“Dalle telefonate alla giustizia riparativa, chiediamo poco ma nessuno ce lo dà” di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 24 aprile 2023 Di che si parla? Di poco, preso singolarmente. Il primo fatto è che in molti luoghi dedicati all’espiazione della pena sul finire del 2022 è avvenuta una generale revisione dei contratti con i fornitori esterni di beni e servizi per i reclusi; i detenuti infatti possono “far la spesa” in carcere, una volta a settimana, e procurarsi cose da mangiare per arricchire il vitto che arriva “sul carrello” dell’Amministrazione; ma anche il necessario per l’igiene e la pulizia, i materiali di cancelleria. Ma da alcuni mesi, il cambiamento di molti soggetti che operano in questo settore, rende la spesa un’avventura. Prima la “lista” sulla quale fare gli ordini è stata dimezzata: “È provvisorio”, fu detto. Sono passati circa due mesi e ad oggi siamo circa al 65% delle possibilità originarie. I prezzi sono tutti aumentati, anche del 20%: che inflazione! E poi, le circostanze di paradosso; come a quel tale che avendo ordinato tre confezioni di caffè si è visto recapitare tre flaconi di detergente intimo femminile. Comicissimo dirsi, però… Poi, le telefonate. Un ordinamento penitenziario scritto decenni or sono, assegna ai detenuti comuni una sola telefonata a casa di 10 minuti a settimana (coloro che sono in circuiti più stringenti, ne hanno di meno). Durante l’emergenza Covid, c’è stato un allargamento delle possibilità, che sono anche arrivate a tre a settimana… Ma purtroppo, dall’8 maggio 2023, si tornerà al vecchio regime. Le carceri sono tutte dotate di centralini automatici, per cui consentire due o tre chiamate a settimana non costituisce un sovraccarico di lavoro per nessuno. Ma “non si può”. Francamente non se ne comprende la ragione: quale danno può venire alle istituzioni se un marito parla con la moglie, se un genitore sente i figli, se un non scherza con un nipotino due o tre volte in una settimana, per 10 minuti? Ma niente. Si torna all’ordine, al dettato storico, a quanto si è sempre fatto. Vedremo se in questo rientro nella tradizione ci sarà anche l’impennata di suicidi, per dire. E poi? Poi c’è la “riforma Cartabia”. Tirata alquanto per le lunghe dal governo Draghi, approvata da un parlamento piuttosto riluttante, ricevuta in “eredità” dal governo Meloni… Ha visto nascere i decreti attuativi con ritardo e fatica. In questa riforma l’elemento chiave è l’introduzione nell’ordinamento penale italiano della giustizia riparativa, per tutti gli imputati e i condannati. Ma perché possano avviarsi percorsi di giustizia riparativa, la riforma assegna alle Corti d’appello l’onere di istituire una conferenza tra le istituzioni e gli enti che di giustizia riparativa si occupano, selezionando così gli operatori certificati e curando che i mediatori siano ben formati e competenti. Lanciamo dunque un sondaggio tra i lettori. Secondo voi quante Corti d’appello a oggi si sono mobilitate in Italia dopo diversi mesi dalla promulgazione della legge? E ancora: quando tutte le Corti d’appello avranno finito, così che in ogni angolo d’Italia, senza discriminazioni, ogni imputato o detenuto potrà accedere ad un percorso riparativo? Carlo Nordio “Il 41bis? Nessuno vuole abrogarlo” di Lorenzo Drigo ilsussidiario.net, 24 aprile 2023 Carlo Nordio, ministro della Giustizia, parlando a “Che tempo che fa, ha affrontato i temi del 41bis, dei migranti e della riforma della giustizia che sta preparando con il Governo. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è stato ospitato a Che tempo che fa da Fabio Fazio, dove ha risposto, inizialmente, alla sua domanda sul 25 aprile, festa che sta rivelando alcune divisioni all’interno del paese. “Se fosse per me”, ha confessato il ministro, “dovrebbe diventare una festa non solo nazionale, ma anche europea perché la distruzione del nazifascismo è un elemento che deve unificare le democrazie”. Passando, invece, alla cronaca, Carlo Nordio è stato interpellato sul caso di Alfredo Cospito e sul possibile sconto di pena a cui pensa la Corte Costituzionale, ma anche sul 41bis, spiega che “le leggi vanno applicate, si può essere d’accordo o no, ma vanno applicate. Nel caso di Cospito vi erano tutte le condizioni definite dagli uffici giudiziari affinché il provvedimento potesse essere mantenuto”. Sul dibattuto 41bis, invece, Carlo Nordio ritiene che non vi sia l’intenzione “della politica di cambiare il 41bis. Quando si è discusso in Parlamento tutte le forze politiche, e dico tutte, si sono espresse contro il 41bis perché tutti lo vogliono mantenere, ma poi si deve decidere se farlo solo per mafiosi e terroristi, o anche per altri”. Parlando dei migranti, invece, Carlo Nordio spiega che “nessuno crede che aumentando di uno o due anni le pene per gli scafisti il fenomeno possa essere interrotto o eliminato”. La norma “ha un significato di attenzione politica, ovvero che il governo è attento a combattere il traffico di esseri umani. Serve a dimostrare che siamo molto attenti a questo fenomeno sempre sottovalutato e mai affrontato in termini razionali, ma molto spesso emotivi”. “Dobbiamo tenere presente”, spiega Carlo Nordio, “che nel continente africano ci sono 100milioni, forse 200milioni di persone che vivono in condizioni di disagio e possono essere vittime di questi trafficanti. Arrivano indebitati e per poter pagare i debiti contratti sono costretti a delinquere. È un problema estremamente complesso. Dobbiamo pensare a delle collaborazioni europee”, sostiene Carlo Nordio, “che incanalino la manodopera necessaria e aiutino i veri deboli nelle loro terre di appartenenza, dalle quali penso siano a primi a non volersene andare”. In chiusura, Carlo Nordio ha anche parlato della sua attesissima riforma della giustizia. “Non si può fare in pochi mesi”, spiga, “capisco l’impazienza ma quando si formula una legge nuova anche una virgola va calibrata. Entro maggio presenteremo il primo pacchetto di riforme, in senso garantista, che significa l’enfatizzazione della presunzione di innocenza”, evitando per esempio la violazione della libertà individuale prima del processo, “ma significa anche certezza della pena. Dobbiamo lavorare per fare del carcere uno strumento di educazione e rieducazione, anche attraverso l’attività fisica e lo sport. In seconda battuta, arriveranno le riforme costituzionali, che chiederanno più tempo”. Carceri più sovraffollate, il Veneto è terzo in Italia: “Pochi agenti e operatori” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 24 aprile 2023 Messe peggio sono solo la Puglia e la Lombardia: il Veneto è la terza regione in Italia per sovraffollamento delle carceri. Il dato emerge dalla relazione sull'attività del Garante regionale dei diritti della persona, approvata all'unanimità dall'assemblea legislativa di Palazzo Ferro Fini, relativa al 2022. Un anno che si è chiuso con il varo della legge Cartabia, la quale punta a ridurre i tassi di detenzione attraverso la giustizia riparativa e le pene sostitutive. “Tale riforma però, a parere di molti, è destinata a pesare sugli uffici giudiziari, già in grave crisi per il carico di lavoro, per carenza di personale nelle cancellerie e tra gli operatori sicché la verifica degli effettivi effetti si vedrà quando le norme entreranno tutte in vigore e saranno concretamente applicate”, avverte l'avvocato Mario Caramel, che oltre alla difesa civica e alla tutela dei minori, su nomina del Consiglio regionale esercita le funzioni pure a favore di quanti sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale. Secondo la fotografia scattata il 31 dicembre 2022, in Veneto sono presenti 2.487 detenuti. Rispetto al totale, 648 e cioè un quarto non hanno avuto ancora giudizio o condanna definitiva; di questi, 350 sono stranieri. Il numero è in aumento dopo l'emergenza Covid, quando i carcerati erano stati 2.282 nel 2020 e 2.283 nel 2021, in quanto “la pandemia ha fatto sì che alcuni stranieri rientrassero nei propri paesi d'origine” e “si è avuto un minor numero di reati commessi durante il lockdown”. La capienza regolamentare delle strutture è però inferiore: 1.950 posti. Di conseguenza il tasso di occupazione in Veneto è pari a 127,54%, inferiore solo a quelli della Lombardia (131,08%) e della Puglia (135,71%). “È un dato che deve far riflettere ha commentato il leghista Marzio Favero, relatore in aula della rendicontazione perché la Costituzione prevede che le pene non siano disumane e una funzione di recupero dei condannati. Se qualcheduno dovesse avere posizioni troppo giustizialiste, e dire che queste persone se la sono cercata, io vorrei non dimenticare che noi rappresentiamo anche quella tradizione cristiana che si fonda sull'idea che il Cristo lo trovi anche in prigione”. Le situazioni più critiche sono nelle case circondariali di Verona (157%) e Treviso (156%). Qui sono ristrette le persone in attesa di giudizio o con pene inferiori a cinque anni, nonché nella casa di reclusione di Padova (144%), dove vengono espiate le condanne superiori. Dei nove istituti penitenziari esistenti in regione, solo tre hanno un tasso di affollamento sotto la soglia del 100%, cioè le case circondariali di Belluno e di Padova e la casa di reclusione di Venezia. Nell'unica Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza, situata a Nogara e destinata agli autori di reato non imputabili ma socialmente pericolosi, sono occupati 38 dei 40 posti. A fronte di queste cifre, la polizia penitenziaria è sottodimensionata: l'organico previsto è di 1.787 unità, ma gli agenti effettivi sono 1.551, cioè 236 in meno. Inferiore alle necessità è anche la dotazione di educatori, con una media di 70 detenuti per addetto. “È facile comprendere come non possano essere portate a termine tutte le attività che questi operatori dovrebbero effettuare”, sottolinea Caramel, citando ad esempio i percorsi di reinserimento socio-lavorativo. Non a caso al Garante sono state presentate altre 57 segnalazioni, di cui 27 riguardanti la sanità, 11 la vita detentiva e altrettante l'aspetto trattamentale, 10 il percorso processuale, 6 l'affettività, 3 il lavoro, 2 l'istruzione e la formazione. Degli 84 suicidi in carcere avvenuti in Italia, 3 erano in Veneto. “Questa situazione non deve essere liquidata con una relazione, ma diventare un impegno da parte di tutti noi”, ha commentato il dem Andrea Zanoni. Giustizia, la riforma in tre mosse: si parte dai reati contro la Pa di Francesco Malfetano Il Messaggero, 24 aprile 2023 A maggio la modifica del reato di abuso d’ufficio, poi l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Entro dicembre introdotta la separazione delle carriere. Caiazza (Camere penali): una svolta liberale. Prima il lavoro, poi la giustizia. Una volta archiviato - il prossimo primo maggio - il primo step, il governo si concentrerà sul dare avvio alla riforma voluta dal ministro Carlo Nordio. In particolare si partirà con un ddl che modifica i reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze, oltre che la custodia cautelare. Poi, a giugno, si metterà mano alla prescrizione, all’impugnazione delle sentenze di assoluzione e alle intercettazioni. Per fine anno invece le riforme “costituzionali” come la separazione delle carriere dei magistrati. A scandire il ritmo è lo stesso Nordio che ieri, intervenendo a Che tempo che fa su Rai 3, ha “bollinato” l’accelerazione: “Entro il mese di maggio proporremo il primo pacchetto in senso garantista, cioè partendo da presunzione di innocenza e certezza della pena”. Anche perché la modifica dei reati contro la Pa è considerata prioritaria per consentire la messa a terra del Pnrr. Nordio punta infatti a limitare il campo d’azione dei due reati che paralizzano l’attività di sindaci e amministratori locali, spingendoli alla fuga dalla firma. In particolare, sul secondo, si ipotizza di circoscrivere il reato in modo che la condotta resti penalmente rilevante solo qualora l’utilità procurata dal mediatore al pubblico ufficiale abbia una natura patrimoniale, o nell’ipotesi in cui la mediazione miri a far commettere al pubblico ufficiale un ulteriore reato. Per quanto riguarda l’abuso d’ufficio invece, posto che tra i tecnici al lavoro sul pacchetto è considerata ormai “marginale” la possibilità che si arrivi ad una sua eliminazione in toto, i sottosegretari Francesco Paolo Sisto (FI), Giulia Bongiorno (Lega) e Andrea Delmastro (FdI) sono ancora su posizioni distanzi rispetto alle modalità della modifica. Tuttavia tra gli interventi più probabili ci sono la rimozione dell’abuso di vantaggio e una limitazione dell’abuso ostracistico oltre che dell’omessa attenzione. Nordio però spinge anche perché all’interno di questo primo pacchetto legislativo entri la riforma della custodia cautelare in senso garantista. Ovvero in primis che sia comminata solo a seguito dell’interrogatorio e, in secondo luogo, che non sia più il Gip a decidere, ma un collegio di almeno tre giudici. Salvo accelerazioni improvvise, slitta invece a giugno quel “ritocco” per cui il Guardasigilli si è detto “disposto a battersi fino alle dimissioni”. Vale a dire la riforma delle intercettazioni che, al netto di qualche polemica, Nordio non fatica a definire “fondamentali”. In questo caso l’obiettivo è limitarne l’uso per i reati di mafia e terrorismo, e i vari reati satelliti collegati a quest’ultimi, ma soprattutto trovare una soluzione per evitare la diffusione delle captazioni penalmente irrilevanti. In particolare evitare che diventino pubbliche quelle conversazioni private tra soggetti che chiamano in causa un terzo soggetto non indagato. Non solo, si lavora anche per eliminare l’appello per l’assoluzione in primo grado. “Mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole” ha tuonato più volte Nordio. Infine, a giugno, dovrebbe essere messa la parola fine sul “caso” della prescrizione creato dall’ex ministro M5S Alfonso Bonafede e dalla tentata toppa posta dalla successiva inquilina di via Arenula Marta Cartabia, per ripristinare la sua valenza sostanziale. Inoltre, come ha chiarito Nordio ieri sera, via Arenula è al lavoro anche per ridurre l’affollamento delle carceri: “Useremo caserme dismesse - ha spiegato - sono perfettamente compatibili con la sicurezza di un carcere e, anche grazie agli spazi aperti, consentono le due attività fondamentali nella rieducazione: sport e lavoro” Infine, entro la fine dell’anno, Nordio punta alla riforma costituzionale della separazione delle carriere che ha messo in allarme la magistratura. Un obiettivo complesso perché richiede la procedura aggravata di una modifica costituzionale. Tuttavia è uno dei capisaldi della “dottrina” Nordio, che da sempre teorizza la necessità di separare la carriera del magistrato giudicante da quello requirente per dare applicazione al principio costituzionale del giusto processo e della parità delle armi tra accusa e difesa. La separazione, secondo il ministro, non aveva senso con il sistema inquisitorio in cui la polizia giudiziaria indagava in modo autonomo, mentre il codice Vassalli ha posto il pm come capo della polizia giudiziaria e questo lo rende “una parte pubblica, ma pur sempre parte, che non ha senso appartenga allo stesso ordine del giudice, perché svolge un ruolo diverso”. Si tratta peraltro di punti già toccati in maniera fallimentare dal referendum di maggio scorso che non ha superato il quorum e, in maniera diversa, dalla riforma Cartabia sull’ordinamento giudiziario (approvata in giugno 2022). Motivo per cui molti magistrati ritengono sia una sorta di accanimento ingiustificato che ne mette in discussione l’indipendenza. Opposizioni che però Nordio sembra determinato a non ascoltare. Riforma della giustizia, Nordio: “Sulle intercettazioni bisogna tutelare gli estranei” di Grazia Longo La Stampa, 24 aprile 2023 Il ministro: “Piena sintonia nel governo. Primo pacchetto entro fine maggio, poi i provvedimenti su Csm e separazione delle carriere”. “Entro fine maggio verrà presentato al Consiglio dei ministri un primo pacchetto di riforme relative all’uso delle intercettazioni, poi provvederemo alla separazione delle carriere dei magistrati e al Csm”. Lo ha annunciato ieri sera il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, durante la trasmissione di Rai 3 “Che tempo che fa”. Ha inoltre precisato che “nonostante le intercettazioni siano molto utili alle indagini, non devono ledere i terzi estranei al processo. Questi non devono essere coinvolti. Quando da magistrato mi sono occupato del Mose ho usato migliaia di ore di intercettazioni ma nessuna è stata pubblicata sui giornali. Se Tizio parla con Caio e cita Sempronio quest’ultimo è senza difesa e il suo nome può finire sui giornali senza che possa interloquire. I delinquenti tanto più sono delinquenti, tanto più partono dal presupposto di essere intercettati e quindi se Tizio e Caio citano Sempronio, molto spesso è perché vogliono che Sempronio sia compromesso, sapendo di essere intercettati. Allora uno degli obiettivi di questa riforma è evitare che i terzi estranei al processo vengano comunque coinvolti con un vulnus terribile per la loro onorabilità e talvolta anche per la loro salute”. E ancora: “Il primo pacchetto di riforme sarà in senso garantista, che significa enfatizzazione della presunzione di innocenza e certezza della pena una volta che la colpevolezza è stata accertata dal giudice, che non significa necessariamente carcere. In seconda battuta le riforme costituzionali che fanno parte del programma di questo governo e che richiedono tempi più lunghi, come appunto la separazione delle carriere e la riforma del Csm”. Il Guardasigilli è intervenuto anche in merito alla celebrazione del 25 aprile che sta creando tante polemiche per le distanze prese da parte di alcuni esponenti del governo. “Se fosse per me il 25 aprile dovrebbe diventare non solo festa nazionale ma europea, la Resistenza non fu un fenomeno esclusivamente italiano ma anche francese, danese, olandese, russo e tedesco. La sconfitta del nazifascismo è un elemento che deve unificare le democrazie”. Nessun imbarazzo per le dichiarazioni di altri esponenti della sua coalizione che non vanno in questa direzione? “Faccio parte di un governo con il quale sono in piena sintonia e ringrazio anche la presidente Meloni per avermi definito l’uomo giusto al posto giusto per quanto riguarda il ministero della Giustizia. Può capitare che alcune affermazioni di altri riflettano un modo di esprimersi che non corrisponde al mio. Ma a volte quando si parla in pubblico intervengono tensioni o emotività che possono portare ad affermare cose non condivisibili”. In merito al caso di Artem Uss, l’uomo d’affari russo evaso il 22 marzo dalla sua lussuosa cascina di Basiglio dove era detenuto ai domiciliari con braccialetto elettronico, all’indomani del primo via libera alla sua estradizione negli Usa Nordio ha confermato quanto sostenuto alla Camera giovedì scorso: “Ho militato nella magistratura per 40 anni e non voglio minare l’autonomia della magistratura. Il mio procedimento disciplinare nei confronti della Corte d’appello di Milano sarà ora valutato dalla procura generale della Cassazione e non è affatto un atto di intimidazione nei confronti dei giudici. È paragonabile all’avviso di garanzia che i pm inviano ai cittadini su cui indagano”. Il ministro ha poi ribadito il suo parere sull’anarchico Alfredo Cospito: “Le leggi vanno applicate e i vari uffici giudiziari per lui hanno stabilito l’ergastolo. Ora è intervenuta la Corte Costituzionale, vedremo le conseguenze. Quanto all’istituto del 41bis, nessun partito politico vuole abolirlo, bisognerà decidere se lo si vuole solo per mafiosi e terroristi. Per ora, però, è previsto anche per reati gravi come quelli di Cospito”. Da garantista qual è, come valuta gli interventi restrittivi del governo tipo quelli contro i rave party e gli ecologisti o il decreto Cutro? “Che la pena sia inefficace come deterrente risulta da analisi storiche e sociali. Molte volte però la legge penale non ha un significato di deterrenza ma di attenzione politica e il governo è attento a combattere il traffico di esseri umani. Occorre maggiore collaborazione a livello europeo e bisogna aiutare i migranti nelle loro terre d’origine”. Ultima osservazione, sul “nostro sistema carcerario obsoleto: è difficile costruire carceri nuove. La mia proposta è adattare le caserme militari dismesse, sicure ma anche adatte ad attività rieducative come lo sport e il lavoro”. Riforma della giustizia, il primo passo è rivedere l’abuso d’ufficio. FdI non vuole inimicarsi i magistrati di Francesco Olivo La Stampa, 24 aprile 2023 Si procederà per gradi iniziando dall’abolizione della norma incubo per i sindaci. Il primo tassello della riforma della giustizia sarà l’abolizione (sostanziale) dell’abuso d’ufficio, l’incubo di migliaia di sindaci, e la riforma del reato di traffico di influenze. Poi toccherà alle modifiche alla legge Severino, alle norme sulle intercettazioni e, più in là (più lontano possibile), la madre di tutte le riforme: la separazione delle carriere. Nei prossimi giorni il ministero di via Arenula completerà il primo passaggio e a maggio i testi finiranno sul tavolo del Consiglio dei ministri. I più ottimisti parlano della prima metà del mese. La riforma della giustizia, lo ripetono tutti a Palazzo Chigi, è uno dei pilastri dell’azione di governo. Ma le incognite sono molte e il timore di riaprire una stagione di scontri con la magistratura ha fatto prevalere la prudenza. Così, il ministro Carlo Nordio procede per gradi, capitolo per capitolo, proprio per evitare un impatto troppo violento. Il criterio sarà quello di affrontare le questioni più urgenti, ma soprattutto meno controverse. L’abuso d’ufficio ha queste caratteristiche. L’urgenza arriva soprattutto dal momento storico: con il Pnrr l’obiettivo è sollevare i primi cittadini dalla cosiddetta “paura della firma”, che può pregiudicare l’esigenza di procedere con massima fretta nella realizzazione dei progetti legati ai fondi europei. Il reato punisce fino a quattro anni il pubblico ufficiale “che procuri illegittimamente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio di natura patrimoniale” o “arrechi ad altri un danno ingiusto”. Le richieste di modifica della legge arrivano da tutti i partiti, con l’eccezione del Movimento 5 stelle, che tra le proprie fila conta ormai pochi sindaci. Non è un caso, infatti, che la richiesta più pressante negli anni sia arrivata dall’Anci, l’associazione dei Comuni, presieduta da un esponente dem come Antonio Decaro. Nell’ultima assemblea svoltasi a Bergamo lo scorso novembre, anche Giorgia Meloni si era impegnata a intervenire: “Bisogna definire meglio a partire dall’abuso d’ufficio le norme penali per i pubblici amministratori, che oggi hanno un perimetro così elastico che lasciano spazio a interpretazioni troppo discrezionali. La paura della firma inchioda la nazione”. Parole che sembravano indicare la strada di una modifica del reato e non della sua cancellazione. E questa era la linea di Fratelli d’Italia, difesa strenuamente al ministero, dal sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove. Nel frattempo, però, grazie all’asse tra Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) e l’altro sottosegretario Andrea Ostellari (Lega), sembra aver prevalso la linea dell’abrogazione. “Per ben tre volte si è cercato di modificare il reato - spiega Pietro Pittalis di Forza Italia, vicepresidente della Commissione giustizia alla Camera -, ma il fatto che stiamo ancora qui a parlarne dimostra una sola cosa: l’abuso d’ufficio è irriformabile e va cancellato del tutto”. L’altro reato finito nel mirino è “il traffico di influenze”, che verrà con tutta probabilità modificato perché considerato troppo esposto a interpretazioni arbitrarie dei giudici. Prima dell’estate si potrebbe poi intervenire sulla Legge Severino, per limitare i casi di incandidabilità e di decadenza dall’incarico ai condannati in via definitiva e non già in primo grado. Gli occhi di tutti, però, sono puntati sulla separazione delle carriere, “è un nostro obiettivo”, dice a La Stampa il vicepremier Antonio Tajani. Il programma del centrodestra prevede questa riforma, che al momento è in Commissione Affari costituzionali alla Camera. Sisto, davanti alle proteste degli avvocati per la timidezza riformatrice dell’esecutivo, ha risposto: “Il ministero farà la sua proposta entro il 2023”. Frasi concordate con Nordio. Anche in Parlamento, nonostante la pressione di Forza Italia, le cose vanno a rilento e i segnali che FdI ha mandato vanno nella direzione di frenare. La considerazione è più politica che giuridica: per fermare questo progetto parte della magistratura è pronta a fare le barricate. “Questa riforma richiede tempi più lunghi”, dice Nordio. Per questioni costituzionali, ma anche di opportunità. “Separazione delle carriere, dopo l’estate il ddl di Nordio” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 aprile 2023 L’annuncio del viceministro Sisto: a breve anche i testi su prescrizione e abuso d’ufficio, ha promesso il numero due di via Arenula. Caiazza: “Apprezziamo la scelta delle priorità”. “Ne ho parlato con Nordio: posso dirvi che il ministero presenterà un disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere nella seconda parte del 2023, probabilmente dopo l’estate”. È forse l’annuncio più importante fatto dal vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto alla manifestazione dell’Unione Camere Penali, tenuta ieri a Roma al termine della tre giorni di astensione. L’iniziativa è stata organizzata, come ha ricordato il presidente della Camera penale di Roma Gaetano Scalise, “per essere accanto a Nordio e non contro di lui: abbiamo bisogno di evidenze che dimostrino come la stagione delle riforme liberali non si sia esaurita nelle parole del guardasigilli”. I numerosi penalisti accorsi al Centro Roma eventi Fontana di Trevi concedono un bis dell’applauso quando sempre Sisto mette sul tavolo la questione relativa al nuovo articolo 581 del codice di rito, in particolare ai commi 1 ter e 1 quater, in tema di esercizio del diritto di impugnazione, “gravemente pregiudicato - sostiene l’Ucpi in un documento - dalla ingiustificata pretesa, a pena di inammissibilità della impugnazione, di un nuovo mandato ad hoc e di una nuova elezione di domicilio”. Sul punto, il viceministro della Giustizia ricorda: “Ho promosso l’incontro del 4 aprile al ministero con voi e l’Anm: le riforme hanno bisogno di sinergie e non di divisioni. Posso dirvi, e ho l’assicurazione del ministro, che dopo le note depositate dalle Camere penali e quelle di replica dell’Anm, noi interverremo per modificare il 581 in linea con quanto sostiene l’Ucpi. Ovviamente le soluzioni concrete saranno oggetto di valutazione”. Sisto ha poi delineato un cronoprogramma delle riforme: “Riportare la prescrizione nel suo alveo naturale, ossia quella sostanziale, sarà uno degli obiettivi principali del 2023”. Non solo, secondo il numero due di via Arenula “ci saranno anche proposte sui temi dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul Csm”. Quanto alla riforma dell’abuso d’ufficio, Sisto ha spiegato che “si sta discutendo se ridimensionare questa fattispecie o intervenire in modo più netto: a mio parere, se non ci fosse almeno una parte abrogativa rischieremmo un intervento inefficace a evitare processi inutili e, spesso, dannosi”. Un’altra misura da realizzare, ha proseguito il viceministro della Giustizia, “riguarda il traffico d’ influenze: la norma sarà certamente revisionata per trovare una soluzione che sia più pragmatica e precisa, evitando la genericità deleteria dell’attuale formulazione”. In una fase successiva “il governo si impegnerà anche sui temi delle intercettazioni, dell’appello alle sentenze di assoluzione, degli organi collegiali per le misure cautelari”. Parole che hanno restituito un po’ d’ottimismo ai penalisti. Come ha detto il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, “il percorso del guardasigilli ha provocato tra gli avvocati preoccupazione e delusione, per il contrasto fra le riforme annunciate, con la solennità degli impegni presi in Parlamento, e una realtà di segno radicalmente opposto”. Ma dopo aver ascoltato Sisto, il leader dei penalisti si è convinto di poter rivedere la propria analisi: “Il vice ministro ci ha detto cose importanti non solo sulla tempistica delle riforme. Poi certo si tratterà di misurarsi sul merito. Noi intanto apprezziamo enormemente la scelta delle priorità. Questi tre giorni e questa manifestazione nazionale hanno prodotto un risultato politico concreto”, ha concluso Caiazza. Prima di lui era intervenuto il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che aveva messo in fila tutte le contraddizioni tra il programma del guardasigilli e le cose fatte fino ad ora, con una premessa: “Credo che Nordio non pensasse di diventare ministro: quando lo è diventato si è costruito una squadra di collaboratori messa insieme all’ultimo momento e su cui dovrebbe fare un tagliando. Ha infarcito il ministero di magistrati fuori ruolo e questi lo stanno portando fuori strada”. Il parlamentare ha giudicato “paradossale” che la prima azione disciplinare di Nordio venga avviata su “un provvedimento che aveva sostituito la custodia cautelare in carcere con i domiciliari”, con riferimento al caso Uss. “Il rischio è che i magistrati non concedano più i domiciliari per paura di subire azioni”, ha osservato Costa. In apertura dei lavori è intervenuto anche il coordinatore di Ocf Mario Scialla: “La politica deve capire che tutta l’avvocatura è coesa nel chiedere le stesse cose. Ribadiamo il nostro sì a una riforma liberale della giustizia così come delineata dal ministro Nordio, ma lamentiamo ancora una volta l’immobilismo nell’attuazione del progetto”. Da Milano è intervenuta la presidente di Agi, Avvocati giuslavoristi italiani, Tatiana Biagioni: “Credo fortemente nell’unione dell’avvocatura”, ha detto, “sono qui per esprimere solidarietà rispetto a tutta una serie di riforme che negli ultimi anni sono state sempre improntate all’emergenza, quando invece c’era bisogno di riflessioni strutturali”. Ha inviato un messaggio di saluto il presidente dell’Aiga Francesco Perchinunno: “La giovane avvocatura condivide i valori che hanno ispirato la proclamazione dell’astensione indetta dall’Ucpi e si augura che questa manifestazione possa stimolare una nuova e necessaria riforma della giustizia penale, ispirata ai valori liberali e del garantismo. Siamo e saremo disponibili a un dialogo finalizzato al raggiungimento di soluzioni condivise”. Giustizia, dalle intercettazioni alla paura di firmare: i nodi da sciogliere di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 24 aprile 2023 Presunzione d’innocenza e certezza della pena le linee guida. L’obiettivo è correggere le storture del sistema. L’obiettivo è quello di raddrizzare le storture del nostro sistema giudiziario, mantenendo come argini fissi la presunzione di innocenza e la certezza della pena. In quest’ottica il Guardasigilli Carlo Nordio vuole disciplinare l’uso delle intercettazioni, ponendo dei limiti alle trascrizioni e al badget; prorogare la durata della segretezza delle indagini; modificare il reato di abuso d’ufficio, uno spauracchio che ora paralizza le pubbliche amministrazioni; abolire la possibilità di appello dei pm in caso di assoluzione in primo grado; far decidere al Tribunale del Riesame sulle misure cautelari; e ritornare alla prescrizione sostanziale. Le intercettazioni: no alla trascrizione se si parla di terzi o questioni intime - L’intenzione del ministro è porre dei paletti sulla trascrizione delle intercettazioni: da non consentire quando due persone parlano di una terza o di questioni intime, e da limitare solo ai casi in cui “il reato è in atto”. Questo significa che andranno trascritte le conversazioni nelle quali c’è la prova che il reato viene commesso al telefono o che viene programmato “in modo non equivoco”. Previsto anche un budget per l’utilizzo di questo strumento d’indagine, da stabilire prima per ogni ufficio giudiziario, così come avviene per pc, stampanti e personale. “Verrà prefissato secondo la compatibilità finanziaria del Ministero che è quello che paga. Anche perché trovo irragionevole che spendiamo 200 milioni di euro all’anno per le intercettazioni quando poi ci mancano delle cose essenziali”, ha spiegato Nordio. “Nessuno vuole toccare le intercettazioni per reati di mafia e terrorismo e anche per reati satelliti di questi fenomeni”, ha detto in più di una occasione il Guardasigilli. “Le intercettazioni sulla sicurezza dello Stato e quelle preventive sono utilissime e non vengono di fatto diffuse. Il problema si pone però sul terzo tipo di intercettazioni, che sono quelle giudiziarie, effettuate su richiesta del pm con autorizzazione dei gip: finiscono nelle mani di decine di persone e inevitabilmente si crea l’abuso”. La segretezza degli atti: indagini top secret fino alla conclusione per evitare la gogna - Al momento gli atti del processo devono rimanere segreti fino a quando l’indagato ne viene a conoscenza. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio vorrebbe integrare il codice di procedura penale per stabilire che restino top-secret “quantomeno fino alla disclosure finale o all’inizio del dibattimento pubblico”. Questo per evitare che vi sia un inutile esposizione mediatica prima del processo, soprattutto per quei casi che poi conducono a un proscioglimento nella fase dell’udienza preliminare. In questo modo solo l’indagato saprebbe di essere indagato e le intercettazioni non potrebbero essere diffuse fino a che non vi è, almeno, una richiesta di rinvio a giudizio. “Oggi la segretezza degli atti è considerata a tutela dell’integrità dei dati. La mia idea è che la segretezza degli atti debba essere considerata anche nell’interesse dell’onorabilità dell’indagato - spiega il Guardasigilli - L’informazione di garanzia inviata a un personaggio importante occupa la prima pagina dei giornali. La sentenza di assoluzione, salvo casi rari, finisce nelle ultime con un trafiletto”. Per risolvere questa “stortura”, secondo Nordio, oltre a intervenire sulla rapidità del processo (facendo in modo da arrivare il prima possibile a una sentenza), occorre allungare i tempi in cui l’atto rimane segreto: almeno fino al momento in cui non finisce l’indagine. Il reato da modificare: l'abuso d'ufficio paralizza sindaci e dipendenti pubblici - Per trovare una soluzione all’immobilismo nelle pubbliche amministrazioni, i cui dirigenti sono spesso paralizzati dalla paura di finire sui giornali per aver firmato un atto poi ritenuto illegittimo dalla Procura, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha pensato di modificare la disciplina sul reato di abuso d’ufficio. “Se noi l’abolissimo, il 99% dei sindaci e degli amministratori comunali ci farebbe un monumento”, ha spiegato a “Il Foglio”, perché la situazione è “diventata intollerabile”. “Non temono la condanna, che interviene nel 2% dei casi, ma il processo mediatico: l’avviso di garanzia e la diffusione della notizia per la quale il sindaco viene delegittimato. Addirittura qualche volta è stata impedita la candidatura di un determinato personaggio perché pendeva un processo”. Secondo Nordio, a essere penalizzati sono gli stessi magistrati: molti di loro vengono denunciati e, quindi iscritti nel registro degli indagati, proprio per abuso d’ufficio o rifiuto di atti d’ufficio da parte di cittadini che, insoddisfatti della sentenza, sostengono che il magistrato non abbia guardato gli atti. “Questo vulnus può compromettere la sua carriera”, ha precisato il Guardasigilli. Nessun appello per i pm: in caso di assoluzione il processo si chiude in primo grado - Quasi rivoluzionaria, almeno per il nostro sistema giudiziario, è la proposta del Guardasigilli di non prevedere più la possibilità del pm di appellare una sentenza in caso di assoluzione in primo grado. La ratio è quella di evitare l’inutile ingolfamento della macchina della giustizia. Piuttosto, nell’eventualità in cui emergano nuove prove o alcune non siano state considerate, il Ministro preferisce che il processo venga rifatto da capo. In Italia vige il principio che l’imputato è condannato se risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio, “per questo mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole”, ha fatto notare Carlo Nordio in un’intervista a “Il Foglio”. Naturalmente, ha precisato il Ministro, “possiamo anche ammettere che la sentenza di assoluzione possa essere sbagliata perché sono stati commessi degli errori, perché non sono state prese in considerazione delle prove o addirittura perché sono emerse nuove prove, ma in quel caso allora è meglio che il processo sia rifatto, come fanno gli anglosassoni nei pochi casi in cui lo ammettono”. Carcerazione preventiva: sulle misure cautelari dovrà decidere un organo collegiale - Nell’ottica del garantismo, per il ministro Carlo Nordio è fondamentale limitare la carcerazione preventiva ai casi strettamente necessari. La definisce una “misura di civiltà”. Per questo il Guardasigilli propone di lasciare al giudice delle indagini preliminari la possibilità di disporre le misure cautelari (carcere, domiciliari, obbligo di firma, ecc.) solo nei casi in cui vengano contestati reati per cui gli indagati sono stati colti in flagranza. In tutti gli altri casi, i pubblici ministeri dovranno presentare la richiesta a “un organo collegiale che potrebbe essere, e secondo me dovrebbe essere, quello che oggi è il tribunale del Riesame, cioè il tribunale distrettuale”, ha spiegato Carlo Nordio. Tutto questo nell’ottica di “avere una garanzia maggiore di tutela degli indagati: sei occhi vedono meglio di due - ha precisato il Ministro della Giustizia - Poi fare tutto il possibile per evitare che accada quello che succede oggi, considerando che circa la metà delle persone arrestate in via cautelare viene poi rimessa fuori dalle carceri dal tribunale della Libertà. È una misura di civiltà. Ed è una misura sulla quale agiremo con forza”. La durata dei processi: con il ripristino della prescrizione il reato viene estinto - Nel continuo tira e molla sulla prescrizione, l’orientamento del Governo attuale è cancellare le modifiche introdotte da quello precedente, ossia un ritorno alla “prescrizione sostanziale”. “Personalmente, la farei decorrere non dal momento in cui il reato viene commesso, ma dal momento in cui viene scoperto”, ha spiegato il ministro Carlo Nordio. La sua intenzione è di riportare la prescrizione alla sua funzione originaria di estinzione del reato, quindi nell’ambito del diritto sostanziale e non di quello processuale. La riforma del suo predecessore, ossia del ministro Marta Cartabia, ha infatti introdotto una nuova regola per l’improcedibilità, per evitare che l’imputato potesse rimanere intrappolato per troppo tempo nei gradi successivi di giudizio (visto che la prescrizione non può più avvenire una volta che è stata emessa la sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione o condanna). Con la Cartabia, invece, un processo viene dichiarato improcedibile nel caso in cui non si concluda entro tempi prestabiliti: due anni al massimo per il giudizio in Appello e un anno per quello in Cassazione. Salvare Nordio da Fratelli d’Italia e dalle toghe al ministero: la mobilitazione delle Camere penali di Angela Stella Il Riformista, 24 aprile 2023 Contesto, protesta, soluzione. Potremmo schematizzare con queste tre parole l’assemblea di ieri a Roma dell’Unione della Camere Penali Italiane al termine di una tre giorni di astensione non contro Nordio, ma contro ciò che impedisce a Nordio di agire come lui vorrebbe: che sia Fratelli d’Italia o la squadra di cui si è circondato a Via Arenula non importa. Come ha detto il presidente Caiazza “sono i risultati a contare. Il percorso del ministro della giustizia ha provocato tra i penalisti preoccupazione e delusione, con una contrapposizione tra le riforme annunciate, con la solennità degli impegni presi in Parlamento, e una realtà di segno radicalmente opposto”. In quanto fino ad ora non si è visto nulla, nonostante i buoni propositi del Guardasigilli, al momento apparentemente commissariato a casa sua. A delineare il contesto, caratterizzato da profonde deviazioni rispetto alle linee programmatiche espresse da Nordio e agli annunci in campagna elettorale dei partiti di maggioranza, ci ha pensato il responsabile giustizia di Azione, onorevole Enrico Costa: “sulla separazione delle carriere Fratelli d’Italia non ha presentato proposte di legge, a differenza mia, di Forza Italia e Lega. Senza il loro appoggio non andiamo da nessuna parte”. Poi “sulla riforma del Csm entro giugno sarebbero dovuti essere approvati i decreti attuativi ma tutto è slittato di sei mesi, forse per volontà dei magistrati fuori ruolo distaccati al Ministero che proprio per quella riforma dovrebbero diminuire”. Per Costa inoltre “il decreto rave rappresenta chiaramente la contraddizione rispetto agli annunci fatti sul diritto penale minimo e sulle depenalizzazioni”. Per non parlare del carcere: “basta fare un nome: Andrea Delmastro Delle Vedove per cui pena equivale solo a carcere e il garantismo cede il posto al giustizialismo in fase di esecuzione penale. In più, mi sarei aspettato - ha continuato il deputato - che Nordio prendesse una distanza politica dalle affermazioni fatte da Donzelli contro la delegazione del Pd che era andata in visita da Cospito”. Ultimo punto: “è paradossale che la prima azione disciplinare di Nordio venga avviata su un provvedimento che aveva sostituito la custodia cautelare in carcere con i domiciliari (caso Uss, ndr). Anche perché così il rischio è che i magistrati non concedano più i domiciliari per paura di subire azioni. Si proceda magari per i motivi opposti. In questi mesi, inoltre, non è stata avviata alcuna azione disciplinare per i numerosi casi di ingiusta detenzione, che sono tanti e sono molto peggio”. E passiamo dunque al senso della protesta, alle ragioni sottese allo sciopero dei penalisti italiani, che sintetizza il presidente uscente Caiazza: “tutto quello che si è prodotto in materia di politica giudiziaria in questi mesi è peggio di quello fatto nella legislatura precedente. Stiamo assistendo a riforme ispirate dalle notizie di cronaca. Dall’altra parte abbiamo ricevuto l’attenzione del Ministro Nordio nei nostri confronti dal primo giorno. Questo ci ha onorati, è un patrimonio politico per noi però i risultati sono diversi. Chiedo al vice ministro Sisto (presente in sala) il perché di questa anomalia. Noi comunque siamo qui perché vogliamo dare forza alle idee del Ministro”. Ed ecco palesarsi la (possibile) soluzione nelle parole di Francesco Paolo Sisto: “Ho parlato ieri (giovedì, ndr) con il Ministro Nordio e posso dirvi che il ministero presenterà una proposta di legge governativa sulla separazione delle carriere nella seconda parte del 2023, probabilmente dopo l’estate”. Nel dare l’annuncio il forzista ha anche sottolineato che “nessuno vuole toccare autonomia e indipendenza del pubblico ministero, questa balla deve morire una volta per tutte”. Non solo, secondo Sisto “ci saranno anche proposte sui temi dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul Csm”. Quanto alla riforma dell’abuso d’ufficio, Sisto ha spiegato che “si sta discutendo se ridimensionare questa fattispecie o intervenire in modo più netto. A mio parere, se non ci fosse almeno una parte abrogativa rischieremmo un intervento inefficace ad evitare processi inutili e, spesso, dannosi”. “Un’altra misura da realizzare - ha proseguito - riguarda poi il traffico di influenze. La norma sarà certamente revisionata per trovare una soluzione che sia più pragmatica e precisa, evitando la genericità deleteria dell’attuale formulazione”. In una fase successiva il Governo si impegnerà anche “sul tema delle intercettazioni, dell’appello alle sentenze di assoluzione, degli organi collegiali per le misure cautelari”. Caiazza ha accolto positivamente le parole del vice ministro: “Sisto ci ha detto cose importanti non solo sulla tempistica delle riforme; poi si tratterà di misurarsi sul merito. Noi intanto apprezziamo enormemente la scelta delle priorità”. “Questi tre giorni e questa manifestazione nazionale hanno prodotto un risultato politico concreto” ha concluso il presidente Caiazza. “Giusto chiudere i manicomi giudiziari, però per i malati pericolosi non ci sono più posti sicuri” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 24 aprile 2023 L'appello di Giuseppe Nicolò, direttore del dipartimento di salute mentale della Asl5 di Roma. “Una tragedia annunciata, conoscevo bene Barbara Capovani. La nuova legge sulle Rems si è rivelata un fallimento. Da tempo denunciamo i gravissimi rischi che corre chi lavora nel nostro campo”. “Conoscevo bene Barbara Capovani, una collega straordinaria, la cui unica colpa è stata quella di aver cercato di curare l’uomo che l’ha aggredita. Tre figli, una leader, di enorme umanità con i suoi pazienti. Questa è una tragedia annunciata. Sono anni che denunciamo i gravissimi rischi di chi lavora nel campo della salute mentale, in particolare nelle “Rems”. Ma nessuno ci ha ascoltati”. Sono amare le parole di Giuseppe Nicolò, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl5 di Roma, all’interno della quale si trovano tre Rems, ossia Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture nate dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015, nelle quali vengono ricoverati soggetti con problemi mentali che hanno commesso reati. “Chiudere quei manicomi è stato giusto, un atto di umanizzazione, ma la legge sulle Rems è stata un fallimento. Siamo in una perenne condizione di pericolo - denuncia Nicolò - mentre per soggetti come l’aggressore di Barbara non esistono strutture adeguate. Dunque restano a piede libero. Liberi di fare del male”. Le Rems però hanno segnato la fine della vergogna degli ospedali psichiatrici giudiziari. Perché non funzionano? “È stato totalmente sottovalutato il criterio della sicurezza, anche per ragioni ideologiche. Se negli “Opg” i pazienti venivano soltanto contenuti e non curati, oggi nelle Rems prevale, giustamente, l’aspetto sanitario. Ma noi trattiamo persone che hanno anche una pericolosità sociale, hanno commesso reati, possono aggredire e spesso aggrediscono. Però nelle Rems non è previsto alcun servizio di sicurezza. Vi sembra possibile?”. Ed è stata una scelta ideologica? “In parte sì. Per sottolineare che si trattava di luoghi di cura e non carceri. Ma è stata fallimentare. Oggi non abbiamo per legge nessun strumento giudiziario per fermare un paziente pericoloso. Lo ha ammesso anche una sentenza della Consulta del 2022 che aveva invitato la politica a cambiare la norma. È rimasta lettera morta”. Gianluca Paul Seung, l’aggressore della dottoressa Capovani, avrebbe avuto titolo per essere ricoverato in una Rems? “No, ma può accadere che soggetti come lui, intrattabili con i farmaci, di violenza incoercibile ma non incapaci di intendere e di volere, vengano poi inseriti nelle Rems o nelle case famiglia per mancanza di alternative. Con gravissimi danni per i pazienti ed enorme rischio per medici e operatori”. Dove dovrebbero allora essere curati? “È questo il problema. In Italia non sappiamo dove metterli. Hanno un disturbo psichiatrico, in questo caso narcisistico e paranoico, ma anche atteggiamenti antisociali. Sono imputabili, processabili ma in carcere sono ingestibili. Quindi quando vengono condannati finiscono sempre ai domiciliari. E poi a piede libero”. Quale sarebbe invece il tipo di struttura adeguata? “Percorsi carcerari ad alta sanitarizzazione. Sull’esempio delle “Sdpd” inglesi, reparti di massima sicurezza con assistenza psichiatrica”. Però in Italia non ci sono. “Esatto. Capite il rischio? Vorrei ricordare che dieci anni fa a Bari, fu assassinata da un paziente la psichiatra Paola Labriola. Senza che tutto ciò si trasformi in stigma, bisogna che il sistema sanitario prenda atto che esistono soggetti per i quali ci vogliono luoghi di cura con una tutela alta” Anche nelle Rems? “Sì. Si è passati dal sistema di puro contenimento dei manicomi criminali ad un sistema unicamente sanitario per pazienti psichiatrici che hanno commesso reati. E’ evidente che non può funzionare. Oggi siamo tutti a rischio”. Quali saranno le vostre azioni di protesta? “I direttori dei 130 dipartimenti di salute mentale d’Italia firmeranno una lettera con la quale chiediamo alla premier Meloni, al ministro della Sanità Schillaci di dare seguito alla sentenza della Consulta del 2022. Oggi tutti i servizi alle 12 osserveranno due minuti di silenzio in segno di solidarietà con Barbara Capovani. Per sensibilizzare le istituzioni ad un intervento risolutivo, perché non accada mai più”. La normalità mafiosa coordinamento editoriale di Carlo Bonini La Repubblica, 24 aprile 2023 La mafia e la corruzione costituiscono emergenze serie e sempre attuali, in Italia. I cittadini ne sono consapevoli, come emerge dalla Terza edizione della ricerca condotta da Demos con Libera, dalla quale emerge la convinzione, altrettanto diffusa, che queste “minacce” non suscitino un'attenzione adeguata. Non perché vengano sottovalutate, ma perché, al contrario, vengono “date per scontate”. L'arresto di Matteo Messina Denaro non ha cambiato la scena. Ha, semmai, dato evidenza - e risonanza - a un fenomeno onni-presente e latente. E che, secondo l'80% degli italiani intervistati, mantiene la stessa forza di prima. Anzi, si è esteso. Sempre nell'ombra. Spinto da ulteriori “interessi”, generati dal PNRR, che ha allargato la “massa” di risorse economiche e finanziarie distribuite negli ambienti e nei settori pubblici. Accentuando l'attenzione di chi è pronto a “intercettare denaro”. Perché i fondi del PNRR sono considerati non solo una fonte importante per lo sviluppo e la ripresa. Ma, al tempo stesso, un fattore di attrazione per gli interessi illegali. L'88% delle persone intervistate, infatti, ritiene che il PNRR sia “a rischio di corruzione e infiltrazione mafiosa”. Anche perché, come osserva Francesca Rispoli, “continua ad essere un oggetto misterioso, nella percezione dei cittadini”. E resta, quindi, nell'ombra. La difficoltà di comprendere il significato del PNRR, una sigla difficile perfino da pronunciare, costituisce una buona ragione per affidarsi ai governi e alle istituzioni territoriali. E per guardare con qualche diffidenza alle attività che si muovono intorno a questi movimenti finanziari. D'altronde, nel presente come nel passato (prossimo e remoto) del nostro Paese, la corruzione appare legata alla politica. Il principale ambiente dove si prendono - e si gestiscono - le decisioni espresse dalle istituzioni. A livello centrale e sul territorio. In tutti i principali settori, che, agli occhi dei cittadini, sono esposti alla corruzione. Edilizia, smaltimento, rifiuti, sanità divengono, così, ambienti dove il “mafia-virus”, come lo ha definito don Luigi Ciotti, rischia di contaminare il territorio e la società. Per questo è necessario tenere alta l'attenzione e la tensione. Intorno ai centri e alle decisioni della politica e delle istituzioni. Attraverso un'informazione rigorosa e puntuale. Mentre alla maggioranza delle persone, come osservano Bordignon e Ceccarini, la comunicazione su mafia e corruzione appare discontinua o superficiale. E il 22% denuncia un approccio di tipo scandalistico nella trattazione dei temi collegati alla corruzione. Per questo è necessario guardarci intorno. Non perché la diffidenza sia una virtù. Al contrario: rischia di deteriorare il nostro mondo e la nostra vita. E di dare ragione e ragioni alla mafia. Ma occorre evitare di osservare tutto e tutti con sospetto. Immaginando che la mafia sia ovunque. Per questo motivo un'ampia parte degli intervistati, nel sondaggio di Demos-Libera ritiene importante avviare azioni preventive. Per prevenire l'illegalità, attraverso il controllo delle istituzioni e delle autorità competenti. L'Anac e la Procura nazionale antimafia, in primo luogo. E, al tempo stesso, invoca interventi rigorosi e duri, per scoraggiare e reprimere questa minaccia. È infatti cresciuto sensibilmente il consenso verso il cosiddetto “carcere duro”: il regime di isolamento previsto dal 41 bis. Oggi ha raggiunto l'81%. Cioè, quasi l'unanimità. Mentre nel 2020 coinvolgeva il 66% e nel 2021 il 68%. Ma è altrettanto e, forse, più importante andare “oltre”. Senza limitarsi a delegare. Rassegnandosi a “dare per scontato” che mafia e corruzione siano mali incurabili. Perché, come osserva don Ciotti, nell'intervista pubblicata in queste pagine: “È l'indifferenza a fare la differenza. In un mondo sempre più interconnesso, dire “non mi riguarda” e voltare la testa dall'altra parte, è diventare correi, complici”. Il modo migliore per contrastarla è “coltivare” il controllo sociale “coltivando” la società e le relazioni sociali. Promuovendo associazioni e iniziative di partecipazione che sostengano il valore della legalità. Come Libera. In quanto la partecipazione e l'associazionismo sono motori di legalità, che promuovono la presenza e il controllo sociale da parte dei cittadini. Altre indagini condotte da Demos hanno rilevato il legame stretto fra il rapporto con gli altri, la conoscenza delle persone intorno a noi, l'impegno sociale, da un lato, e il sentimento di sicurezza, dall'altro. Mentre la solitudine e l'isolamento generano in-sicurezza. Condizione favorevole all'illegalità. Alla quale possiamo porre un freno non sostituendoci alle istituzioni che svolgono questo compito. Ma rifiutando di considerare l'illegalità un elemento “normale” della vita pubblica e della nostra vita quotidiana. Per andare “oltre la corruzione” non dobbiamo rassegnarci alla rassegnazione. E dobbiamo “investire nei giovani”, per riprendere ancora don Ciotti. Perché significa investire nel futuro. Un oggetto misterioso chiamato Pnrr, di Francesca Rispoli Il Pnrr continua ad essere un oggetto misterioso nella percezione dei cittadini. Circa sette intervistati su dieci (69%) affermano di averne “nessuna” o “scarsa conoscenza”. Per i cittadini è alta la preoccupazione che la grande mole di investimenti pubblici possa favorire infiltrazioni mafiose. Infatti, l'88% ritiene che il Pnrr sia a rischio corruzione e infiltrazione mafiosa. Nello specifico, il 51% degli intervistati si dichiara “allarmato” riguardo alla possibilità di infiltrazioni mafiose e ritiene che il rischio sia particolarmente elevato, visto l'ammontare delle risorse e le procedure emergenziali previste nell'impiego dei fondi europei. Il 37%, invece, mostra un atteggiamento “rassegnato”, dando per scontato il rischio, analogo a quello di tutti gli investimenti pubblici. Solo il 9%, circa uno su dieci, risponde con “ottimismo” dichiarando che, grazie alle particolari norme messe in atto, il rischio criminale sia inferiore rispetto al solito. Alla domanda su “quali attività economiche rischiano maggiormente di legarsi alla presenza mafiosa tra quelle che saranno sostenute dall'arrivo dei fondi europei”, il 52% dei cittadini intervistati mette al primo posto il settore dell'edilizia (52%), seguito dalla possibilità di infiltrarsi nello smaltimento dei rifiuti (51%) e dalla sanità (26%). In relazione agli strumenti di prevenzione e contrasto, una componente molto ampia di cittadini ritiene che occorra rafforzare il controllo dell'Anac (51%), assicurare massima trasparenza dei bandi (47%) e rafforzare i poteri della Procura Nazionale Antimafia (43%). Una percentuale minore (22%) crede nel coinvolgimento civico dei cittadini nel monitoraggio delle opere, azione che Libera e Gruppo Abele portano avanti da anni attraverso il progetto Common - comunità monitoranti. Per coinvolgere i cittadini, sarebbe stata necessaria -fin dal 2020- un'opera di co-programmazione del Piano e dei suoi obiettivi e quindi di co-progettazione degli interventi specifici. Nella fase attuale, accanto ad azioni di co-progettazione, si può recuperare il coinvolgimento civico innanzitutto garantendo la massima trasparenza sui lavori da realizzare e quindi in primis attraverso la pubblicazione dei dati, in modo centralizzato, aggiornato e accessibile. Solo pochi giorni fa (19 aprile) il Ministero dell'Economia ha aggiornato, nella sezione catalogo Open data del sito Italia Domani, i dati aperti relativi a circa 50mila progetti. Il numero è molto inferiore rispetto ai 134mila progetti presenti sul sistema Regis, come segnalato dalla campagna Dati Bene Comune. Grazie alla disponibilità di questi dati è possibile condurre un monitoraggio dal basso, complementare a quello delle istituzioni preposte, che si rende necessario anche a fronte della scarsità di risposte che provengono dagli Enti Locali. Questi ultimi, infatti, hanno risposto in modo parziale (solo il 59%), alle domande di accesso civico poste attraverso l'indagine partecipata promossa da Libera e Gruppo Abele, e risultano essere in difficoltà nel dare risposte esaustive, certe e complete sulle opere, seppur la trasparenza dei bandi PNRR sia obbligatoria per legge anche per i soggetti attuatori. In conclusione, siamo in una fase nella quale è ancora possibile promuovere un'azione congiunta tra istituzioni e società civile, per rendere più consapevoli e attivi i cittadini circa le opere del Piano, ma per farlo è necessario che si sviluppi in primo luogo una cultura del dato, in cui trasparenza e accesso siano visti non come adempimenti formali, ma come strumenti preventivi contro le mafie e la corruzione. Si scrive mafia e si legge corruzione, di Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini Il nesso tra democrazia e corruzione è molto stretto. Per lo sviluppo economico e della cittadinanza. Per lo sviluppo di una comunità e della sua cultura civica. Questo vale in tutti in contesti democratici che condividono, anche nelle carte costituzionali, valori e principi orientati alla legalità e alla trasparenza. L'azione della mafia complica il quadro e le azioni dello Stato per contenere il fenomeno sono a loro volta centrali. Così come è centrale il contributo dei media nel tenere alta l'attenzione dell'opinione pubblica. I media svolgono un'attività di monitoraggio importante. Lanciano allarmi. Trasmettono, di fatto, valori, anche attraverso le modalità utilizzate per affrontare il tema. La 3° ricerca di Demos per Libera offre uno spaccato utile a comprendere l'intreccio tra corruzione, mafia e comunicazione. Va subito sottolineato che non si riscontrano significative differenze nella valutazione dei due fenomeni - mafia e corruzione - da parte dei cittadini. Il che ne rimarca la connessione, nella percezione sociale. Oltre la metà degli italiani ritiene che il sistema dei media parli poco dei due fenomeni. Che questa “disattenzione” rifletta (e comporti) una sottovalutazione del problema (54% per la mafia; 57% per la corruzione). Una minoranza, intorno al 12-14%, afferma invece che se ne parli anche troppo, alimentando un sentimento di pessimismo e sfiducia. Quasi un cittadino su tre afferma, per converso, che mafia e corruzione vengono “coperte” adeguatamente a livello comunicativo. Se, a partire da questo quadro, si va ad approfondire come i mezzi di comunicazione trattino i temi in questione, emerge anzitutto una domanda di informazione più strutturata. Al 60% delle persone, infatti, la comunicazione su mafia e corruzione appare discontinua o superficiale. Il 22% denuncia un approccio di tipo scandalistico nella trattazione dei temi collegati alla corruzione (17% nel caso della mafia). Solo due cittadini su dieci condividono l'idea che l'informazione su queste problematiche sia corretta, continua o approfondita. Si tratta di opinioni che svelano un considerevole coinvolgimento e preoccupazione. Quindi, aspettative di intervento da parte dello Stato: non solo di una maggiore attenzione giornalistica. In questo quadro si inscrivono anche le valutazioni dei rispondenti su fatti di più stretta attualità, se non di cronaca. Uno di questi è sicuramente la cattura del latitante Matteo Messina Denaro. Gli italiani, pur riconoscendo l'importanza di tale passaggio, non lo ritengono “decisivo” nella lotta alle mafie: l'80% pensa, infatti, che “la mafia in Italia è forte come prima”. Solo il 12% pensa che l'arresto del boss abbia indebolito il sistema mafioso. È inoltre cresciuta la componente di quanti si dicono a favore del cosiddetto “carcere duro”: il regime di isolamento previsto dal 41 bis. Dal 66% del 2020 (e dal 68% del 2021), il numero dei favorevoli sale all'81%. La controversa vicenda di Alfredo Cospito e l'ampia eco mediatica che l'ha circondata sembrano avere sortito una reazione rilevante nell'opinione pubblica. Ma in senso opposto a quello auspicato dall'anarchico, che proprio in questi giorni ha sospeso, dopo sei mesi, il suo sciopero della fame contro tale regime carcerario. Forse, i cittadini intervistati dal sondaggio Demos per Libera, nel reclamare una maggiore copertura mediatica su mafia e corruzione, intendono anche lanciare un allarme. Affinché la comunità nazionale, dal basso, sia particolarmente attenta e monitorante sui temi delle mafie e della corruzione. Visti i potenziali rischi che si muovono, da Bruxelles verso l'Italia, parallelamente alle risorse del Pnrr. Intervista a don Ciotti: “La speranza sono i giovani”, di Ludovico Gardani Don Ciotti, dal sondaggio congiunto di Demos e Libera emerge che il Pnrr continua a essere nella percezione comune perlopiù una sequenza di lettere, una sigla. La preoccupa questo? È un dato preoccupante, certo. Che segnala un deficit di partecipazione e un eccesso di delega. Dai fondi previsti e dal loro mirato e onesto utilizzo dipende il rafforzamento di settori decisivi per la salute della democrazia. La pandemia ha messo impietosamente in evidenza che nel nostro Paese - ma non solo nel nostro - i diritti sociali sono diventati in troppi casi privilegi dipendenti da dinamiche di mercato: se sei ricco hai diritto a lavoro, casa, istruzione, assistenza sanitaria, altrimenti arrangiati, sono fatti tuoi. Questa logica selettiva, esclusiva, è la morte della democrazia delineata nella nostra Costituzione. A fronte delle ingiustizie sociali, ovvero ai furti di bene comune, occorre un impegno comune, e questa ridotta conoscenza del Piano che quel bene collettivo dovrebbe alimentare, è un segnale preoccupante. Al tempo stesso però il sondaggio segnala il timore di molti - l'88% degli intervistati - che i fondi del PNRR diventino in parte preda delle organizzazioni criminali... Mi auguro che vengano messe in atto tutte le misure e procedure per sventare questo rischio. Un primo segnale potrebbe venire dal Governo con la nomina di un Presidente della Commissione parlamentare antimafia a quasi due mesi dalla sua istituzione. Nomina tanto più urgente anche a fronte di quanto è scritto nell'ultima relazione al Parlamento della DIA, la Direzione investigativa antimafia. Rapporto che ci consegna un quadro inquietante: da un lato il consolidato primato della 'ndrangheta, la sua capacità d'infiltrazione a livello non solo nazionale ma mondiale, dall'altro la tenuta delle altre mafie, Camorra e Cosa Nostra. Ma Cosa Nostra non è stata indebolita dall'arresto di Matteo Messina Denaro? No perché, a dispetto della trita retorica attorno alla figura dei capi “assoluti”, la mafia siciliana da tempo si è trasformata in un'organizzazione fluida e reticolare orientata anche a sfruttare settori redditizi e a basso rischio come quello del gioco d'azzardo e delle scommesse on-line. Credo sia ormai inadeguata la parola “infiltrazione” per descrivere il modo in cui le mafie inquinano il tessuto sociale ed economico, perché si tratta piuttosto di una coesistenza con tratti di connivenza. Si è prodotta un'osmosi tra i metodi delle mafie divenute “imprese” e i meccanismi di un sistema economico che protegge i monopoli impoverendo il bene comune. Da realtà “infiltrate”, operanti sotto mentite spoglie, le mafie sono diventate parti attive dell'economia di mercato. E tutto ciò nell'indifferenza di tanti, troppi, ancorati a criteri obsoleti di lettura del fenomeno mafioso, criteri che ne alterano la percezione. Arretratezza culturale che può aprire le porte alla trasformazione del crimine organizzato in “crimine normalizzato”. E cosa occorre fare per impedire questa trasformazione? Rieducarci o educarci tutti, nessuno escluso, a una concezione della libertà come responsabilità. Le mafie ingrassano laddove si è prodotta una frattura tra interesse privato e bene comune, tra “io” e “noi”, cioè dove la libertà è intesa e praticata come arbitrio, rivendicazione di fare quello che si vuole anche se reca danno agli altri. È questo l'humus su cui attecchiscono corruzione, abusi, prevaricazioni. Per bonificare e dissodare questo terreno avvelenato e sterile occorre un enorme impegno educativo e culturale a cominciare dalle scuole. L'Italia investe nell'istruzione una parte del Pil molto inferiore a quello della media europea. Non è però solo una questione d'investimenti: si tratta di ripensare anche l'orizzonte del sapere e il modo in cui trasmetterlo. In che modo, appunto? La scuola dovrebbe stimolare la capacità di porsi domande, di abitare i dubbi, di interrogarsi sulle contraddizioni e la complessità del reale. Dovrebbe cioè suscitare nel giovane futuro cittadino lo sviluppo di una coscienza critica affinché diventi artefice di progresso, custode dell'umano nelle sue infinite declinazioni e strenuo oppositore dell'ingiusto e del disumano nelle sue molteplici facce. Il modello attuale, invece, sembra preoccupato soprattutto di fornire risposte, dare istruzioni affinché gli studenti diventino efficienti impiegati di un sistema che sta sfruttando il pianeta e portando tutti noi nel baratro. È quel “paradigma tecnocratico” denunciato otto anni fa da Papa Francesco nella lungimirante, profetica, “Laudato sì”, dove si dice che crisi sociale e ambientale sono facce di una medesima medaglia. La scuola non può essere un'appendice dello status quo, dev'essere una spina nel fianco dei poteri “costituiti” e delle istituzioni, affinché non vivano di rendita e continuino a servire il bene comune. Se la scuola non è capace di guardare più in là della società di cui fa parte smette per questo stesso motivo di essere scuola: diventa un'agenzia formativa che risponde a standard decisi altrove secondo logiche industriali. Che ruolo gioca l'informazione in questo processo? Decisivo, a patto di mettersi a sua volta radicalmente in discussione. Oggi il mondo dei “mass media” è profondamente condizionato da logiche di monopolio nella misura in cui da monopoli dipende. E questa rischia di essere la morte dell'informazione, che dovrebbe essere libera ricerca della verità senza riguardi per “padrini” e “protettori”. Solo un cambiamento culturale su più livelli, insomma, ci può permettere di costruire un mondo libero dalle mafie e da tutte le forme di complicità, sottovalutazione, omissione, distrazione che le rendono possibili. È l'indifferenza, come sempre, a fare la differenza. Indifferenza che ha reso la nostra Costituzione un testo tanto citato, a volte celebrato, quanto poco praticato, realizzato, vissuto. L'indifferenza è oggi una grande alleata del male. In un mondo sempre più interconnesso, dire “non mi riguarda” e voltare la testa dall'altra parte, è diventare correi, complici. La diffusione della corruzione e delle mafie non si combatte solo tenendosene lontani, ma denunciando, testimoniando, mettendosi in gioco. In cosa si può sperare? Nei giovani perché la gioventù è per sua natura aperta, partecipe, genuina. Se poi si chiude e si corrompe, è a causa del contatto col mondo degli adulti. Questo vale oggi come valeva ieri. Siamo noi adulti a doverci mettere in discussione quando parliamo di giovani. Noi a doverci chiedere quali riferimenti gli offriamo, quali strumenti, quali opportunità. Poi, certo, i giovani cambiano come cambiano i contesti sociali, ma i bisogni fondamentali restano gli stessi: il bisogno di essere riconosciuti, coinvolti, responsabilizzati e quindi di poter realizzare le proprie passioni e di metterle al servizio degli altri. Che poi è il bisogno - mai così urgente come in gioventù - di dare un senso alla propria vita. Ho incontrato e conosciuto, in oltre cinquant'anni d'impegno, diverse generazioni di giovani e ho riscontrato sempre questo bisogno, così come ho constatato che ogni volta che a un giovane si dà modo di esprimersi e mettersi in gioco, risponde alla grande. Per questo l'attenzione prevalentemente retorica rivolta ai giovani - questo preoccuparsi ma non occuparsi di loro - è uno dei grandi scandali della nostra epoca. Per 3 italiani su 4 la corruzione è diffusa ma cresce il rischio di sottovalutazione di Ilvo Diamanti La Repubblica, 24 aprile 2023 La gran parte chiede controlli rafforzati dell’Anac e Antimafia ma il fenomeno viene considerato normale, un vizio collegato alla politica. L’88% ritiene che il Pnrr porti il pericolo di infiltrazioni. La corruzione è un problema “storico”, in Italia. E non solo. Un tema sempre attuale, nel dibattito politico, come ha ribadito il presidente dell’autorità anticorruzione (Anac), Giuseppe Busia, che ha sollevato dubbi sulla revisione del codice degli appalti contenuta in un decreto legislativo approvato martedì dal Consiglio dei ministri, in quanto, per i lavori fino a 150 mila euro e le forniture di servizi fino a 140 mila euro, aprirebbe alla possibilità di fare affidamenti senza una procedura pubblica di gara. Perché occorre esercitare un controllo attento sulle regole e le procedure che permettono l’erogazione di finanziamenti pubblici. Per contrastare pratiche - e attori - della corruzione. Tanto più oggi, di fronte al rischio di perdere il sostegno dell’Unione europea. Che ha permesso e permette all’Italia di sostenere i costi di una crisi di lungo periodo. Si tratta di una questione che abbiamo già analizzato, fra l’altro, attraverso le ricerche condotte da Demos per Libera. Importanti, per capire come, oltre al pericolo “concreto” generato dal fenomeno, ve ne sia un altro, altrettanto “pericoloso”. L’abitudine. Che induce a “dare per scontato” il problema. E, dunque, di sottovalutarlo. Questo rischio è confermato dalla terza indagine di Demos per Libera, appena conclusa. Se osserviamo la curva che riproduce il grado di diffusione della corruzione secondo gli italiani, nell’ultimo decennio, è chiaro come, dopo il 2020, il problema si stia “sdrammatizzando”. Messo in ombra da altre emergenze. Soprattutto, il Covid e la guerra in Ucraina. Così oggi, nel 2023, la preoccupazione dei cittadini, al proposito, ha toccato il livello minimo. Il grado di attenzione e di “tensione”, in realtà, resta molto alto: 76%. Ciò significa che 3 italiani su 4 ritengono che la corruzione sia ancora diffusa. “Più” o, comunque, “non meno”, rispetto ai tempi di Tangentopoli. Tuttavia, 3 anni fa questa “percezione” appariva molto più elevata. “Percepita” dall’88% dei cittadini. Quindi, 12 punti percentuali in più, rispetto ad oggi. Peraltro, si tratta di un orientamento “trasversale”, sotto il profilo politico e territoriale. Condiviso dovunque, indipendentemente dall’orientamento di voto. E ciò sottolinea come la corruzione sia, ormai, considerata “normale”. Un vizio collegato alla politica. Ieri e (come pensa circa il 30%) ancor più oggi. Per effetto dei fondi del Pnrr, che promuoveranno gli investimenti pubblici. E, per questa ragione, favoriranno le infiltrazioni mafiose, che inseguono i movimenti di denaro. Questa “normalizzazione” dell’atteggiamento non significa che il fenomeno sia “accettato”. Al contrario, suscita condanna, presso quasi tutta la popolazione. Tuttavia, la relazione fra investimenti pubblici, movimenti finanziari e corruzione è considerata diretta. Quasi automatica. Per questo motivo, le infiltrazioni e le azioni illegali non sollevano grandi reazioni. In quanto ritenute conseguenti. È il “mafia virus” (come l’ha definito don Luigi Ciotti), che contamina la visione dei cittadini e spinge ad accettare la diffusione delle attività e delle organizzazioni criminali, insieme alla crescita di risorse economiche e finanziarie nella società. E sul territorio. Come fenomeni coerenti e reciproci. Non si tratta tanto di “rassegnazione”, ma di una “(s)valutazione” della realtà. Che induce a ritenere contestuali lo sviluppo e l’il-legalità. Gli investimenti e la corruzione. È un sentimento pericoloso, che richiama una nota formula coniata da Hannah Arendt: la “banalità del male”. Riferita a figure e atti ben più drammatici. Legati ai crimini e ai criminali nazisti. Tuttavia, questa definizione appare, a maggior ragione, efficace a spiegare quanto e perché sia difficile - dunque, necessario - denunciare le attività “illegali” che caratterizzano il mercato e l’economia. Dall’edilizia alla sanità, dal commercio allo smaltimento dei rifiuti, dai trasporti al turismo. In altri termini, nei settori più diversi. E più vicini a noi. Per la stessa ragione, come emerge dal sondaggio di Demos per Libera, una componente molto ampia di persone ritiene che occorra sostenere e rafforzare il controllo dell’Anac, rafforzare in poteri della Procura antimafia e assicurare massima trasparenza sui bandi. Tuttavia, è prioritario cambiare il nostro atteggiamento. Il nostro sguardo su quanto avviene intorno a noi. Nelle istituzioni, nel sistema politico ed economico. Perché non possiamo e non dobbiamo considerare “normale” ciò che è “illegale”. Trasformare “Tangentopoli” nella “polis” dove viviamo. In altri termini, accettare l’illegalità come regola della nostra vita quotidiana. Al di là dello spazio e del tempo. Ieri, oggi e, inevitabilmente, anche domani. Se vogliamo andare oltre la corruzione non dobbiamo rassegnarci alla rassegnazione. Stop del Csm alla magistrata scrittrice. Niente Salone del Libro per la pm antimafia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 aprile 2023 Il Consiglio superiore della magistratura vieta a Marzia Sabella, magistrato antimafia di Palermo e pm del processo Salvini, la partecipazione al prossimo Salone del libro di Torino, dov’era stata invitata come autrice del romanzo “Lo sputo” nell’ambito del progetto “Adotta uno scrittore” rivolto agli studenti. Secondo il Csm si tratta di un’attività non legata all’espressione intellettuale e alla creazione artistica, dunque non può essere retribuita. La delibera con cui il Csm nega l’autorizzazione è all’ordine del giorno del prossimo plenum, convocato per il 26 aprile. Ma l’approvazione è scontata, poiché il voto preliminare in prima commissione, competente a valutare la legittimità degli incarichi extragiudiziari, è avvenuta all’unanimità. Dinieghi di questo tipo sono peraltro assai rari. Un caso del genere, per la più importante manifestazione culturale del Paese, è senza precedenti. Marzia Sabella, siciliana, è magistrato come il fratello Alfonso. All’inizio degli Anni 90 era una delle nuove leve della Procura di Gian Carlo Caselli. Prima inchiesta sui pedofili di Ballarò, con l’innovativa contestazione dell’associazione a delinquere. Poi il passaggio all’antimafia, unica donna nel pool che nel 2006 cattura il capomafia Provenzano. Procuratore aggiunto dal 2017, prima donna a guidare la Procura, per un anno come reggente. Ha condotto l’inchiesta ed è il pubblico ministero del processo contro il vicepremier Salvini per sequestro di persona della nave salva-migranti Open Arms. L’anno scorso ha pubblicato per Sellerio il suo primo romanzo, “Lo sputo”, recentemente tradotto in Spagna. Per questo motivo il Salone del libro di Torino l’ha inserita tra gli scrittori coinvolti nel progetto “Adotta uno scrittore”, nato 21 anni fa “per fare incontrare studenti e studentesse con le migliori autrici e autori italiani contemporanei: dalle scuole primarie alle secondarie, alle strutture detentive, alle università”. Quest’anno il progetto coinvolge 38 autori in otto regioni. A loro è richiesto un impegno di otto ore, retribuito con 1000 euro lordi. Non si tratta di presentare il proprio libro, come avviene nella parte espositiva del Salone, ma di “entrare nelle scuole per mostrare il lato vivo e dinamico dei libri”. La procedura è lunga. A novembre il Salone raccoglie le candidature delle scuole, poi seleziona gli scrittori, infine decide chi adotta chi. “Ad ogni classe selezionata vengono affidati in adozione un autore o un’autrice. Tutti gli studenti della classe adottiva ricevono una copia del libro dell’autore o dell’autrice adottato/a. Ciascuna classe incontra 4 volte l’autore/autrice: 3 incontri in classe e 1 collettivo al Salone”. Marzia Sabella viene adottata da un liceo scientifico. Ricevuto l’invito a partecipare, lo comunica al Csm. E come da prassi, la pratica viene affidata alla prima commissione. Che le comunica un “preavviso di rigetto”. Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati sono regolamentati, per evitare che ne mettano in discussione prestigio, autorevolezza, indipendenza. La regola è che i magistrati possono liberamente, e senza autorizzazioni, scrivere libri, articoli, sceneggiature, opere creative e artistiche anche retribuite. E invece devono chiedere l’autorizzazione “per ricevere incarichi retribuiti di docenza, conferenze, seminari, convegni, incontri di studio conferiti da enti privati che abbiano come oggetto sociale esclusivo o prevalente l’attività formativa o scientifica in ambito giuridico e che abbiano rilevanza nazionale”. Infatti sono centinaia ogni anno le autorizzazioni a magistrati per incarichi di questo tipo, anche lautamente retribuiti, da università, master, scuole di formazione, enti di ricerca, consorzi professionali e aziendali. Ma secondo il Csm, quello del Salone del libro è un caso diverso. Sia perché il Salone è “un modello atipico di persona giuridica privata” (ma in gran parte nominato e finanziato da enti pubblici), sia perché “non ha come oggetto sociale esclusivo o prevalente l’attività formativa o scientifica in ambito giuridico”. Ricevuto il preavviso, la procuratrice scrive nuovamente al Csm. Spiega di aver ricevuto l’incarico non come magistrato, ma come scrittrice al pari degli altri 37 scrittori. L’invito è stato intermediato dalla casa editrice Sellerio, che ha pubblicato il romanzo. Allega anche i documenti del Salone, da cui risulta che in ogni caso non si tratta di un’attività di docenza, ma di un “dialogo con gli studenti”, dunque una libera manifestazione di attività intellettuale, slegata da quella professionale. Ma il Csm insiste. E punta il dito contro il compenso. Sostiene che la partecipazione al Salone non sia “attività di pubblicistica o di produzione artistica, quanto piuttosto assimilabile a convegni, incontri o seminari, liberamente espletabile solo se non retribuita”. Viceversa, se è prevista una retribuzione, occorre che l’attività sia svolta per un ente a esclusivo interesse giuridico. E il Salone del libro non lo è. Indipendentemente dalle interpretazioni giuridiche, resta la bizzarria di vietare un rapporto economico di un magistrato con una prestigiosa istituzione culturale nazionale, laddove sono consentiti con enti privati della più varia origine e tipologia. La prossima settimana il Csm voterà il divieto. A quel punto la procuratrice avrà tre strade: rinunciare al Salone del libro; rinunciare al compenso; porre la questione, non tanto economica quanto di principio, al Tar. Taranto. Detenuto si suicida, era in carcere da un giorno Gazzetta del Mezzogiorno, 24 aprile 2023 Un detenuto si è suicidato nel pomeriggio nel carcere di Taranto. Cinquantunenne, originario di Catania e residente a Taranto, era stato arrestato ieri. Ne dà notizia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, rilevando che “si tratta del 16esimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno, cui aggiungere un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che qualche settimana fa si è tolto la vita in Campania”. “Sovraffollamento detentivo, deficienze organizzative, strumentazioni e tecnologie inadeguate e organici carenti per tutte le figure professionali, che toccano i livelli più critici proprio in Puglia e a Taranto - accusa -, non consentono oggettivamente neppure d’ambire al perseguimento degli obiettivi indicati dall’art. 27 della Carta costituzionale e, soprattutto, mettono a repentaglio la sicurezza di reclusi e operatori. Necessitano misure emergenziali e parallele riforme strutturali che reingegnerizzino l’architettura dell’esecuzione penale e, in particolare, quella carceraria” Milano. Ricominciare si può. Intervista a don Burgio, cappellano nel carcere minorile di Valerio Lessi buongiornorimini.it, 24 aprile 2023 “Non esistono ragazzi cattivi”. La scritta campeggia all’ingresso della Comunità Kayros, ed è ripresa dal titolo del libro del suo fondatore, don Claudio Burgio, da diciassette anni cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano. “L’idea che esprime questo slogan - spiega - è che la cattiveria non è innata nelle persone, tantomeno nei ragazzi che incontriamo. La cattiveria è una maschera, con cui questi ragazzi cercano di nascondere le proprie fragilità, le proprie debolezze, le proprie storie difficili. Però quando ritrovano l’impronta originaria che c’è in loro, la vita cambia, diventa molto più attrattiva”. Don Claudio Burgio sarà mercoledì 26 aprile al Teatro Galli di Rimini, ospite dell’incontro organizzato dal centro culturale Il Portico del Vasaio. Insieme a Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, e a Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei Minori di Catania, dialogherà sul tema Una giustizia che ricrea. Vittima o colpevole, cosa permette all’uomo di ricominciare? Senta Burgio, ma dire che i ragazzi non sono cattivi non è buonismo, il solito modo di negare le responsabilità personali e di attribuire ogni colpa all’ambiente, alla società? È un’obiezione che spesso sento dire. In genere è sulla bocca di chi ha un senso di giustizialismo molto forte. Per me la giustizia non ha a che fare con la vendetta, con la retribuzione. Noi crediamo molto nella giustizia riparativa che vuol dire, contro a ogni buonismo, che i fatti vanno riconosciuti, che i reati vanno condannati. Però ciò non significa che la persona non possa cambiare, che non possa riconciliarsi, anche con le vittime, che non possa fare un cammino di cambiamento. Noi lavoriamo per questo, sosteniamo questo tipo di speranza. Il buonismo lo consideriamo una forma di violenza, non è certo un modo per educare i ragazzi. Non sarebbe serio omettere le loro responsabilità. Crediamo però che ogni ragazzo non coincide con il proprio male, con le proprie azioni malvage. C’è sempre la possibilità di una redenzione, di un cammino. C’è sempre la possibilità di ricominciare, lei dice. Alcuni seguono un percorso di recupero ma poi ricascano nella violenza, nella delinquenza. E con questi cosa fa? C’è chi cambia al primo colpo, ci sono molti ragazzi che attraverso vari itinerari di giustizia riparativa, di messa alla prova, cambiano subito, capiscono il disvalore di certe azioni. Ci sono altri che fanno fatica a cambiare subito, hanno bisogno di più momenti. Quindi una ricaduta non significa che un ragazzo non possa crescere, non possa riabilitarsi. Vuol dire he ha bisogno di qualche input in più. Nella sua comunità i cancelli sono sempre aperti. L’ educazione è dunque un rischio che rispetta la libertà? Sì, non abbiamo l’idea che la legge, le regole siano sufficienti a cambiare un ragazzo, a renderlo più consapevole. Servono le regole, ma ci vuole anche una presa in carico della libertà di questi ragazzi. Finché non arrivano a interiorizzare la regola, finché non arrivano a prendere coscienza della loro vita, non riusciranno a cambiare. La libertà è quello spazio, quel margine che permette a questi ragazzi di interiorizzare, di entrare dentro una scelta, una decisione. Tenere i cancelli aperti giorno e notte è una sfida, un modo per dire a questi ragazzi: questo non è un carcere, qui c’è di mezzo la tua coscienza, la tua libertà, scegli e decidi se rimanerci o no. Il rapper Baby gang ha detto di lei: lui guarda la persona non le carte. Ha capito bene il suo metodo? Certo, lui non sa cosa siano le carte perché non ha mai avuto un’educazione alla legalità. Per lui lo Stato con le sue leggi è qualcosa di sconosciuto. Per affrontare questi ragazzi bisogna saper anche interagire, guardare negli occhi, sospendere il giudizio, provare ad aiutarli nella fiducia. Molti nostri ragazzi non conoscono e non riconoscono l’autorità perché ritengono il mondo adulto, il mondo delle istituzioni, come irrilevante. Quindi bisogna aiutarli a comprendere che si parte da un rapporto umano, da una fiducia, da un ascolto, guardando la persona per quello che è, non solo per quello che fa. Di cosa hanno bisogno questi ragazzi, al fondo? Hanno bisogno di adulti credibili, hanno bisogno di avere un rapporto serio con persone che sappiano in qualche modo incuriosire la loro coscienza. Sappiano anche farla nascere, in alcuni casi. Hanno bisogno di adulti vicini credibili, che tendenzialmente siano coerenti, e non adulti che diventano come amici: questo è il vero dramma, una età adulta che si è liquefatta, non ha più autorevolezza, non sa più essere diversa dalla generazione dei figli. Hanno bisogno di un padre? Spesso sì, magari c’è il padre ma è assente, insignificante. I ragazzi cercano una paternità di altro tipo, che abbia a che fare con la testimonianza di una vita credibile. Qualche anno fa i ragazzi mi hanno regalato un quadretto per la festa del papà. Accanto alle foto hanno inserito questa frase: non ci hai mai detto come vivere, ti sei lasciato guardare e noi abbiamo capito. Quindi non sono sufficienti le parole, tanti paternalismi. Tanto maternage non serve, hanno bisogno di vedere persone convinte dalla vita. Come si fa a vedere una possibilità positiva in chi le ha combinate tutte? Anche guardando alla storia propria, e a quella dell’umanità. Sono cristiano e scopro nel Vangelo che anche Gesù è stato messo in croce e quindi è stato vittima di un’ingiustizia clamorosa. E quindi da quella croce, da quell’ingiustizia è nato qualcosa di grande, è nata una resurrezione, è nata una possibilità nuova. Soprattutto guardando al Vangelo riesco a capire questo dinamismo. Però qualcuno anche laicamente può capire che non tutto finisce a quindici sedici anni. Quanti cammini di liberazione ho potuto vedere in carcere! Basterebbero questi per convincere che è possibile. Come devono porsi gli adulti davanti ai ragazzi ‘cattivi’? Può essere un alunno a scuola, un vicino di casa, un amico del figlio o magari un figlio… Bisogna incontrare questi ragazzi senza averne paura, senza avere pregiudizi. Bisogna sapere che arrivano da storie drammatiche, in cui il bullismo è la reazione a qualcosa che hanno subito in precedenza. Sono ragazzi molto fragili, bisogna saperli prendere. Loro tendono a nascondere la debolezza, ma sono ragazzi che spesso mi raccontano che hanno subito violenze; quindi, sono stati vittime di bullismo nell’infanzia. Occorre affiancare, accompagnare, camminare con questi ragazzi fino a quella confidenza, a quella fiducia che permette loro di verbalizzare le proprie emozioni, le proprie rabbie. Cosa è cambiato nella sua vita dopo aver varcato i cancelli del Beccaria? Un ministero più gioioso, meno convenzionale, meno abituato a certi riti scontati che si ripetono. Un ministero molto vivo perché ogni giorno sono chiamato a capire se questo Vangelo è reale o no, se regge l’urto anche del male. Questo apre molte domande, mi ha portato a vivere con più realismo la mia fede. Belluno. La formazione entra in carcere, opportunità di crescita per i detenuti di Tiziana Bolognani antennatre.medianordest.it, 24 aprile 2023 Entra nella sua piena operatività la collaborazione tra Confindustria Belluno Dolomiti e la Casa circondariale di Belluno all’interno del progetto per il sociale. Sono iniziati ieri i corsi di formazione rivolti ai detenuti: una seconda opportunità per crescere insieme. “Nessuno deve essere lasciato indietro. A tutte e a tutti deve essere concessa una possibilità e il lavoro è l’unico strumento per emanciparsi e crescere insieme”. Lo afferma Flavio Mares delegato al sociale di Confindustria Belluno Dolomiti che ha rinnovato anche quest’anno l’accordo con la casa circondariale di Baldenich che mette al centro il lavoro come strumento che può garantire la riabilitazione dei detenuti. Nell’istituto penitenziario di Belluno entreranno i rappresentanti di Ceramica Dolomite, Epta e Sest che daranno ai detenuti partecipanti la possibilità di apprendere alcune nozioni di base per inserirsi nel mondo del lavoro. Carcere e lavoro, un binomio che non sarà più un tabù grazie alla proposta di Confindustria che rientra nel più ampio progetto per il sociale che in questi anni ha toccato diversi ambiti: dalla necessità di misure sempre più a misura di famiglia alla violenza di genere. Ora il nuovo tassello con il coinvolgimento dei detenuti. Ivrea (To). “Procura Cenerentola” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 aprile 2023 Lo sfogo della procuratrice Viglione: “Siamo i più derelitti d’Italia, maglia nera per distacco. Ho scritto mille volte a Roma, chissà se leggono: così i nostri cittadini diventano di serie B. “Gentile signor ministro, sono pubblico ministero da 36 anni e attualmente procuratore di Ivrea. Perdonerà se mi rivolgo direttamente a Lei, con modalità informale; lo faccio, mi creda, non per supponenza. Le chiedo solo cinque minuti della Sua attenzione con la sincera speranza che possa capire e rimediare all’assurda situazione in cui si trova il mio ufficio, che non ha pari in Italia. Un contesto che avvilisce chi vi lavora, ma soprattutto rappresenta plasticamente l’inefficacia della Giustizia: ormai nel nostro circondario i cittadini hanno decisamente poche possibilità di ottenerla. Sono cittadini di serie B”. Comincia così l’ultima “disperata segnalazione” di Gabriella Viglione, procuratore della Repubblica di Ivrea. Dal 2 novembre non ha avuto risposta, come tutte le precedenti. Seconda Procura piemontese con un territorio di 515 mila abitanti e 173 comuni, “Ivrea è vittima di un errore genetico”, spiega nella lettera al ministro Nordio. Nel 2013 sopravvisse all’estinzione dei micro-tribunali, ma con territorio triplicato a organico invariato. Un’indagine del Csm la colloca ultima per rapporto tra utenti e risorse umane. Procuratore, che cosa significa? “Che siamo la Procura più sfigata d’Italia. Maglia nera assoluta, e per distacco”. Rispetto a chi? “Faccio un esempio. Noi abbiamo 19 mila fascicoli pendenti, più di Firenze e Catania. E come Napoli, che ha 110 pm. Capisco che lì c’è l’antimafia, ma la sproporzione è evidente. A Ivrea siamo solo 9 pm, e per diverso tempo siamo rimasti in 3. I viceprocuratori sono 4 su 8 previsti. E il personale amministrativo, già sottodimensionato, vanta assenze del 40%, il doppio della media nazionale”. Come mai? “Siamo la Cenerentola d’Italia. Tutti lo sanno. Nessuno vuole venire a lavorare in queste condizioni. E chi c’è fa in modo di andarsene”. Avete un dirigente amministrativo? “Mai previsto. Invece il direttore amministrativo, inferiore ma pur importante, è previsto ma dal 2013 non è mai arrivato”. Come ne risente il vostro lavoro? “Siamo nell’impossibilità di lavorare. Non abbiamo un segretario per ogni magistrato, sono stata costretta a dare mansioni delicate - notifiche, intercettazioni - a personale senza formazione. C’è un addetto alla segreteria che ha competenze per l’Asl, non per un tribunale. A tenere aperto l’ufficio relazioni col pubblico sono i volontari dell’associazione carabinieri in congedo”. Riuscite a fare le indagini? “In Piemonte c’è una media di 500 fascicoli pendenti per ogni pm. A Ivrea 2.500. Una follia. Numeri umanamente non gestibili. C’è una collega che è arrivata ad avere 3.800 fascicoli. Nemmeno Superman!”. Come vi regolate? “Con l’unico segretario disponibile ho fatto una ricognizione per un progetto di smaltimento arretrato. Ho trovato reati iscritti nel 2014 e mai trattati. O fascicoli con indagini fatte e chiuse, ma mai notificate perché la segreteria non riesce a smaltirle”. Che fa di questi fascicoli? “Archivio per prescrizione. Anni di indagini inutili. Uno spreco di lavoro e denaro, un fallimento”. E le nuove indagini? “Ho fissato criteri di priorità: indagini con arrestati, richieste di misure cautelari, decessi, codice rosso, sicurezza sul lavoro”. Il resto dopo? “Il resto non si può fare”. Tipo? “I fascicoli per giudice di pace: lesioni tra vicini, infortuni stradali. Per chi è coinvolto non sono reati minori. Eppure sono stata costretta a sopprimere l’ufficio: li iscriviamo ma non siamo in grado di gestirli”. Com’è la gestione quotidiana? “Come svuotare il mare con una paletta. Normali esigenze per noi diventano un incubo. Se uno si ammala, non si riesce più a leggere e smistare la posta”. Sono previsti rinforzi? “Le rare volte che c’è un concorso, va regolarmente deserto. La gente sa in che tunnel si andrebbe a infilare”. Com’è la situazione della polizia giudiziaria? “La legge prevede almeno due unità per magistrato. Noi dovremmo averne 20, sono solo 8. Siamo fuorilegge, l’ha detto anche il procuratore generale inaugurando l’anno giudiziario”. Per questo lei scrive a Roma? “Noi scriviamo, alla grande! Mille volte, periodicamente. Ma loro chissà se leggono. A Roma non sanno neanche dov’è Ivrea. Figuriamoci Borgaro, Chivasso, Leinì”. Che intende dire? “Città con crimini apparentemente comuni. In realtà sono reati-spia. E infatti indagando si scopre dopo anni che c’è la ’ndrangheta. Ma chi le fa le indagini?”. La gente si lamenta? “Eccome. Raccolgo proteste ogni giorno. Cittadini che vedono fascicoli fermi per anni. Avvocati che invocano la trattazione dei processi. Il sindacato ha pubblicato un volantino intitolato “Una catastrofe annunciata”. E lei? “Crede che non li capisca, che non veda questa indegna denegata giustizia? Sono la prima a essere mortificata, avvilita”. Avellino. Giustizia riparativa, confronto alla Casa circondariale Il Mattino, 24 aprile 2023 Hanno partecipato il magistrato di sorveglianza di Avellino, Francesca De Marinis, Girolamo Daraio e Giovanna Perna. Confronto presso la casa circondariale di Bellizzi Irpino sulla Giustizia Riparativa. Al confronto hanno partecipato il magistrato di sorveglianza di Avellino, Francesca De Marinis, Girolamo Daraio, docente di Diritto penitenziario nell’Università di Salerno, Giovanna Perna, avvocato penalista. Presente anche un gruppo di detenuti. Gli ospiti del carcere hanno posto una serie di domande per informarsi sui percorsi di Giustizia Riparativa. “L’incontro - dice l’avvocato Giovanna Perna - ha rappresentato essere una preziosa occasione di discussione e confronto su un tema, la “giustizia riparativa”, coltivato intensamente, negli ultimi decenni, dagli studiosi del sistema penale, oltre che da sociologi e criminologi, ma che non è mai riuscito a catturare, in egual misura, l’attenzione della comunità sociale; probabilmente, per una insufficiente informazione, gli strumenti e le potenzialità operative di tale innovativo modello di giustizia penale, proteso - diversamente dal sistema di giustizia penale tradizionale - a ricucire rapporti e risanare ferite, piuttosto che ad accertare responsabilità individuali”. “Del resto, fino alla recente riforma Cartabia, è mancata nel nostro paese una regolamentazione normativa di tale strumento, avente carattere, per così dire, “relazionale” e “dialogico”, in quanto basato sullo scambio comunicativo tra il reo, la vittima (anche surrogata) e/o la comunità sociale; sicché, il paradigma riparativo, se si eccettua una sua apprezzabile affermazione nell’ambito della giustizia minorile, è riuscito a ritagliarsi solo spazi periferici ed elitari, ricavati, peraltro, da previsioni normative formulate in maniera piuttosto generica e non prive di ambiguità. Con il d.lgs. n. 150/2022 è stata finalmente introdotta una disciplina organica in materia, ciò che dovrebbe determinare un sensibile ampliamento delle occasioni di ricorso alla giustizia riparativa quale strumento “concorrente” e “complementare” di gestione del conflitto generato dal reato”. “In questo nuovo scenario, favorevole all’innesto di percorsi di giustizia riparativa sia all’interno della fase della cognizione penale sia in executivis, si troverà ad operare il Centro di Giustizia riparativa - mediazione e di aiuto alle vittime di reato, denominato Il Lampione della Cantonata istituito presso la ex Caserma Litto al Corso Vittorio Emanuele di Avellino, che svolgerà azioni di mediazione reo-vittima sia in costanza dell’accertamento penale sia post iudicatum, nel corso dell’esecuzione penale, ed in particolare entro il perimetro delle misure alternative al carcere; azioni che, spesso, per essere massimamente efficaci, esigeranno l’assunzione, da parte della comunità locale, di una “corresponsabilità” nella gestione delle conseguenze del reato, nella ricerca cioè di possibili soluzioni agli effetti “distruttivi” generati dal comportamento illecito. Ciò che presuppone la maturazione di una diversa cultura delle pene, con il superamento dell’obsoleta ed insostenibile visione del carcere come unico modello di risposta sanzionatoria al reato, ed una presa d’atto dell’importanza della giustizia riparativa ai fini del superamento della situazione conflittuale interpersonale generata dal reato e della ricostituzione del patto di cittadinanza violato”, conclude l’avvocato Perna. L’eterna trappola dell’identità di Giovanni Orsina La Stampa, 24 aprile 2023 Il 25 aprile non è mai stato, non è, e a questo punto si rischia di dover ammettere che probabilmente non sarà mai, un giorno di concordia e unanimità. A settantotto anni dalla Liberazione, forse è il caso di prenderne atto e puntare le pochissime fiches condivise che ancora ci son rimaste su qualche altra data. Il 2 giugno, ad esempio. La ragione per la quale il 25 aprile continua a dividere è banale: perché alle forze politiche, tutte, è sempre convenuto e continua a convenire brandirlo come un randello assai più che trasformarlo in un terreno di convergenza. Qualche giorno fa, sul Foglio, Giovanni Belardelli ha pubblicato una storia sintetica e magistrale del giorno della Liberazione, ricostruendone la vicenda dal 1946 al 1994 e mostrando con chiarezza in quale modo, con l’eccezione di qualche sporadico momento felice, su quella data i partiti abbiano sempre litigato. Magari sarò smentito, me lo auguro davvero. Ma la marcia di avvicinamento a questo 25 aprile 2023 lascia pensare che alla storia di Belardelli aggiungeremo domani un capitolo assai simile ai precedenti. Solo, ancor più stanco e ripetitivo. L’allarme sul presunto pericolo fascista che ci ha accompagnato nei mesi scorsi, dallo scioglimento delle camere a luglio fino ai primi passi del governo Meloni, è ormai finito nella pattumiera della storia, dalla quale in verità sarebbe stato meglio non fosse mai uscito. Non hanno dato mostra di crederci gli elettori e oggi non ha più alcun credito al di fuori d’Italia, dove pure - la Penisola non essendo monopolista di sciatteria intellettuale - aveva trovato larga eco. Ciò che resta di quel brutto dibattito è il mostriciattolo, più sgraziato ancora, se possibile, col quale abbiamo a che fare oggi: una polemica miserevole su una pagina della nostra storia che meriterebbe ben altro destino. Hanno certamente contribuito a immiserirla, quella pagina, varie uscite estemporanee di esponenti di rilevo dell’attuale maggioranza - e in particolare, a dire il vero, di un singolo esponente, che siede però su uno scranno assai alto e non si risparmia nell’esternare. Ammesso che in quelle uscite ci sia una ragione politica, è presto detta: tanto meno il governo Meloni riesce a dotarsi di una chiara identità di destra attraverso provvedimenti concreti, tanto più diviene importante che quest’identità sia dichiarata a parole sul palcoscenico della nostra vita pubblica. E il governo Meloni non riesce a dotarsi di una chiara identità politica di destra perché lo spazio di manovra del quale dispone, e disporrebbe qualsiasi altro esecutivo al suo posto, è prossimo allo zero. Questo in buona sostanza - altro che fascismo! - è un governo di centro: tiene i conti in ordine, tenta di realizzare il Pnrr, preserva la continuità nelle aziende partecipate, gestisce come può i flussi migratori. Qualche provocazione di tanto in tanto, sull’antifascismo o su altro, è il minimo indispensabile a dimostrare che, sì, l’Italia in effetti è amministrata da destra. Mettete questo ragionamento davanti a uno specchio e avrete l’immagine delle opposizioni. Poiché Meloni governa dal centro, sulle questioni davvero importanti le opposizioni faticano ad attaccare: che fai, critichi il ministro Giorgetti perché tiene sotto controllo il deficit? Poiché lo spazio di manovra politico di cui dispone l’Italia è prossimo allo zero, non saprebbero proporre soluzioni alternative. In più, le opposizioni sono divise e confuse - da ultimo, la neo-leader del Partito democratico si è dimostrata cauta a tal punto da non voler prendere posizione nemmeno sull’orsa JJ4. Che cosa potrà mai esserci di meglio, allora, che una bella polemica sul 25 aprile per flettere teatralmente i muscoli di fronte all’opinione pubblica? Siamo così arrivati a un esito grottesco: il rifiuto, da parte dell’opposizione, di votare al Senato una mozione della maggioranza, nella quale ci si dichiarava contro ogni potere totalitario “e segnatamente contro il nazismo, il fascismo, il comunismo”, affermando che non avrebbe contenuto l’antifascismo. Essere antifascisti, insomma, è diverso dall’essere contro il fascismo. La politica, italiana e non solo, manca di sostanza da tanti anni, ormai. Si concentra allora sulle questioni identitarie, incluse quelle che, avendo a che fare con l’identità del Paese, dovrebbero unificare e non politicizzarsi. Con l’effetto, fra l’altro, di far del Capo dello Stato il monopolista assoluto della rappresentanza dell’unità nazionale, rafforzandolo ma anche sovraccaricandolo. “I giovani più fragili? No, io li vedo rafforzati” di Virginia Piccolino Corriere della Sera, 24 aprile 2023 La penalista Paola Severino: il loro impegno come volontari nelle carceri ne è una prova. Adolescenti più fragili e autoisolati dopo il lockdown? Paola Severino, ex ministro della Giustizia e vicepresidente Luiss di ritorno dal Festival dei giovani, dove 15-17enni hanno affollato il suo evento sulla legalità, è convinta di no. Perché? “Non li vedo più fragili. Ma rafforzati. Come chi ha superato una prova difficile. Semmai spaventati da eventi imprevedibili e quindi motivati a crearsi una professionalità, cosa che li rassicura”. Cosa glielo fa pensare? “Vederli a migliaia seguire attenti e interessati un incontro su giustizia e carcere, scambiandosi idee, è cosa che mi sorprende e mi emoziona, e fa capire che sui temi della concretezza ti seguono”. Ad esempio? “A loro mondo. Il digitale, la cyber sicurezza, specializzazioni che danno sbocchi di carriera in cui sono protagonisti. Vedo con quale passione seguono Scuola 42: modello senza insegnanti né vincoli di tempo e spazio che Luiss, mutuandolo dalla Francia, ha lanciato a Roma e Firenze. I ragazzi risolvono problemi complessi discutendo fra loro e valutando gli altri. Modello che pensiamo di proporre anche ai giovani detenuti: un aiuto a tornare alla legalità”. Gli adolescenti non sono più affascinati da modelli arroganti e violenti, da stadio? “Quel modello esiste. Ma se dialoghi con loro scopri che hanno un fortissimo senso della giustizia è dell'ingiustizia. Bisogna trasformare il pensiero critico in pensiero più profondo. E far capire perché le scorciatoie sono effimere e la giustizia ha un senso. In questo si impara reciprocamente”. Cosa intende? “Tu accendi la miccia. Poi sono i giovani con la loro vitalità e creatività a delineare le progettualità. Otto anni fa, quando abbiamo iniziato il progetto Luiss “Legalità e Merito”, rendendo studenti volontari “ambasciatori della legalità” nelle carceri, avevamo solo 8 volontari. Adesso sono izto e fanno nascere iniziative bellissime. Come lo sportello counselling in cui danno indicazioni ai detenuti su lavoro e reinserimento sociale”. Nel lockdown i ragazzi tutor hanno scoperto con i detenuti-studenti cosa significa la reclusione. Ora? “Sono più maturi. Il carcere visto da un ragazzo che per la prima volta si sente limitato della libertà ha un'altra prospettiva. Rebibbia-lockdown, il docufilm che ne abbiamo tratto, lo fa capire bene”. Tra gli adulti non cresce insofferenza alle regole? “Non dobbiamo scambiare semplificazione con abbassamento della legalità. Le regole vanno rispettate ma non devono creare l'impossibilità di decidere. E il digitale può aiutare a rendere la semplificazione trasparente”. Si riparla di modifiche alla legge Severino. Che ne pensa? “L'abuso d'ufficio è stato interpretato in maniera amplificativa. Il Parlamento è sovrano, ma se si volesse restringerlo o limitare la sospensione a reati gravi e di mafia sarei favorevole”. È il governo che crea l’emergenza migranti. Il caso dei minori non accompagnati di Francesco Tedeschi Il Domani, 24 aprile 2023 L’emergenza migratoria tanto millantata dal governo in queste settimane non dipende dai flussi migratori, quanto piuttosto dalla completa e strutturale incapacità del sistema di accoglienza di fornire tutele. La cosa è particolarmente evidente con i minori stranieri non accompagnati, per cui la legislazione italiana prevede che abbiano pari diritti a quelli di un cittadino italiano, tuttavia nella realtà non è così. Secondo Pippo Costella, direttore di Defence for Children, una ong che si occupa della tutela dei minori stranieri, “la verità è che manca la volontà politica di risolvere il problema, perché chi dovrebbe occuparsene non lo fa”. L’emergenza migratoria tanto millantata dal governo in queste settimane non dipende dai flussi migratori, quanto piuttosto dalla completa e strutturale incapacità del sistema di accoglienza di fornire tutele e accompagnamenti verso il lavoro e la società. La cosa è particolarmente evidente con i minori stranieri non accompagnati, che in quanto minori dovrebbero godere degli stessi diritti di un cittadino europeo o italiano, come stabilito dall’art 1 della legge 74 della legislazione italiana. Ma nella realtà non è così. In particolare alcune settimane fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha fatto riferimento alla mancanza di strutture di prima accoglienza adatte ad accogliere un numero crescente di minori. Tuttavia, guardando i dati che ogni mese il ministero del Lavoro raccoglie, ci si può fare un’idea ben diversa. Se nel 2017 i minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio nazionale erano 18mila, a marzo 2023 erano 19mila. E in questo senso fa strano vedere un paese di 60 milioni di persone che non riesce a gestire poco meno di 20mila minori, e fa ancora più strano vedere il ministro dell'interno parlare di un problema di sostenibilità economica nel predisporre adeguate strutture per l’accoglienza di un numero così esiguo di minori: un numero che negli ultimi sei anni d’altronde è rimasto costante. Secondo Pippo Costella, direttore di Defence for Children, una ong che si occupa della tutela dei minori stranieri, “la verità è che manca la volontà politica di risolvere il problema, perché chi dovrebbe occuparsene non lo fa”. Defence for Children - Come dimostra ciò che è successo a Defence for Children due anni fa. Quando a Genova durante la pandemia sono arrivati più minori di quanti le strutture potessero ospitarne. Tanto che l’amministrazione comunale ha deciso di letteralmente parcheggiare un numero imprecisato di ragazzi in diversi hotel sparsi per il centro storico. E complice la pandemia ha interrotto qualsiasi percorso formativo in atto, lasciandoli a vagare per i vicoli in pieno inverno con al massimo un paio di ciabatte. Una situazione che Defence for Children ha denunciato alla procura di Genova. In seguito a questo esposto tuttavia ogni istituzione locale, compreso il tribunale dei minori, i servizi sociali e le vomunità ospitanti hanno interrotto ogni dialogo con la ong. “Dopo aver denunciato questa situazione nessuna delle istituzioni ha più voluto dialogare con noi. E non si tratta certo del fatto che non siamo una realtà accreditata, lavoriamo infatti con la comunita europea, con l’Onu. Ma da allora ogni progetto che proponiamo alle realtà locali viene sistematicamente ignorato”. L’ultima volta è successo solo alcune settimane fa. Quando l’ong ha proposto all’assessorato delle Politiche sociali della città di Genova un progetto di accompagnamento per i ragazzi stranieri neo maggiorenni al mondo del lavoro: si sono sentiti rispondere picche. Molti amministratori locali parlano di “buon senso, disciplina, senza rendersi conto quale sia la condizione di questi ragazzi” continua Costella “chiaro che una struttura debba avere delle regole, ma tu non puoi basare un progetto educativo su delle regole e basta, senza avere una direzione, una progettualità, uno scopo”. E in questo senso la comunità diventa molto simile a un carcere, per cui non viene considerato come una persona ma secondo la sua necessità di dormire, mangiare e di dover fare il minimo necessario. “Ed è proprio in queste circostanze che si giocano le situazioni di violenza di cui poi sentiamo parlare alla televisione. Deve essere molto chiaro, non si tratta di fare il buonista, ma tutte le situazioni di disordini in città legati a minori stranieri sono alimentate da un fenomeno di incuria educativa, di totale mancanza di progettualità e da uno stato emergenziale che dura da troppo tempo”. Per superare questa situazione emergenziale Defence for Children ha elaborato le “10 Garanzie fondamentali per la protezione dei minorenni stranieri non accompagnati”. Ovvero un decalogo attraverso il quale l’ong si propone di fornire uno strumento di orientamento, monitoraggio e azione affinché politiche, strategie e pratiche applichino pienamente gli standard internazionali e nazionali a tutti i livelli del sistema. “L’idea era quella di proporre a pubblico e istituzioni una sintesi ragionata che potesse spiegare il problema e fornire uno strumento per uscirne. Speriamo che qualcuno decida di ascoltarci”. Il futuro inghiottito da una futurologia invasiva e presuntuosa di Giuliano Ferrara Il Foglio, 24 aprile 2023 L’Onu ha sbagliato le previsioni demografiche africane. Da quando economia, sociologia e statistica hanno cominciato a toglierci il dubbio su come saremo, siamo rinchiusi nella prigione del pessimismo cifrato e certificato. Peggio della scomparsa delle lucciole, certificazione pasoliniana e poetica di un fatto che non sussiste, è la scomparsa dell’alea, del rischio, dell’incertezza implicita nella sorte. Federico Rampini racconta che l’Onu si è sbagliata di centinaia di milioni nelle sue previsioni demografiche africane, in particolare il famoso irrefrenabile e minaccioso boom delle nascite in Nigeria. Nel 2060 i nigeriani saranno molti, ma molti di meno di quanto incautamente pronosticato, e la cosa riguarda nel complesso l’Africa intera. Con le cifre previsionali balla il futuro dei continenti, delle migrazioni forzate, dell’assetto di società emergenti decisive anche per la nostra, appunto, sorte. Con la scolarizzazione delle ragazze, con l’urbanizzazione delle megalopoli, vengono a mancare i presupposti di uno dei pilastri dell’apocalissi negromantica in voga. Non è uno statistico bastian contrario, è l’Onu stessa a sanzionare con nuove proiezioni, che rovesciano quelle vecchie e le cancellano, il suo clamoroso errore. Se la demografia è al fondo incerta, figuriamoci la climatologia. Quanto si riscalderà l’atmosfera in media, e quando, quando e quanto si innalzerà il livello dei mari e degli oceani eccetera. I modelli predittivi più sofisticati sono diventati, da aggeggi utili entro il limite del razionale, strumenti avvilenti di una scienza triste e prepotente, che invade la comunicazione, fa ideologia, ci toglie forza soggettiva, senso della storia, capacità banalmente umanistica di padroneggiare per quanto si possa il presente in nome della reverenza verso il presunto dominio scientifico sul futuro. Da quando economia, sociologia statistica futurologia e algoritmi vari forsennatamente hanno cominciato a toglierci l’alea, il rischio, il dubbio su come saremo, che è sempre la premessa per essere concretamente e riformisticamente migliori di come siamo, siamo rinchiusi nella prigione mentale del pessimismo cifrato e certificato, tutt’altra cosa dal pessimismo cosmico dei grandi poeti come Leopardi e Hölderlin. Non mi sembra un progresso, né etico né storico, questo trionfo delle pseudoscienze. L’Onu non sa bene cosa fare, come si vede quando il rischio di una guerra o di una concatenazione di guerre, riarmi, schieramenti, ma anche pandemie, diventa improvvisamente realtà. L’ozio è il padre dei vizi, e l’Onu di tempo per oziare senza vero potere di mediazione, di intervento, di ricognizione, ne ha tanto. Lo usa autorevolmente per modellare un futuro che non esiste finché non arrivi. E’ per dirla con Lollo la “sostituzione tecnica”, una futurologia invasiva e presuntuosa forgia mentalità, diffonde messaggi fuorvianti, istiga le giovani generazioni a scioperare di venerdì a scuola e a imbrattare i muri durante il weekend. Poi ci si rende conto che l’appello al rigore dei conti globali o cosmici era infondato, che curve e algoritmi facili non ci guidano lungo una strada sicura, e a un certo punto la stessa immensa macchina mangia-idee, mangia-criteri e mangia-soldi che spinge i governi alle loro retoriche spesso farlocche fa marcia indietro e ci informa che erano tutte balle o possibilità invece che probabilità statisticamente dimostrabili quando l’arte o tecnica dei numeri è versata al futuro. Spese militari: sono al record storico di 2.240 miliardi di Carlo Ciavoni La Repubblica, 24 aprile 2023 La Campagna Globale che chiede lo spostamento delle risorse verso politiche civili. L'obiettivo della Rete Italiana Pace e Disarmo è proteggere le persone e il pianeta, “serve un'inversione di tendenza contro la minaccia della crisi climatica”. Quei 100 miliardi mai spesi per mitigare il clima. Trainati dalle decisioni conseguenti al conflitto in Ucraina - rende noto la Rete Italiana Pace e Disarmo - gli investimenti militari mondiali nel 2022 sono cresciuti rispetto all'anno precedente del 3,7% in termini reali, secondo le stime SIPRI, l'Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma. Un aumento di 127 miliardi sul 2021; contemporaneamente, ci sono più di 100 miliardi promessi, ma mai raggiunti per mitigare la crisi climatica. La Campagna Globale sulle spese militari chiede dunque lo spostamento delle risorse verso politiche civili, che proteggano persone e pianeta. In termini assoluti, la spesa militare mondiale nel 2022 ha raggiunto la somma record di 2.240 miliardi di dollari complessivi. Gli USA al vertice della classifica delle spese militari. Secondo i dati appena diffusi, la spesa militare degli Stati Uniti è aumentata dello 0,7%, raggiungendo gli 877 miliardi di dollari: il governo di Washington resta di gran lunga al vertice della classifica, con il 39% della spesa militare globale (3 volte maggiore del Paese al secondo posto, cioè la Cina). Pechino ha aumentato la propria spesa militare per il 28° anno consecutivo (+4,2% a 292 miliardi di dollari) raggiungendo il 13% della quota globale. A causa del conflitto sul territorio ucraino, iniziato con l'invasione decisa da Putin, si stima che la spesa militare della Russia sia cresciuta del 9,2% nell'ultimo anno, raggiungendo gli 86,4 miliardi di dollari (terzo Stato al mondo). Anche l'Ucraina avanza nella classifica. L'Ucraina è entrata per la prima volta nella top 15 (all'11° posto) a causa di un enorme aumento del 640% della propria spesa militare. Il SIPRI segnala una riduzione della spesa militare italiana che invece non è riscontrabile nei dati di dettaglio sempre in crescita elaborati dall'Osservatorio delle spese militari italiane - Osservatorio Mil€x - (e nemmeno da quelli NATO, per i quali vi è una sostanziale stasi). Nel 2022 la spesa militare europea è aumentata del 13%, il più grande incremento annuale nella regione nel periodo successivo alla guerra fredda. La spesa totale di tutti i 30 membri della NATO ammonta a 1.232 miliardi di dollari nel 2022, pari al 55% della spesa complessiva. Scelte incoerenti rispetto agli annunci rispetto al clima. I dati dell'Istituto di ricerca svedese confermano le preoccupazioni evidenziate dalla dichiarazione congiunta della Campagna internazionale contro le spese militari GCOMS, diffusa durante le Giornate di Mobilitazione globale, focalizzata soprattutto sulla minaccia esistenziale derivante dalla crisi climatica. Secondo le Organizzazioni partecipanti (tra cui Rete Italiana Pace e Disarmo) l'aumento continuo delle spese militari “è incoerente con gli sforzi per raggiungere gli obiettivi essenziali di emissioni e aggraverà, non arginerà, l’emergenza climatica. La guerra e i conflitti armati non portano solo morte e distruzione, ma anche devastazione dell’ambiente e distruzione del clima”. Nonostante i Governi continuino a ripetere che sono spese utili per la difesa “alla fine ci renderanno indifesi di fronte alla minaccia della crisi climatica”. Ci si è concentrati su decisioni aggressive. Dopo aver elencato i motivi per cui le strutture militari mondiali contribuiscono alla crisi climatica la Campagna GCOMS evidenzia come “La leadership politica globale si è concentrata su scelte aggressive e militarizzate” che non fanno altro che alimentare “tensioni e paure invece di coltivare relazioni internazionali basate sulla fiducia reciproca, sulla diplomazia e sulla cooperazione - tre componenti essenziali per affrontare la natura globale della minaccia climatica”. Di conseguenza “i fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmo e le iniziative di giustizia globale, vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato” come i dati SIPRI appena diffusi dimostrano. Le quattro richieste urgenti ai Governi. 1 - cambiare rotta e concentrarsi su tagli rapidi e profondi alle spese militari, che alimentano la corsa agli armamenti e la guerra 2 - smilitarizzare le politiche pubbliche, comprese quelle destinate ad affrontare la crisi climatica 3 - attuare politiche incentrate sull’umanità e sulla sicurezza comune, che proteggano le persone e il pianeta e non l’agenda del profitto delle industrie delle armi e dei combustibili fossili 4 - creare strutture di governance e alleanze basate sulla fiducia e la comprensione reciproca, sulla cooperazione e sulla vera diplomazia, in cui i conflitti vengono risolti attraverso il dialogo e non con la guerra. Perché la crisi della Tunisia è un problema italiano di Francesco Battistini e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 24 aprile 2023 Il 10 aprile un calciatore tunisino, Nizar Issaoui, si è dato fuoco per contestare il governo: una protesta identica a quella dell’ortolano Mohamed Bouazizi che il 17 dicembre 2010 s’era incendiato, scatenando le Primavere arabe prima in Tunisia, poi in Egitto, in Libia e in Siria. Dodici anni dopo quella rivoluzione, che spazzò via la dittatura di Ben Ali ma ha reso i tunisini ancor più poveri, è cambiato poco. E nel frattempo la Tunisia, che dista solo 130 km da noi, è diventata un problema italiano. Il 90% dei giovani vuole emigrare - Nel 2022, l’Italia ha superato la Francia ed è ora il primo partner commerciale dei tunisini; dall’inizio della guerra in Ucraina l’Eni sta rimpiazzando le forniture di gas russo con quelle algerine, e il gasdotto Transmed Enrico Mattei passa proprio per la Tunisia. E all’Italia puntano i migranti: mentre in Libia ne sono detenuti 685 mila, tutti determinati a partire, i porti di Sfax, Zarzis e Mahdia si sono riempiti di disperati dell’Africa subsahariana. Nei primi tre mesi di quest’anno la Guardia nazionale tunisina ha intercettato e riportato indietro 14.406 migranti, contro i 2.532 dell’anno scorso. Sono invece partiti e sbarcati sulle nostre coste in 18.893, di cui 2.764 hanno passaporto tunisino. Questo il dato del 18 aprile. Nello stesso periodo dello scorso anno non arrivavano a duemila. Dal sondaggio dell’Observatoire National de la Migration emerge: “L’emigrazione dalla Tunisia è diventata un comportamento sociale” che attraversa ogni famiglia. Il 65% dei tunisini dichiara di volersene andare “a qualsiasi costo”. La percentuale sale al 90% se si tratta di giovani sotto i trent’anni. Dunque, quello che succede in Tunisia ci riguarda direttamente. Cosa è successo? Negli ultimi dodici anni il Paese è riuscito a evitare i disastri della Libia o della Siria, dandosi una nuova Costituzione, rifiutando l’integralismo islamico, riconoscendo più diritti alle donne e ricevendo, alla fine, pure un Nobel per la pace. Il problema è che in questi dodici anni la Tunisia ha avuto sei presidenti, nove premier e undici governi, e non si è costruito nulla, perfino l’aeroporto Tunis-Carthage è ancora fermo agli anni ’70. La stagione degli attacchi terroristici dalla vicina Libia, come la strage del Bardo che nel 2015 uccise anche quattro italiani, ha azzerato una delle principali risorse, il turismo. Il Covid poi ha dato la mazzata finale. Il debito estero è di 19 miliardi di euro e il creditore principale per il 59% è la Ue. L’inizio della fine - Nel 2019, sull’onda delle proteste popolari contro una classe politica corrotta e incapace, è stato eletto il presidente Kaïs Saïed: un giurista sconosciuto ai più, che parla un arabo classico per molti tunisini quasi incomprensibile, e combatte la politica delle coalizioni che ha retto il Paese dopo la fine della dittatura. L’opposizione, oggi riunita nel Fronte di salvezza nazionale, non conta nulla: Saïed ha messo all’angolo i sindacati che hanno fatto la Rivoluzione, e il 17 aprile ha arrestato l’anziano leader degli islamisti di Ennhada, Rashid Gannouchi, con l’accusa di terrorismo. In poco più di tre anni ha fatto approvare con un referendum popolare cambiamenti alla Costituzione per attribuirsi ampi poteri; ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura, revocando arbitrariamente 57 giudici e istituendo tribunali militari per oppositori, giornalisti, imprenditori. Ha mandato a processo il proprietario della principale voce d’opposizione, Radio Mosaique; ha azzerato la Corte costituzionale e esautorato il Parlamento, facendone eleggere a dicembre 2022 uno senza partiti e votato solo dal 12% della popolazione. Ha limitato per decreto le attività e i finanziamenti delle ong; ha nominato premier una donna, la prima nella storia dei Paesi nordafricani e mediorientali, senza poi darle veri poteri. Il collasso - Oggi si importa tutto, a partire dal cibo: l’inflazione sopra il 10% ha fatto aumentare i prezzi alimentari al supermercato del 13%, l’olio e la frutta (in un Paese che la produce) del 20%, le uova del 25%. Il costo della baguette è calmierato, ma i quasi quattromila panettieri sono spesso senza luce, causa la siccità che in cinque anni ha ridotto anche dell’80% gli invasi, e sono senza farina perché il governo non può pagare il grano tenero importato. Faticano le 800 piccole e medie imprese italiane, mentre se ne vanno nel più stabile Marocco le multinazionali straniere che avevano delocalizzato qui: da Novartis a Yazaki, da Gsk a Shell, da H&M a Bayer, da Ooredoo a Pfizer. Tengono solo le esportazioni d’olio d’oliva e di fosfati. Ad aumentare davvero sono le rimesse dall’estero degli emigrati verso le loro famiglie: Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto scrive che nel 2022 sono arrivati 2,085 miliardi di dollari. Il prestito bloccato - Per non fallire Saïed ha bisogno di soldi. A dicembre 2022 il Fondo monetario internazionale gli ha bloccato il prestito da 1,9 miliardi di dollari: Fmi e la Banca Mondiale esigono prima vere riforme come l’eliminazione dei sussidi sociali, i tagli alla scuola e alla sanità, l’innalzamento dell’età pensionabile, le privatizzazioni. Saïed non ne vuole sapere perché teme la rivolta di piazza. È in un vicolo cieco: senza riforme niente soldi, dice l’Fmi; “ma senza soldi, non posso fare le riforme”, replica Saïed. In questo modo il presidente sa di chiudersi le linee di credito dall’Europa, di rischiare un nuovo declassamento del debito sovrano da parte delle agenzie di rating, e di aumentare ancora di più l’inflazione e i tassi d’interesse. Con il pericolo default. O che si aprano le porte per nuove alleanze. Il leader algerino Abdelmadjid Tebboune, uomo molto vicino al Cremlino, a fine marzo ha proposto di “annullare il ricatto iniquo” del Fmi con una “Riunione dei donatori” (sauditi, emiratini, qatarini) che racimolino 3-4 miliardi di dollari. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha fatto la sua prima telefonata a Tunisi dopo più d’un anno, promettendo collaborazione. Il ministro degli Esteri italiano Tajani avverte: “Se in Tunisia non arriva l’Occidente, arrivano i russi. E noi non vogliamo basi russe nel centro del Mediterraneo”. Via libera ai migranti - Un modo per cavarsela è quello di giocare la carta dei migranti. Il 21 febbraio, il presidente fa un discorso molto duro, e incolpa della pessima situazione economica i subsahariani “che ci hanno invaso”, e grida: “Forze straniere favoriscono l’arrivo d’africani cristiani per minacciare la nostra identità araba e islamica”. Ordina una vera caccia al nero con l’espulsione di centinaia di cittadini del Mali, della Guinea, del Senegal, e chiede all’Europa soldi per fermare l’onda migratoria pronta a partire, come fece per la Turchia di Erdogan. Se l’Ue non paga, in fondo gli va bene comunque: da una parte diventa determinante nel Mediterraneo, e dall’altra fa partire per l’Italia i tunisini che possono creargli più rogne, e intanto aumenta le rimesse dall’estero. La foto ricordo - Giorgia Meloni ha portato il problema a Bruxelles: “La Tunisia è una nazione amica, va aiutata in un momento di difficoltà”. L’Italia ha già varato diversi piani d’aiuto, l’ultimo riguarda uno stanziamento da 200 milioni fra il 2021 e il 2023, ed include anche un pacchetto di motovedette e droni per il controllo delle partenze. A fine aprile il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, quello francese Gérald Darmanin, e la commissaria per gli Affari interni Ue Ylva Johansson, sono annunciati a Tunisi per discutere la questione. Ma se non arriveranno con i soldi, con Saïed ci sarà poco da negoziare. E un progetto organico alternativo non c’è. Resta un suk sulla pelle dei disperati, con l’Italia fra i clienti privilegiati. Bangladesh. La lotta per i lavoratori nata sulle macerie del Rana Plaza di Emanuele Giordana Il Manifesto, 24 aprile 2023 Dieci anni fa il crollo del complesso residenziale a Dacca che ha fatto 1.138 vittime. Il prossimo 24 aprile ricorrono dieci anni dal crollo del Rana Plaza, a Dacca, capitale del Bangladesh. Era un complesso residenziale che da tempo mostrava segni di cedimento e che si accartocciò su se stesso uccidendo 1.138 lavoratori e ferendone più di duemila. Quello che viene considerato il più grande disastro mortale nella storia della produzione tessile - il palazzo di otto piani ospitava cinque fabbriche tessili fornitrici dei principali marchi internazionali della fast fashion - è stato ricordato nei giorni scorsi in diversi eventi online da sindacalisti e organizzazioni che da allora hanno dato battaglia perché i marchi del tessile riconoscessero i risarcimenti e perché venissero applicate nuove leggi a tutela di chi lavora. Una battaglia con diversi successi e una campagna, che riparte in questi giorni nel mondo, per ricordare non solo quella strage ma i passi ancora da fare. Si deve alla pressione di sindacati e coalizioni di associazioni - come la campagna Clean Clothes (in Italia “Abiti puliti”), Remake o Worker Rights Consortium - se decine di marchi dell’abbigliamento e rivenditori firmarono infatti l’anno dopo l’Accordo sulla sicurezza antincendio (Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh) cosa che ha reso più sicuri i luoghi di lavoro per almeno 2.5 milioni di lavoratori tessili nel Paese. Nel 2013 viene stipulato anche il Rana Plaza Arrangement per il risarcimento delle famiglie delle vittime e dei lavoratori rimasti inabili. Un accordo su risarcimenti complessivi per 30 milioni di dollari. Sui limiti di quell’accordo riflette Deborah Lucchetti di “Abiti puliti”: “I limiti sono costituiti dalla inadeguata base salariale su cui è stato calcolato l’indennizzo, dato lo scarto tra i minimi salariali e il livello considerato dignitoso secondo benchmark credibili e l’esclusione dei danni psicologici per dolore e sofferenza, non ricompresi nella convenzione 121 dell’Ilo (Ufficio internazionale del lavoro). Una aporia del sistema tuttora irrisolta e che costituisce una delle principali sfide dell’attuale dibattito sull’accesso alla giustizia nella imminente direttiva europea sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile”. Indubbiamente però l’accordo è un successo e anche in Pakistan si arriva a un’altra vittoria. Recente. Un nuovo accordo (Pakistan Accord) nasce nel dicembre 2022, ispirato a quello del Bangladesh, firmato dopo il crollo del Rana Plaza, un riferimento divenuto ormai ineludibile. A metà febbraio 2023, si contavano già 33 marchi firmatari per un totale di 300 fabbriche protette. Anche questo accordo ha un triste precedente: l’incendio della fabbrica Ali Enterprises di Karachi nel 2012, il peggior incendio nella storia dell’industria tessile globale. Morirono oltre 250 operai. Anche questo accordo ha vinto grazie a una forte pressione di attivisti e sindacati. Ecco perché “il decennale del crollo del Rana Plaza offre la straordinaria opportunità di riflettere sull’efficacia degli accordi raggiunti per la protezione della vita delle lavoratrici tessili in Bangladesh e dal 2023 anche in Pakistan. Auspichiamo - dice ancora la coordinatrice della Campagna Abiti Puliti - che le imprese italiane operanti in quei paesi, decidano di aderire agli accordi, dimostrando di mettere in pratica condotte di impresa responsabili in grado di prevenire gli incidenti sul lavoro e costruire una vera cultura della sicurezza”. Nel decennale del Rana Plaza infatti vedrà la luce la direttiva europea sulla Corporate Sustainability Due Diligence, ormai al termine del lungo processo negoziale. “Senza cedere a sin troppo facili valutazioni - conclude Lucchetti - non può sfuggire il fatto che la natura vincolante dell’Accordo sulla sicurezza, nella sua originale articolazione tra obblighi per le imprese, meccanismi rimediali, apparato sanzionatorio e trasparenza, rappresenti il più efficace esempio di due diligence applicata ante litteram”.