Dalla parte dei detenuti: l’eredità giuridica e morale di Valerio Onida di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 aprile 2023 La biblioteca del giurista donata al carcere di Bollate, lo sportello giuridico sarà intitolato alla sua memoria. Marta Cartabia: “Uomo di grandi ideali e di gesti concreti”. Il nome del presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, sarà legato per sempre alla casa circondariale di Bollate. La famiglia Onida ha donato alla seconda casa di reclusione di Milano l’intera biblioteca dell’insigne giurista, scomparso quasi un anno fa. La donazione dei libri - circa 2mila - appartenuti al professor Onida è avvenuta sabato scorso alla presenza di una rappresentanza di detenuti, nel V reparto, dove saranno collocati tutti i volumi in una biblioteca intitolata all’accademico. Hanno partecipato alla commemorazione, tra gli altri, Marco Onida (figlio del presidente emerito della Corte Costituzionale), Marta Cartabia (già ministra della Giustizia), Silvana Sciarra (presidente della Corte Costituzionale), Andrea Ostellari (sottosegretario alla Giustizia) e Giovanna Di Rosa (presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano). Un legame fortissimo quello con Bollate. Tutti ricordano l’appassionato impegno di Valerio Onida, che, come volontario, ha prestato attività di consulenza giuridica in favore dei detenuti grazie allo Sportello giuridico, attivato nel 2002 con il prezioso supporto proprio dell’ex presidente della Consulta. Anche questa struttura è stata intitolata al costituzionalista milanese. L’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è stata allieva di Onida e ha affidato al Dubbio un commosso ricordo. “Lo sportello giuridico e la biblioteca personale donata al carcere di Bollate - dice - sono il segno tangibile della grande eredità che Valerio Onida lascia a Milano e a tutto il paese. Una eredità fatta di grandi convinzioni ideali e di umili e nascosti gesti concreti che hanno permesso a quegli ideali di diventare storia. Una eredità consegnata alle tante persone che hanno camminato dentro le sue orme e che ora proseguono il suo impegno”. Se a Bollate è stato creato un modello innovativo, il merito va pure a Onida. Di questo è convinto il direttore della casa circondariale, Giorgio Leggieri. “Ricordare Valerio Onida - afferma Leggieri - ha un duplice valore. È stato un grande giurista e allo stesso tempo ha sempre caratterizzato ogni attività da una profonda umanità. L’attenzione alle persone è stata la cifra del suo intervento ed è rimasta nel dna dell’istituto di Bollate e al di là delle possibili soluzioni questo fa sempre la differenza. L’apporto del professor Onida è consistito nel mettersi a disposizione dei più fragili e dei più deboli. A riprova di ciò, si pensi all’attenzione che ha sempre rivolto agli stranieri rispetto a problematiche oggi gestite in altro modo. Il professor Onida ha gettato le fondamenta dello Sportello giuridico, lo sportello dei diritti e il segretariato sociale. Alle soglie del 2002 già si abbozzarono quelle che sono oggi le strutture esistenti. È la dimostrazione della grande lungimiranza di Valerio Onida”. Leggieri si sofferma, oltre che sulla donazione dei libri, sugli strumenti attivati nel carcere di Bollate. “I volumi donati - aggiunge - rendono viva la testimonianza di un grande giurista e di un grande uomo. È un segnale di attenzione al modello organizzativo di Bollate, che, partendo dallo Sportello giuridico, può prendere vita in altri istituti purché sia alimentato da un preciso contesto organizzativo. Se lo Sportello diventa uno strumento attivo e di partecipazione dei detenuti alla vita detentiva, credo che gli scenari possano cambiare molto. Siamo arrivati ad uno Sportello giuridico che nell’arco di vent’anni ha consentito a tante persone, con competenze diverse, di dare un apporto prezioso. Sempre, però, con solo obiettivo: creare un sistema che renda praticabile l’esercizio dei diritti all’interno del carcere in un contesto normativo che cambia”. Antonino La Lumia, presidente del Coa di Milano, sottolinea l’importanza dell’eredità lasciata dall’ex presidente della Corte Costituzionale: “L’intitolazione dello Sportello giuridico del carcere di Bollate al professor Onida appare la naturale conseguenza dell’impegno, umano e professionale insieme, che egli ha profuso nell’attività di consulenza giuridica gratuita in favore dei detenuti del carcere di Bollate. Dopo aver lasciato la Consulta, si è infatti dedicato alla gestione dello Sportello giuridico, mettendo la sua esperienza e professionalità al servizio dei detenuti, per aiutarli a gestire i rapporti con il Tribunale di Sorveglianza, la direzione e gli educatori. Tale opera era prestata in favore degli “ultimi”, tra i detenuti, coloro che non hanno mezzi, perlopiù stranieri, troppo spesso abbandonati a loro stessi e ignari persino della loro situazione giuridica”. La coordinatrice della Commissione carcere del Coa milanese, Beatrice Saldarini, ricorda l’impegno di Onida in favore dei detenuti. “In principio - afferma - capitava che noi avvocati ci imbattessimo stupefatti in istanze o incidenti di esecuzioni sottoscritti personalmente da detenuti, ma redatti incredibilmente in modo magistrale, spesso accolti, o comunque fonte di riflessione. In breve, si è svelato il mistero: dietro quegli scritti vi era l’opera del professor Onida, che, con un’umiltà pari alla sua sapienza giuridica, metteva alla prova i nostri giudici in favore dei più derelitti tra i detenuti. Il fondamento che ha sempre ispirato il suo pensiero e le sue azioni è la legalità: la cultura della legalità come cifra quotidiana del vivere, anche in una situazione di detenzione, ove le condizioni di privazione e difficoltà non possono e non devono costituire un alibi per la resa di questi ideali. Il tutto con la consapevolezza che non è sufficiente che le leggi ci siano, ma occorre che siano applicate, creando le condizioni organizzative e culturali perché ciò avvenga. E alla realizzazione di questa missione si è dedicato, con la stessa determinazione, da studioso, giudice costituzionale, volontario, da uomo e da giurista”. In una giornata importante, come quella di domani, risuonano ancora di più le parole che pronunciò Valerio Onida davanti agli studenti del liceo “Galilei” di Legnano nel febbraio del 2018: “La Costituzione, oggi, ci chiede di rivitalizzare i suoi principi e di applicarli alla nuova e diversa realtà in cui viviamo. I problemi attuali vanno affrontati continuando a rimanere aperti all’Europa, al mondo e alle novità, senza smettere di confrontarsi con i principi della Costituzione, per fare in modo che i traguardi che quest’ultima impone siano ancora suscettibili di essere perseguiti. Se perdiamo questa fede, sul futuro non saprei come si possa formulare una prognosi fausta”. Fiammetta Borsellino: “Il carcere è speranza e può far cambiare chi ha commesso errori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2023 Una giustizia che ricrea, dove si mette al centro dell’attenzione la possibilità di poter ripartire dopo ogni errore in ogni condizione. Il Centro Culturale Portico del Vasaio di Rimini ha organizzato due eventi per promuovere questo approccio attraverso gli appuntamenti previsti per domani, 26 aprile alle ore 21 al Teatro Galli di Rimini e giovedì 27 aprile al mattino per gli studenti, e vedranno la partecipazione di tre ospiti eccezionali: Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia Paolo Borsellino; don Claudio Burgio, fondatore dell’associazione Kairos, e il magistrato Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania. Fiammetta Borsellino è impegnata da anni nella lotta per ottenere la verità sulla morte del padre e dell’amico Giovanni Falcone, uccisi dalla mafia nel 1992. Ha deciso anche di incontrare due dei boss mafiosi responsabili della strage, i fratelli Graviano, convinta della necessità di immaginare e costruire percorsi di cambiamento che possano avvicinare i colpevoli di gravissimi delitti alle vittime o ai loro familiari. Inoltre, girando per l’Italia, Fiammetta Borsellino ha incontrato numerosi studenti delle scuole superiori per parlare loro di verità e giustizia e per far loro percepire l’importanza di incontrare sul proprio cammino occasioni di rinascita e ripartenza. Vale la pena riportare una riflessione della figlia di Borsellino stessa, riportata nel libro “Paolo Borsellino - Per amore della verità” di Piero Melati: “Riesce davvero il carcere a provocare un cambiamento nelle persone? Se rispondiamo negativamente, è una sconfitta. Questo vale anche per il 41 bis. Anche rispetto alle persone che più mi hanno fatto del male come i Graviano, non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Oggi ho la consapevolezza che si può vivere e morire con dignità non solo come ha fatto mio padre, ma anche da parte di chi ha fatto cose atroci, sempre che sappia almeno riconoscere il male inflitto, chiedere perdono e riparare il danno”. Don Claudio Burgio si è invece immedesimato profondamente con la solitudine dei ragazzi chiusi nelle celle del carcere giovanile Beccaria di Milano. Ha fondato l’associazione Kairos, che garantisce percorsi alternativi al carcere a circa una cinquantina di ragazzi tra cui Trapper, noto cantante. Il magistrato Roberto Di Bella, invece, ha messo in atto un coraggioso procedimento per liberare i giovani rampolli delle famiglie della ‘ ndrangheta calabrese dall’influenza negativa dei loro padri. Ha proposto loro di allontanarsi dalla loro terra e vivere in comunità. Ed è nato così il progetto “Liberi di scegliere”. La sua, una storia, che va raccontata. In venticinque anni ha processato prima i padri, poi i loro figli. Sempre per gli stessi reati. Ha visto ragazzi che avevano ancora una luce nello sguardo procedere inesorabilmente verso una vita adulta fatta di violenza e carcere duro. E ha capito due cose. La prima è che la ‘ ndrangheta non si sceglie, si eredita. La seconda è che non voleva più stare a guardare. Bisognava dare a questi ragazzi una possibilità. Farli tornare liberi di scegliere. Mostrare loro altri mondi, altre vite, un futuro ritagliato sui loro sogni e non sulle richieste di una società criminale. E l’unico modo per farlo era allontanarli dalla Calabria, dalla ragnatela di ricatti, pressioni, allusioni che il loro nucleo familiare avrebbe messo in atto. Un percorso non sempre semplice, anzi, spesso faticoso e doloroso, ma che ha restituito a molti ragazzi la possibilità concreta di una vita diversa da quella segnata dal carcere e dalla violenza dei loro padri. Gli incontri promossi dal Centro Culturale Portico del Vasaio di Rimini offrono una riflessione coerente incentrata sulla possibilità di ripartire sempre, dopo ogni errore e in ogni condizione, attraverso un approccio all’altro che miri a mettere a fuoco e a valorizzare l’umanità che permane nel profondo di ognuno, anche se talvolta oppressa da sofferenze, condizionamenti, indurimenti ma mai annichilita. In una società sempre più frantumata e sempre più soffocante per tutti, connotata dall’oscillazione perenne tra arrivismo e scetticismo, i giovani sono le prime vittime. Molto spesso la scuola, la famiglia e le condizioni sociali sono vissute come un carcere, come ambiti in cui non si respira libertà, in quanto non si percepisce la possibilità di aprirsi percorsi di scoperta di sé. La testimonianza dei tre ospiti è un’occasione eccezionale per comunicare, ai giovani e alla città intera, che aprire nuovi percorsi e accendere speranze inaspettate è possibile. Festa della mamma, un invito a recarsi negli istituti penitenziari garantedetenutilazio.it, 25 aprile 2023 La Società della ragione lancia una campagna a favore delle donne condannate e dei loro figli e invita i rappresentanti delle istituzioni e i volontari a incontrare le donne detenute, proprio il 14 maggio. La Società della ragione, associazione di promozione sociale (Aps) che si occupa di questioni attinenti alla giustizia, al diritto penale, al carcere ha lanciato in questi giorni la campagna di sensibilizzazione, “Madri fuori”, per la dignità e i diritti delle donne condannate, dei loro figli e delle loro figlie, che dovrebbe culminare in una mobilitazione il giorno della Festa della mamma, vale a dire domenica 14 maggio. “È un rilancio provocatorio della Festa della mamma - si legge nel comunicato che accompagna il lancio dell’iniziativa - contro ogni retorica: la dedichiamo alle ‘madri fuori’: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine. Chiederemo perciò a parlamentari e consigliere/consiglieri regionali, così come ai garanti e alle garanti delle persone private della libertà, di recarsi in carcere nel giorno simbolico del 14 maggio per incontrare le donne detenute, offrire solidarietà, prendere impegni per sostenere il loro diritto a coltivare gli affetti, a mantenere i rapporti coi figli. Per la preparazione dell’iniziativa, pensiamo di chiedere un aiuto particolare a volontari e volontarie del carcere, perché aderiscano alla campagna ‘Madri fuori’, portando questo tema all’interno delle attività che già svolgono dentro gli istituti: discutendone con le donne detenute, raccogliendo la loro voce, portandola all’esterno, essendo presenti con le donne nella giornata simbolica. Chiediamo anche ai garanti e alle garanti di aiutare a coordinare la campagna, coinvolgendo operatori e operatrici del carcere. Vogliamo anche investire altri organismi, in particolare le commissioni per le pari opportunità a livello regionale e comunale, perché aderiscano alla campagna e contribuiscano alla sua diffusione”. Le promotrici dell’iniziativa chiedono di firmare e di diffondere un appello, evidentemente rivolto al Parlamento, dove si discutono nuove norme, per il superamento della presenza di bambini che crescono in carcere insieme alle madri, perlopiù condannate per reati minori. Per ulteriori informazioni e adesioni: https://www.societadellaragione.it/campagne/carcere-campagne/affettivita/madri-fuori-dallo-stigma-e-dal-carcere-con-i-loro-bambini-e-bambine/ Più carceri nel piano resilienza di Gianfranco Ferroni Il Tempo, 25 aprile 2023 Meno domiciliari e più carceri. Da costruire rapidamente, con il Pnrr. Chi lavora per combattere il crimine, in quella trincea quotidiana che sono le città dove ormai si consumano più reati che sigarette, lamenta l’utilizzo indiscriminato degli arresti domiciliari. I fatti danno ragione a chi è stanco di bloccare la delinquenza e poi vede sfumare le sue fatiche per colpa di un lassismo buonista che non tende a rieducare il condannato ma, semplicemente, ad agevolarne il reinserimento nella società per continuare a compiere reati contro le persone, più di prima. La soluzione da adottare? Una straordinaria campagna di costruzione di nuovi penitenziari. Anche grazie al Pnrr. Gli americani, dopo la beffa compiuta da Artem Uss, gentilmente” collocato in un’abitazione, con un innocuo braccialetto elettronico, modalità che gli ha permesso di scappare per tornare in Russia, sono increduli: negli Stati Uniti il carcere gestito da privati è una tradizione, e non capiscono perché non siano mai state delegate a società specializzate nella sicurezza le detenzioni dei condannati, un sistema che secondo gli statunitensi “costa meno ed è più efficiente”. A Washington, che tollera la pena di morte, non vengono perdonati coloro che beffano la giustizia, e lì la guerra contro i recidivi è stata fatta storicamente con il motto “three strikes and you’re out”, ovvero “alla terza condanna butto la chiave e non ti faccio più uscire dalla galera”. Che poi è l’unico modo per evitare quella ripetizione quotidiana della battaglia tra guardie e ladri che fa perdere tempo alle forze dell’ordine e distoglie l’attenzione dai reati più gravi. Lo stesso problema riguarda i domiciliari: se in un piccolo territorio, dove ci sono solo tre addetti alla sicurezza disponibili per effettuare i controlli, vengono collocate cento persone obbligate a non uscire dalle mura casalinghe, è chiaro che l’alternativa al carcere ha il valore di una barzelletta. E come voler cercare di turare con un dito la falla di una diga. Ogni decisione riguardante un ritorno a casa del reo dovrebbe essere ponderata valutando le effettive possibilità di verifica da parte delle forze dell’ordine dislocate in quella zona, altrimenti diventa un’amnistia mascherata. Un serio piano di edilizia carceraria è fondamentale per abbandonare le vecchie strutture e offrire dignità ai detenuti, assicurando nello stesso tempo una migliore qualità del lavoro agli addetti al Corpo di Polizia Penitenziaria. A Roma l’area di Regina Coeli potrebbe diventare uno splendido centro da dedicare al vicino Orto Botanico, nel nome dell’ecologia e della sostenibilità, alleggerendo una zona preziosa come quella della Lungara dal suo “ruolo punitivo”, assegnato per sempre anche dalle canzoni romane. “Con un miliardo di euro si possono costruire 40 penitenziari, ognuno dei quali può ospitare 200 persone”, affermano gli esperti che hanno lavorato in passato a via Arenula, sede del ministero della Giustizia: un investimento modesto, viste le cifre del Pnrr, che renderebbe più sicura l’Italia permettendo di abolire il ricorso ai domiciliari. Uno sforzo minimo, che non va rinviato. Anche per evitare nuove figuracce a livello mondiale, come è stato dimostrato dall’ultimo caso, quello di Uss, che non sarà facile far dimenticare agli Stati Uniti. “Pene più aspre? Sono inutili, ma sono un segnale politico”. Parola di Nordio di Simona Musco Il Dubbio, 25 aprile 2023 “L’uomo giusto al posto giusto”. Così Giorgia Meloni ha definito Carlo Nordio, l’ex toga che la presidente del Consiglio ha voluto fortemente a via Arenula, senza accettare compromessi. Un magistrato diventato politico - “ormai mi sento anche un politico e faccio parte di un governo con il quale mi sento anche in sintonia”, ha dichiarato domenica sera a “Che tempo che fa” - in grado di fare da scudo di fronte a qualsiasi polemica. Dal caso Delmastro-Donzelli al pasticcio Uss, passando per il caso Cospito, a Nordio è toccato mettere da parte il piglio del garantista senza se e senza ma per abbracciare la ragion politica, esponendosi in prima linea fino a sacrificare parte delle proprie convinzioni. Una missione che si è tradotta, in queste ultime ore, nella difesa del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, inciampato in discorsi sul rischio di “sostituzione etnica”: affermazioni che, ha detto il guardasigilli sempre nell’intervista a Fabio Fazio, “non corrispondono al mio modo di esprimermi ma non sono peccati mortali”, e possono essere spiegati con “l’emotività” e “la tensione polemica”. Una “protezione” a tutto tondo dei componenti di governo e maggioranza che non di rado impone, appunto, piccoli passi indietro rispetto a quanto Nordio ha messo nero su bianco nei suoi stessi libri prima di varcare le porte di via Arenula. Così, se è vero che “inasprire le pene e creare nuovi reati non serve a nulla”, come affermato dal ministro nel suo libro “Giustizia”, ciò non toglie che, nella logica del guardasigilli, si possa agire proprio in tal senso - ovvero inasprendo le pene - per dare un segnale “politico”. Ciò perché, ha spiegato in collegamento con il programma di Fazio, nonostante “il segnale della legge penale” non abbia “un significato di deterrenza”, nel senso che una legge più dura non “interrompe” né “elimina”, per rimanere ancorati all’attualità, l’immigrazione clandestina, ciò che arriva è “un segnale politico”. Ovvero il messaggio che “il governo è attento al traffico” di esseri umani. Un segnale rivolto all’elettorato - “serve a dimostrare che siamo attenti al fenomeno” - dunque, anche se a gestire il fenomeno serve poco. D’altronde, stando agli esperti, il decreto Cutro - ispirato anche nel nome a una tragedia che non sarebbe stata scongiurata, qualora il provvedimento fosse già stato in vigore - non servirà a fermare il fenomeno, ma produrrà soltanto ulteriore clandestinità e, dunque, minore sicurezza. Ma Nordio non si è limitato alle questioni “filosofiche”, e ha anche scandito la road map delle sue riforme. Serve tempo, ha spiegato, ma un primo pacchetto sarà pronto entro maggio. Si tratta di riforme in “senso garantista”, dove garantismo “significa enfatizzare la presunzione di innocenza” e dunque la “necessità di evitare quelle perniciose invasività sulla libertà individuale prima del processo”. E non poteva mancare il mantra di Fratelli d’Italia, quella “certezza della pena” tanto cara a Meloni che vuol dire certezza dell’espiazione della condanna una volta accertata la colpevolezza dell’imputato. L’intento di Nordio, almeno negli annunci, è non ridurre il tutto all’equazione pena uguale carcere. “La pena - ha sottolineato - deve avere un’attitudine rieducativa”, dunque è necessario impegnarsi “per fare del carcere uno strumento non di espiazione ma di rieducazione”, attraverso sport e lavoro. In questo primo pacchetto rientrerà anche la riforma delle intercettazioni, “mezzo fondamentale oggi per le indagini”, cosa sulla quale “nessuno ha mai avuto dubbi”, ma il primo intervento andrà nel senso di evitare la pubblicazione di notizie riservate e quelle che riguardano i terzi: “Se Tizio parla con Caio e cita Sempronio - ha sottolineato -, Sempronio è senza difesa” e non può ribattere. Dunque l’obiettivo è evitare che i terzi estranei al processo vengano comunque coinvolti, “con un vulnus terribile per la loro onorabilità e talvolta anche per la loro salute”. La seconda fase è quella che riguarda le riforme costituzionali e, dunque, la separazione delle carriere, ciò che maggiormente contrappone Nordio e i suoi ex colleghi, pronti a dare battaglia in ogni modo per evitare quello che viene definito un tentativo di sottomettere le toghe al potere politico. Riforme che richiedono “tempi più lunghi”, date le regole imposte dall’articolo 138 della Costituzione, tra le quali anche i provvedimenti relativi al Csm. L’ultimo tema affrontato da Nordio è quello delle carceri, a partire dall’altissimo numero di suicidi che ha funestato lo scorso anno. Il problema, secondo il ministro, è “un sistema carcerario obsoleto”. Ma la soluzione prospettata non è quella di incentivare le pene alternative al carcere, bensì la costruzione di nuovi istituti penitenziari. E siccome nella pratica ciò è impossibile, “la mia proposta è adattare le caserme militari dismesse, che sono perfettamente compatibili con la sicurezza di un carcere e consentono le due attività fondamentali nella rieducazione del detenuto: spazio aperto, quindi sport, e lavoro”. Perché “nulla quanto il lavoro riduce la conflittualità e la tensione, e rieduca”, ha concluso il ministro. Le cui parole non sono piaciute al Pd. “Ancora una volta vengono lanciate a casaccio separazione delle carriere, abolizione di reati, intercettazioni da rivedere, senza che, dopo mesi di proclami, ci sia uno straccio di testo. Ma soprattutto non c’è nulla di quello di cui ci sarebbe davvero bisogno e cioè attuare le “riforme Cartabia” che riguardano per l’appunto l’efficienza della giustizia e la ragionevole durata dei processi: il ministro doveva approvarne i decreti attuativi, nemmeno quello ha fatto - hanno commentato Debora Serracchiani, deputata e responsabile Giustizia del Pd, e i capigruppo in commissione Giustizia di Camera e Senato Federico Gianassi e Alfredo Bazoli -. Anche sull’abuso di ufficio, dopo centinaia di interviste, non è nota la posizione del governo e della sua maggioranza. Quello che è certo, è che i sindaci chiedono una revisione complessiva del sistema delle responsabilità e su questo - hanno rivendicato gli esponenti dem - noi abbiamo presentato tre proposte di legge chiare, che però giacciono a prendere polvere nei cassetti del Parlamento mentre si preferisce strumentalizzare le sacrosante esigenze degli amministratori. Insomma il solito minestrone pieno di contraddizioni, di ambiguità e di velleità”. Lo scivolone di Nordio: La galera? “Un segnale politico” di Angela Stella Il Riformista, 25 aprile 2023 Il Guardasigilli annuncia per i prossimi mesi un serrato cronoprogramma di riforme garantiste, ma poi difende norme repressive e manette con parole che fanno sobbalzare Fabio Fazio. Tra le dichiarazioni del sottosegretario Sisto all’Assemblea dell’Unione Camere penali e quelle di Nordio a Rai 3 sembra essere tracciato finalmente un preciso cronoprogramma delle riforme sulla giustizia. Nella prima parte del 2023, tra fi ne maggio e settembre, si avrà un primo pacchetto su intercettazioni, enfatizzazione della presunzione di innocenza, certezza della pena che non significa necessariamente carcere, abuso d’ufficio, traffico di influenze. Poi ci si focalizzerà su quelle riforme più impegnative: separazione delle carriere, prescrizione sostanziale, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, riforma del Csm. Insomma un piano complesso che, come ha ribadito Sisto, dovrà vedere impegnate su uno stesso tavolo l’avvocatura, la magistratura e l’accademia. Ma sarà davvero così? Veramente il Governo punterà così in alto sulla giustizia, anzi su una giustizia di tipo liberale che piace più agli avvocati che all’Anm? Il dubbio sorge considerati questi primi mesi di Nordio a Via Arenula. Quando venne nominato Ministro cominciò a fare tutta una serie di dichiarazioni che entusiasmarono non poco coloro i quali credono in un diritto penale minimo, in una giustizia laica e nel carcere come extrema-ratio. Poi ad un certo punto silenzio: si pensò che Meloni gli avesse detto di tenere i toni bassi. Arrivò poco dopo l’illustrazione delle linee programmatiche a Camera e Senato e di nuovo esaltazione da parte soprattutto degli avvocati perché sentirono parlare nuovamente di separazione delle carriere o di norme contro l’abuso delle intercettazioni. Tuttavia il rapporto fiduciario cominciava già ad incrinarsi a partire dalla conferenza stampa in cui proprio Nordio si fece ambasciatore del provvedimento del nuovo ergastolo ostativo - lui che è contro l’ergastolo - contenuto nel decreto anti-raveparty. Ed allora si sono fatte sempre più numerose le voci di chi ha notato uno iato tra il vecchio Nordio scrittore e il nuovo Nordio Guardasigilli, fatto eleggere da Fratelli d’Italia. A dimostrazione di ciò sono arrivate le dichiarazioni rese due sere fa a Che tempo che fa dove stranamente Fazio, che non mette mai in difficoltà i propri interlocutori, è riuscito a replicare al Ministro. Il conduttore ha ricordato a Nordio quanto scritto nel suo libricino Giustizia (Liberilibri): “La statistica dimostra l’assenza di relazione tra la gravità delle pene e il numero dei reati”. “Lei è noto per essere un garantista - dice Fazio - Ecco le chiedo: cosa pensa allora di questi primi mesi di Governo dove sono stati promulgati il decreto per il rave party, il decreto Cutro, e quello per punire gli attivisti ecologisti? Non si va nella direzione esattamente contraria alle sue convinzioni?”. Nordio da (im)perfetto parafulmine dei pasticci del Governo ha replicato: “La pena come deterrente inefficace è una considerazione che risulta da tutta una serie di analisi storico-filosofiche”. “E allora perché - incalza Fazio - quei provvedimenti?”. “Perché molte volte il segnale che viene dal legislatore, il significato della legge penale” non ha uno scopo “di deterrenza, nessuno si illude che aumentando di uno o due anni le pene per gli scafi sti il fenomeno possa essere interrotto, ma ha un significato di attenzione politica, significa che la politica, in questo caso il Governo, è particolarmente attento a combattere questo fenomeno pernicioso che è il traffico di essere umani, e una di queste manifestazioni di attenzione è appunto la legge penale che viene inasprita; è un segnale politico più che di intimidazione giudiziaria”. Incredibile: Nordio che difende le leggi manifesto contro il diritto penale minimo e laico che giudica solo i fatti. Ma non finisce qui, perché lo scivolone più grande arriva nel tentativo non riuscito di difendere il ministro Lollobrigida e il suo timore della sostituzione etnica. “Per quanto riguarda le espressioni che ciascuno usa, questo fa parte del proprio linguaggio e molto spesso sono delle affermazioni che riflettono magari un modo di esprimersi che molto spesso non corrisponde con il mio. Però non credo siano peccati mortali su cui occorre soffermarsi più di tanto. Tante volte, quando ci si esprime, e questo lo si vede soprattutto nelle intercettazioni telefoniche, si usano dei linguaggi che poi vengono in un certo senso ripudiati”. Lo interrompe Fazio giustamente: “il caso di cui parliamo non è una intercettazione ma un discorso pubblico”. E il povero Nordio prova a difendere l’indifendibile: “Quando si parla pubblicamente, a maggior ragione, ci sono dei fattori che possono essere di emotività o anche di particolare tensione polemica per le quali si possono usare delle espressioni che altri non condividono”. Il Guardasigilli da Fazio ha risposto anche ad una domanda su Alfredo Cospito: “Le leggi, si può o no essere d’accordo, ma finché ci sono vanno applicate e i vari uffici giudiziari per lui hanno stabilito che deve rimanere al 41 bis. Ora è intervenuta la Corte Costituzionale” sulla questione dell’ergastolo, “vedremo le conseguenze. Quanto all’istituto del 41 bis, nessun partito politico vuole abolirlo, bisognerà decidere se lo si vuole solo per mafiosi e terroristi. Per ora, però, deve rimanere anche per reati gravi come quelli di Cospito”. Intanto ieri sarebbero scaduti i trenta giorni entro i quali Via Arenula avrebbe dovuto rispondere all’istanza di revoca del 41 bis presentata dal suo legale Flavio Rossi Albertini lo scorso 23 marzo. Abbiamo chiamato il Ministero ma nessuno ne sa nulla ufficialmente: vuol dire che Nordio semplicemente ha ignorato la richiesta, senza neppure motivare un eventuale rigetto? Attendiamo una risposta visto la rilevanza pubblica del caso. Se la riforma del ministro confonde la Giustizia con la politica di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 25 aprile 2023 Scafisti e imbrattatori di monumenti come “bravi e vagabondi” delle grida manzoniane. Ma la Consulta vigila: la severità della condanna non può essere sproporzionata al reato. Il lungo intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio nella trasmissione di Rai 3 “Che tempo che fa” la sera del 23 aprile spazia su molti temi. Alcuni di rilievo politico generale, con ardite escursioni europee. A proposito di alcune dichiarazioni di esponenti della coalizione di governo sul 25 aprile e sul fascismo, il ministro da un lato minimizza: “A volte quando si parla in pubblico intervengono tensioni o emotività che possono portare ad affermare cose non condivisibili”, ma, tornato sul campo della meditata razionalità, per usare terminologia calcistica, butta la palla in tribuna, anzi in Europa: “Se fosse per me il 25 aprile dovrebbe diventare non solo festa nazionale ma europea”. Troppo zelo, il 26 aprile in Europa si combatteva ancora aspramente: la liberazione di Berlino avviene solo il 2 maggio; Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica dichiarano l’8 maggio data della liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Ancor più rilevante la filosofia della pena e del processo che emerge dalle parole del ministro. Alle domande di Fazio, che gli cita passaggi “garantisti” di un recentissimo scritto in cui afferma che al fine della prevenzione dei reati l’aumento delle pene è inutile e spesso controproducente, il Guardasigilli replica: “Che la pena sia inefficace come deterrente risulta da analisi storiche e sociali. Molte volte però la legge penale non ha un significato di deterrenza ma di attenzione politica e il governo è attento a combattere il traffico di esseri umani”. Minaccia di pena come “segno di attenzione politica”. Non è una novità, ci rammentano le nostre letture del liceo, poche pagine dopo l’incipit “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…”. “Fino dagli 8 d’aprile dell’anno 1583 l’illustrissimo ed eccellentissimo signor Don Carlo d’Aragon, principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio e Gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano per cagione dei bravi e vagabondi pubblica un bando contro di essi. Ma nell’anno seguente ai 12 d’aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi… tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida ancor più vigorosa e notabile nella quale fra le altre ordinazioni prescrive: Che qualsivoglia persona, così di questa città come forestiera, che per due testimoni consterà essere tenuto, e comunemente reputato per bravo, ed avere tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno… per questa sola reputazione di bravo, senz’altro indizi, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda e al tormento, per processo informativo … et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si omette perché Sua Eccellenza è risoluta a voler essere obbedita da ognuno”. Bravi, scafisti, giovinastri dei rave party e imbrattatori di monumenti… Oggi, per fortuna, abbiamo garanzie processuali, magistratura indipendente e non solo. La Corte Costituzionale vigila contro le tentazioni del legislatore di ricorrere alle grida. Ce lo ricorda la presidente Silvana Sciarra il 12 aprile scorso nella Relazione annuale sull’attività della Corte, nel commentare la dichiarazione di incostituzionalità in tema di immigrazione clandestina, stabilita con sentenza n.63 del 2022. “L’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato, sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato... Il tema è divenuto sempre più centrale per la Corte costituzionale e costituisce uno degli ambiti elettivi del vaglio di ragionevolezza delle previsioni legislative”. Sua Eccellenza è risoluta a voler essere obbedita da ognuno, ma la presidente Sciarra non deflette: “La severità della pena comminata dal legislatore non può essere manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato”. Giustizia, la riforma Nordio ai blocchi di partenza ma la Lega frena sull’abuso d’ufficio di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 25 aprile 2023 Si punta a rivedere il traffico di influenze, modifiche al reato di tortura. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è determinato a portare in Consiglio dei ministri la prima “lenzuolata” di riforme a maggio. Come stabilito nel cronoprogramma concordato a Palazzo Chigi, conterrà modifiche su reati contro la pubblica amministrazione, misure cautelari, intercettazioni, tortura. In autunno le più ambiziose riforme costituzionali su separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale. L’intervento sul codice penale riguarderà i reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il primo additato dai sindaci (in primis quelli del Pd) come causa della “paura della firma”. Il secondo contestato dai lobbisti che ritengono criminalizzata la loro attività relazionale. Le polemiche sull’abuso di ufficio sono antiche. Numerosi i correttivi legislativi per limitarlo, sin dagli Anni ‘90. L’ultimo nel luglio 2020, per opera del governo Conte. Orma il reato è residuale e di rara applicazione, solo per casi di abuso di potere plateale. Su 100 inchieste aperte, solo 2 si concludono con condanne. Tuttavia secondo la tesi abolizionista il mero rischio di un’indagine funge da deterrente a una celere azione amministrativa. I ritardi sul Pnrr potrebbero aiutare a considerare la riforma un salutare sblocco. Sul tavolo del ministro tre ipotesi: abrogazione secca del reato; ulteriore limitazione con chirurgici interventi sulla fattispecie; depenalizzazione e trasformazione in illecito amministrativo. Nordio predilige la prima e più radicale opzione. Forza Italia concorda. Gli alleati no. La Lega, “assolutamente contraria”, sostiene che la cancellazione tout court del reato sarebbe un boomerang, perché indurrebbe i pm a contestarne di più gravi a parità di condotte. Fratelli d’Italia teme di esporsi a una campagna del Movimento 5 Stelle contro il governo “salvacorrotti” (spesso l’abuso d’ufficio viene usato come ipotesi di partenza in indagini che poi virano sulla corruzione). Quanto al traffico di influenze illecite (il reato dei faccendieri che intermediano rapporti veri o presunti con pubblici funzionari, in cambio di denaro o prebende), l’abrogazione è improponibile. Fu introdotto dalla legge Severino undici anni fa per adempiere a obblighi internazionali tuttora vigenti. I detrattori ne hanno sempre contestato l’evanescenza, tanto più in assenza di una disciplina sul lobbismo legale. Dunque bisogna lavorare di cesello, per restringerne drasticamente l’applicazione. Come? Finalizzare l’intermediazione illecita solo alla commissione di altri reati; prevedere criteri più restrittivi sul dolo intenzionale; escludere la punibilità di prebende a carattere non patrimoniale (caso di scuola nella giurisprudenza, la messa a disposizione di escort). Su questo fronte obiezioni nella coalizione non dovrebbero esserci. Le polemiche in ogni caso sì, poiché una modifica del reato inciderebbe su processi già conclusi o in corso. Per questo reato sono a giudizio tra gli altri Beppe Grillo a Milano, l’avvocato Alberto Bianchi a Firenze, Tiziano Renzi a Roma. Gianni Alemanno è stato condannato a Roma; Palamara ha appena chiesto il patteggiamento a Perugia. Sulle intercettazioni, Nordio considera imprescindibile il rafforzamento della tutela della riservatezza delle persone estranee all’indagine, citate nelle conversazioni senza rilevanza penale. Perciò intende vietare anche la mera trascrizione dei loro nomi nei brogliacci di polizia giudiziaria, per evitarne la successiva circolazione anche mediatica. Ma la soluzione tecnica non è facile: a chi affidare il potere di selezionare le intercettazioni? A un ufficiale di polizia o a un magistrato? Più in generale, si intende tornare alla riforma Orlando. Ciò significa cancellare la possibilità, introdotta dalla legge Bonafede cosiddetta “spazzacorrotti”, di usare il più invasivo trojan non solo per mafia e terrorismo, ma anche per corruzione. Un altro pallino di Nordio è la custodia cautelare. Vuole intervenire non su reati e presupposti (il che delude gli avvocati), ma sulla procedura. E affidare la decisione a un collegio di tre magistrati e non più al solitario giudice per le indagini preliminari. Altra modifica: interrogatorio obbligatorio prima di privare qualcuno della libertà personale. Obiettivo garantista, ostacoli operativi: mancano magistrati soprattutto nei piccoli tribunali. Per le inevitabili incompatibilità, chiusa l’inchiesta non se ne troverebbero per fare i processi. Inoltre è difficile interrogare in 96 ore centinaia di persone da arrestare nelle maxioperazioni antimafia. Infine, rispunta la limitazione del reato di tortura, introdotto nel 2017. L’obiettivo dichiarato è tutelare la polizia penitenziaria. La questione è delicata: secondo le associazioni si tratterebbe di un’abrogazione mascherata che legalizzerebbe condotte violente e autoritarie. In attesa dei testi, dalle Camere penali filtra un ottimismo alimentato dalla stima per Nordio ma calmierato “dallo iato tra annunci e compromessi politici”. Dall’Associazione nazionale magistrati perplessità per “ipotesi illuministe slegate dalla sostenibilità organizzativa delle riforme”. Il Pd contesta “un minestrone di annunci a casaccio”. “Tra pm e giudici troppa promiscuità, dividere le carriere è un dovere” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 aprile 2023 Intervista a Nicola Quatrano, avvocato ed ex magistrato: “Giudici e pm non possono più essere colleghi. Questa è una emergenza democratica”. La gip del Tribunale di Latina, Giorgia Castriota, finita in carcere con l’accusa di corruzione avrebbe, tra l’altro, fatto pressioni sia sull’ex pubblico ministero del caso Marta Russo e attuale procuratore aggiunto a Latina, Carlo Lasperanza, sia sul pm Andrea Angeli al fine di poter lei avere il controllo dei sequestri delle aziende per farle poi amministrare dai suoi amici. Al di là del fatto che la dottoressa Castriota è innocente fino a prova contraria e che sappiamo bene quanto le intercettazioni decontestualizzate in una ordinanza di custodia cautelare non rappresentano di certo una prova di colpevolezza, ciò che lascia perplessi sono i toni delle conversazioni tra giudici e pubblici ministeri. Ne parliamo Nicola Quatrano, ora avvocato ma con un lungo passato da magistrato. Avvocato cosa la colpisce di quelle intercettazioni? Premetto che da parte mia non c’è alcun compiacimento nel commentare queste intercettazioni che sono state fatte e che riguardano una vicenda su cui non mi pronuncio in nome della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Ma quello che mi colpisce è un dato che qualsiasi addetto ai lavori conosce o intuisce, ossia questa promiscuità assoluta che c’è tra gip e pubblico ministero. L’avvocato che deve interloquire col gip e lo trova - ma ormai è raro - disponibile può osare andare nella sua stanza e illustrargli le sue questioni difensive massimo per una decina di minuti. L’alternativa è quella della istanza con tutte le lungaggini che comporta. Quando invece si tratta del pm, giudice e pubblico ministero parlano per ore e ore. Si studiano insieme le questioni, senza alcuna diversità tra il ruolo dell’accusatore e quello del giudicante, come se avessero lo stesso obiettivo. Credo che questa sia la prova decisiva dell’indispensabilità e dell’urgenza della separazione delle carriere. Giudici e pm non possono più essere colleghi, non si devono conoscere. Questa è una emergenza democratica: è in crisi il sistema di equilibrio del processo. Tuttavia l’Anm sostiene che esiste il rischio che il pm vada sotto il controllo dell’esecutivo e che paradossalmente assuma ancora maggiore potere... L’Anm tradisce la sua funzione: essa dovrebbe tutelare l’indipendenza del giudice oltre che del pm, ma tradisce la sua funzione consentendo e cercando di fare in modo che continui la dipendenza del giudice dal pm. La preoccupazione dell’Anm dovrebbe essere l’autonomia del giudice da ogni possibile condizionamento, ivi compreso da quel potere forte - a volte fortissimo - che è costituito dal sistema delle procure, dalla Dda che non solo ha poteri enormi ed è una organizzazione rispetto al giudice isolato, e quindi più debole, ma è composta dai pm che fanno parte dei Consigli giudiziari e che quindi valutano il giudice, fanno parte del Csm e in quanto tali giudicano e interferiscono sulle progressioni di carriera e sul disciplinare dei giudici. Ma è vero quindi che i gip fanno copia e incolla delle richieste dei pm? Chiunque legga un fascicolo scopre che l’informativa della polizia giudiziaria diventa attraverso il copia e incolla la richiesta del pm di misure cautelari; attraverso il copia incolla diventa ordinanza di custodia cautelare, attraverso il copia e incolla diventa ordinanza del Riesame e attraverso il copia e incolla diventa sentenza del giudizio abbreviato. Con il tempo i giudici hanno affinato le loro tecniche di copia e incolla: adesso sono meno sfacciati. Copiano, sostenendo che la loro è una citazione della richiesta del pm e che inseriscono per brevità, e poi aggiungono quella che definiscono autonoma valutazione, che è un riassuntino banale e ripetitivo di quello che è scritto nella parte finale della richiesta del requirente. Questa è la normalità e la Corte di Cassazione la consente. Esiste una sentenza scandalosa di Piazza Cavour la quale sostiene che quando il giudice non accoglie anche solo una parte della richiesta del pm ciò è la dimostrazione dell’autonoma valutazione. Molti anni fa c’era un giudice che questa cosa l’aveva già scoperta e che copiava e incollava richieste nei confronti di trenta o quaranta persone, tralasciando solo quella relativa ad un reato minore. La promiscuità tra giudice e pm si evince anche dall’impossibilità di effettuare una vera cross-examination da parte della difesa? Credo che in Italia pm, giudici e avvocati non sappiano cosa sia la cross examination e non l’abbiano mai imparata a farla. Purtroppo è un dato molto diffuso. Per cui si assiste a questo intervento prevaricatore del giudice non solo nei confronti degli avvocati ma anche verso i pubblici ministeri. Detto questo però è quasi costante l’impressione che ha l’avvocato durante un processo di trovarsi non dinanzi ad un arbitrio ma ad una articolazione dell’accusa. Questo è gravissimo. Dato il contesto politico, è pensabile che venga approvata la separazione delle carriere, come annunciato prima da Sisto all’assemblea delle Camere Penali e poi da Nordio a Rai 3? Non è semplice attuare la separazione delle carriere sia per ragioni squisitamente tecnico-giuridiche sia per ragioni di maggioranza parlamentare. Resta comunque un passo assolutamente indispensabile, tuttavia non basta certo la separazione delle carriere a correggere le distorsioni del processo. Occorre una rivoluzione culturale soprattutto da parte della magistratura che passi attraverso anche in una correzione del tiro da parte della Corte di Cassazione che in questi anni ha elaborato una giurisprudenza a volte anche modificativa del dato normativo, costantemente ispirata alle esigenze dell’accusa, sacrificando le attività difensive. Si tratta di un percorso lungo, quindi sarebbe meglio accelerare sulla separazione delle carriere. Pene sostitutive, motivazione adeguata anche per il diniego Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2023 Con la riforma Cartabia le sanzioni sostitutive, già applicate, continuano ad essere disciplinate dalle disposizioni previgenti. Tuttavia, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella semilibertà sostitutiva. Il giudice di appello, investito della richiesta di conversione della pena detentiva breve in quella sostitutiva della libertà controllata, è tenuto a fornire congrua ed adeguata motivazione della sua scelta, anche dunque dell’eventuale diniego. Per queste ragioni la Corte di cassazione, sentenza n. 17037 depositata oggi, ha accolto con rinvio il ricorso di un uomo condannato ad un anno di reclusione per il reato di “porto senza giustificato motivo di un coltellino multiuso”. Tuttavia, precisa la Prima sezione penale, la Corte territoriale nella valutazione dell’istanza di conversione della pena detentiva nella libertà controllata, dovrà tener conto che nelle more è intervenuta la riforma Cartabia. Il Dlgs 10 ottobre 2022 n. 150, infatti, nel riformare la materia delle pene sostitutive, ha eliminato la libertà controllata ed ha inserito la nuova misura del lavoro di pubblica utilità. Secondo le disposizioni transitorie contenute nell’articolo 95, “le norme previste dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del presente decreto” (comma 1). Quanto alle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, già applicate o in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del decreto, esse “continuano ad essere disciplinate dalle disposizioni previgenti. Tuttavia, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella semilibertà sostitutiva” (comma 2). Né, per sopperire alla carenza della motivazione, prosegue la Corte, può valorizzarsi “la parte motiva dedicata all’esclusione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto perché contiene considerazioni non sovrapponibili a quelle richieste in tema di applicazione delle pene sostitutive”. In quest’ultimo ambito, infatti, si deve, infatti, tenere conto, oltre che dei criteri indicati nell’articolo 133 cod. pen., quindi delle modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e della personalità del condannato, anche dell’esigenza di “rieducazione del condannato” e di quella di “assicurare la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati” (così come prescritto dall’articolo 58, comma 1, l. n. 689 del 1981). La sentenza è stata dunque annullata “limitatamente alla conversione della pena detentiva nella libertà controllata” con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Messina. È invece divenuta irrevocabile, ai sensi dell’articolo 624 cod. proc. pen., l’affermazione di penale responsabilità del ricorrente. Emilia Romagna. Scuola, formazione, sport: le foto di Francesco Cocco per raccontare il carcere cronacabianca.eu, 25 aprile 2023 Un progetto del garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri con l’agenzia Contrasto per descrivere i luoghi della detenzione dove si svolgono le attività scolastiche, formative, sportive e ricreative. Migliaia di scatti di tutti gli spazi detentivi dedicati al trattamento dei detenuti presenti negli istituti penitenziari emiliano-romagnoli, compreso quello minorile del Pratello. È un progetto del garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, con il coinvolgimento del fotografo dell’agenzia Contrasto, Francesco Cocco. Si tratta della catalogazione di tutte quelle aree riservate ai percorsi trattamentali, quindi scolastiche, formative, sportive e ricreative. Scatti degli spazi fisici senza che compaiano i volti delle persone recluse. Il fotografo Francesco Cocco è specializzato nella realizzazione di reportage e lavori di immagine nei contesti delle marginalità sociali. Dal 2003 fotografo dell’agenzia Contrasto ha lavorato per Médecins sans frontières, Action aid, Osservatorio Aids/Aidos. Autore del libro Prisons, reportage sociale sulle carceri in Italia, nella nostra regione si è occupato della vita dei migranti nei centri di accoglienza straordinaria gestiti dalla cooperativa sociale Dimora d’Abramo nella provincia di Reggio Emilia e, tra il 2020 e 2021 ha documentato, negli ospedali (anche nelle terapie intensive), la pandemia legata al covid. “L’idea è nata all’interno delle azioni che, come garante, conduco per promuovere la conoscenza e il rispetto dei diritti delle persone limitate della loro libertà, soggette a un provvedimento di un giudice”, spiega il garante Roberto Cavalieri, che poi rimarca come “in questo modo tutti avranno modo di vedere cosa sono le nostre carceri e, speriamo, stupirsi per i tanti spazi dedicati, ad esempio, a scuola, formazione, lavoro e sport, e in questo modo, è il mio auspicio, collaborare con le direzioni degli istituti nella realizzazione di questi progetti, per incentivare gli scambi fra il dentro e il fuori”. Il lavoro è condotto anche con il supporto della commissione regionale per le Parità e i diritti delle persone, presieduta da Federico Amico: “Trasparenza è una parola importantissima nella vita pubblica che nelle carceri diventa un obiettivo da confermare ogni giorno. La scelta di un racconto per immagini degli spazi carcerari regionali va certamente in questa direzione, ma vedo anche un lavoro utile per far emergere le complessità e le possibilità di miglioramento della vita negli istituti di reclusione, al di là delle semplificazioni e delle stigmatizzazioni”. Nell”iniziativa è poi coinvolto direttamente anche il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche, guidato da Gloria Manzelli. Sarà, infatti, lo stesso provveditorato a occuparsi delle parti scritte del catalogo, una descrizione accurata dell’offerta trattamentale destinata ai detenuti, con al centro i luoghi fisici in cui questi progetti prendono vita. Il catalogo verrà presentato a giugno a Reggio Emilia in un convegno dedicato. Oristano. Caso Dal Corso, i nuovi “buchi” sul suicidio: “Tre orari diversi e detenuti subito trasferiti” di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2023 Possibili testimoni oculari subito trasferiti e forti incongruenze negli orari forniti dai dipendenti del carcere. Emergono nuovi dettagli attorno alla morte di Stefano Dal Corso, il 42enne romano trovato senza vita il 12 ottobre 2022 in una cella del carcere di Oristano. La Procura sarda non ha mai disposto l’autopsia sul corpo del giovane, ritenendo sufficiente l’esame esterno della salma - effettuato del “medico di base” della casa circondariale - che ha stabilito il suicidio. La famiglia Dal Corso però non crede che Stefano si sia tolto la vita, si oppone alla richiesta di archiviazione dell’indagine sul decesso e chiede con forza la riapertura del caso e l’esame autoptico sulla salma. E per farlo ha anche ottenuto il supporto pubblico della senatrice di Verdi-Si, Ilaria Cucchi. Dall’istanza di opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocata Armida Decina, che Il Fatto ha potuto visionare, emergono nuovi punti definiti “critici”. Intanto i possibili testimoni oculari. La psicologa del carcere, sentita dai pm il 22 febbraio, ha riferito che “almeno due detenuti comuni - si legge negli atti - sono stati spostati nel corso della mattinata e che (…) la cella di fronte a quella” di Dal Corso, al suo arrivo, “era vuota”. Dagli atti risulta che nessuno dei due detenuti è stato interrogato nell’immediatezza dei fatti: il primo, C.C., è stato sentito solo dopo la sua scarcerazione, il 24 febbraio, e ha potuto solo riferire che Stefano “nell’arco della mattina chiedeva di avere un colloquio, non ho capito bene con chi”. Il secondo, G.C., dal giorno della morte del 43enne - notano gli avvocati - è stato trasferito a Cagliari e non è mai stato interrogato. I legali della famiglia Del Corso chiedono che vengano sentiti entrambi. Nell’atto di opposizione, inoltre, sono state messe in rilievo possibili incongruenze sull’ora del rinvenimento del cadavere. Sono riportate, ad esempio, le parole a verbale del capo del carcere, Andrea Garau, secondo cui “l’ultima volta che ho visto vivo Stefano erano le ore 14:40 circa, lo ricordo con precisione perché sono transitato davanti alla sua cella”; per la dottoressa del reparto di Infermeria, invece, “alle ore 14:40 ho guardato l’orologio all’inizio della manovra di rianimazione”; la psicologa del carcere, infine, rispondendo ai pm circa l’orario della morte, dice che “erano certamente le ore 14:00 passate”. Elementi da cui, per gli avvocati, “non emerge alcuna coerenza” e dunque si necessitano nuovi e “più accurati” approfondimenti. Roma. La povertà e la marginalità che non vive solo in carcere di Domenico Alessandro De Rossi Il Dubbio, 25 aprile 2023 Purtroppo dopo i tanti Tavoli tecnici, Commissioni e i paludati convegni, spesso destinati alla auto rappresentazione (di chi li organizza), il problema delle carceri, del sovraffollamento e della sofferenza del suo “contenuto umano” è rimasto inalterato e colpevolmente non risolto: la gente in carcere ancora soffre e si ammazza. La realtà dimostra che nonostante le (apparenti) buone intenzioni e la riproposizione di stantie formulazioni tecniche, nulla è migliorato circa la grave situazione delle carceri. Alla presidente Meloni e al ministro Nordio le Loro determinazioni. In mezzo a queste situazioni che oscillano tra opachi consensi burocratici e decisioni tecniche campate in aria, permane la drammatica verità di uno sconosciuto mondo (non solo a Roma) che appare e scompare dentro il carcere senza lasciare traccia di sé: una realtà fatta di marginalità umana, di persone senza volto né storia, di povertà durissima, di malattia e sofferenza. L’ennesimo luogo “altro”, ipocritamente rimosso dalla coscienza del quotidiano, simile ma più strutturato rispetto ad altri luoghi più casuali che vedono dormire persone dentro scatole di cartone ai margini dei marciapiedi, o intere famiglie che vivono dentro vecchie automobili. Una verità spostata che non risolve l’estrema povertà di una situazione umana anche nelle carceri, fatta da coloro che nulla hanno perché nulla posseggono. Una realtà vissuta da chi si aggrappa alla dipendenza di sostanze per sopravvivere sprecando e accorciando il tempo della propria unica vita. O l’altro peggiore e non meno drammatico pianeta abitato da chi che ha perduto anche la mente passando nel ruolo ufficiale di malato psichiatrico. Tutta questa umanità che mescola lingue, culture, origini e provenienze diverse si ritrova gettata nel carcere trasformato in un orribile destino di una enorme scatola di “rifiutati”. Non tutto è abbandonato alla povertà e al degrado. A Trastevere, il San Gallicano è uno degli ospedali storici nel centro storico di Roma che fu commissionato nella prima metà del ‘700 all’architetto Raguzzini il quale, riuscendo a coniugare esigenze funzionali e formali, realizzò all’epoca una struttura riconosciuta come una vera avanguardia architettonica. Attualmente è la sede della Comunità di S. Egidio e, dal 2007, del prestigioso Inmp, l’Istituto Nazionale Migrazione e Povertà. Questo ente del Servizio sanitario nazionale risulta poco noto, forse perché assistendo meritoriamente quella parte della “deriva umana” resta scomodo a chi preferisce cancellare la memoria, preferendo meglio distinguersi tramite altre auto rappresentazioni più fortunate perché più visibili. La mission dell’Istituto è la promozione della salute dei migranti che si pone a contrasto delle tipiche malattie della povertà, fronteggiando in silenzio le sfide socio-sanitarie poste dalle popolazioni più vulnerabili: tra queste - meritoriamente - coloro che vivono nelle comunità separate e nelle carceri. L’obiettivo è semplice: cura di tutte le persone, italiani e migranti che si trovano in una condizione di grave disagio economico e sociale, quelli che incontrano maggiori difficoltà nell’accesso all’assistenza proprio perché poveri o isolati. Questi enti dello Stato che rappresentano quanto di meglio è presente nella pubblica Amministrazione nel sostegno e nella salute, dovrebbero essere i più ascoltati e promossi nella scala dei valori pubblici. Forse meno passerelle accademiche e più umanità, scienza ed efficienza starebbe meglio al posto dei vari talk show. Udine. Caro Sindaco, cominci dal carcere di Franco Corleone Messaggero Veneto, 25 aprile 2023 Caro De Toni, l’inizio di una avventura come quella di Sindaco di una città, in particolare di Udine che ha la responsabilità culturale del Friuli, regione di confine e di confini, rappresenta una sfida esaltante. Le propongo un approccio inedito, di partire cioè dal carcere, per comprendere le contraddizioni sociali di una comunità che ha bisogno di coltivare relazioni fondate sul senso di umanità, sull’inclusione e non sulla cattiveria. Le ho proposto di visitare insieme la struttura di Via Spalato all’inizio del suo mandato, per dare un segno concreto di attenzione ai diritti e ai diritti degli ultimi, tenendo insieme la lezione di Loris Fortuna e di padre Davide Maria Turoldo. Il carcere è davvero un caleidoscopio che fa vedere plasticamente i frutti dell’emarginazione e dell’immigrazione, la povertà e il disturbo mentale, l’ignoranza e la violenza. Eppure da questo crogiuolo emerge anche la voglia di riscatto e la responsabilità delle istituzioni è decisiva per dare una sponda a chi vuole reinserirsi nel consorzio civile. Si renderà conto delle conseguenze del welfare mancato, e di come ritessere la tela strappata sia un dovere civico. Ci sono detenuti senza documenti di identità e senza residenza, per questo chiedo che sia previsto per un giorno la settimana uno sportello anagrafe per garantire cittadinanza piena a tutti. Molti detenuti non riescono a utilizzare le possibilità di misure alternative alla detenzione perché non hanno casa e lavoro, eppure vi sono risorse della Cassa Ammende per dare risposte adeguate e la Caritas è fortemente impegnata su questo progetto; il Comune può essere il motore di un esperimento positivo utilizzando la rete del volontariato e del Terzo settore che sono protagonisti di un Tavolo permanente di confronto. La cultura deve entrare in carcere attraverso il rafforzamento della convenzione con la Biblioteca del Comune e con attività che leghino il dentro e il fuori. La previsione dei lavori di pubblica utilità può rappresentare una possibilità di professionalizzazione e anche in questo caso il Comune può assumere un ruolo di promozione. All’inizio della visita si accorgerà della presenza imbarazzate dei cassonetti della raccolta dei rifiuti e comprenderà la mia richiesta di realizzare una isola ecologica e un progetto di raccolta differenziata con il lavoro dei detenuti. Piccole cose? Forse, ma la qualità della vita in carcere passa anche da questioni elementari. Le ricordo che il Sindaco è l’autorità sanitaria del Comune e firma i TSO (trattamenti sanitari obbligatori) che richiedono attenzione somma e che per il carcere deve vigilare e garantire le condizioni igienico sanitarie adeguate. Troverà il carcere di Via Spalato immerso in un cantiere, perché sono iniziati i lavori di una significativa ristrutturazione che assicurerà maggiore vivibilità per i detenuti semiliberi, una qualità allargata per i colloqui con le famiglie e la costruzione di un Polo culturale, formativo e di laboratori. Infine avremo un teatro di cento posti aperto alla città. L’impegno di tante e tanti, è di fare del carcere di Udine un modello di convivenza per abbattere la recidiva. Maurizio Battistutta, primo garante dei detenuti del comune di Udine, sognava un meleto in Via Spalato come sogno di vita: il 14 aprile con Roberta Casco, presidente di Icaro, abbiamo piantato quattro meli sperando in tanti frutti di libertà. Il giorno dopo nel Salone Ajace si è svolto un appassionato incontro per la terza edizione del Premio letterario dedicato a Battistutta. Abbiamo avuto conferma, dall’ascolto delle poesie e dei racconti, dalla visione di opere grafiche dei detenuti di tutta Italia, che l’arte e la bellezza possono salvare il carcere e dare speranza alle donne recluse e agli uomini prigionieri. Salerno. Concluse le attività di formazione e orientamento al lavoro dei detenuti Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2023 Si sono concluse le attività dello Sportello di Orientamento e Formazione per Utenze Speciali. Sei mesi coinvolgenti e intensi di azioni formative, laboratoriali, di orientamento e accompagnamento lavoro dei detenuti per la definizione e la redazione di piani di impresa finalizzati all’inserimento nella vita sociale ed economica attraverso l’avvio di nuove attività innovative e competitive. Sono 15 i detenuti promotori delle nuove attività raccolte in un “book” che reca in prima pagina il brand SOFU creato da loro e all’interno riporta la descrizione dei seguenti progetti: Pregiorfer a titolarità di Giovanni, Geo Scavi di Giuseppe, Bar Freedom di Moreno e Rachid, Il Bivio di Fabio, TatooArtist & Affini di Antonio, Edil Pietro di Pietro, Le Nostre Terre di Salvatore, Il Campanile di Francesco, Irno Car di Alfonso, Amarante Gelati & Frullati di Nicola, Carbone Abbigliamento Uomo & Donna di Gerardo, L & M di Alessandro e Giovanni e Centro Ginnico di Gabriele delle Sezioni 1A, 2A, 3A e 3B del penitenziario salernitano. I titolari delle nuove idee di impresa sono stati formati e affiancati da un team multidisciplinare costituito dall’Avvocato Angela Quagliano, dall’Assistente Sociale Maria D’Amato e da Vincenzo Quagliano della QS & Partners coach esperto in materia di creazione di impresa. L’attività rientra nel progetto S.O.F.U. finanziato dalla Regione Campania e a titolarità della E.T.S. Socrates di Sala Consilina in partenariato con la Cooperativa Sociale Fili d’Erba, l’Associazione Quartieri Ogliara, la collaborazione della Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Salerno diretta dalla Dott.ssa Rita Romano e con il supporto organizzativo della referente dell’area giuridico pedagogica del Penitenziario Monica Innamorato. La prima edizione del progetto S.O.F.U. è nata con l’obiettivo strategico di dotare la provincia di Salerno di servizi innovativi di inclusione socio economica rivolti agli autori di reato avvalendosi della preziosa collaborazione istituzionale del garante dei detenuti Dott. Samuele Ciambriello. Il team di progetto ha già pianificato ulteriori iniziative orientate alle utenze speciali coinvolgendo altri enti del Terzo Settore ed Istituzioni locali nell’ambito del progetto Adolescenza & Sbarre teso a rigenerare spazi destinati ai detenuti e ampliando la gamma dei servizi e la tipologia dei laboratori. Napoli. Sting e la chitarra fatta con il legno dei barconi: “Canto per i detenuti” di Conchita Sannino La Repubblica, 25 aprile 2023 Il musicista da oggi a Napoli per onorare una vecchia promessa che lo porterà nel carcere di Secondigliano. Una star, un carcere e una chitarra speciale. Che da legno consunto si fa strumento di pace. Il divo Sting, 17 Grammy e cento milioni di dischi venduti da irresistibile golden boy del rock (a dispetto delle 72 primavere), arriva oggi a Napoli per un dono e una promessa che lo porterà - nelle prossime ore, con agenda rigorosamente riservata - a suonare per una causa sociale fin dentro il penitenziario di Secondigliano. Ma senza pubblico né concerto: niente febbre da evento, no lucro, no showbiz. Il dono è lo strumento musicale che gli verrà offerto appena atterrerà sul golfo. Dopo i violini, quella chitarra è la prima ad essere fatta col fasciame dei barconi di Lampedusa, plasmata dalle mani delle persone detenute a Secondigliano con i maestri liutai, grazie a un progetto che si chiama Metamorfosi, nato in Casa dello Spirito e delle Arti e da un’idea di Arnoldo Mosca Mondadori che ha incrociato il dinamismo culturale del Rione Sanità. La promessa è quella che l’ex leader dei Police, complice sua moglie Trudie Styler, ha fatto una sera, a cena, a padre Antonio Loffredo. L’ex parroco della Basilica gli raccontò delle iniziative in comune tra la Fondazione San Gennaro e gli amici milanesi. La formazione per chi sta in carcere. Il laboratorio sul legno. Poi i rosari, le ostie, con la collaborazione della Chiesa di Napoli. “Da quelle barche nascono strumenti? Funzionano? Va bene, li suono”, si impegnò mr Gordon Sumner, cavaliere della fu Regina, a costo zero euro. Ed eccolo. Domani giorno di prove, poi varcherà quei cancelli: tutto finisce in un video. Un inno alla non violenza - Sting porta in carcere la riscrittura di Fragile, suo celebre pezzo su Ben Linder, inerme civile ucciso dai Contras in Nicaragua. Un inno alla non violenza, qui per chitarra e quattro archi, anche questi ultimi (tre violini e un violoncello) già realizzati a Milano da altre logore imbarcazioni. La sofferenza di chi sta in cella e quella di chi naufraga nel Mediterraneo. Ma le barche della morte ora celebrano la vita, la poesia. “Sono grato a padre Antonio per averci fatto conoscere l’opera e il team di Arnoldo Mosca Mondadori - spiega Sting a Repubblica - Credo che gli strumenti creati dalla Fondazione siano una meravigliosa trasformazione del dolore di tanti, rappresentano la bellezza e la dignità insita in tutti gli esseri umani”. Esecuzione intimista che girerà il mondo: perché a firmare il video in carcere c’è l’inossidabile Trudie, di casa dopo i 22 mesi in cui ha girato il film-documentario, Posso entrare? An ode to Naples, durante i quali ha incontrato dall’ultimo protagonista delle Quattro Giornate di Napoli ai giovani delle coop culturali. Con la regista, anche oggi l’inseparabile Lorenza, produzione Mad Entertainment (Nostalgia, Gatta Cenerentola), l’altro supporto su cui può contare Sting per la sua immersione tra i detenuti. Musica dentro, non fuori. Un’altra possibilità - D’altro canto Metamorfosi, che è frutto della collaborazione col Viminale e col Dap, nasce per chi chiede un’altra possibilità: ha già ricevuto la benedizione di Papa Francesco, il riconoscimento del Presidente Mattarella. E Trudie, che con il marito ha sempre lanciato campagne e tour per sociale e sostenibilità, ha già scelto le location in mezzo al mare per un racconto che parla di rinascita e speranza. “Sono felice di tornare a Napoli - spiega Styler - città che ho imparato ad amare così profondamente negli ultimi due anni, per far luce su questo meraviglioso progetto”. Mosca Mondadori è maestro di sottrazione: “Devo un grazie di cuore a Sting e a sua moglie Trudie: con loro, attraverso Metamorfosi, cerchiamo di dare voce a chi oggi è scartato dalla società a causa di quella che Papa Francesco chiama la cultura dell’indifferenza”. Arnoldo è laico, Antonio un religioso: due fratelli al lavoro. “Resto sempre incantato ogni volta che gli artisti sposano le “fragilità” - ragiona Loffredo - Forse perché l’arte consente di dire senza ridondanze. E perché gli artisti possono inviare messaggi chiari, potenti senza doversi giustificare, semplicemente attraverso le vie della folgorazione, le vie senza tempo. Al Rione Sanità, nel frattempo, continuiamo a costruire connessioni e, qualche volta, ci capita pure di innescare circuiti virtuosi, come è accaduto con Trudie, Arnoldo e Sting”. Questa nostra Costituzione, strumento di progresso e trasformazione di Donatella Stasio La Stampa, 25 aprile 2023 I principi fondamentali affondano le radici nella cultura antifascista e vanno difesi e tenuti vivi. Lo spirito della Resistenza, sosteneva Calamandrei, è stato tradotto in formule giuridiche. All’inizio del 1956 Piero Calamandrei comincia a collaborare come editorialista con La Stampa e nel mese di settembre, prima della sua morte improvvisa, anticipa al quotidiano l’invio di un pezzo intitolato Questa nostra Repubblica, che purtroppo, non riuscirà a concludere. Nel 1995, quel titolo diventa Questa nostra Costituzione per mano di Alessandro Galante Garrone, che con l’editore Bompiani ripubblica un famoso saggio di Calamandrei sulle origini antifasciste della Costituzione e sulle ragioni, politiche e storiche, che ne hanno ritardato l’attuazione. Questa nostra Costituzione è un titolo “tipicamente calamandreiano”, spiegava Galante Garrone, nel quale “sembra di sentir vibrare il sentimento di nostalgico affetto e insieme di pugnace volontà di difesa della Costituzione contro certe animosità o grossolane dimenticanze”. In questo senso è un titolo di grande attualità e lo vogliamo rilanciare oggi perché ci parla di un senso di appartenenza a una comunità di valori - rispetto della persona, dignità, solidarietà, non discriminazione, pluralismo - che nell’antifascismo affonda le sue radici - storiche, ideali, culturali -, che di quei valori si nutre ma che, per difenderli e vivificarli, ha bisogno di memoria, di impegno, di cura. Avvocato, liberale e poi fondatore del Partito d’azione, padre costituente, Calamandrei ha sempre messo al centro del suo impegno politico la difesa della Costituzione e dell’eredità della Resistenza, che tra il 1948 e il 1955 vedeva minacciate da un processo di involuzione, rappresentato dalla mancata attuazione del dettato costituzionale e dal permanere della legislazione fascista, che imputava alla maggioranza politica dell’epoca, arrivando a dire che “di fronte alla Costituzione, i conservatori sono i veri sovversivi”. Non c’è bisogno di scomodare simbologie fasciste per cogliere dietro il dilagante “disfattismo costituzionale e il processo alla Resistenza” - due facce della stessa medaglia poiché “la Costituzione è lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche” - una caduta della coscienza civile, l’insensibilità democratica della classe dirigente e il desiderio di ritorno all’autoritarismo fascista. Parole che ancora una volta ci riportano all’oggi, alla cultura della destra “conservatrice” impegnata a minimizzare, negare, cancellare dalla coscienza civile momenti, valori, parole fondanti di “questa nostra Costituzione”. L’antifascismo non è un residuato bellico, sepolto insieme al fascismo, suo antagonista storico. “Il 25 aprile - spiegava Pietro Scoppola - è un punto di arrivo, come conclusione della guerra civile e liberazione del paese, ma è anche un punto di partenza per la ricostruzione democratica. In questo senso, l’antifascismo rimane come fondamento irrinunciabile della nostra Costituzione”. Lo vediamo declinato nell’affermazione dei valori della persona umana, della libertà e della solidarietà, valori che il fascismo aveva negato e calpestato. La Resistenza, ricordava Calamandrei, è stata “la riscoperta della dignità dell’uomo come persona e la sua rivendicazione ne rappresentava il momento più alto: rivendicazione della libertà dell’uomo, persona e non cosa”. “Persona umana”, come ha detto, di recente, il presidente della Repubblica nel suo discorso ad Auschwitz sulle corresponsabilità del fascismo negli orrori del nazismo e sul dovere della memoria, perché “odio, pregiudizio, razzismo, estremismo, antisemitismo, indifferenza, delirio, volontà di potere sono in agguato, sfidando in permanenza la coscienza delle persone e dei popoli”. Non c’è bisogno di marce su Roma o di analoghe simbologie per temere, e respingere con forza, ogni rigurgito di cultura fascista, che piega disinvoltamente i valori della nostra Costituzione; nega i diritti di minoranze e persone vulnerabili; impone visioni ideologiche, senza bilanciamenti; ostenta pregiudizi antisemiti; coltiva idee securitarie; mette a rischio cardini dello stato di diritto come l’indipendenza dei giudici. La Costituzione è nostra nella misura in cui tutti ci riconosciamo nella sua cultura antifascista senza timidezze, ipocrisie, furbizie. Nel 1947 Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente, firma la Costituzione vicino al presidente della Repubblica Enrico De Nicola Indimenticabili le parole con cui Calamandrei incitava le giovani generazioni a esercitare la memoria per trasformare la Costituzione in realtà politica: “Se volete sapere dove è nata la Costituzione andate in pellegrinaggio col pensiero riconoscente in tutti i luoghi, di lotta e di dolore, dove i fratelli sono caduti per restituire a tutti i cittadini italiani dignità e libertà. Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri dove furono torturati, nei campi di concentramento dove furono impiccati, nei deserti o nelle steppe dove caddero combattendo, ovunque un italiano ha sofferto e versato il suo sangue per colpa del fascismo, lì è nata la nostra Costituzione”. Non c’è retorica in queste parole, come talvolta si dice, ma autentica passione costituzionale che chiama ad un impegno attivo. Nel 1956 qualcosa comincia a cambiare nell’immobilismo costituzionale. Il primo, decisivo, passo è la nascita in carne ed ossa della Corte costituzionale, la prima dell’Occidente. Su La Stampa Calamandrei scrive: “Soltanto ora si comincia a sentire che la Costituzione non crollerà”. Le sue aspettative sono alte. Alla Corte chiede di cancellare anzitutto le leggi fasciste rimaste in piedi per dieci anni, a cominciare dal famigerato articolo 113 del Testo unico di Pubblica sicurezza, che vietava di far circolare, senza autorizzazione, scritti o disegni, in palese violazione della libertà di manifestazione del pensiero sancita dalla nostra Costituzione. Nella prima udienza della Corte, Calamandrei sosterrà l’incostituzionalità della norma fascista, mentre la presidenza del Consiglio la difenderà. Il 13 giugno, ecco la sentenza, la numero 1. La prima di una lunga serie di decisioni che hanno cambiato la vita di tutti noi e la qualità della nostra democrazia. La Corte dà ragione a Calamandrei e asfalta, di fatto, la legislazione fascista. Il 16 giugno, La Stampa apre il giornale con un fondo intitolato La Costituzione si è mossa. È pieno di speranza per il futuro.”Oggi la Corte ha fatto saltare solo la prima pietra, ma altre ne seguiranno. Si può dire senza enfasi che da questa sentenza comincia una nuova storia”, scrive Calamandrei. Grazie alla Corte i cittadini possono finalmente cominciare ad affezionarsi alla loro Costituzione, sentirla viva, accorgersi che ogni suo articolo non è una formula teorica, ma può diventare senza scosse la realtà di domani; possono rendersi conto dei vantaggi di un regime veramente democratico, che offre al popolo lo strumento legalitario per rinnovare gradualmente la società senza sovvertirla e senza rinunciare alla libertà. Come la Corte Suprema degli Stati Uniti, anche la nostra Corte “sarà uno strumento di progresso e di trasformazione sociale secondo il programma della Costituzione”. Calamandrei ne è certo. E aggiunge: quella sentenza è anche la rappresentazione plastica dei limiti dei governi e della funzione contromaggioritaria di ogni Corte costituzionale; dimostra che “in un regime di Costituzione rigida e programmatica, né il Governo né lo stesso Parlamento sono onnipotenti”. Non a caso l’attacco alle alte Corti è tipico di governi, “democraticamente” eletti, artefici delle regressioni democratiche in atto nel mondo (Polonia, Ungheria, Israele ecc). L’articolo si chiude così: “Sulle tombe dei morti della Resistenza, questa sentenza, nella sua semplice austerità, è più significativa e più commovente di una corona di fiori”. Aveva ragione. Quella sentenza ci ha liberato dalla legislazione fascista ma ha aperto una strada su cui tutti, istituzioni e cittadini, avremmo dovuto muoverci per costruire una compiuta democrazia costituzionale. Forse non lo abbiamo fatto abbastanza e allora ecco il senso del 25 aprile: rimetterci in cammino, possibilmente insieme, per dare attuazione alla nostra Costituzione e corpo alla sua cultura antifascista. Parabole carcerarie per ideologie autoritarie di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 25 aprile 2023 A più di novant’anni dall’entrata in vigore del codice Rocco, permeato di sotto-cultura fascista, nei tribunali si applicano ancora quelle norme. “Coi grandi occhi trasparenti neri, per vedere nell’ombra, stai sotto la lampada e senti il tempo vuoto che ti ingombra”. È questo l’inizio di una poesia di Carlo Levi, medico, pittore, scrittore arrestato a Torino nel 1934. Al confino a Gagliano scrisse Cristo si è formato a Eboli. E al confino di Ventotene Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi, scrisse il Manifesto per un’Europa libera e unita. I fascisti, nonostante la loro smania persecutrice, violenta, vendicatrice, non sono riusciti a togliere la voce, il pensiero critico, la voglia di resistenza a tutti i dissidenti imprigionati. Ed è incredibile che a più di novant’anni dall’entrata in vigore del codice Rocco, permeato di sotto-cultura fascista, ancora nei tribunali si applichino quelle norme. Abbiamo ancora in vita un codice penale scritto da un giurista illiberale, la cui retorica forbita non ha mai inteso occultare l’ideologia autoritaria del tempo. Ricordava Pietro Calamandrei che “nell’inasprire il sistema penale e penitenziario, il ministro era ben d’accordo col suo padrone”. La resistenza al fascismo in carcere non ha perso la capacità di leggere e svelare la crudeltà del sistema repressivo, le ipocrisie della retorica correzionalista, le assurdità della galera. Lo sguardo di figure come Vittorio Foa, Gaetano Salvemini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Adele Bei, Giulio Turchi, Ernesto Lussu, Carlo Levi, Mario Vinciguerra, Riccardo Bauer non è stato compromesso o violato da chi li avrebbe voluti in fila per due e con la faccia rivolta verso il pavimento. “L’uomo in cella, dopo un certo tempo, non è un uomo. Resta il ricordo, sempre più schematico, di quando si era uomini… i giorni in carcere passano molto lentamente, i mesi e gli anni passano velocissimi. La coscienza dei tempi è forse immatura per una riforma nel senso di una abolizione totale delle pene detentive. Nessuna pena detentiva dovrebbe perciò superare i tre, e al massimo i cinque anni” (Vittorio Foa, condannato a 15 anni di carcere ma liberato nell’agosto del ‘43). “Credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale. Naturalmente è possibile migliorare il cibo, rendere più igieniche le celle e le camerate, dare più svaghi e più lavoro, e simili. Ma ciò non altera il dato essenziale, che consiste nel tenere degli uomini in gabbia, nella impossibilità di sviluppare una vita normale, privi quasi completamente di una tutela giuridica. Ma chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia”. (Altiero Spinelli, condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere, ne scontò 10 più 5 di confino). Riflessioni animate da uno spirito critico che non ritroveremo nel dibattito politico dei decenni successivi. Esse sono state raccolte da Pietro Calamandrei nel saggio Bisogna aver visto di cui insieme a Dario Ippolito ho curato la riedizione per Gli Asini. “La galera è galera” e vuol dire che deve essere così, come è sempre stata, con ingiustizie e cimici, tristezza e miseria. E perché “il carcere sia galera”, come dice una vecchia canzone di malavita, non bisogna far nulla che possa renderlo meno duro. Ma l’altro motto è consolatore: “La galera è fatta per i cristiani”… Già la galera è fatta per i cristiani, ma troppe volte questi ci stanno alla maniera delle bestie… Fra quei muri slabbrati e sudici si aggirano il direttore e le guardie e, se sono umani, dicono: “Abbiate pazienza, la galera è fatta per i cristiani”, se si irritano gridano “la galera è galera” ma non possono far niente. Le guardie dormono e mangiano in cameroni che non sono molto meglio e sembrano prigionieri con qualche scarso diritto di libera uscita”. (Giancarlo Pajetta, condannato a 21 anni di carcere, ne ha espiati 12 e mezzo). Un vero e proprio saggio di etnografia penitenziaria che accomuna lucidamente custodi e custoditi. “Il 18 novembre del 1933 venni arrestata a Roma. Dopo 8 mesi di carcere preventivo, il Tribunale speciale fascista con un atto che somigliava più ad una farsa che ad un processo mi condannò a 18 anni di reclusione. I continui interrogatori, le botte, gli strilli, gli insulti che durarono dieci giorni nei sotterranei della Questura di Roma, a nulla valsero; ciò che dissi al momento del mio arresto lo ripetei l’ultimo giorno dell’interrogatorio. A verbale fu trascritto “La sottoscritta non intende dare spiegazioni sul suo operato”. Dopo ciò venni condotta alle Mantellate e chiusa in una cella di segregazione dove rimasi cinque mesi senza notizie della mia famiglia”. (Adele Bei, condannata a 18 anni di carcere, ne ha scontati 7 e mezzo). Una storia di tortura, reato che è stato introdotto nel nostro codice penale nel 2017 e che la destra al governo vorrebbe cancellare. La parola “fascista” e la sua evoluzione di Mauro Palma* Il Manifesto, 25 aprile 2023 In un momento in cui il linguaggio sembra scivolare, slittare sul piano semantico e parole e frasi vengono usate con colpevole sconsideratezza anche a livello istituzionale, è bene interrogare sempre noi stessi sui significati che attribuiamo ai vocaboli. Agli aggettivi, in particolare, perché questi qualificano i termini a cui si riferiscono. Quindi, mi chiedo quale sia la connotazione che implicitamente pongo all’aggettivo “fascista”. Certamente non può essere quella del rinvio a un modello sociale e politico del tempo andato, quasi vedendo il rischio del suo identico riproporsi; ma neppure recidere il legame con esso. Perché l’aggettivo indica qualcosa che di quel modello è la progressiva evoluzione, il suo riconfigurarsi nella contemporaneità sociale, comunicativa, valoriale. Non ne è scisso, arrivando a qualificare un elemento semantico e comportamentale che di quel germe è di fatto nutrito. Oggi quel germe - che rende la preoccupazione che oggi avverto non un inutile retaggio di qualcosa che non c’è più - lo ritrovo nella incapacità di riconoscere, forse perfino di saper leggere, l’appartenenza di ogni persona alla stessa connessione umana. L’incapacità di riconoscere, parafrasando la Arendt dell’analisi del totalitarismo, che la tragedia di cui quell’aggettivo è portatore non risiede nella non volontà di garantire specifici diritti, ma nella perdita della consapevolezza di appartenere ognuno a una stessa comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto per tutti. A monte dei diritti ‘umani’ da garantire c’è il dovere di riconoscere la stessa umanità dei soggetti che si vuole portatori di tali diritti. ‘Fascista’ è quell’atteggiamento - e, quindi, quella persona che lo assume come proprio - di chi pensa che ci sia un altro che non è lui stesso, perché ha una struttura intrinseca di diversità totalizzante e che, nell’ipotesi migliore, debba essere lui a riconoscere come portatore di diritti o forse anche a tutelare; in quella peggiore lo percepisca come aggressore dei suoi diritti. Perché interrogarsi su quest’aggettivo che sembra a me così leggibile? Che ritrovo attualmente in taluni atteggiamenti e anche molte espressioni linguistiche di interlocutori vari, talvolta anche benevoli nel loro dire? Perché la celebrazione della Liberazione non può limitarsi soltanto al doveroso ricordo del superamento del regime e della fine della catastrofe verso cui aveva portato il Paese. No, essa deve includere anche la liberazione da quel sentimento di alterità esclusiva che si era imposto come senso comune nella collettività e che aveva condotto a non riconoscersi più nell’unico ‘corpo’ dell’umanità. Una esclusione che, però, riemerge continuamente e che pone in crisi la capacità attuale di far vivere il senso profondo della liberazione. Perché la giornata odierna chiede ancora che si debba lavorare - molto - perché ci si possa affrancare dalla necessità di definire come fascista qualcosa o qualcuno. Non perché l’aggettivo non serva e non qualifichi, ma perché l’idea di una alterità non appartenente non abiti più la nostra società. Allora avremo sconfitto i fascisti. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale La Russa e Lollobrigida? Le loro non sono gaffe, hanno un progetto di Andrea Pugiotto Il Riformista, 25 aprile 2023 Simili esternazioni sono come tanti carotaggi scavati per saggiare la capacità di reazione o il grado di assuefazione del Paese. Uno spostare sempre più avanti un’ideale linea rossa invalicabile, per trasformare in senso comune pensieri un tempo relegati ai bar di paese. 1. Le inascoltabili e, prima ancora, indicibili dichiarazioni del Presidente del Senato (“la parola antifascismo non c’è nella Costituzione”) e del Ministro della sovranità alimentare (“non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica”) meritano tutto il biasimo ricevuto nei giorni scorsi. Possono, però, rappresentare una (ancorché pessima) occasione per piantare alcuni picchetti attorno alla corretta lettura della Costituzione e all’uso del linguaggio nelle democrazie. A futura memoria, se la memoria ha un futuro in un paese dove diffusa è la propensione a manipolarla. 2. La goffa autodifesa della seconda carica dello Stato, tesa a derubricare la propria affermazione a mero rilievo filologico, non è credibile. Parlamentare e avvocato di lunga esperienza, il Presidente La Russa ha familiarità con l’esegesi dei testi giuridici. Sa bene, dunque, che “l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre” (Corte costituzionale docet: sent. n. 1/2013), lo è ancor più se la si applica alle disposizioni costituzionali. Per loro natura, infatti, le Costituzioni sono uno spartiacque nella storia di un Paese. Separano il “prima” dal “dopo”. Nate da un evento traumatico, introducono principi e strutture a negazione dell’ordinamento precedente. La nostra non fa eccezione: nella sua trama normativa, infatti, descrive (e prescrive) una Repubblica che è il calco rovesciato del fascismo, proprio perché frutto della lotta a quel regime. 3. È l’interpretazione sistematica tra le sue disposizioni, innanzitutto, a rivelarne l’intrinseca matrice antifascista. All’organicismo totalitario del ventennio, che voleva “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, i Costituenti rispondono capovolgendo la piramide: è infatti nel principio personalistico, anti-totalitario per eccellenza, che trovò espressione l’unità antifascista in Assemblea Costituente. L’idea, cioè, che la dignità di ogni persona è anteposta allo Stato, chiamato semmai a riconoscerla e a garantirla. La presa di distanza dal passato è netta, e non si limita alle sole affermazioni di principio. Così è per il tratto costitutivo e identitario del fascismo: il ricorso alla violenza, sistematico e organizzato, per affermare il partito-Stato. La Costituzione riconosce, invece, il massimo di pluralismo politico possibile, ma non è ingenuamente irenica. Impone, infatti, il metodo democratico nella competizione tra partiti (art. 49). Vieta le associazioni segrete e le associazioni paramilitari (art. 18). Ripudia il concetto di ordine pubblico in senso ideologico (clava con cui il fascismo colpì le libertà riconosciute dallo Statuto albertino), declinandolo in un’accezione solo materiale. Il denominatore comune a questa costellazione normativa è la messa al bando dell’uso o anche solo della minaccia della violenza nella lotta politica: perché la democrazia liberale è conflitto senza spargimento di sangue, e la sua Costituzione non tollera gli intolleranti. 4. La comprensione di altre disposizioni costituzionali richiede un diverso criterio di lettura: la c.d. interpretazione storica, che mette a valore l’intentio dei Costituenti. Vale per la XII disp. trans.fi n, a tenore della quale “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (1° comma). L’aggettivo (“disciolto”) guarda al passato, mentre il sintagma (“sotto qualsiasi forma”) guarda al futuro: insieme, certifi cano l’irriducibilità del fascismo alla nuova Costituzione. Guarda, invece, contemporaneamente al passato e al futuro il suo 2° comma, precisando che le conseguenti limitazioni “al diritto di voto e alla eleggibilità” sono circoscritte a un quinquennio e valgono solamente “per i capi responsabili del regime fascista”. Un temporaneo interdetto che, con le amnistie del 1946 e del 1953, compone la strumentazione giuridica con la quale si garantì una transizione pacifica dal vecchio al nuovo regime, in un Paese diffusamente compromesso - ad ogni livello - con il fascismo. In senso giuridico-politico, dunque, la pacificazione c’è già stata allora. Ecco perché i ciclici inviti alla concordia nazionale sono tutti anacronistici. Non siamo più immersi in una guerra civile. Né ci sono torti e ragioni da patteggiare. 5. All’opposto del Presidente La Russa, il ministro Lollobrigida evoca una parola citata in Costituzione: “razza”. Ma dimostra di non capirne l’uso che intesero farne i Costituenti. Dal punto di vista scientifico, infatti, quel lemma è semplicemente sbagliato, perché non esiste una nozione biologica di razza applicabile alla specie umana. Eppure compare nell’art. 3 Cost. (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) per scelta deliberata dell’Assemblea Costituente: non come concetto scientifi co, ma - anche qui - quale memento del passato e ammonimento per il futuro. La nostra storia, infatti, ha conosciuto durante il fascismo il Manifesto della Razza (secondo cui “esistono grandi razze e piccole razze” e che “è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”) con le sue riviste di complemento (La Difesa della razza, La Nobiltà della stirpe, Il Diritto Razzista, Razza e civiltà) e la conseguente legislazione razziale, cioè razzista, del 1938. Ha avuto i suoi alacri campi di concentramento alla Risiera di San Sabba come a Fossoli, Ferramonti di Tarsia, Bolzano, Bagno a Ripoli. Quello italiano va annoverato fra i “regimi fascisti europei che consegnarono propri concittadini ai carnefi ci” nazisti, di cui ha parlato ad Auschwitz, giorni fa, il Capo dello Stato Mattarella. Ecco perché si scrisse quella “parola maledetta” nell’art. 3 Cost., proprio “per negare il concetto che vi è legato, e affermare l’eguaglianza assoluta di tutti i cittadini” (così Meuccio Ruini, in Assemblea Costituente). 6. Come già in Francia e in Germania, anche in Italia non mancano iniziative fi nalizzate alla cancellazione della parola “razza” dal testo costituzionale. Il motivo? La sua permanenza, alimentando la fallace convinzione che diverse razze umane esistano davvero, può rivelarsi un potenziale pretesto per rinnovate visioni razziste. È vero il contrario. Come ci ricorda il linguista Federico Faloppa, quella parola va preservata “proprio perché paradossalmente il senso comune (e il linguaggio attraverso cui questo si trasmette) è ancora intriso del concetto di razza”. In questi casi, agli aggiustamenti nominali della cancel culture è preferibile l’eccedenza simbolica di un divieto perentorio. Come nella più classica eterogenesi dei fi ni, una modifica dell’art. 3 Cost. potrebbe indebolire l’attuale presidio a difesa dell’eguaglianza e contro discriminazioni ispirate a pregiudizi razziali. Ecco perché stordisce che un ministro, evocando l’idea di una sostituzione etnica in atto, non si accorga di avvalorarne la consistenza. Come se il concetto di razza avesse ancora dignità scientifica e corso legale. 7. Detto tutto ciò, resta l’interrogativo di fondo: perché fare (e reiterare, nel caso del Presidente La Russa) esternazioni così irricevibili? Certamente per ignoranza, nel senso proprio di chi ignora ciò di cui pure parla: questa l’autodifesa del ministro Lollobrigida, che a ben vedere ne aggrava - invece di scriminare - la responsabilità. Forse per il proprio portato biografi co, come ipotizza Flavia Perina (La Stampa, 22 aprile): se è così, dovrebbe allora subentrare la competenza di un bravo psicoterapeuta. Nel frattempo, però, meglio sarebbe tacere per non scaricare i propri fantasmi sull’istituzione che si ricopre pro tempore. Probabilmente per attitudine alla menzogna, cui i soggetti investiti di potere spesso cedono pur di acquisire consenso, conseguire un risultato, difendersi da un’accusa. E in politica, difficilmente la menzogna è isolata e solitaria, perché necessita di essere ribadita e condivisa. Il che ne fa un serio problema per le democrazie, che si reggono sul ragionevole affidamento che quanto detto dai responsabili politici corrisponda al vero. Personalmente, propendo per un’ulteriore risposta. Simili esternazioni sono come tanti carotaggi, via via sempre più profondi, scavati per saggiare la capacità di reazione o il grado di assuefazione del Paese. Uno spostare sempre più avanti un’ideale linea rossa invalicabile, mirando a trasformare in senso comune pensieri e parole un tempo relegati ai bar di paese. Non sono gaffe, ma tappe di una strategia consapevole. Sia come sia, enorme è il potere delle parole di chi è al potere. Ha capacità performative e trasformative. È in grado di creare le cose, se veicolato in atti normativi. Nasce da qui l’obbligo per i soggetti delle istituzioni di non usare un linguaggio corrotto. Un obbligo che dovrebbe valere sempre: quando si scrive una legge, si interviene in pubblico, si rilascia un’intervista o si partecipa a un talk show. In democrazia, conta la qualità delle parole che si mettono in circolo: devono essere informate, fondate, precise, a basso tenore emotivo. È, questa, una responsabilità ignorata da troppi, sicuramente trascurata dal Presidente del Senato e dal Ministro. 8. La polemica politico-memoriale attorno alle celebrazioni del 25 aprile, vissuta come festa divisiva e non inclusiva, poggia anche su questa base lessicale lastricata da parole deliberatamente sbagliate e da reticenti e omissivi silenzi. Ci sono però dei colpi di gong con cui la storia richiama tutti - in primis i vertici delle istituzioni - a confrontarsi con i tornanti decisivi della vita collettiva. Come quello che rimbomberà il 10 giugno 2024, a cent’anni esatti dal rapimento politico e della barbara uccisione di Giacomo Matteotti. Quali parole adopereranno i vertici di Palazzo Chigi e di Palazzo Madama? Nel dubbio, segniamoci la data sul calendario. Fermiamo la giostra delle provocazioni di governo di Ascanio Celestini Il Manifesto, 25 aprile 2023 Il governo più nero dal 25 aprile del ‘45 lancia sassi nello stagno. Gasparri vuole il riconoscimento della capacità giuridica del concepito. La ginecologa Anna Pompili dichiara che se l’embrione è una “persona” significa che l’aborto è un omicidio “e le donne e i medici che lo praticano assassini”. Ma Gasparri a questo giro di giostra aggiunge l’idea di una “Giornata del nascituro” e il reato di maternità surrogata. Piantedosi blocca una nave. Nel suo giro di giostra capisce che rischia il processo come Salvini e si inventa una strategia nuova. Giovanni Maria Flick chiarisce che “è ovvio che assegnando porti di sbarco lontanissimi si vuole tenere occupate a lungo le navi umanitarie, impedendo loro di salvare altre vite”. Nel frattempo compare il decreto anti-rave. La giostra riparte e nel prossimo giro bastano 51 persone e il raduno è illegale. Da 3 a 6 anni di galera e una multa fino a 10.000 euro. In Gran Bretagna e in Francia il reato non è punito col carcere. In Germania e Usa sono praticamente considerati legali. In questo giorno così importante mi interessa cercare di capire come la classe al potere sta cambiando le parole. Perché cambiando le parole si finisce per cambiare anche le cose che quelle parole vogliono dire. E quando penso alla classe al potere non intendo solo i post fascisti. Non è un caso che le politiche sui migranti siano andate avanti da Minniti a Piantedosi senza contraddizioni. Riparte la giostra e nell’ordine salgono Meloni, La Russa e Lollobrigida. La prima dice che i martiri delle Fosse Ardeatine furono “massacrati solo perché italiani”. Non è vero. Lo dicono anche i tedeschi che uccisero dei “comunisti badogliani”. L’etichetta “massacrati solo perché italiani” torna comoda per un paragone con un’altra mezza invenzione, quella delle foibe. Anche in quel caso si dice che furono uccisi solo perché italiani dimenticando l’invasione della Jugoslavia e le migliaia di vittime dell’esercito fascista. Poi spunta La Russa. Parla come un comico. Riferendosi all’azione militare di via Rasella, dichiara che i partigiani non colpirono “biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semi-pensionati”. La verità è che erano nazisti addestrati per reprimere la resistenza e avevano un’età media di 38 anni. Ma è vero che cantavano marciando. Alessandro Portelli, che ha scritto un testo importante per comprendere i fatti, ci ricorda che “il canto richiama tutta una mitologia del rapporto fra tedeschi e la musica, che evoca insieme simpatia e terrore”. Mica una banda coi pifferi e le trombe. È roba di pochissimi giorni fa la dichiarazione di Lollobrigida. Al bar sotto casa mia non lo chiamano per nome, né per cognome. Dicono: il cognato della Meloni. “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica… e vabbè gli italiani fanno meno figli li sostituiamo con qualcun altro”. Sta parlando di lavoratori che contribuiscono attivamente alla crescita del paese, pagano servizi di ogni genere comprese le pensioni degli italici anziani. Ma per lui, evidentemente (e si capisce sentendo l’intervento per intero), hanno diritto solo a lavorare e, se possibile, scomparire in un modo o nell’altro per non sostituire l’etnia dello stivale con quella d’oltremare. Ma soprattutto le parole mi fanno paura. “Sostituzione etnica”. Il Cognato ha detto che gli è scappata “per ignoranza”. Dice che non ne conosceva il significato. No. Sono le parole che usano queste persone. Le usano in sezione, al bar, dal barbiere, al pranzo di Natale. Nello stesso bar del Cognato potremmo incontrare di nuovo La Russa che parla di Costituzione dicendo che “non c’è alcun riferimento all’antifascismo” altrimenti sarebbe stato un “regalo al Pci e all’Urss”. L’antifascismo che ha tenuto insieme tutti i partigiani dagli anarchici ai monarchici viene rovesciato con l’anticomunismo che ha portato i fascisti ai vertici dei poteri occulti dai servizi segreti alla P2 passando per le mafie. La Costituzione è antifascista. Possiamo dire la stessa cosa della seconda carica dello Stato? Perché mi fanno paura queste parole? Perché mi viene in mente la teoria dei cerchi concentrici ipotizzata da un collaboratore di Moro, Corrado Guerzoni. “Per cerchi concentrici ognuno sa che cosa deve fare. Non è che l’onorevole X dice ai servizi segreti di recarsi in Piazza Fontana e mettere una bomba. Non accade così. Al livello più alto della stanza dei bottoni si afferma: il Paese va alla deriva, i comunisti finiranno per andare presto al potere. Poi la parola passa a quelli del cerchio successivo e inferiore dove si dice: sono tutti preoccupati, cosa possiamo fare? Si va avanti così fino all’ultimo livello, dove c’è qualcuno che dice “va bene, ho capito”. Poi succede quello che deve succedere. Una strage in una banca, in una stazione, in una piazza, sopra un treno. (…) E se vai a dire all’onorevole X che lui è il mandante della strage di Piazza Fontana, ti risponderà di no. In realtà, è avvenuto questo processo per cerchi concentrici”. Il 25 aprile del 1945 è la liberazione da questo linguaggio, da queste parole sporche che lanciano sassi nello stagno italiano. Questo mi fa paura. Fermiamo la giostra. A forza di lanciare sassi i cerchi si allargano. Impunibilità, FdI lancia la stretta securitaria anche contro gli autori di delitti con problemi psichiatrici di Lisa Di Giuseppe Il Domani, 25 aprile 2023 FdI riprende la vicenda dell’omicidio della psichiatra toscana Barbara Capovani, assalita da un suo ex paziente con disturbi di personalità, per promuovere una proposta di legge che restringe il perimetro dei casi psichiatrici che possono prevedere la non imputabilità davanti al giudice. Attualmente, l’infermità che dà origine all’incapacità di intendere e di volere, viene diagnosticata sia sulla base di psicosi che nei casi di disturbo della personalità, come determinato anche da una sentenza della Cassazione del 2005. FdI auspica di limitare questa possibilità alle psicosi, lasciando così che chi è affetto da disturbi di personalità finisca in carcere, dove difficilmente può essere seguito come meriterebbe. All’indomani della drammatica vicenda dell’omicidio della psichiatra Barbara Capovani per mano di un suo ex paziente, Gianluca Seung, Fratelli d’Italia lancia una proposta di legge che modifichi le condizioni che portano alla valutazione delle condizioni del paziente e della sua capacità di intendere e di volere. Il testo arriva dal vicecapogruppo alla Camera dei meloniani, Alfredo Antoniozzi, che auspica che l’omicida sia condannato all’ergastolo. “Il ragazzo che ha ucciso la psichiatra di Pisa non è folle. È un antisociale, come diagnosticato correttamente dalla stessa professionista, e se accadrà quello che speriamo dovrà avere l’ergastolo” dice il deputato. “Siamo stanchi di psicopatici assassini che poi vanno a intasare le Rems. La nostra proposta di legge di modifica degli articoli 88 e 89 del codice penale che introduce la discriminante psicotica deve essere approvata al più presto”. Il contenuto del testo - Nel merito, la proposta, visionata da Domani ma non ancora consegnata agli archivi di Montecitorio né assegnato a una commissione, che in ogni caso dovrebbe essere la commissione Giustizia, prevede un intervento sulla formulazione degli articoli che normano l’imputabilità. L’intenzione di Fratelli d’Italia è di limitare fortemente i casi in cui sia possibile considerare l’autore di reato non imputabile. Secondo le intenzioni di Antoniozzi, l’espressione “infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”, che oggi può dare origine, in base agli articoli 88 e 89 del codice penale, all’incapacità di intendere e di volere che non permettono l’imputabilità, sarebbe sostituita dall’espressione “in evidente condizione di grave alterazione delle condizioni psichiche, di tipo psicotico, e del comportamento tale da escludere completamente la capacità di intendere e di volere”. La ragione, spiegano dal partito, è l’assetto attuale, che tende, dal punto di vista dei meloniani, a facilitare l’attribuzione della non imputabilità a imputati con problemi psichiatrici. In questo contesto gioca un ruolo rilevante una sentenza della Cassazione, la 9136 del 2005, che ha stabilito che anche i disturbi della personalità, che riguardano deviazioni rispetto alla cultura di appartenenza (ma sono scientificamente parlando cosa diversa rispetto ai disturbi psicotici, che sono provocati dalla compromissione dell’esame della realtà) possono dare origine all’infermità da cui deriva l’incapacità di intendere e di volere a cui fanno riferimento gli articoli 88 e 89. A decidere la diagnosi è il perito nominato dal giudice, terzo rispetto a quelli di accusa e difesa. Secondo Fratelli d’Italia, periti e giudici tendono a essere influenzati dalla sentenza della Cassazione e per tenerla in considerazione decidono spesso per la non imputabilità. Antoniozzi vuole limitare i casi che comportano l’incapacità di intendere e di volere tale da comportare la non imputabilità ai soli disturbi psicotici. Carcere più vicino - Da qui, l’auspicio per Fratelli d’Italia di vedere Seung all’ergastolo in carcere e non in una Rems. La perizia è ancora lontana, ma la dottoressa Capovani aveva diagnosticato a Seung un disturbo antisociale, della personalità. Fratelli d’Italia vuole diminuire l’affollamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, spesso non sufficienti per soddisfare il numero di autori di reato affetti da disturbi mentali che devono scontarvi la loro pena. Chi soffre “soltanto” di disturbi della personalità, insomma, può essere tranquillamente mandato in carcere, dove pure non sempre l’offerta di sostegno psicologico e psichiatrico è all’altezza della richiesta. Su questo aspetto dal partito promettono di chiedere nuovi investimenti al ministero della Giustizia, ma nella proposta di legge di Antoniozzi si interviene soltanto sul codice penale. Un approccio totalmente sbagliato, secondo il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. “Una proposta che riduca il perimetro dei casi da affidare alle Rems è da prendere come una battuta” dice. Anche gli autori di reati con disturbi della personalità hanno bisogno di essere seguiti in realtà specializzate: “Un tema così grave e difficile da affrontare non va affidato a delle improvvisate. Una persona affetta da disturbo di personalità rischia di essere persa totalmente in una realtà come il carcere: ragioniamo piuttosto su come potenziare ulteriormente le Rems, che già funzionano bene”. “Ripensare” la legge Basaglia - Come è avvenuto anche in altri casi durante questi primi mesi di legislatura, la maggioranza propone una stretta securitaria. Un caso simile è stato la proposta di introdurre una nuova fattispecie di reato per punire in maniera più severa le attività degli attivisti di gruppi come Ultima generazione. Da Fratelli d’Italia spiegano anche che l’intento non è di ghettizzare chi ha bisogno di aiuto, ma di concederglielo in carceri normali. Ma anche questo non appare un principio del tutto inscalfibile. Fonti della Lega tirano in ballo addirittura una modifica alla legge Basaglia, quella che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio: “La morte della psichiatra di Pisa, aggredita e uccisa da un suo paziente, rafforza la convinzione che sia necessaria e non più rimandabile una profonda riflessione sulla legge 180. Troppo spesso medici, personale sanitario, famiglie e pazienti sono lasciati soli: serve una norma nuova e aggiornata”. Il fronte comune dei medici: “Violenza emergenza nazionale”. E la Lega vuole rivedere la legge Basaglia di Viola Giannoli La Repubblica, 25 aprile 2023 Il ministro Schillaci: “Più posti di polizia negli ospedali e pene più severe per chi aggredisce il personale sanitario”. E convoca per il 26 un incontro per la riorganizzazione del tavolo sulla psichiatria. Camici bianchi in rivolta: “Risorse insufficienti e leggi realizzate a metà ma in prima linea ci siamo noi”. Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci annuncia “più posti di polizia negli ospedali” e pene severe “per chi aggredisce personale sanitario e sociosanitario” per sedare la rivolta di medici e psichiatri davanti alla morte violenta di Barbara Capovani, la Lega si spinge a chiedere di rivedere la legge Basaglia. Quella norma storica, cioè, che nel 1978 permise all’Italia di chiudere i manicomi e regolamentare il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Secondo fonti del Carroccio, la brutale aggressione alla psichiatra 55enne, uccisa fuori dall’ospedale Santa Chiara di Pisa da un suo paziente con precedenti e deliri paranoidi - Gianluca Paul Seung - “rafforza la convinzione che sia necessaria e non più rimandabile una profonda riflessione sulla legge 180. Troppo spesso medici, personale sanitario, famiglie e pazienti sono lasciati soli: serve una norma nuova e aggiornata”. Dai manicomi alle Rems, la riforma a metà - Quella legge il primo maggio compirà 45 anni. Un punto su cui non si può tornare indietro. Da allora un’altra svolta c’è stata nel 2014 con il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari dopo la denuncia delle loro drammatiche condizioni. Ed è stata la volta delle Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza), nate nel 2015 con l’obiettivo di un’assistenza diffusa e più umana per accogliere le persone con problemi mentali che commettono reati ma su cui pesano difficoltà di risorse e di organici. Oltre a problemi di sicurezza più giuridici che pratici. Per casi come quelli di Seung mancano spesso soluzioni. Su Repubblica Giuseppe Nicolò, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl 5 di Roma all’interno della quale si trovano tre Rems, ha difeso con forza la chiusura dei manicomi, “un atto giusto, un atto di umanizzazione”. E ha denunciato però al tempo stesso che “la legge sulle Rems è stata un fallimento. Siamo in una perenne condizione di pericolo, mentre per soggetti come l’aggressore di Barbara Capovani non esistono strutture adeguate”. Da qui la lettera dei direttori di 130 dipartimenti di salute mentale d’Italia con la quale chiedere alla premier Giorgia Meloni e al ministro della Sanità Schillaci di dare seguito alla sentenza della Consulta del 2022 che invocava una riforma delle Rems per far fronte ai reali fabbisogni dei pazienti, una normativa per proteggere le vittime di potenziali aggressioni e il coinvolgimento del ministero della Giustizia per l’applicazione di misure di sicurezza. Schillaci ha annunciato per dopodomani, mercoledì 26 aprile, “una riunione per la riorganizzazione del tavolo sulla psichiatria” definendo una “violenza inaccettabile” che lascia “attoniti” l’aggressione e la morte della psichiatra e promettendo di voler cercare ogni “strada percorribile a prevenire la violenza e a garantire i massimi livelli di sicurezza per chi si prende cura della salute, fisica e mentale, dei cittadini”. Psichiatri con il lutto al braccio: “Smantellato il sistema della Salute mentale” - Proprio al ministro gli specialisti della Società italiana di psichiatria, che alle 12 hanno osservato un minuto di silenzio per la loro collega e fino al primo maggio porteranno il lutto al braccio, hanno chiesto un incontro urgente perché alla “crescita esponenziale di bisogno di salute mentale si accompagna un progressivo e silenzioso smantellamento di quell’organizzazione, pur imperfetta, che è nata nei due decenni che hanno seguito l’applicazione della Legge 180. Con una perdita importante di risorse umane e il mancato avvicendamento delle nuove leve - è il loro allarme - si assiste a un impoverimento dei servizi pubblici senza precedenti negli ultimi anni, che riduce la capacità di risposta dei dipartimenti di salute mentale, già in seria difficoltà”. La Sip ricorda di aver “più volte invocato la necessità di mezzi adeguati ed evidenziato le criticità del modello attuale di assistenza psichiatrica, maturato in un’epoca e in un tessuto sociale differenti, e che attualmente si trova a gestire nuovi profili di gravità”. Ecco quindi la lista di priorità urgenti: “Percorsi che conferiscano dignità al nostro lavoro e una nuova centralità ai nostri servizi, che si cimentano con questi pazienti su un terreno difficile. Prevenzione degli atti di violenza, per ridurre le condizioni di rischio attraverso protocolli operativi integrati con le forze dell’ordine e il sistema delle emergenze-urgenze. Iniziative di informazione e formazione, e sensibilizzare le aziende sanitarie ad adottare protocolli di sicurezza specifici per ogni situazione di rischio, che sostengano effettivamente gli esercenti le professioni sanitarie”. Per tutto questo servono “risorse” e “una progettazione di ampio respiro, che riguardi l’assetto organizzativo e strutturale della salute mentale e che ne salvaguardi la sicurezza degli operatori”. I medici: “Aggressioni quotidiane non più tollerabili” - Lo stesso allarme che si leva dal coro di medici. Un fronte comune, compatto stavolta, che definisce la violenza contro gli operatori sanitari “una emergenza nazionale”. “Il 55% dei colleghi riferisce di aver subito violenza - dice il presidente Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli - e il 48% pensa sia normale. Il Ministro avvii soluzioni, ivi compreso l’aumento di personale e la presenza di mediatori culturali nei pronto soccorso”. “Facciamo un lavoro a rischio senza tutele né garanzie - aggiungono le due Società scientifiche della Medicina Interna (Fadoi e Simi) insieme alla Società scientifica della Medicina di Emergenza-Urgenza (Simeu) - Siamo esposti ormai quotidianamente, quasi fosse una terrificante normalità, a episodi di violenza e a proteste ingiustificate con un rischio maggiore di essere bersagliati per malasanità piuttosto che protetti dalla giustizia. Una situazione paradossale che ormai tutte le professioni sanitarie denunciano da anni e che non può più essere tollerata”, stigmatizzano. E chiedono “ancora una volta garanzie vere per gli operatori sanitari e una depenalizzazione dell’atto medico”. Così pure Pina Onotri dello Smi, il sindacato dei medici italiani, per la quale “la sicurezza di chi esercita la professione medica e sanitaria è diventata una questione nazionale - aggiunge - drammaticamente attuale e rappresentativa di una grave regressione sociale e culturale del nostro Paese, che si scaglia soprattutto contro le donne medico”. Secondo Onotri, “i Centri di salute mentale sono da molti anni sottofinanziati e sono peggiorate le condizioni lavorative e contrattuali dei dirigenti medici che operano nel settore. Davanti a tragedie come quella di Pisa servono segnali di cambiamento che rilancino la prevenzione, la cura e riabilitazione psichiatrica che operano sul territorio”. Psichiatra uccisa, attacco alla legge Basaglia di Marco Rovelli* Il Manifesto, 25 aprile 2023 Speculazione ideologica di Lega e Fd’I sull’omicidio, a Pisa, della dottoressa Barbara Capovani ad opera di un suo ex paziente. Parla Peppe Dell’Acqua, ex direttore del Dsm di Trieste, nel mirino della Lega. L’omicidio della psichiatra dell’ospedale di Pisa Barbara Capovani ad opera di Gianluca Paul Seung, una persona affetta da un disturbo mentale che era stata in cura presso l’Spdc che lei dirigeva, ha scosso profondamente tutto il settore della salute mentale. Ma la dottoressa era stata appena aggredita che sul suo corpo già si precipitava una speculazione ideologica. La responsabilità è dell’antipsichiatria, scriveva Mario Di Fiorino, direttore del Dipartimento di Salute mentale (Dsm) della Versilia a cui Seung faceva capo, pubblicando sue fotografie insieme a psichiatri democratici (e non certo antipsichiatri) come Peppe Dell’Acqua - storico collaboratore di Basaglia, nonché direttore del Dsm di Trieste per 17 anni, e Vito D’Anza, facendoli apparire come i mandanti; laddove, invece, Seung era intervenuto a convegni aperti a tutti, associazioni di familiari e di utenti dei servizi psichiatrici. Qualche ora dopo, il deputato leghista pisano Ziello invocava la riapertura dei manicomi - come, peraltro, prevede una proposta di legge presentata dalla stessa Lega nella scorsa legislatura, con la consulenza dallo stesso Di Fiorino (adesso candidato con Fratelli d’Italia per le elezioni comunali di Pietrasanta). Più genericamente, ma nello stesso senso, i deputati della Lega dicono che “bisogna aprire una riflessione sulla legge Basaglia”, e che il Paese ha bisogno di “una nuova norma”. Poi c’è chi chiede più posti nelle Rems, ovvero le strutture che hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dopo la loro chiusura. Ma è tutta qui la questione? O forse questa vicenda ci induce a riflettere sul modello organizzativo e culturale della psichiatria oggi in Italia? Non pone al centro, semmai, la necessità del cambiamento di paradigma, da una psichiatria biomedico-burocratica a una psichiatria territoriale? Ne ho parlato con Peppe Dell’Acqua. “Le richieste allarmate di sicurezze e posti letto in realtà coprono un fallimento, quello della rete dei servizi di salute mentale a livello territoriale”, fa notare Dell’Acqua. “Parlare adesso solo di pericolosità sociale e sicurezza - continua - non fa che peggiorare la situazione. Più procede l’impoverimento culturale, organizzativo e di risorse dei Servizi di salute mentale, degli operatori, delle accademie, questi rischi diverranno sempre maggiori. Le Rems non possono impedire questi eventi. Non sono uno strumento di prevenzione: arrivano a valle. Prima, ci devono essere prevenzione e cura: ci vogliono servizi che si prendano carico di una persona che soffre di un disturbo mentale, che la seguano sul territorio, che non la lascino a se stessa; e invece troppo spesso per queste persone ci sono solo farmaci long acting una volta al mese e residenzialità nei centri. Bisogna rovesciare il paradigma, ponendo come pietra angolare dei servizi il Centro di Salute Mentale, investire risorse. Ma da questo punto di vista la regionalizzazione è stata un disastro, non abbiamo nemmeno gli strumenti per confrontare quel che accade nelle diverse regioni. E gli Spdc sono diventati l’unico baluardo, un fortilizio, luoghi distantissimi dal territorio e dalle cure: provo moltissima solidarietà coi medici che ci lavorano, perché sono il luogo dove si delega tutto quello che dovrebbe essere diffuso sul territorio, e loro sono come soldati gettati in trincea”. Invece di cominciare a riflettere su queste questioni strutturali, si imputa alla legge Basaglia la responsabilità per non garantire la sicurezza sugli operatori. Ma, anche in questo caso, le cose stanno ben diversamente. Una volta constatata la pericolosità sociale di un soggetto, si deve agire. In questo caso ad agire doveva essere il Dsm della Versilia, che ha un suo responsabile, psichiatri, psicologi e una rete di servizi sociali. Dopodiché, se e quando le magistrature ricevono una perizia che dichiara la pericolosità sociale, agire tocca a loro, predisponendo una misura di sicurezza in una Rems, o anche ordinando la permanenza in carcere, dove devono esserci i servizi di salute mentale che se ne prendano cura. Ma se non c’è una rete che lavora insieme, quel che resta è un rimpallo di responsabilità. Detto questo, non siamo certo onnipotenti, e la scintilla impazzita potrà esserci sempre e comunque. Purtroppo, in cinquant’anni di lavoro ho dovuto più di una volta piangere dei colleghi, prima e dopo a chiusura dei manicomi, prima e dopo la chiusura degli Opg. Tra le varie menzogne ideologiche di chi specula sulla tragedia di Pisa, c’è anche quella che gli psichiatri “democratici” sono dei buonisti, e vogliono proteggere “il matto” a tutti i costi, e privarlo della responsabilità giuridica di fronte a reati commessi. Ma, anche in questo caso, non è affatto così. Nel nostro sistema forense c’è la teoria del doppio binario: da una parte la malattia, dall’altra il delitto. Nel momento in cui una persona affetta da disturbo mentale commette un reato scompare il principio della responsabilità soggettiva. Non è più un soggetto a aver commesso il reato, ma una figura impalpabile, la malattia mentale. Per molti giuristi e costituzionalisti, e lo diciamo da cinquant’anni, la perizia psichiatrica - eredità del positivismo ottocentesco, e un atto che non ha nulla di scientifico - andrebbe abbandonata: ogni persona è responsabile di ciò che fa. *Autore di “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”. Andreoli: “Non si deve tornare ai manicomi. Servono più medici, non più poliziotti” di Monica Serra La Stampa, 25 aprile 2023 Il professore: “La chiave è dedicare tempo ai pazienti. Legarli ai letti è assurdo, per i casi acuti ci sono i farmaci”. Non servono poliziotti davanti agli ambulatori. Serve assumere più psichiatri che abbiano il tempo necessario per fare le giuste valutazioni e per le malattie mentali non ci possono essere liste d’attesa”. Il tono pacato del professore Vittorino Andreoli, specializzato in psichiatria, neurologia e farmacologia, si infervora. Il caso della collega della clinica universitaria del Santa Chiara di Pisa, Barbara Capovani, massacrata a colpi di spranga da un ex paziente genera “un grandissimo dolore” in lui come in tutta la comunità scientifica. “I manicomi erano un obbrobrio, io stesso ne ho chiuso uno - spiega Andreoli - ma i reparti di Diagnosi e cura presenti in Italia non sono sufficienti per curare i disturbi deliranti (schizofrenia, maniacalità, paranoia), che possono portare alla violenza nei confronti degli altri, e la depressione melanconica, che può portare a gesti di autolesionismo anche estremi. Per queste patologie, che si presentano soltanto nel 10, 12 per cento dei casi, servono luoghi di cura prolungata in cui la degenza possa durare uno o due mesi e non 15 giorni al massimo come accade nei reparti oggi”. Professore, che differenza c’è con gli ospedali psichiatrici? “Non c’entrano nulla. Parlo di strutture più piccole per 40/50 pazienti al massimo se pensate a livello regionale e non per 5 mila come era il Santa Maria della Pietà di Roma o 1.200 come il San Giacomo di Verona. E poi ciò che caratterizzava gli ospedali psichiatrici era il modo in cui veniva trattato il paziente. È più ospedale psichiatrico un reparto di Diagnosi e cura in cui ancora oggi in Italia si legano i pazienti - e ce ne sono - rispetto a queste strutture”. Quale dovrebbe essere l’approccio? “Scientifico, che è quello per cui mi batto da sempre. E che parta dall’osservazione: i medici devono avere il tempo di seguire il paziente, di scegliere i farmaci giusti. In 60 anni di professione, non ho mai legato un paziente ma so usare i farmaci per i casi acuti”. Non tutti lo fanno? Innanzitutto lo possono fare solo gli psichiatri e non gli psicologi. Che fanno un lavoro utilissimo ma senza la collaborazione con gli psichiatri rischiano sottovalutare le forme acute, che hanno bisogno di terapie farmacologiche”. Quanto tempo è necessario per capire se un farmaco funziona? “Almeno 2 o 3 settimane. In molti ambulatori, per via della grande richiesta e delle liste d’attesa - che sono una cosa folle - una visita dura in media 20 minuti. È impossibile fare le giuste valutazioni. E i reparti di Diagnosi e cura hanno al massimo 16 posti letto. Con la richiesta che c’è, il tempo a disposizione non basta neanche a valutare se il farmaco prescritto è quello giusto”. Inganni e danni delle politiche anti-migratorie di Ignazio Masulli Il Manifesto, 25 aprile 2023 I governi spesso ingannano l’opinione pubblica facendo credere che gli immigrati costituiscono un peso economico. Da anni dilaga nei Paesi europei un forte pregiudizio e ostilità anti-migratoria. I governi spesso ingannano l’opinione pubblica facendo credere che gli immigrati costituiscono un peso economico e una minaccia a non si capisce quale integrità. In questa gara mendace ed autolesionista il governo italiano ha assunto le posizioni più oltranziste. Invece, i dati dimostrano che gli immigrati, ben lungi dal costituire un onere per gli Stati che li ospitano, rappresentano una risorsa. Se prendiamo il caso italiano, vediamo che nel 2020 le tasse e i contributi versati dagli immigrati nati all’estero, ultimi arrivati, ma regolarmente assunti, hanno ecceduto di 1,4 miliardi tutte le spese statali che li hanno riguardati. E ciò anche a voler includere quelle sostenute per detenerli nei campi di cosiddetta “accoglienza” o per rispedirli indietro. Occorre inoltre aggiungere i benefici economici che gli immigrati arrecano con il loro lavoro, consumi, investimenti e che si traducono in aumenti sensibili del Pil (oltre il 9% nello stesso anno). Né trascurabile è il loro apporto nel sopperire al bisogno crescente e non piccolo di manodopera in diversi settori nei quali quella autoctona è insufficiente. Il che riguarda certamente molti lavori poco qualificati in agricoltura, industria e terziario. Tuttavia il fenomeno concerne pure impieghi più specializzati in vari comparti. L’analisi del mercato del lavoro nel nostro, come negli altri maggiori paesi europei, dimostra che, gli immigrati non sottraggono lavoro ai nativi; anzi la loro attività è richiesta in quantità ben maggiore per la tenuta produttiva di interi settori. Di più, l’immigrazione, non solo è benefica, essa risulta indispensabile per correggere uno squilibrio demografico divenuto insostenibile. Da un lato, il crescente calo della popolazione nei paesi più ricchi fa sì che un numero sempre maggiore di persone troppo giovani o anziane per lavorare dipende da una base vieppiù ristretta di quelle in età lavorativa, in proporzioni tali da non poter reggere nemmeno nel breve periodo (2 su 1,5 nei paesi dell’Ue più la Gran Bretagna). E ciò richiede lavoratori immigrati 10 volte più numerosi di quanti bussano alle nostre porte. Dall’altro lato, nei Paesi meno sviluppati continua la spirale tra maggiore povertà e maggiore popolazione. Al punto che il previsto aumento della popolazione mondiale, di circa 2 miliardi entro il 2050, si concentrerà massimamente nelle regioni più povere: il 52% nell’Africa subsahariana, il 25% nell’Asia centromeridionale, seguite da Nord Africa ed Asia occidentale. E’ chiaro che senza una drastica riduzione delle diseguaglianze, accompagnata da una ben più ampia e sistematica immigrazione, ci troveremo in una situazione drammatica dagli esiti imprevedibili. Inoltre, i Paesi più ricchi con il loro iperconsumismo provocano le maggiori alterazioni climatiche che colpiscono più pesantemente quelli maggiormente esposti e vulnerabili. È speranza vitale riuscire a ridurre drasticamente il riscaldamento globale invertendo le politiche energetiche in atto e modificando i sistemi di vita. Tra le altre gravi conseguenze il protrarsi dei ritardi finirà col trasformare le migrazioni attuali, del tutto controllabili, in massicci spostamenti di popolazioni, anche conflittuali. Non bastasse, sono ancora e sempre gli Stati meta degli immigrati che rapinano le risorse naturali dei paesi di provenienza, impoverendoli ancor più. E lo fanno con i mezzi più spregiudicati e violenti; non esclusi interventi militari diretti e fomentazione di conflitti interni. Questa prepotenza cieca e irresponsabile rende ancora più invivibili le condizioni di quelle popolazioni, Sicché parlare di cooperazione o piani di aiuti è mera beffa. In realtà, l’inganno e l’auto-distruttività delle politiche anti-migratorie fanno parte e sono la spia della irrazionalità e irresponsabilità politica di un potere che si è andato chiudendo ad ogni trasformazione, pur necessaria e vitale per l’evoluzione sociale. I diritti annegati nel Mediterraneo di Giorgia Linardi La Stampa, 25 aprile 2023 “Amate la libertà per la quale tanti sono morti” scriveva nei suoi diari Jacopo Lombardini, antifascista ucciso a Mauthausen il giorno della liberazione dal nazifascismo. Il 25 aprile 2023 ci si sveglia con la notizia di altre decine di persone morte inghiottite dal Mediterraneo per amore della libertà. Almeno cinque i naufragi davanti alle tre coste - italiana, libica e tunisina - che disegnano le punte del letale “triangolo delle Bermuda” nel Mediterraneo. Tre verificatisi non lontano da Lampedusa, in cui risultano disperse oltre 20 persone, mentre un giovane è arrivato privo di vita sull’isola. Trentaquattro corpi sono stati trovati sulla spiaggia libica di Sabratha, uno dei principali punti d’imbarco verso l’Europa. La guardia costiera tunisina ha rinvenuto i corpi di 30 persone vittime di naufragi tra cui due donne e due bimbi - tutti in stato di decomposizione, al punto da rendere impossibile identificarli e capire a quali e quanti naufragi siano collegati. La sola certezza è che la rotta che vede sempre più subsahariani partire da Sfax - soprattutto dopo che il presidente Saied ha dichiarato loro guerra parlando di un complotto di sostituzione etnica in corso nel Paese, che ha scatenato una vera e propria “caccia all’uomo nero” - è ormai un’ecatombe. Le persone si imbarcano spesso su gusci di noce metallici, particolarmente a rischio di ribaltamento, e continueranno a farlo perché per loro non c’è nulla in Tunisia: un Paese dilaniato dalla crisi economico-sociale che, con il 40% di disoccupazione giovanile e i beni di prima di necessità come farina, olio e zucchero che scarseggiano quando non spariscono dai banconi di botteghe e supermercati, ora vede anche il razionamento dell’acqua. In queste condizioni, i tunisini stessi sono in fuga da anni, mentre per i migranti non esiste nemmeno una legge nazionale sull’asilo, che possa garantire il rispetto dei loro diritti fondamentali. In Italia, invece, il decreto migranti ormai noto come “decreto Cutro” calpesta lo strumento di protezione più prezioso e maggiormente utilizzato nel nostro Paese: la protezione speciale. Il voto della maggioranza in Senato ne ha determinato la stretta che condannerà migliaia di persone all’irregolarità. Ciò mentre si prevede l’arrivo di altre persone bisognose di protezione, alla luce del feroce conflitto che dal 15 aprile infiamma Khartoum, la capitale sudanese che conta oltre 10 milioni di abitanti, sotto attacco in queste ore in una regione che conta già decine di migliaia di sfollati e un flusso migratorio costante verso i Paesi limitrofi e l’Europa, per via delle condizioni d’instabilità del Paese. Un 25 aprile segnato dalla stretta italiana sull’immigrazione, a scapito dei nostri obblighi costituzionali per come riconosciuti proprio dal ‘45, quando si istituì il sistema internazionale a tutela dei diritti umani. La protezione speciale, infatti, fa riferimento all’insieme di obblighi costituzionali e internazionali dell’Italia e difende in particolare il diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani. Questo tipo di protezione, che si aggiunge allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria prevista dalla normativa europea, è particolarmente prezioso - oltre che il più utilizzato - poiché riconosce il diritto di una persona a restare anche sulla base della propria integrazione in Italia, dal momento che si fonda sull’esistenza di legami sociali, familiari, lavorativi che indicano un radicamento nella società. Sulla base di questi elementi, la protezione speciale ha contribuito alla regolarizzazione di migliaia di persone nel nostro Paese. Una forma di protezione che premia l’integrazione, ma che la maggioranza di governo punta a eliminare per servire ancora una volta la propaganda politica, come avvenuto nel 2018 con il primo decreto sicurezza salviniano che aveva ridotto a fantasmi migliaia di persone eliminando l’allora protezione umanitaria. I diritti strappati ai migranti sono i diritti della comunità umana e vanno difesi con tutte le nostre forze: vale la pena ricordarlo proprio oggi, giorno in cui si ricorda la liberazione da un regime oppressore che si nutriva voracemente dei diritti e della dignità delle persone, e coloro che morirono per difendere quei diritti e per la nostra libertà. Moni Ovadia: “Gli italiani hanno diritto di dire sì o no alla guerra. È la democrazia” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 25 aprile 2023 “Basta ipocrisie, siamo già dentro questo conflitto alla faccia della Costituzione”, accusa l’attore e regista, tra i promotori di un referendum contro l’invio di armi all’Ucraina. Moni Ovadia è in giro per l’Italia a portare in scena, assieme ad Aldo Cazzullo, lo spettacolo Il Duce delinquente. “Mussolini è di più di un delinquente - rimarca Ovadia: un criminale di guerra e un assassino di massa che ha provocato la morte di centinaia di migliaia di esseri umani anche italiani”. E ai revisionisti storici oggi al governo, o che ricoprono altissime cariche istituzionali, come il presidente del Senato Ignazio La Russa, che contestano l’azione dei partigiani a Via Rasella, Moni Ovadia ribatte: “Quelle dei partigiani furono azioni militari, un popolo deve ribellarsi all’occupante. C’erano i nazisti che deportavano cittadini italiani e bisognava stare a guardare o collaborare con gli aguzzini?”. La guerra d’Ucraina è entrata nel secondo anno. A dettar legge è la “diplomazia delle armi”. E la politica? La politica è morta e da parecchio. Oggi c’è la “partitica”, non la politica. Le iniziative non ci sono più. In Occidente comandano gli americani. Se ti collochi fuori come governo ti fanno saltare, magari con qualche atto speculativo. Se non sorge un grande movimento dal basso, non soltanto in Italia ma in tutta Europa, andrà avanti così. Continueranno a fare quello che dettano le agende degli americani sulla base delle loro elezioni. Biden andrà avanti così per vedere poi cosa succederà con le presidenziali del 2024. Dal punto di vista della politica estera, i Democratici americani sembrano peggio dei Repubblicani. Quella tra Democratici e Repubblicani è una distinzione che attiene solo alla politica interna degli Stati Uniti. Certo, i Repubblicani hanno un orientamento reazionario sui diritti civili, lo sappiamo. Ma in politica estera quelli che hanno combinato i peggiori disastri sono i Democratici. C’è di più. Cos’altro ancora? Solo la dabbenaggine senza confini di gran parte dei nostri sedicenti politici, può portarli a pensare che la politica estera degli Stati Uniti sulla guerra, ieri come oggi, dipenda dalle elezioni americane. Dipende soprattutto dagli interessi della lobby politico-militare che già segnalava negli anni ‘50 Dwight Eisenhower. Ma quale più grande democrazia del mondo. Gli Stati Uniti sono una oligarchia, non una democrazia. Gran parte dei cittadini sono tagliati fuori de facto dalla elaborazione delle decisioni. E l’Europa? L’Europa non esiste politicamente. Esiste solo per regolare le questioni che interessano i grandi potentati economici, alle Banche centrali e quelle robe lì, che poi si occupano di fare e imporre le politiche di austerità, deprimere i salari dei lavoratori oppure fare come Macron che aumenta l’età pensionabile. Ma i francesi gliel’hanno cantata. Avrà fatto la legge, ma a mio avviso Macron è politicamente finito. Non ha voluto il referendum, perché se l’avessero fatto, il mantenimento dell’età pensionabile avrebbe vinto e alla grande. La Francia ha una tradizione rivoluzionaria. Questi quando menano le mani lo fanno veramente. Non sono mica come noi che facciamo un’ora di sciopero alternato e poi si tira avanti. Io detesto la violenza. Ma i francesi che sono scesi nelle strade per manifestare hanno ragione da vendere. Decidono delle loro vite e dovrebbero stare zitti e buoni? Anche la storia dei grandi invasi delle acque per favorire le coltivazioni intensive. Tutto fatto a favore delle multinazionali, dei grandi potentati finanziari. In totale spregio dei diritti dei cittadini. Poi ovviamente ci sono politici più capaci e meno capaci. Decisamente, in Europa, la Merkel è stata la politica più capace, ha fatto il salario minimo garantito. Lì lo fanno i conservatori. Qui da noi quelli del Pd ne parlano a mezza voce, tremando. Io non m’interesso più di quella politica. Oltretutto una noia. Quando ascolto un talk show mi verrebbe da dire: ma ragazzi state giocando a Risiko o state parlando di politica?! Il nulla mescolato col niente, traduzione italiana di un celebre detto siciliano. In una intervista a questo giornale, Edith Bruck ha affermato, senza addolcimenti o giri di parole, che ci governa dice e fa cose fasciste... Edith Bruck la sa lunga, ha visto molto ed è una donna di grande lucidità. Concordo con molte delle cose che ha detto, sull’oggi e sul passato. Con un’aggiunta, se posso permettermi... Certo che sì... Dire certe cose fasciste o parafasciste, che a volte trascendono nel ridicolo come i musici pensionati di Via Rasella inventati da La Russa, a me pare soprattutto un mezzo di distrazione di massa. Ho l’impressione che non sappiamo bene cosa fare. E allora si fa un po’ di casino. E si discute sull’ultima uscita di La Russa che afferma che la Costituzione non parla di antifascismo. Per forza che non ne parla. Perché è antifascista ogni sua parola. Meloni e La Russa, e tanti altri come loro, eredi del fascismo, non solo dovrebbero essere degni della Costituzione antifascista sulla quale hanno prestato giuramento, ma dovrebbero ricordarsi che se oggi fanno politica liberamente è perché a vincere allora fu la resistenza. Il fascismo è stato in tutto e per tutto un crimine. E questo non è “soltanto” un giudizio storico-politico che dovrebbe essere unanime. È qualcosa di più. È un giudizio etico, che va oltre il ventennio e che riguarda le idee, i principi del fascismo che sono sopravvissuti alla caduta di quel regime criminale. Il “Fascismo eterno”, per dirla con Umberto Eco. Verso questi proto o post fascisti provo un sentimento che mi è difficile sintetizzare: pietà, vergogna, imbarazzo, oltreché indignazione. La sostituzione etnica! Ma di che cosa parlano. A parte che nel corso di un secolo - 1870-1970 circa - sono emigrati 30 milioni di italiani. Cosa facciamo, ce li ripigliamo indietro? La storia dell’umanità è una storia di emigrazioni. Tutti prima o poi l’hanno fatta. Non vogliono affrontare i problemi veri. Perché per affrontarli ci vuole un livello di autorevolezza e capacità che in questo momento non esistono da nessuna parte. Che idea si è fatto di Elly Schlein? Ho simpatia per lei. È una donna competente. Da parlamentare europea ha fatto cose buone. Tuttavia... Tuttavia? Quelli del Pd sono ancora troppo tremebondi. A Elly mi permetto di dire: più coraggio, più radicalità, più sinistra, quella vera. Un partito di sinistra dovrebbe fondare la sua azione su 5 punti basilari. Quali? Scuola pubblica. Sanità pubblica. Pace, non atlantismo, l’atlantismo è un ferro vecchio che sta distruggendo quel poco che avevamo di Europa. Uguaglianza, cioè giustizia sociale. E un investimento massiccio sulla cultura, perché stiamo diventando un paese di ignoranza abissale. Se in Germania c’è un salario minimo di 12 euro, in Italia lo propongano di 14 euro all’ora. Basta con questa storia di tremare. Con il lavoro ridotto ad una servitù. Basta. Il lavoro deve costruire dignità, società. Deve essere pilastro di una cultura del convivere. Sono molto pessimista. Ma continuo a fare la mia militanza, non più nei partiti, però. Vado con gli operai Gkn, sono con i palestinesi, con i curdi, ovunque ci sia bisogno di me. Non mi nego mai. Ma la politica partitica...che fa oltre ad andare nei talk show a chiacchierare? Un rito vuoto, sempre fine a se stesso, irrilevante. Non ce ne è uno che affronti il merito le questioni. Parte l’insulto, parte l’etichetta come quella di essere “putiniano” perché osi andare contro il pensiero militarista e i suoi aedi mediatici. L’ho già detto e qui lo ripeto: oggi c’è un rifiuto totale a ragionare sulle origini della guerra. La vulgata è che Putin è impazzito, chiunque dica il contrario è un pericoloso putiniano. Sono pacifista, e lo rivendico con orgoglio e fierezza. Come lo era Aldo Capitini o Gino Strada, solo per fare dei nomi. Per non parlare di Papa Francesco, silenziato, oscurato perché contro la guerra e contro chi si arricchisce con essa. La guerra non è mai la soluzione. La guerra è il problema. Vede, io non faccio più quello che è utile. Faccio quello che ritengo giusto. Se mi dicono: vota questo perché sennò viene quello...in questo modo i democristiani c’hanno fregato per quarant’anni. Per votare voglio una ragione. In questo momento non ce l’ho. Non c’è nessuno che mi dà una ragione. Un partito che s’impegni, lotti per costruire un modello di società. Si vive come i criceti, girando sullo stesso meccanismo. Non io, grazie. Non m’interessa.