine si parla di tutto di più, ma “manca di concentrarsi adeguatamente sulla sussunzione specifica dei fatti ritenuti accertati nella fattispecie di reato, posta dall’imputazione”. Ed è mancata altresì “una precisa ricostruzione del contenuto della minaccia, di come sia stata rivolta e della sua ricezione (o direzione) al Governo come organo collegiale”. Come è sempre stato detto nei tanti articoli de Il Dubbio, l’unica “prova”, ma del tutto debole, e che è ovviamente citata nella sentenza, riguarda la mancata proroga del 41 bis. Sappiamo che nel 1993, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnovò il carcere speciale per circa 300 soggetti. Nella realtà, si tratta di una mancata proroga a seguito della sentenza della Corte Costituzione (i giudici hanno stigmatizzato la proroga automatica collettiva e indicato una valutazione caso per caso) e solo una piccolissima parte erano mafiosi, tra l’altro di basso profilo. Tuttavia, per i procuratori generali della Cassazione, il riferimento a tale mancata proroga “ risulta del tutto inidoneo a supportare la conclusione circa l’integrazione del reato ex art. 338 c. p. (minaccia al corpo politico di Stato, ndr), per almeno tre ordini di ragioni”. La prima ragione è degna di nota perché viene sottolineata una finissima incongruenza logica. Se la minaccia è stata ideata a partire dall’omicidio Lima, tanto da fondare la competenza alla procura di Palermo (altrimenti il luogo naturale sarebbe dovuto essere Caltanissetta) non si vede “come il male ingiusto potesse essere prospettato al fine di ottenere la mancata proroga di provvedimenti che, all’epoca di quell’omicidio, non erano previsti dalla legge (posto che l’art. 41- bis è stato introdotto solo dopo) e non erano dunque neppure stati adottati”. Non è poco. Come sappiamo, il 41 bis fu introdotto dopo la strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la scorta. “Manca, nella sentenza impugnata, qualsiasi valutazione di merito, su una diversa riconfigurazione dei fatti, che possa renderli compatibili con la minaccia così come focalizzata”, sottolineano i procuratori generali. L’altra ragione, è che le decisioni sul 41 bis sono di competenza esclusiva del ministro (all’epoca di Grazia e Giustizia) e, quindi, le presunte minacce non possono ritenersi dirette al governo come organo collegiale. Quindi, secondo i Pg, non si intravvede il “corpo politico dello Stato”. La terza ragione è quella che pretende la regola BARD. Non è stato dimostrato chi, come e in che modo l’ex ministro Conso abbia ricevuto la minaccia. In altre parole, risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al ministro e in che modo gli sia stato rappresentato. Nel punto, l’unico che conta, “la sentenza ricostruisce solo congetturalmente la veicolazione della minaccia, ma addirittura manca di indicare il preciso contenuto delle richieste, essenziale invece per poter scriminare la violenza o minaccia diretta al governo come organo collegiale (punita dall’art. 338 c. p.) rispetto a violenze dirette a ostacolarne l’attività di contrasto (punite dall’art. 289 c. p.)”. I procuratori generali, sottolineano che “anche qui si tratta di valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto, che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”. In soldoni, i giudici - così come d’altronde la pubblica accusa - non sono riusciti a dimostrare nulla. Una impresa ardua visto che è entrato di tutto di più, tranne le prove. Non solo non si trovano, ma tutta la tesi si scontra con la logica. D’altronde, com’è detto, la tesi ha già perso, strada facendo, dei pezzi. I procuratori generali della Corte suprema, chiedendo anche la conferma dell’assoluzione piena per l’ex senatore Marcello D’’ Utri, smontano gran parte della narrazione. Ma si può chiedere di rifare il processo per gli ex Ros, quando è già chiaro che - come dicono i Pg stessi - il fatto non è dimostrato? Domani, giovedì 27 aprile, la Corte suprema dovrà prendere una importante decisione. Sono passati troppi anni, tanta sofferenza e tante risorse sprecate. Mori e De Donno meriterebbero una assoluzione con la formula più ampia possibile. Ma dovrebbe essere sancita già da ora, non tra qualche anno ancora. Alla Cassazione l’ardua sentenza. La pena in stile smartworking di Dario Ferrara Italia Oggi, 26 aprile 2023 Sì ai lavori di pubblica utilità in modalità smart. E ciò perché l’attività da remoto è già prevista dal progetto individualizzato frutto dell’accordo fra l’interessato, l’ente e l’ufficio esecuzione penale esterna. Sì ai lavori di pubblica utilità in modalità smart. Non si può ripristinare la pena originaria al condannato per guida in stato d’ebbrezza soltanto perché i Lpu sono previsti in modalità a distanza. E ciò perché l’attività da remoto è già prevista dal progetto individualizzato frutto dell’accordo fra l’interessato, l’ente e l’ufficio esecuzione penale esterna, mentre il provvedimento adottato dal giudice dell’esecuzione non spiega quali sarebbero le discrepanze fra il programma e l’attività svolta in concreto dal condannato che consentirebbero la revoca della sanzione sostitutiva. È quanto emerge dalla sentenza 16055/23 pubblicata dalla prima sezione penale della Cassazione. Omessa motivazione - Il ricorso proposto dal condannato è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale presso la Suprema corte, che chiedeva il rigetto. Sbaglia il Tribunale a ripristinare l’originaria pena di un mese e dieci giorni di arresto e 600 euro di ammenda inflitta al giovane che si era messo al volante del veicolo dopo aver bevuto troppo. La revoca scatta perché il condannato non avrebbe rispettato i patti conclusi con l’autorità giudiziaria: dalla lettura della relazione conclusiva dell’ente presso cui l’interessato esegue i Lpu, scrive il giudice dell’esecuzione, emerge che il ragazzo svolge da remoto l’attività prevista presso la radio universitaria firmando il registro delle presenze in modo unilaterale e senza un controllo fisico da parte dei responsabili. Trova ingresso la censura della difesa secondo cui non spetta al condannato chiedere le modifiche alle prescrizioni del programma, un onere che compete all’ente e all’Uepe. Senza dimenticare che nel momento in cui il giudice ripristina la pena originaria dovrebbe almeno scomputare il lavoro già prestato dal condannato. Dalla lettura dell’ordinanza emessa dal Tribunale, osservano in effetti gli “ermellini”, non si capisce quali siano le difformità fra il programma concordato e l’attività effettiva che hanno indotto il giudice dell’esecuzione a disattendere la relazione conclusiva redatta dall’ente in senso favorevole al condannato. Accordo originario - Dal documento, infatti, emerge che il giovane ha fatto il social media manager dell’emittente radiofonica senza andare in sede, mentre non ha svolto l’attività di gestione archivio e di pulizia ei locali che pure era prevista dal progetto. Il punto è che l’ordinanza si concentra sul mancato controllo dell’attività svolta da remoto, mentre lo smart working risulta compreso tra le possibili modalità di svolgimento dei lavori nel programma concordato. Adesso la parola passa al giudice del rinvio. Toscana. Psichiatria-giustizia, il cortocircuito di Giulio Gori Corriere Fiorentino, 26 aprile 2023 Dei 70 malati colpevoli di reati in attesa di un posto nelle Rems, 31 sono liberi. E 6 irreperibili. I numeri del cortocircuito tra giustizia e salute mentale sono contenuti nella bozza della relazione del Garante toscano dei detenuti, Fanfani. In Toscana ci sono 39 posti nelle Rems, le residenze che dovrebbero accogliere i malati psichiatrici che hanno commesso reati e possono essere curati. La lista d’attesa per le due strutture toscane, è di 70 persone. Di queste, 31 sono a piede libero e 6 sono irreperibili. A fronte di 39 posti nelle due Rems toscane, la lista d’attesa - che comprende anche gli elenchi dell’Umbria, che non ha una propria struttura - conta ben 70 persone, 59 uomini e 11 donne, che aspettano di entrare nelle strutture destinate ai malati psichiatrici che hanno compiuto reati ma possono essere curati. Sono i numeri nella bozza della relazione del garante toscano dei detenuti, Giuseppe Fanfani. Ma soltanto 21 persone sono in attesa in strutture residenziali, più una ospitata in una Rems fuori regione. Tutte le altre sono dove non dovrebbero essere: 11 in carcere, 31 in libertà, 6 addirittura irreperibili. Numeri che ritraggono lo scenario complesso descritto da molti psichiatri dopo l’omicidio di Barbara Capovani: persone da curare che invece sono in carcere, persone a piede libero che dovrebbero stare nelle Rems, ma anche malati di cui il sistema giudiziario non si farebbe carico. “Siamo la discarica del sistema penale - ha detto il responsabile della Salute mentale dell’Asl Nord Ovest, Angelo Cerù - ci ritroviamo con persone che non sono pazienti, non sono malati ma sono solo delinquenti. Bisogna rivedere certe leggi, certi criteri sull’imputabilità o non imputabilità dei pazienti”. In questo scenario, ci sono casi che dimostrano come l’assenza di un numero sufficiente di posti nelle Rems comporti anche uno spreco di risorse. In termini sia di posti letto nelle corsie psichiatriche degli ospedali, sia di agenti di sorveglianza. Nell’agosto scorso Mourad Talbi aveva ucciso il barbiere Halim Hamza, 32 anni, a Pisa, in via Corridoni. L’uomo, fermato dalla polizia e reo confesso, aveva chiesto e una nuova consulenza a distanza di mesi dal fatto. Lo scorso 6 aprile è stato assolto per “vizio totale di mente”. Il Tribunale aveva disposto che dovesse andare nella Rems per 15 anni. Dopo qualche settimana in carcere, a ottobre l’uomo è stato spostato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Pisa dove a oggi è piantonato 24 ore su 24: 8 agenti si alternano nella sorveglianza perché non c’è alcun posto nelle Rems. Il 9 gennaio scorso, invece, un giovane fiorentino di 24 anni fu bloccato dalla polizia e arrestato con l’accusa di tentato omicidio di un uomo di 74 anni e per lesioni personali gravissime e permanenti ai danni di un 36enne: era stato portato dal padre a Pisa per una visita dallo specialista psichiatrico che lo seguiva e, approfittando di un momento di distrazione del genitore, era scappato in strada, aggredendo le persone. Due giorni dopo l’anziano è morto. Il 24enne, dopo due giorni di carcere, è stato trasferito a Pisa: una perizia gli riconosce il “vizio totale di mente” e la “pericolosità sociale”. Il gip ha disposto il suo trasferimento nella Rems a Empoli ma è ancora nel reparto di psichiatria, sorvegliato. Al di là della richiesta degli psichiatri al sistema penale di farsi carico degli incurabili e dei lucidi pericolosi, la speranza di gestire al meglio la zona grigia di chi non è del tutto in grado di intendere e volere ma può essere aiutato, è affidata - oltre alle Rems e alle corsie degli ospedali - anche a strutture residenziali. In Toscana questi posti intermedi sono 48, divisi tra 5 centri a Firenze, Volterra, Aulla e Abbadia San Salvatore. Ma il garante dei detenuti fa notare che “mentre le misure di sicurezza detentive hanno un termine di durata massima, le misure di sicurezza non detentive, come la libertà vigilata, non hanno alcun limite. Questa differenza normativa può dar luogo alla riproduzione, nella sostanza, a situazioni analoghe a quelle dei superati ergastoli bianchi”. Toscana. “Non sono detenuti, ma pazienti: eppure finiscono in carcere” di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 26 aprile 2023 Rems, Asl, carceri, ospedali: il sistema che dovrebbe gestire quel complesso mondo che interseca giustizia e salute mentale si regge su un equilibrio precario. Anzi, non si regge. Lo sa bene Emilio Santoro, docente di Filosofia e Sociologia del Diritto all’Università di Firenze e fondatore de L’Altro Diritto, associazione che si occupa dei diritti dei detenuti: “Le Rems, con la chiusura degli Opg, dovrebbero accogliere chi ha sofferenze psichiatriche e non può andare in carcere in quanto ritenuto incapace di intendere e volere al momento del crimine. Nelle Rems si applicano solo misure di sicurezza. Ma ci sono pochissimi posti e per questo molti di loro vengono tenuti in carcere nonostante sia stata certificata la loro incapacità: ho letto personalmente un provvedimento che applicava la custodia cautelare “fino a quando non si libera un posto in Rems”. Chi dovrebbe stare nelle Rems? “L’ordinamento distingue tra folle reo e reo folle: il primo è colui che commette un reato in maniera indipendente dal suo disturbo, ed è imputabile, il reato commesso dal “reo folle” è invece collegato al disturbo: lui dovrebbe scontare la misura di sicurezza nelle Rems. Chi prima veniva curato negli Opg ora non sanno più dove metterlo”. Già, dove? “La Corte costituzionale tre anni fa ha stabilito che a loro si applicano gli stessi criteri di incompatibilità carceraria che valgono per le malattie fisiche: se un paziente non è curabile in carcere, viene mandato in ospedale. Cosa che ha spaventato molto il sistema carcerario, che si sente privato di questi soggetti, ma anche le Asl perché si ritrovano a gestire soggetti molto complicati. Per questo hanno iniziato a creare convenzioni tra Asl e carceri per creare sezioni psichiatriche dentro i penitenziari, che sono diventati il posto dove finiscono “in osservazione” i casi troppo complicati per essere gestiti in ospedale. Siamo passati da un solo Opg all’interno di un carcere, a Reggio Emilia, a piccole strutture psichiatriche dentro ogni carcere. Ed è così evidente che questa cosa va bene alle Asl, che quando a Sollicciano arrivano in osservazione dalla Sicilia dei detenuti-pazienti, la Asl non viene nemmeno avvisata e non si lamenta. Dovrebbe farsi pagare, ma ha paura che il sistema venga messo in discussione”. Le carceri riescono a svolgere anche questo compito? “A Sollicciano qualche mese fa è arrivato un ragazzo del Maghreb detenuto a Massa. Alla visita sembrava che tutto andasse bene”. Invece? “Si è suicidato”. Il sistema detentivo e sanitario non è attrezzato per lo stress a cui è sottoposto… “Sì. Infatti la Corte costituzionale ha detto che si può usare l’istituto della libertà vigilata per curare alcuni malati psichiatrici in strutture private convenzionate. Ma qui sorge un altro problema: a volte queste strutture risultano essere ancora più “detentive” e al loro interno non c’è nemmeno sufficiente possibilità di supervisione da parte del magistrato di sorveglianza. Su questo come Altro Diritto insieme al garante dei detenuti, stiamo completando un monitoraggio delle strutture”. È emblematico che il Garante dei detenuti debba occuparsi di cliniche private... “Lavoriamo analizzando gli indicatori di privazione della libertà. Cinque mesi fa il Cpt, Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, è venuto in Italia e visitando una Rsa l’ha riconosciuta come struttura che rientra nella sua competenza di vigilanza, in quanto sono presenti elementi di limitazione della libertà. Basterebbe questo per dire a chi sostiene la necessità di rivedere la 180 che forse quella legge sarebbe ancora da attuare. Il sistema di cura funziona solo per numeri ristrettissimi di persone”. Chi ha la responsabilità politica di tutto ciò? Il Ministero della Giustizia? Quello della Salute? La Regione? “Toccherebbe al ministero della Salute e alle Asl costruire percorsi sanitari funzionanti. Ma nei fatti...”. Trentino Alto Adige. Detenuti in attesa per un posto nella Rems di Pergine altoadige.it, 26 aprile 2023 La denuncia dei giudici per la carenza di strutture, dopo la chiusura dei centri psichiatrici giudiziari. Il primo in lista d’attesa è Cleto Tolpeit che il 24 gennaio ha ucciso a coltellate la madre nella casa di San Lorenzo di Sebato: solo pochi giorni fa l’avvocato Flavio Moccia aveva sollecitato il trasferimento del suo assistito nella Rems (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) di Pergine Valsugana, in quanto affetto da gravi problemi psichici. Oltre a lui in attesa di un posto a Pergine, solo in ci sono altre tre persone, ma nella struttura trentina, che ha sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari soppressi un paio di anni fa a livello nazionale, ci sono solo una ventina di posti per tutta la regione. Troppo pochi, dicono in Tribunale a Bolzano. Il risultato è che al momento i detenuti con problemi psichici gravi non si sa dove metterli. Dovrebbero essere ricoverati e curati in una Rems appunto, ma a Pergine come per altro nel resto d’Italia i posti non ci sono. Allora i giudici tentano di toglierli dal carcere e spostarli nel reparto di psichiatria dell’ospedale dove ci sono alcuni posti letto per i detenuti, ma sono destinati solo alle emergenze e quindi nell’arco di uno-due giorni vengono riportati in carcere. In attesa che prima o poi arrivi la chiamata da Pergine. Capita pure che ad aver bisogno di un periodo di cura in queste strutture specializzate siano stalker o persone colpite da misure di allontanamento per maltrattamenti in famiglia, reati che negli ultimi anni sono sempre più frequenti. Si calcola che in media, ogni mese a Bolzano, i giudici adottano dalle 10 alle 12 misure per contrastare i reati di stalking e maltrattamenti in famiglia. Spesso e volentieri bastano il divieto di avvicinamento per gli stalker e l’allontanamento dalla famiglia per chi maltratta moglie e figli, per convincere la persona a smettere. Altre volte ci si trova a fare i conti con quelle che diventano vere e proprie ossessioni. Per cui capita che la persona già condannata per stalking, a distanza di qualche tempo si innamori di un’altra donna e riprenda a perseguitarla: scatta dunque una nuova condanna. Ma secondo i giudici, lo stalker avrebbe in realtà bisogno di stare in una struttura ad hoc dove tentare un percorso riabilitativo, non certo in carcere, dove le sue patologie sono destinate a peggiorare. Taranto. Detenuto muore nella notte, aveva avuto un malore poche ore prima Corriere di Taranto, 26 aprile 2023 Secondo decesso nelle ultime 24 ore nel carcere di Taranto. È stato infatti trovato privo di vita nel letto della sua cella di Largo Magli di Taranto, un uomo di 55 anni, tarantino, che il giorno prima era stato trasportato presso il Santissima Annunziata per un malore. Dopo gli accertamenti del caso i sanitari del nosocomio lo hanno dimesso ma al rientro in cella, durante la notte, è deceduto. Sulla vicenda sono state avviate le indagini della Procura di Taranto che disporrà l’autopsia sul corpo per capire le cause del decesso e accertare, qualora ci fossero, le responsabilità. La vicenda segue il decesso avvenuto sempre nel carcere di Taranto, quando a essere rinvenuto cadavere è stato un altro detenuto che si è tolto la vita in cella. Pistoia. Un carcere “più umano”, punta sul lavoro che riabilita e sulla cura dei detenuti di Martina Vacca La Nazione, 26 aprile 2023 Ieri la visita dei rappresentanti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” la Camera Penale di Pistoia e il parroco di Vicofaro, don Biancalani. I numeri: 49 ospiti su 45 posti regolamentari, 11 semiliberi e tre educatori. Con 49 detenuti su 45 posti regolamentari, più 11 semiliberi, la Casa Circondariale di Pistoia si inserisce tra gli istituti penitenziari meno problematici tra quelli toscani. A confermarlo è stata ieri la visita organizzata dall’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, ottava tappa di un tour che sta coinvolgendo tutta la Toscana e che ieri ha visto la presenza dei rappresentanti della Camera Penale di Pistoia, del parroco di Vicofaro, don Massimo Biancalani e dagli avvocati Elena Baldi e Fausto Malucchi. Una tappa che ha coinciso con la Festa della Liberazione, assumendo una valenza ancor più pregnante, come ha spiegato il segretario dell’associazione Sergio D’Elia: “Abbiamo deciso di trascorrere il nostro 25 aprile in carcere - ha spiegato D’Elia - perché vogliamo liberare innanzitutto lo Stato da un istituto anacronistico, il carcere, abbandonato nei fatti per le condizioni di degrado in cui costantemente verifichiamo sono lasciati vivere tanto i detenuti quanti i ‘detenenti’, come chiamava Marco Pannella gli operatori penitenziari”. Ma i numeri e soprattutto le testimonianze dei detenuti hanno dipinto, almeno per il carcere di Santa Caterina in Brana, una situazione ben diversa, dove la priorità viene data al percorso di formazione professionale. “Un punto su tutti - spiega la presidente dell’Associazione, Rita Bernardini - l’investimento fatto sul lavoro dei detenuti. Si tratta di lavori interni, ma che vengono portati avanti con impegno e nell’ottica di costituire le basi del futuro reinserimento in società”. Un carcere che sia al centro della città, non isolato, e che non sia un parcheggio ma una palestra per il rientro nella comunità: sono questi i principi su cui l’associazione si batte da sempre, come hanno spiegato o Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, dell’associazione. Ancora qualche dato. Dei detenuti, il 57% ha avuto una condanna definitiva, mentre gli altri sono in attesa di giudizio, e gli italiani sono il 37%. “Dopo un periodo in cui svolgevano il loro servizio in missione, oggi finalmente il carcere può contare sul lavoro di ben tre educatori, una figura molto importante - ha spiegato la presidente Bernardinia - Altro punto di forza è la guida costante della direttrice Loredana Stefanelli e del Comandante Mario Salsano”. Manca un mediatore culturale fisso, ma al bisogno vengono inviati dall’Asl. Alla visita avrebbe dovuto partecipare anche il sindaco Alessandro Tomasi che ha inviato comunque un messaggio di saluto, essendo impegnato nelle celebrazioni del 25 aprile. “Seppur con alcune criticità - ha spiegato l’avvocato Elena Baldi, consigliere dell’associazione - il carcere di Pistoia si è dimostrato sufficiente quantomeno sotto il profilo del rapporto fra spazi e detenuti”. La Camera penale di Pistoia partecipato all’iniziativa con gli avvocati Daria Bresciani, Lorenzo Cerri e Cristina Gradi in rappresentanza di tutto il direttivo. “Abbiamo riscontrato un clima di sostanziale collaborazione - ha spiegato l’avvocato Bresciani - compatibilmente con le risorse umane ed economiche a disposizione”. Bari. Torture su un detenuto nel carcere: in tre chiedono il rito abbreviato news24.city, 26 aprile 2023 Hanno chiesto di essere giudicate con il rito abbreviato tre delle quindici persone indagate per le presunte torture commesse, nell’aprile 2022, nel carcere di Bari, ai danni di un detenuto con patologie psichiatriche. La richiesta è arrivata nel corso dell’udienza celebrata nell’aula bunker di Bitonto, da parte dei legali di un sovrintendente della Polizia Penitenziaria, di un agente di Polizia Giudiziaria e di un medico dell’infermeria, tutti in servizio nella casa circondariale, all’epoca dei fatti. Ha chiesto invece la messa alla prova una infermiera, che risponde di omessa denuncia. Tutti gli altri indagati, otto dei quali sono agenti di Polizia Penitenziaria, hanno scelto invece di proseguire con rito ordinario. Nell’inchiesta, coordinata dal pm Carla Spagnulo e dall’aggiunto Giuseppe Maralfa, viene contestato a sei agenti il reato di tortura in concorso. Secondo l’ipotesi dell’accusa, lo scorso 27 aprile, questi fecero irruzione nella cella del detenuto, un 41enne barese, che poco prima aveva dato fuoco ad un materasso. Nel trasportare l’uomo verso l’infermeria del carcere, i sei lo avrebbero sottoposto a gravi violenze, tenendolo fermo sul pavimento e colpendolo con schiaffi e calci in varie parti del corpo. Assieme a loro, sempre secondo l’accusa, sarebbero stati presenti altri agenti che, pur avendo assistito alla scena, avrebbero deciso di non intervenire per porre fine all’aggressione. Inoltre, nel referto stilato dal medico del penitenziario, non sarebbero state segnalate le lesioni riportate dalla vittima. In aula c’è stata la costituzione come parte civile della persona offesa. Il prossimo 2 maggio è stata fissata la discussione dell’udienza preliminare e l’eventuale ammissione, da parte del giudice, dei riti abbreviati. Il racconto di esistenze dimenticate che reclamano verità e giustizia di Mario Soldaini Il Manifesto, 26 aprile 2023 “La Spoon River dei braccianti”, un volume di Antonello Mangano (Meltemi). Se è vero, come ha scritto Fernanda Pivano, che l’Antologia di Spoon River è stata “meno del verso ma più della prosa” è certo anche che la forza di quel libro non sia da ricercare soltanto nel tono narrativo con cui si meditano gli epitaffi quanto - semmai - nella capacità di dimostrare come, attraverso la descrizione della sofferenza di una vita talvolta esemplare, la morte possa essere l’esito di una certa condizione politica e sociale. A cento anni dalla prima edizione dell’Antologia di Spoon River, Antonello Mangano, fondatore di terrelibere!, ne La Spoon River dei braccianti (Meltemi, pp. 170, euro 15) ha scelto di richiamarsi a quell’opera e di farlo a partire proprio dalla necessità di riconsegnare alla storia i nomi di alcuni migranti: donne e uomini del nostro tempo indegnamente dimenticati. Come per Fletcher McGree di Spoon River, i protagonisti di Mangano, sfruttate e sfruttati, sono messi in un angolo e “cacciati fino a morire”. L’autore ci racconta allora la grande varietà di violenze subite, di coltellate incassate da operai e sindacalisti del nostro tempo di cui rimangono i nomi simbolo della violenza quotidiana, dell’ipocrisia, della pochezza di affermazioni irragionevoli piovute da un fosco cielo istituzionale. Come dal giudice di Lee Master e De André impariamo che un uomo di cinque piedi merita d’essere chiamato “vostro onore”, dai resti carbonizzati di Becky Moses impariamo a inquietarci per le frasi sui Bingo bongo e i ministri “oranghi” o a vergognarci di poter anche solo considerare che gli immigrati “portano ogni tipo di malattie”; senza voler ragionare, per esempio, sull’assenza di una giusta legge che regoli l’attribuzione della cittadinanza. Troppo spesso abbiamo vagheggiato l’immigrazione come un fenomeno di movimento, come qualcosa di incontrollabile, ma si tratta anzi, prima di tutto, del risultato di una serie di cause, di una successione di attese. L’immigrazione, racconta Mangano nella sua Antologia, non è arrivare - affogando - per “rubare case e lavoro” ma aspettare mesi un permesso e vederselo rifiutato, cercare la vita e la civiltà coltivando un sogno e morire a Villa Literno (Jerry Essan Masslo); immigrazione è tacere per paura di denunciare e morire per ventisei colpi di cacciavite (Adnan Siddique) o vivere nel ghetto di Rosarno e morire con quattro colpi di fucile (Soumaila Sacko); ed è anche nascere a San Giorgio Jonico per spegnersi ad Andria a quarantanove anni, magari sfruttata da un’agenzia interinale (Paola Clemente). Immigrazione è morire in un campo di pomodori, per la gola di indigenti commercianti (Mohammed Abdullah) o per un bimbo che vuole un bigmac e non può aspettare (Romulo Sta Ana). Dovremmo chiederci più spesso, come si chiede l’autore di questo libro: dove scopriamo l’immigrazione? Ricordando che la risposta non è soltanto nell’umiliazione di una schiena spezzata ma in quel lungo processo che va - senza soluzione di continuità - dalle cause di una partenza alle cause di un naufragio, dalla tortura in un campo libico alla tortura del campo di pomodoro. È questo scorrere di vite concluse troppo in fretta che Mangano sceglie di descrivere nella sua antologia, dove il significato dell’esistenza di alcuni braccianti, bruciati e sparati, diviene più che simbolico. Con uno sguardo sempre rivolto ai tanti altri mai arrivati che sulle colline di nessuna Spoon River né di altra Rosarno hanno avuto in sorte di dormire, a quelli che prima di trovare una terra in cui scrivere il loro nome, in attesa di un narratore che ne raccontasse lo sfruttamento, hanno trovato l’abisso del mare. In fondo, mentre sulla terra le lapidi sono anche corpi, in quel mare i corpi mai arrivati non hanno lasciato nemmeno un nome. Nati come stranieri ungarettiani, tornati da epoche “troppo vissute” per godere un minuto “di vita iniziale”, alla ricerca di “un paese innocente”, “assuefatto” ma - in verità - sin troppo colpevole. “Il passato rimosso dell’Italia e il presente dell’accoglienza” di Maurizio Francesconi Corriere di Torino, 26 aprile 2023 Il nodo è la “riparazione”, a livello individuale ma anche collettivo. Ennio Tomaselli, ex magistrato, è l’autore di “Fronte Sud” (edito da Manni), terzo romanzo che vede protagonista Salvatore Malavoglia detto Salvo, 68 anni. È anche lui, come il suo creatore, un giudice minorile, coinvolto in una vicenda ricca di colpi di scena, ma soprattutto di rapporti: con giovani (italiani e migranti) che vivono una difficile integrazione e con un passato, quello del colonialismo italiano, che non smette di interrogarci. “Il passato rimosso dell’Italia è davvero disconnesso dal nostro presente?”, si domanda Tomaselli. “Oltre al dovere di solidarietà nei confronti dei ragazzi che oggi arrivano dall’africa, non c’è forse un debito, con una matrice storica, con un significato morale? Etiopia, Eritrea, Libia non solo punti sulla carta geografica. Non lo sono per il mio protagonista, il cui padre ha partecipato alla guerra di conquista italiana in Etiopia, e non possono esserlo per nessuno di noi”. Come Tomaselli, il suo protagonista Malavoglia è pieno di dubbi (sulla professione, le istituzioni, le regole…) ma soprattutto pieno di slanci ed entusiasmi. Convinto che “quello che ci tocca è guardare sempre verso il Sud del mondo e della vita, verso le aree più problematiche della storia e della memoria”. E come Malavoglia, anche Tomaselli è stato giudice e pubblico ministero in ambito minorile. “Ho iniziato nel 1978, poco prima del rapimento Moro. In comune con Malavoglia ho la percezione dell’estrema complessità dell’ambito minorile, di fronte al quale devi chiaramente utilizzare gli strumenti che ti dà la legge ma anche farti carico della situazione. Quando un ragazzo è “messo alla prova”, è un impegno per l’intero sistema della giustizia. Siamo tutti messi alla prova, tanto che Malavoglia si fa carico personalmente, concreta In occasione del 60esimo anniversario della pubblicazione de di Primo Levi e per celebrare la Liberazione, il Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino con il Polo del ‘900, il Teatro Stabile, il Dipartimento di Lingue dell’università e il Conservatorio Verdi promuovono una lettura multilingue del volume in cui Primo Levi racconta il suo viaggio mente di questi ragazzi. Non è un prendersi cura in senso vago e generale, ma concreta. Ed estesa a molti altri, non solo migranti, ma italiani e ugualmente bisognosi di cura. Non sempre con successo”. Nel romanzo c’è anche spazio per un progetto destinato al sostegno professionale ai giovani migranti, che suggerisce i molti progetti nati a Torino ad opera dei santi sociali. Quanto è ancora viva quella tradizione in una città oggi alle prese con i mille problemi dell’accoglienza? “Malavoglia non è di Torino ma, un po’ come me, ha sempre lavorato in Piemonte”, riflette Tomaselli. “Aleggia questo spirito di accoglienza, che è proprio di questa città, in cui c’è un terreno fertile per far germogliare nuove cose. Ad esempio, sono oltre 400 i tutori di minori stranieri non accompagnati da quando questa figura è stata istituita nel 2017. Un record a livello di ritorno da Auschwitz nel 1945. Un gruppo di giovani provenienti dai Paesi attraversati da Primo Levi nella sua odissea verso Torino domani al Teatro Carignano leggeranno alcune pagine de Da Polonia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Ungheria, Slovacchia, Russia, Austria, Moldavia e Germania- insieme a un lettore in Yiddish - voci di oggi restituiranno nazionale. Il messaggio che emerge è che, sebbene nessuno di noi abbia l’ambizione di divenire un santo sociale, siamo tutti coinvolti. Non soltanto il magistrato o le forze dell’ordine. Non ci sono buoni o cattivi, ma le persone che si lasciano coinvolgere e quelle rigide, che rimangono arroccate e chiuse all’altro”. Tomaselli riflette così su quanto il razzismo sia presente oggi in Italia. “Ho scritto un romanzo che vuole guardare onestamente alla realtà. Così non può esserci una risposta netta. Le realtà è variegata, così come le persone. Gli atteggiamenti nei confronti dei migranti sono spesso di sopraffazione, e poi ci sono momenti di accoglienza con progetti meravigliosi di impegno. C’è un terreno fertile su cui è importante lavorare, e ognuno di noi è coinvolto”. La Resistenza e la sua voce: un 25 Aprile resistente di Andreina Corso lavocedivenezia.it, 26 aprile 2023 La fatica del resistere la conoscono le donne e gli uomini vittime di tutte le violenze e ancor più l’hanno incarnata i popoli feriti dalla guerra, dalla ferocia degli uomini, di un uomo, simbolo delle dittature. Quella ferocia e la sua voce potente, entra ancora, oggi, 25 Aprile nei cuori come un improvviso suono d’organo nel silenzio, a ferire le tempie, a dire e a dirci che quel che è accaduto è vero e evidentemente non sufficiente a impedire altre guerre, altre dittature, altre ingiustizie. Vicine e lontane, ci giungono inascoltate le voci che attraversano i cieli popolando muri di silenzio e di distanza. L’attimo che potrebbe divenire eternità sta nell’intercettare quelle voci, quelle sofferenze, quelle invocazioni e bello e giusto sarebbe se potessero infondere in un uomo, la fiducia verso un suo simile, anche se non uguale. Potrebbe succedere che l’inconoscibile si riveli trasformando la disuguaglianza in uguaglianza, la differenza in sembianza, la paura in complicità. Puntuale, ogni anno questa data richiama polemiche e scontri che potrebbero essere evitati con elementi di chiarezza e di responsabilità. Un nervo scoperto s’infiamma e si rinnova quel processo di reciproci risentimenti provocati da una guerra civile inferta dalle leggi fasciste verso chi fascista non era e che poi, con il nazismo si è dato alla lotta partigiana, unico modo per salvarsi e salvare tutti quelli non graditi al regime. Unico modo per offrire anche a costo della propria vita, una via di salvezza per tutti. Il 25 Aprile, la Liberazione, la Democrazia, la Costituzione sono la risposta di civiltà anche verso chi non era mosso da questa tensione, o peggio parteggiava per i fascisti. E a guerra finita, quest’ultimi hanno ricevuto in dono la libertà e la pace. Forse qualcuno avrà cercato di dimenticare, forse l’oblio, dopo tanto odio. Forse qualcuno di ‘loro’ cercava vendetta e ha riparato in una finta quiete mantenendosi però fedele alla sua storia, che ha manifestato, pur in modo diverso, con evidenti segni di discriminazione razziale e di distanza nei confronti di coloro i quali, come ad esempio gli immigrati, sono diventati i nemici invasori da allontanare. Lo spartiacque sta in questo ‘sentire’ le cose della vita, nel coinvolgimento che siamo disposti a mettere a disposizione di chi è più debole e sfortunato: anche questo, ora, si chiama antifascismo. La voce della Resistenza è un urlo lacerante che raccoglie tutto il dolore inferto da una guerra che è stata anche una guerra civile, con i suoi risvolti strazianti che chiedono, senza pretenderlo, di non essere dimenticati. Sta a noi decidere se vogliamo applicarli quei valori della Costituzione scritti per raccontarci la sacralità di ogni vita umana e del rispetto che le si deve, condizione necessaria ad una Pace vera e possibile, anche se le troppe guerre che oggi offendono i popoli e la terra, ci dicono che il cammino è ancora aspro e impervio. 25 aprile, non ci serve l’antifascismo di facciata: va realizzata l’uguaglianza e ripudiata la guerra di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2023 Scrisse una volta Cesare Pavese, in un suo intervento sul fascismo e la cultura, che “la natura del fascismo, come di tutti i vizi, è proprio quella di rotolare una china divenendo valanga, sfuggendo anche al controllo dei suoi capi”. Osservando le reazioni alla vignetta di Natangelo sulla sostituzione etnica nella camera da letto del ministro Lollobrigida, si ha in effetti l’impressione di vedere una vera e propria valanga di arroganza del potere. Guai quindi a sottovalutare le avvisaglie di un vero e proprio regime autoritario che si vanno intensificando, proprio mano a mano che questo governo rivela ogni giorno di più da un lato la profonda incapacità e incompetenza dei suoi membri (coll’unica eccezione di Guido Crosetto, indiscusso esperto dell’industria degli armamenti e abilissimo lobbysta nell’esportazione militare ovunque possibile), e dall’altro la sua più totale subordinazione ai diktat del potere economico e della Nato. Tornando alla vignetta di Natangelo e alle spropositate reazioni che ha suscitato, colpisce il fatto che alle stesse si accodino taluni esponenti della “opposizione” che aspirano ovviamente a svolgere il ruolo di complici e compartecipi del regime che si va delineando, si tratti dei transfughi del Terzo Polo in via di avanzata smobilitazione, ovvero di esponenti del Pd. È del resto una caratteristica tipica dei regimi autoritari in statu nascendi quella di esercitare una forte attrattiva nei confronti del ceto politico allo sbando, che si riversa su di esso come mosche sul miele o altri meno nobili elementi. Del resto a ben vedere la Meloni è l’autentica continuatrice di Draghi e della sua agenda e quindi non vi sono contraddizioni sostanziali fra lei e forze come il Pd che di Draghi sono stati e continuano ad essere (Schlein o no) i zelanti esecutori. Le uniche divergenze tra Meloni e Schlein riguardano aspetti in fondo secondari dell’azione politica, su quelli di fondo, a cominciare dalla guerra, c’è pieno accordo. Alla vigilia del 25 aprile, settantottesima ricorrenza della Liberazione del Paese dal nazifascismo, il tema dell’antifascismo emerge, quindi, com’è inevitabile che sia, ma, se ci limitiamo ai deprimenti dibattiti interni alla classe politica, in modo del tutto falsato ed equivoco. Ha buon gioco Gianfranco Fini a rimbrottare La Russa e la stessa Meloni, affermando che la Costituzione repubblicana è in realtà intrisa di antifascismo, non solo per l’esistenza della Disposizione transitoria, costantemente inapplicata, che vieta la ricostituzione del partito fascista e per il fatto che, come ricordava Calamandrei, essa nacque dal sangue dei partigiani, ma anche per l’esistenza di una serie di valori, come la libertà, la giustizia e la solidarietà, che sono innegabilmente e irrimediabilmente antifascisti. Fini dimentica però di citare il ripudio della guerra, anch’esso un valore antifascista, dato che furono moltissimi a diventare antifascisti proprio in ripulsa alla guerra devastante in cui Mussolini aveva trascinato il Paese a seguito di Hitler. E dimentica anche l’uguaglianza, oggi fortemente a rischio, sia nel suo aspetto formale (allucinante la proposta di concedere ai parlamentari una franchigia che consentirebbe loro di insultare impunemente ognuno sui social) che soprattutto sostanziale, dato l’espandersi di fenomeni come la precarietà sul lavoro e il razzismo nei confronti degli immigrati, colpevoli di tentata sostituzione etnica solo perché vogliono sottrarsi a situazioni disumane e lavorare onestamente nel nostro Paese. L’antifascismo di cui abbiamo oggi bisogno, che è poi quello di sempre, non può quindi essere quello di facciata che pure, come pare, provoca più di un mal di pancia a La Russa, Meloni ed altri, ma deve essere quello radicato nella necessità di autentica trasformazione democratica del Paese a partire dai bisogni dei ceti più deboli, oggi svillaneggiati, umiliati e affamati dalla pessima classe politica al potere. Quello cioè che assuma e prenda sul serio, per realizzarli, i principi contenuti nell’art. 3, secondo comma (rimozione delle disuguaglianze sostanziali) e 11 (ripudio della guerra) della nostra Costituzione repubblicana. Per costruire finalmente un’Italia all’altezza delle esigenze dei suoi cittadini vecchi e nuovi e di un suo ruolo autonomo e sovrano nell’ambito di un ordine internazionale in via di democratizzazione dopo secoli di ingiusto e nocivo predominio occidentale. Per rimuovere l’immondizia in cui siamo sommersi e tenere fede alle aspettative e ai progetti politici per i quali sono morti oltre centomila partigiani e soldati dell’Esercito di liberazione. *Giurista internazionale Migranti. Piantedosi a Lampedusa: “Merita il Nobel per la pace” di Grazia Longo La Stampa, 26 aprile 2023 Il viaggio lampo in visita all’hotspot sovraffollato: oltre 2 mila e 500 ospiti a fronte dei 400 posti disponibili. Da una parte, le organizzazioni umanitarie, come Save the children, che chiedono a gran voce “di non considerare più lo sbarco dei migranti a Lampedusa come un’emergenza ma come una realtà strutturale da affrontare con criteri risolutivi”. Dall’altra, il sindaco dell’isola Filippo Mannino che, preoccupato per il danno al turismo, sollecita “la presenza di due navi davanti alle nostre coste, come avveniva durante la quarantena del Covid, in modo che i migranti, in attesa di essere trasferiti nei centri di accoglienza, non sbarchino a terra”. Nel mezzo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che, in visita ieri all’hotspot di Contrada Imbriacola assicura “una task force ministeriale per aiutare il Comune nella gestione amministrativa e soluzioni che abbiano una proiezione non dico strutturale ma di gestione ordinata dei flussi. Noi dobbiamo lavorare affinché Lampedusa, che meriterebbe il Nobel per la pace, diventi l’ingranaggio di un meccanismo più ampio che funziona. E nello stesso tempo aiutare la gente che è all’addiaccio o in mezzo ai liquami”. Il viaggio lampo del titolare del Viminale arriva in un momento particolarmente critico: l’hotspot è nuovamente sovraffollato con oltre 2 mila e 500 ospiti, a fronte dei 400 posti scarsi disponibili, dopo gli ultimi arrivi: oltre mille e 900 in 24 ore di cui 700 nella notte di lunedì. Per non parlare dei 4 naufragi di lunedì con due morti recuperati, almeno 20 dispersi e 165 migranti salvati. E nella notte l’ennesima tragedia: al molo Favaloro sono giunti anche i cadaveri di due donne. La motovedetta della Guardia costiera li ha sbarcati insieme a 62 sopravvissuti, tra cui altre 3 donne, che viaggiavano su un barchino lasciato alla deriva. Il grido d’allarme del sindaco non conosce tregua: “Da 9 mesi ripeto sempre le stesse cose: i barchini abbandonati, i barchini sulle coste, la questione della spazzatura, la questione delle fogne, l’emergenza salme, i posti nei cimiteri. A causa di tutto questo stanno iniziando i malumori degli isolani. Stamattina (ieri, ndr) doveva esserci una protesta, abbiamo convinto gli operatori turistici che iniziano ad essere preoccupati”. Per questo Mannino vorrebbe ritornare ai tempi della quarantena con i migranti su due navi davanti all’isola. “La situazione all’interno dell’hotspot è esplosiva, a breve verrà a gestirlo la Croce Rossa ma noi abbiamo bisogno di aiuto. Inoltre abbiamo dei problemi per fare la buca di 4 metri per allargare la stazione di sollevamento dell’hotspot, per le fogne, perché ci sono i vincoli. Sono mesi che lottiamo con vincoli ambientali e naturalistici. Visto che c’è lo stato d’emergenza migranti proviamo ad andare in deroga e a fare le cose che sono fondamentali”. Piantedosi replica: “Dobbiamo lavorare perché Lampedusa diventi meccanismo di un sistema più ampio, sollevando l’isola da fasi come questa. Ma nello stesso tempo evitare tutto quello che non è accettabile per i migranti”. Domani il sindaco Mannino arriverà a Roma per approfondire il problema insieme al ministro dell’Interno. Intanto la portavoce di Save the children, Giovanna Di Benedetto, ribadisce l’esigenza “di un approccio strutturale al problema. Nelle ultime 72 ore ci sono stati più di 50 sbarchi e nel l’hotspot si vive in condizioni di assoluta promiscuità. Ci sono 300 minori non accompagnati, di cui il più piccolo ha 11 anni, donne costrette a usare gli stessi servizi igienici degli uomini, servizi che peraltro sono spesso allagati o inagibili. Chiediamo una maggiore assunzione di responsabilità sia all’Italia sia all’Europa”. La notte scorsa sono arrivate a a Lampedusa 19 imbarcazioni con 705 migranti e poi ancora altri 4 natanti con 164 persone. I migranti che viaggiavano su 14 delle barche, agganciate fra la notte e l’alba dalle motovedette di Capitaneria e Guardia di finanza, hanno detto di essere giunti con “navi madre”. Forse pescherecci da cui poi sono stati calati in acqua i barchini di metallo di 6 o 7 metri. Per queste traversate, cominciate da Sfax in Tunisia, i migranti, originari di nazioni della West Africa hanno pagato fino a 3 mila dinari tunisini. “I barchini di ferro rappresentano l’ultima drammatica novità della rotta tunisina - osserva Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) -: sovraccarichi si ribaltano e imbarcano molta acqua, di qui l’aumento vertiginoso dei naufragi degli ultimi giorni”. Migranticidio, lo sterminio dei flussi migratori di Flore Murard-Yovanovitch Il Manifesto, 26 aprile 2023 Contro l’assuefazione alle stragi sui confini terrestri e marittimi, un convegno per individuare crimini e normativa che inchiodino alle loro responsabilità i governi italiani e europei. Quello che avvertiamo come “indicibile” crimine in corso contro le persone migranti al livello globale, è ancora privo di definizione. Il convegno “Migranticidio: un crimine contro l’umanità”, promosso da Giuristi Democratici, Mani Rosse Antirazziste e Cred, tenutosi lo scorso sabato 22 aprile presso il Macro di Roma ipotizza di poter dare forma giuridica ad un nuovo e specifico crimine contro l’umanità: il “migranticidio”. Un neologismo che fotografa assai bene il massacro intenzionale dei migranti da parte degli Stati, che, per limitare gli arrivi delle persone migranti sui loro territori, praticano “una politica di sterminio dei flussi migratori”, come ricorda Enrico Calamai, ex console italiano nell’Argentina dei desaparecidos. Occorre cercare nel diritto esistente, a livello sia nazionale che internazionale, la normativa che possa inchiodare alle loro responsabilità i governi italiani e europei. In un’intervista rilasciata a Luigi Galloni, Luigi Ferrajoli afferma che “l’art. 7 dello Statuto della Cpi parla, a proposito dei vari crimini contro l’umanità di “atti commessi intenzionalmente” dalle autorità statali. Un dolo sia pure soltanto eventuale può certamente ravvisarsi nelle politiche governative che segnalano l’accettazione consapevole del rischio di violazioni massicce dei diritti umani, inclusa la violazione del diritto alla vita, come sono sicuramente gli accordi con le autorità libiche in tema di segregazione dei migranti ed anche i tanti ostacoli alle operazioni di salvataggio imposti dal decreto legge contro le ong”. Ferrajoli conclude: “Si potrebbe perciò formulare una specifica fattispecie di crimine contro l’umanità, il migranticidio, consistente in tutte quelle pratiche istituzionali destinate a provocare la morte in mare di persone che tentano di emigrare ed imputabili, per dolo specifico, a quanti di tali pratiche sono responsabili”. Anche per Chantal Meloni, Professore associato di Diritto penale presso l’Università di Milano, e l’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) “le intercettazioni e i rimpatri sono crimini contro l’umanità sotto forma di grave privazione della libertà fisica (art. 7 dello Statuto di Roma), commessi nell’ambito dell’attacco diffuso e sistematico contro i migranti e rifugiati in Libia”. La comunicazione dell’Ecchr del 2022 attesta inoltre che la Corte penale internazionale ha giurisdizione su questi su questi crimini nel contesto dell’indagine in corso sulla situazione in Libia e che deve rompere il ciclo dell’impunità. Il diritto penale è anzitutto uno strumento di oppressione dei migranti - in particolare delle centinaia di persone condannate come “scafisti” a pene che possono arrivare sino a 30 anni di prigione - ma può anche essere uno strumento a loro tutela. Luca Masera, Professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Brescia, ricorda che all’interno del diritto vigente esistono già le categorie giuridiche per accertare le responsabilità individuali per le morti derivate da singoli episodi di omissione di soccorso in mare; a volte tuttavia sono le Procure a non svolgere indagini rapide e rigorose nei confronti delle autorità italiane, e così l’attivazione della società civile può essere importante per evitare nuovi casi di prescrizione. Per quanto concerne la responsabilità dei vertici istituzionali, il punto è che nel nostro ordinamento non esiste la categoria dei crimini contro l’umanità: una loro introduzione nell’ordinamento nazionale sarebbe invece fondamentale per poter chiamare a rispondere in sede penale i vertici istituzionali per la criminale politica di sostegno alla cd. Guardia costiera libica portata avanti da tutti i Governi che si sono succeduti dal 2016 in poi. La politica di dissuasione delle partenze verso le coste italiane praticata dal governo Meloni è infatti “un’intento politico criminale”, come ricorda Fulvio Vassallo, avvocato già docente di diritto all’Università di Palermo, “che produce soltanto un incremento dei naufragi per la mancanza di mezzi statali di soccorso e l’allontanamento dal Mediterraneo centrale delle navi civili”. Ma prima di ricostruire nuove categorie giuridiche, è necessario “restituire protagonismo alle vittime e rendere i migranti in Italia o intrappolati nei paesi di transito, dei soggetti attivi, per dare voce alle denunce, fornire testimonianze che inchiodino i responsabili delle politiche di respingimenti e di abbandono in mare: ricostruire nuovi percorsi di solidarietà su scala transnazionale. Intanto, di fronte a persone che si presentano alle frontiere e vengono considerate colpevoli di un “atto di aggressione”- come se la volontà di vivere un’esistenza degna diventasse un attentato ai confini nazionali -, la professora Alessandra Algostino, docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino ha proposto di invertire la rotta : “Invece di restringere l’asilo, di delocalizzarlo, di criminalizzare chi lo richiede in quanto potenziale truffatore, fondiamo sul diritto di asilo il diritto di migrare, rifiutando la distinzione fra richiedente asilo e migrante economico, rompendo il dominio dei confini in nome del “pieno sviluppo” di ciascuno e di tutti (art. 3 della Costituzione)”. E afferma, “per assaltare il cielo della “normalità giuridica”, possiamo appoggiare la scala alla Costituzione e trarre dalla formula ampia che riconosce il diritto di asilo a chi sia impedito l’effettivo esercizio delle “libertà democratiche” (art.10) un elemento per scardinare la distinzione”. In tempi di assuefazione alle migliaia di morti sui confini terrestri e marittimi, questa assemblea ha avuto il raro merito di immaginare un nuovo diritto dei migranti, perché “senza immaginazione - come ricorda Algostino - si perde l’orizzonte del costituzionalismo, la sua forza prescrittiva contro il potere e nel nome dei diritti”. Con una precisazione: l’immaginazione non vive nel regno dell’astrazione, ma è un qualcosa di concreto, è un “fare pensante” (Castoridis). Nominare il migranticidio è un primo passo per cambiare la Storia. Stati Uniti. La “seconda possibilità”: l’algoritmo che in Michigan ripulisce la fedina penale di Paola D’Amico Corriere della Sera, 26 aprile 2023 La nuova legge bipartisan ribattezzata “Clean Slate” ha ripulito la fedina penale di condannati o pregiudicati con pene lievi. E non c’è bisogno di fare domanda: c’è un algoritmo. In varia misura e forme diverse è una strada che avevano già intrapreso anche altri Stati, dal sud al nord degli Usa: amnistie più o meno parziali per dare una “seconda possibilità” ai detenuti erano avvenute in Louisiana e Pennsylvania, Vermont e Utah, Florida e Georgia, Montana e Maine. Nessuna però come nel Michigan, dove nel periodo di Pasqua è entrata in vigore una riforma della giustizia firmata tre anni fa e che in pochi giorni ha ripulito completamente - e automaticamente, senza bisogno di richiesta - la fedina penale di 850mila condannati o pregiudicati con pene lievi. Reimmettendoli con questo solo atto, questo è il punto, nel mercato del lavoro. È il risultato di una legge bipartisan ribattezzata “Clean Slate” (letteralmente “Tabula rasa”). Nel Michigan le persone con precedenti penali sono poco meno di tre milioni. In molti di questi casi si tratta di reati non violenti, con condanne piuttosto basse, o per fatti commessi da minorenni. (Succede anche in Italia, dove solo in Lombardia - per fare un esempio - i detenuti attualmente in carcere con condanna sotto i due anni sono un terzo dei cinquemila totali. Più tutte le migliaia che la loro condanna, analogamente bassa, l’hanno scontata e ora son fuori). Quel che accomunava tutti, prima della legge Clean Slate, è che anche una condanna minima restava registrata e diventava una barriera rispetto alla ricerca di qualsiasi lavoro. “Questa riforma - ha detto John Cooper, direttore esecutivo di Safe & Just Michigan - produrrà invece un impatto immediato e automatico per più di un milione di persone, per le quali da un giorno all’altro si riapre una possibilità di accesso a un alloggio e a un lavoro”. La rivoluzione vera è che per avere la propria fedina ripulita - cosa che in teoria, a certe condizioni e dopo molto tempo era possibile anche prima, come da noi - non c’è più bisogno, come si diceva, di alcuna domanda di cancellazione. Che molti neppure presentavano, anche solo per l’imbarazzo. Ora fa tutto un algoritmo, che ogni giorno cerca nel database dei casellari giudiziari dello Stato le condanne idonee alla cancellazione. Solo nel primo giorno dell’entrata in vigore della legge, l’11 aprile, ne sono state cancellate 252.417. I reati non ammissibili alla cancellazione includono incendio doloso, abusi sui minori, reati sessuali di primo grado, omicidio di primo grado, aggressione criminale, omicidio colposo, stalking. Iran. Minorenni torturati e violentati dalla polizia degli ayatollah di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 26 aprile 2023 Dozzine di terrificanti testimonianze nell’ultimo rapporto di “Human Right Watch”. Le forze di sicurezza hanno infranto la stessa legge iraniana sulla protezione dei minori. A una ragazzina di 16 anni hanno dato fuoco ai vestiti, spingendola contro un fornello acceso, poi l’hanno picchiata con un manganello sui fianchi e sul collo e infine frustata a sangue durante l’interrogatorio in una caserma di Teheran. Un altro ragazzino, sempre di 16 anni, è stato violentato nell’ano con un oggetto appuntito e poi colpito in ogni parte del corpo fino ad avere le costole fratturate. C’è poi la storia di altri due minori, torturati per ottenere informazioni sulla loro famiglia o di quel 17enne che ha tentato due volte di togliersi la vita dopo essere stato sottoposto a elettrochoc. Nella città di Zahedan ancora un 17enne è stato seviziato con scariche elettriche e bastonato sotto la pianta dei piedi al punto di non poter più camminare. È rimasto in una cella per settimane completamente bendato e privo di cure mediche, poi lo hanno costretto a confessare un reato che non aveva commesso: incendio doloso. Non ci sono soltanto le violenze fisiche, anzi, il terrore più grande è quando gli agenti minacciano di arrestate e uccidere i familiari dei ragazzi, intimidazioni ripetute 10, 20, 30 volte, con sadismo per far li crollare definitivamente ed estorcere confessioni. Sono solo alcune cartoline della repressione in corso in Iran, testimonianze dirette della ferocia con cui il regime sta soffocando il dissenso raccolte a dozzine nell’ultimo rapporto di Human Right Watch. Chi si stia chiedendo che fine abbia mai fatto il movimento di donne e giovanissimi che questo inverno ha scosso le fondamenta della repubblica sciita contestando nelle piazze di tutto il paese un sistema potere liberticida e sclerotizzato, troverà risposta in queste righe: “Le forze di sicurezza iraniane che reprimono le proteste diffuse hanno illegalmente ucciso, torturato, aggredito sessualmente e persino fatto sparire minorenni, molti arrestati senza avvisare le loro famiglie, a volte per settimane. Agli studenti rilasciati dalla detenzione è stato poi impedito di tornare a scuola mentre le autorità hanno interrotto l’assistenza sociale, costringendoli a lavorare”, si legge nel rapporto della Ong statunitense. Peraltro le vittime di abusi anche se non hanno subito condanne rischiano danni psicologici di lunga durata come sottolinea il direttore di Human Right Watch Bill Van Esveld. In questo cono d’ombra va da sé che il diritto alla difesa e all’assistenza legale è il primo a saltare in aria: “Le autorità iraniane hanno anche arrestato, interrogato e perseguito i minori in violazione delle garanzie legali, e i giudici hanno vietato alle famiglie dei bambini di assumere avvocati di loro scelta per difenderli, hanno condannato i bambini con accuse vaghe e li hanno processati al di fuori dei tribunali per i minorenni che hanno l’unico giurisdizione sui casi dei minori”. Già, perché gli interrogatori e le brutali sevizie compiute dalla polizia politica sono illegali per la stessa legge iraniana secondo la quale chi ha meno di 18 anni può essere interrogato soltanto da pubblici ministeri specializzati e processato unicamente davanti ai tribunali per i minorenni. E invece il capo della magistratura iraniana, l’ultraconservatore Gholamhossein Mohseni Ejei ha nominato un giudice religioso già togato al Tribunale rivoluzionario, come responsabile della giustizia minorile che ha autorizzato tutte queste violazioni. Come spiega Human Right Watch che ha intervistato un avvocato dell’ordine di Teheran “almeno 28 minorenni sono stati di corruzione in terra e inimicizia contro Dio”, reati alquanto vaghi ma che portano a punizioni severissime come la pena di morte o l’amputazione della mano destra o del piede sinistro. Singapore. Un uomo è stato impiccato per un chilo di cannabis agi.it, 26 aprile 2023 Nella città-Stato asiatica il possesso di stupefacenti può costare la pena capitale. Le organizzazioni per i diritti umani hanno definito l’esecuzione “oltraggiosa e inaccettabile”. Le autorità di Singapore hanno annunciato di aver impiccato un detenuto condannato per aver contrabbandato un chilo di cannabis, ignorando le richieste internazionali per abolire nella città-Stato la pena capitale. “Tangaraju Suppiah, 46 anni, di Singapore, è stato giustiziato nella prigione di Changi”, ha confermato il portavoce del Servizio carcerario di Singapore. Le organizzazioni per i diritti umani hanno definito l’esecuzione “scandalosa e inaccettabile”. Phil Robertson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch (Hrw), ha espresso la sua preoccupazione: “l’uso continuo da parte di Singapore della pena di morte per il possesso di droga è un oltraggio ai diritti umani che fa sì che gran parte del mondo si chieda se l’immagine di Singapore moderna e civile sia solo un miraggio”. Il direttore regionale aggiunto di Amnesty International (AI), Ming Yu Hah, in un comunicato sottolinea che “questa esecuzione dimostra l’assoluto fallimento dell’ostinata adozione della pena di morte”. Sudan. Tregua a intermittenza, monta l’emergenza profughi di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 aprile 2023 L’intensità più bassa degli scontri dopo la proclamazione di una nuova tregua di 72 ore permette alla popolazione di poter andare a cercare cibo e acqua. Ma trovare generi di prima necessità è una impresa sempre più difficile. È tregua in Sudan ad intermittenza. Non è mai stata completa la cessazione - peraltro solo per 72 ore - di combattimenti e sparatorie annunciata lunedì sera dopo una intensa attività di mediazione svolta dagli Stati uniti e, in misura minore, dall’Arabia saudita. I miliziani delle Rsf di Mohammed Hamdan Dagalo e l’esercito agli ordini del generale Abdel Fattah al Burhan hanno continuato spararsi addosso anche ieri, solo più sporadicamente. L’intensità più bassa dello scambio di colpi ha comunque consentito alla popolazione di Khartoum di poter lasciare, sia pure con grande cautela, le abitazioni in cui è rintanata da dieci giorni, per andare alla ricerca di cibo e acqua potabile. È un’impresa reperire generi di prima necessità nella capitale, rimasta senza rifornimenti dalle campagne dal 15 aprile. Lo raccontano ai media africani e arabi gli abitanti meno timorosi di altri nell’avventurarsi in strada. Ieri a Ginevra, Nima Saeed Abid, rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Sudan, ha aggiornato a 459 morti e 4.072 feriti il bilancio di giorni di violenti scontri a fuoco che, in apparenza, hanno lasciato nelle mani dell’esercito quasi tutta Khartoum. Le Rsf invece avrebbero il controllo di parte della periferia della capitale e di diverse province del paese. Saeed Abid ha anche denunciato un “alto pericolo di rischio biologico” dopo che una delle parti in lotta ha occupato un laboratorio, senza pero fornire ulteriori particolari. Fino a 270mila persone, dice l’Onu, potrebbero fuggire dal Sudan verso il Sud Sudan e Ciad. Molte migliaia si sono già ammassate lungo i confini con quei cominciano a rappresentare una nuova emergenza profughi. Continua anche l’esodo degli stranieri. Gli occidentali in gran parte sono fuori dal Sudan, più complessa è la situazione dei cittadini di quei paesi che non sono in grado di organizzare, assieme ai militari, una evacuazione rapida e con gli aerei - la Germania ieri ha assunto dalla Francia il coordinamento dei voli dal Sudan - come hanno fatto gli Usa e vari Stati europei. Si tratta di indiani, pakistani, filippini, africani, arabi e anche di un paio di centinaia di palestinesi, in gran parte studenti di Gaza a Khartoum. Per loro la fuga dal paese è via terra verso l’Egitto o a bordo di traghetti che vanno in Arabia saudita. Sono sempre al loro posto 46 operatori internazionali di Emergency negli ospedali di Khartoum, Nyala e Port Sudan. “Sono giorni estremamente difficili e di grande tensione a Khartoum ma abbiamo deciso di rimanere qui per gli 81 pazienti in cura nel nostro ospedale. Non possiamo abbandonarli perché rischierebbero la vita”, ha spiegato Franco Masini del Centro Salam di cardiochirurgia della ong italiana a Khartoum. Mentre i civili sopportano il peso maggiore dei problemi, El Burhan e Dagalo affermano ciascuno di combattere per salvare il Sudan dall’altro e di tentare di insediare un governo civile. Ma il capo dell’esercito è accusato di combattere per gli islamisti e per ciò che resta del regime del deposto presidente Omar Al Bashir. Il leader delle Rsf invece agirebbe nell’interesse di potenze straniere. Di sicuro nessuno dei due ha rispetto per i diritti umani e la democrazia e dietro di loro ci sono potenze straniere. Inoltre sono insistenti le voci, specie dopo un’inchiesta della Cnn, che vogliono la compagnia di mercenari russi Wagner stretta alleata di Dagalo nello scontro con El Burhan. I rischi di una destabilizzazione regionale, quindi, sono reali e le conseguenze del conflitto già si fanno sentire. Il Sud Sudan, devastato per anni da lotte intestine che hanno fatto morti, feriti e centinaia di migliaia di profughi e sfollati interni, si preoccupa per le entrate petrolifere che rappresentano circa oltre il 90% della sua valuta pregiata. Il Sudan è fondamentale per queste esportazioni con il suo oleodotto che dal sud arriva fino al Mar Rosso. Il Ciad invece teme l’arrivo in massa dei profughi attraverso le sue frontiere facilmente penetrabili. “Ospitiamo già 500mila rifugiati. Facciamo appello ai partner internazionali affinché ci sostengano in questa crisi umanitaria all’orizzonte”, ripete il ministro ciadiano delle comunicazioni Aziz Mahamat Saleh convinto che la guerra in Sudan avrà un impatto sull’intera regione del Sahel. L’Egitto ha una lunga e antica storia in comune con il Sudan che in epoca faraonica si chiamava Nubia. Oggi molti membri dell’élite sudanese hanno legami con l’Egitto, dove hanno studiato, e gli ufficiali dell’esercito in molti casi sono stati addestrati al Cairo. Per l’Egitto è fondamentale avere Khartoum dalla sua parte nella difficile disputa con l’Etiopia sulle acque del Nilo. E vedere il suo alleato sprofondare nella guerra civile toglie il sonno ad Abdel Fattah el Sisi e il suo entourage. Trema anche Israele che vede il pericolo la permanenza del Sudan negli Accordi di Abramo e la firma del trattato di pace tra i due paesi prevista nei prossimi mesi. Sahel. Stragi di civili, coscrizioni coatte e propaganda: la più grande area di conflitto del mondo di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 26 aprile 2023 Nuova avanzata jihadista in Mali e Burkina Faso. L’esercito di Bamako coadiuvato dai mercenari russi della Wagner: “Terroristi schiacciati”. Ma la realtà sul campo è diversa. E la giunta militare burkinabé decreta l’arruolamento obbligatorio di tutti i cittadini maschi “fisicamente idonei”, dai 18 anni in su. Mali e Burkina Faso sembrano sempre più in difficoltà nella lotta ai gruppi jihadisti. Le locali filiali di al-Qaeda e di Daesh, in guerra tra loro oltre che con i governi di questi paesi, sono oggi “alle porte” delle rispettive capitali. Occupano città e regioni intere, tenendole fuori dal controllo delle istituzioni, fanno il bello e il cattivo tempo sui territori ancora non sotto il loro controllo, mietono decine di vittime ogni giorno. Lo scorso fine settimana in Mali, terminato il mese di Ramadan, i morti sono stati talmente tanti da “bucare” la propaganda della giunta militare e finire su tutti i media locali: tre attacchi suicidi coordinati nell’area dell’aeroporto internazionale di Sevaré, città di 40mila abitanti nella regione di Mopti, hanno provocato 60 morti tra i civili e causato il crollo di alcune palazzine, una mattanza talmente spettacolare che persino la giunta militare ha dovuto commentarla con una nota ufficiale del Capo di Stato maggiore dell’esercito. La situazione nel Sahel è sempre più critica, a più livelli: solo in Burkina Faso ci sono oltre 2 milioni di sfollati che vanno assistiti, curati, protetti. E, nonostante la propaganda della giunta militare racconti ogni giorno di grandi battaglie, terroristi “neutralizzati”, territori riconquistati e aiuti umanitari consegnati ai bisognosi, ci sono alcuni decreti legge del presidente golpista Traoré che raccontano una realtà ben diversa: l’istituzione dei Volontari per la Difesa della Patria, con il lancio a febbraio di una campagna per arruolare 60mila civili, e il decreto per la mo bilitazione generale della settimana scorsa, che consentirà al governo la coscrizione obbligatoria di tutti i cittadini maschi “fisicamente idonei”, dai 18 anni in su. Coscrizione coatta che era già una realtà, tanto che diverse organizzazioni dei diritti umani hanno denunciato l’arresto e l’arruolamento forzato di diversi critici della giunta militare al potere a Ouagadougou. In Mali non va molto diversamente: se leggiamo i giornali locali la propaganda delle Forze armate maliane (Fama) racconta di grandi vittorie, decine di “terroristi schiacciati” dall’esercito e dai suoi ausiliari del gruppo russo Wagner. La realtà sul campo tuttavia, è un po’ diversa: il 19 aprile il capo di gabinetto del presidente della transizione del Mali, Oumar Traoré, detto Douglas, è stato trovato morto nell’area di Nara, 400km a nord della capitale Bamako, con altri tre militari, proprio accanto ai veicoli ufficiali della delegazione presidenziale. Ucciso da colpi di arma da fuoco in un’area in cui sono attivi sia gli uomini del Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim, legato ad al-Qaeda) che quelli di Katiba Macina (il Fronte di Liberazione del Massina, alleato di Ansar Dine, lo Stato Islamico). I due gruppi combattono due conflitti: uno tra di loro e uno con lo Stato del Mali. La morte di Traoré è stata rivendicata domenica dal Jnim. Diversa è la questione del Niger di Mohamed Bazoum, che ha scelto di provare ad arginare l’avanzata jihadista nel Sahel nigerino - e i flussi dei migranti verso nord - stringendo partnership militari e con Francia, Germania e Italia durante i suoi tour europei. Una realtà che preoccupa tutti, nell’area è quella del Benin, lo scorso fine settimana, ha annunciato l’arruolamento straordinario di 5.000 uomini da inviare nel nord del Paese, al confine con il Burkina Faso, dove sono sempre più frequenti le incursioni dei gruppi islamisti. I quali stanno allargando i propri possedimenti verso i paesi costieri del Golfo di Guinea. Sulla stessa linea beninese infatti ci sono anche il Togo, che ha imposto lo stato d’emergenza nelle regioni confinanti con il Burkina e annunciato una campagna di arruolamento, il Ghana, dove gli attacchi islamisti al nord sono sempre più frequenti, e la Costa d’Avorio. Tutti paesi costieri confinanti a nord con i territori sotto il controllo, ormai quasi assoluto, di Daesh o al-Qaeda. Il problema del conflitto nel Sahel è che è non si può raccontare se non attraverso la propaganda delle giunte militari. Il Consiglio superiore per la comunicazione del Burkina Faso ha denunciato l’impossibilità per i cronisti di lavorare in modo imparziale e sicuro in tutto il Sahel, anche per ragioni economiche: la stampa locale non ha i mezzi per permettersi corrispondenti di guerra e deve accontentarsi dei mattinali dello Stato maggiore dell’esercito. Altre fonti di informazioni sono le pagine Telegram legate a Wagner, che in Mali fa da ausiliare delle Forze Armate, o i pezzi scritti dai desk dei media francesi, anch’essi intrisi di propaganda, dopo la cacciata dei francesi dall’area. In una regione il cui territorio è in buona parte sotto il controllo dei gruppi armati questo è un vero problema, anche perché le giunte militari di Mali e Burkina Faso hanno espulso i corrispondenti di France24, Rfi, Le Monde e Libération. Secondo Reporter Senza Frontiere il Sahel è oggi “la più grande zona non informativa dell’Africa” e, al contempo, è anche la più grande area di conflitto al mondo.