“Tutelare il lavoro della Polizia penitenziaria, senza toccare il reato di tortura” di Angelo Picariello Avvenire, 23 aprile 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari è reduce da una serie di visite ispettive nelle carceri, nel corso delle quali, anche interloquendo con i direttori e il personale di vigilanza, ha maturato la convinzione che occorra intervenire a tutela del loro lavoro, spesso oggetto di denunce temerarie: “Servirebbe - auspica Ostellari - una proposta di legge che, senza intervenire sulla tortura, agisca invece sui protocolli interni in situazioni particolari”. La proposta di Fdi che punta ad abolire il reato di tortura, oltre a toccare principi di umanità garantiti dalle norme internazionali, non stride anche con i principi costituzionali? La questione non si pone. Il ministro Nordio ha chiaramente affermato che “il reato di tortura è odioso e il governo ha tutte le intenzioni di mantenerlo”. L’articolo 117 della Costituzione pone dei vincoli al legislatore, che trovano il loro perimetro nel rispetto degli obblighi e degli strumenti internazionali a cui l’Italia ha aderito, quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la Convenzione Onu del 1984. Perché intervenire su una materia così scivolosa? La politica deve dare risposte dove servono, assumendosi la responsabilità di compiere delle scelte. È un fatto, riconosciuto un po’ da tutte le sigle sindacali, che gli agenti di Polizia Penitenziaria in forza negli Istituti italiani non abbiano un dispositivo adeguato che ne assicuri la piena ed efficace operatività. E questo non va solo a scapito del personale di sorveglianza, ma anche dei ristretti. Faccio un esempio: se un detenuto appicca il fuoco ad un materasso e rifiuta di abbandonare la cella, gli agenti, per salvarlo, sono costretti a trascinarlo fuori con la forza. A oggi quest’azione potrebbe essere oggetto di incriminazione. Come pensa si possa intervenire senza violare i principi costituzionali? L’idea è di lasciare invariato l’articolo 613 bis del codice penale, che identifica il reato di tortura e intervenire, piuttosto, sull’articolo 53 che disciplina l’uso legittimo della forza, consentendone l’applicazione entro margini più ampi di quelli attuali, come per esempio quando si necessiti di eseguire un arresto regolare. Unitamente, prevedendo una serie di modifiche al Regolamento sull’ordinamento penitenziario, che stabiliscano, attraverso un protocollo chiaro, degli orientamenti operativi la cui osservanza metta gli agenti al riparo da eventuali successive contestazioni. Non si rischia così lo stesso di andare a coprire gli abusi, anche gravi, che purtroppo sono stati acclarati in alcuni casi? Il rispetto delle regole deve valere per tutti e se qualcuno sbaglia va punito. Premesso questo, a legislazione vigente, l’operatività della Polizia Penitenziaria, e anche in generale delle altre Forze dell’Ordine, è inequivocabilmente vulnerata. Un passo in avanti serve a tutti. A volte invece sembra che ci sia l’esigenza di piazzare bandierine... Non si tratta piantare bandierine ideologiche, ma migliorare il sistema dell’esecuzione penale. Avendo ben in mente un obiettivo: ricomporre la pericolosa divisione ideologica fra diritti dei detenuti e diritti del personale, che ha sempre impoverito il dibattito e quindi impedito scelte appropriate. Non si tutelano i primi senza la garanzia dei secondi e viceversa. Tanto quanto non si costruisce la sicurezza nelle nostre comunità, senza la piena la rieducazione di chi è detenuto. La Costituzione indica la strada: le pene vanno eseguite senza sconti, assicurando ai detenuti di accedere ad un trattamento adeguato, che ne consenta la piena riabilitazione. Il motto della Polizia Penitenziaria è “Despondére spem munus nostrum”, “Il nostro compito è garantire la speranza”. Collaboriamo con responsabilità a renderlo sempre più vivo e fecondo. Pisa. “Carcere Don Bosco dimenticato, ma vive una situazione drammatica” La Nazione, 23 aprile 2023 “Pisa ha la fortuna di avere una struttura carceraria che è ben inserita nel tessuto urbano cittadino. Eppure le persone detenute e chi lavora al Don Bosco sono costantemente dimenticate nel dibattito elettorale così come nei programmi dei candidati a sindaco: ma la situazione della casa circondariale è drammatica. come testimoniano i rapporti di Antigone e la senatrice Ilaria Cucchi nella sua recente visita”. Lo denunciano i candidati di Una città in Comune (candidato sindaco Ciccio Auletta), Tiziano Checcoli e Moreno Pietrobon. “Il gruppo Diritti in Comune - aggiungono - è stato l’unico che in Consiglio Comunale ad avere ripetutamente sollevato queste problematiche, attraverso interpellanze e ordini del giorno. Nel nostro programma elettorale per il governo della città sono ben chiare le linee di intervento per affrontare in maniera strutturale i problemi del Don Bosco: è urgente la realizzazione di una struttura esterna per accogliere i familiari dei detenuti in attesa dei colloqui, così come la creazione di uno sportello interno per l’accesso ai procedimenti amministrativi comunali dei reclusi, in linea con le indicazioni del garante nazionale”. Secondo Checcoli e Pietrobon “l’amministrazione comunale deve poi farsi parte attiva nel potenziare i servizi di mediazione sociale, linguistica e culturale, nonché nell’ingresso del mondo produttivo in carcere, con percorsi professionalizzanti ben strutturati, in collaborazione col centro per l’impiego: questo serve soprattutto nella sezione femminile che, per l’esiguo numero di detenute, vive uno stato di abbandono formativo e lavorativo se possibile maggiore del resto della popolazione carceraria, così come è necessario potenziare l’intervento del Comune per garantire l’accesso alle misure alternative alla detenzione attraverso percorsi di inclusione per ridurre il sovraffollamento e offrire concrete opportunità di reinserimento”. Rovigo. “Carcere, arriva nuovo padiglione da 80 posti” di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 23 aprile 2023 Il sottosegretario Ostellari: il cantiere all’inizio del 2024. “E l’istituto non potrà più essere a bassa sicurezza”. Partiranno a inizio 2024 i lavori di ampliamento del carcere del capoluogo polesano. Lo spiega il senatore della Lega, Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti che, di recente, ha visitato la struttura rodigina. La nuova Casa circondariale, capace di accogliere 250 detenuti per circa 150 agenti previsti in organico, è stata inaugurata nel 2016. Da allora, oltre alle costanti recriminazioni sindacali per l’insufficiente numero di agenti, non sono mancati episodi di proteste di detenuti e - lo scorso agosto - anche la scoperta dell’introduzione di sei cellulari, 10 schede Sim e circa 90 grammi di hashish nella struttura. Ostellari, a che punto è il progetto di ampliamento del carcere rodigino coi fondi Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, Ndr)? “Per il carcere di Rovigo è prevista la realizzazione di un ulteriore padiglione da 80 posti, finanziato con i fondi del Pnrr. Confido che, eseguiti bandi e aggiudicazioni, i lavori possano iniziare nei primi mesi del 2024”. Previsto un aumento di agenti al carcere di Rovigo? “Dopo stagioni di tagli, il governo Meloni ha invertito il trend, incrementando la dotazione organica di 1.000 unità a livello nazionale. Riguardo Rovigo, come per tutti gli altri istituti di pena italiani, saranno i Provveditori regionali a definire modalità e destinazione dei nuovi agenti”. Previsto un aumento di classificazione del carcere rodigino, ora a bassa sicurezza? “Risulta sia stato sollecitato un intervento in merito all’elevazione della classificazione del livello di complessità attribuito all’istituto, che consentirebbe peraltro di aumentare le previsioni organiche”. Previsto un nuovo direttore in pianta stabile? “Ogni penitenziario ha se possibile, di un bisogno, direttore e di un comandante in pianta stabile. Anche su questo stiamo lavorando”. Quali i progetti del ministero di Grazia e Giustizia per la struttura rodigina? “Se il detenuto impara un lavoro in carcere, poi, nel 98% dei casi, esce dal circuito criminale. Vogliamo portare le aziende dentro i penitenziari e far lavorare i detenuti. La Casa circondariale di Rovigo, di recentissima costruzione, ha spazi adeguati e altri che potrebbero essere introdotti per favorire questo tipo di attività. Per questo sarà protagonista di questa nuova visione del trattamento dei detenuti”. Vercelli. Protesta in carcere, cento detenuti si rifiutano di tornare in cella di Andrea Zanello La Stampa, 23 aprile 2023 Protesta in carcere a Vercelli, dove venerdì sera un centinaio di detenuti si è rifiutato di rientrare in cella. La conferma arriva dall’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. La protesta, scrive l’Osapp “è iniziata venerdì sera, quando i detenuti si sono rifiutati di rientrare nelle loro celle e hanno iniziato a protestare sbattendo ripetutamente pentolame contro le inferriate. Secondo alcune fonti, la protesta sarebbe motivata dalle nuove disposizioni impartite dalla direzione del carcere, non gradite ai detenuti”. Da una decina di giorni la casa circondariale di Vercelli ha una nuova direttrice, Caterina Ciampoli, in arrivo dalla Toscana. Con il passare delle ore la situazione è rientrata. Si è attivato anche il ministero della Giustizia. A Vercelli ieri mattina è arrivata il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Rita Russo per verificare la situazione. Durante la protesta però i trasferimenti di detenuti in arrivo sono stati bloccati. La popolazione carceraria a Biliemme, allo scorso 20 marzo, era di 291 persone, 263 uomini e 28 donne “quando la capienza regolamentare si attesta a 205 uomini e 22 donne”, ricorda Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. La provincia intanto è ancora in attesa della nomina del Garante delle persone private della libertà personale dopo le dimissioni di Manuela Leporati presentate nei primi mesi dell’anno. “In generale - ha detto Mellano - occorre rilanciare un’azione coordinata fra istituzioni e territorio per dare concrete occasioni formative e lavorative ai detenuti, per incidere sulla recidiva e sui fenomeni di autolesionismo e suicidio. Non solo: la sanità penitenziaria è in difficoltà, serve avviare davvero e subito l’ipotizzata progettualità di riorganizzazione e ristrutturazione degli spazi sanitari, lavori da fare in condivisione fra amministrazione penitenziaria e Asl”. Milano. La brigata selvaggia di Eraldo Affinati Avvenire, 23 aprile 2023 Dove saranno ora i ragazzi del Beccaria, il carcere minorile milanese, nel quartiere degli Inganni, dal nome del vedutista bresciano Angelo, che conobbi ormai tanti anni fa quando li andai a trovare invitato dal loro professore? Forse perduti nelle contrade del mondo, a trafficare commerci illegali, oppure portati in salvo dal gorgo in cui stavano. Da quel tempo lontano, quando scesi a Bisceglie, alla fermata metropolitana della linea rossa, ne incontrai tanti altri, della loro stessa risma, da Casal del Marmo a Roma al Ferrante Aporti a Torino: una brigata selvaggia di adolescenti feriti e pericolosi, nati in contesti a rischio, carrozzoni di nomadi o famiglie spezzate, ma anche nella bambagia dell’ipocrisia borghese, cresciuti nei meandri delle jungle urbane, formati all’università del crimine, quali quasi sempre sono gli istituti di pena, destinati all’eterna ronda dei prigionieri immortalata da Van Gogh. Quelli ambrosiani restano nella mia mente come giovani paladini condannati in cerca della difficile redenzione: italiani, sudamericani, maghrebini, slavi. Tutti riuniti intorno a me, nello spazio in cattività dell’aula dietro le sbarre, impegnati a chiedermi la soluzione di un problema che da soli non riuscivano a risolvere. Quel giorno Milano mi sembrò il fossato dell’Europa. Milano. Sistemata e catalogata dai detenuti la collezione di duemila testi di Roberta Rampini Il Giorno, 23 aprile 2023 Esempio concreto della fiducia nell’uomo e nella possibilità del suo riscatto che hanno sempre ispirato l’impegno civile del giurista Valerio Onida. Gli oltre duemila libri che erano appartenuti al costituzionalista ora sono a disposizione dei detenuti. Sono stati loro nei mesi scorsi a sistemare e allestire lo spazio. Ciascuno in base alle proprie capacità. Con le proprie mani. I detenuti artisti, per esempio, hanno realizzato murales e scritte. Altri hanno catalogato e sistemato i libri negli scaffali suddivisi per argomento. Un esempio di “giustizia riparativa”. “Io me lo ricordo molto bene il giudice Onida - racconta Dario Comini, detenuto definitivo del quinto reparto -: ha dato molto a questo carcere, si è messo a servizio dei detenuti e io ho avuto la fortuna di collaborare con lui allo Sportello giuridico per aiutare gli altri detenuti, soprattutto quelli stranieri, che non avevano l’avvocato e non capivano niente delle leggi italiane. Oggi allo Sportello ci sono 5-6 detenuti volontari che, dopo un corso di formazione, ascoltano e danno assistenza giuridica ai detenuti di tutti i reparti. Onida è stato un grande esempio, era giusto intitolare a lui lo sportello. La biblioteca che abbiamo inaugurato è uno spazio di evasione, nel senso letterario del termine, uno spazio di cultura e di studio”. E poi rivolgendosi alle autorità presenti Comini ha aggiunto: “Dovete dare fiducia alle persone che sono qui e che vogliono riabilitarsi”. Concorda il direttore Leggieri: “Ringrazio la famiglia Onida, vostro padre ha donato ai detenuti il suo sapere giuridico e lasciato una traccia indelebile. Ora con la donazione della sua biblioteca personale continuerà a illuminare l’orizzonte della nostra comunità carceraria”. Esempio virtuoso anche della collaborazione tra chi il reparto del carcere lo vive quotidianamente, gli agenti della polizia penitenziaria e l’ispettore Rosa Cimadono, che raccontando il lavoro fatto dai detenuti e il senso di quel luogo si commuove. Milano. Difesa dei diritti, la lezione di Valerio Onida di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 aprile 2023 In tram dal centro di Milano a Bollate non sono dieci minuti, anzi. Ma è così che ogni sabato Valerio Onida, con buona pace delle comodità che avrebbe potuto prendersi anche da presidente emerito della Corte Costituzionale, andava a fare il volontario in quel carcere alle porte di Milano dove dal 2002 - una rivoluzione per l’epoca, una rarità tuttora - funzionava e funziona uno Sportello giuridico di consulenza per i detenuti. Lui arrivava, li ascoltava, e si occupava delle loro richieste. Quasi sempre provenienti dai più abbandonati tra loro, poveracci e stranieri, regolarmente mollati dai difensori d’ufficio un minuto dopo la condanna: lui scriveva istanze, dava consigli, presentava reclami, rompendo le scatole agli uffici di competenza finché i rispettivi fascicoli non venivano esaminati. E vinceva. Ieri, a pochi giorni dall’anniversario della scomparsa avvenuta il g maggio 2022, quello Sportello giuridico è stato intitolato alla sua memoria. E nello stesso giorno la sua famiglia ha formalmente donato al carcere l’intera biblioteca privata del professore: duemila libri, non solo i testi di legge ma i romanzi della sua vita, da Manzoni a Calvino, da Amos Oz a Isaac B. Singer, catalogati nei mesi scorsi da una squadra di detenuti, volontari, agenti della polizia penitenziaria, tutti insieme. “Alla memoria di un grande uomo”, c’è scritto sulla targa all’ingresso dello Sportello. “Infaticabile difensore dei diritti della persona - si legge su quella della biblioteca - e sempre vicino agli ultimi”. È stato il figlio Marco a prendere la parola a nome dei fratelli e della mamma Ida lì accanto per dire che le due intenzioni - la dedica da parte del carcere e la donazione da parte della famiglia - si sono praticamente sovrapposte e “adesso è una grande emozione vedere la biblioteca di papà ricostruita qui come era a casa sua”. “Un privilegio - ha detto Dario Comini, uno dei detenuti che hanno partecipato al suo allestimento - essere coinvolti in questo lavoro”. “Fiducia” è stata la sua richiesta alle istituzioni presenti, idealmente a nome di tutti i detenuti d’Italia. Lo stesso Valerio Onida, in un video riproposto subito dopo l’inaugurazione, di richieste ne indicava anche altre due: più educatori e strutture adeguate. Di istituzioni, invitate dal direttore del carcere Giorgio Leggieri, ieri ce n’erano parecchie e la speranza sarebbe di potere interpretare già questo come un segno. C’erano la presidente attuale della Corte costituzionale, Silvana Sciarra, e l’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a ricordare non solo la figura di Onida quale “maestro” ma la sua lezione riguardo al senso della pena così come riassunto nell’articolo 27 della Costituzione: rieducazione e reinserimento, non vendetta. È venuto il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. Presente come sempre la presidente del Tribunale di sorveglianza milanese, Giovanna Di Rosa. E c’erano tra gli altri gli ex direttori di Bollate, Massimo Parisi e Lucia Castellano: “Ma perché è così difficile - ha concluso quest’ultima - esportare questo modello nel resto d’Italia?”. Lecce. “Ma’. Di parti e rinascite nel carcere femminile” spazioapertosalento.it, 23 aprile 2023 È stato presentato a Lecce, nella Casa circondariale di Borgo San Nicola, ieri mattina venerdì 21 aprile, il progetto “Ma’ - Di parti e rinascite nel carcere femminile”, vincitore del bando “Futura, la Puglia per la parità”, promosso dal Consiglio Regionale pugliese. La presentazione è avvenuta durante un incontro, al quale hanno partecipato la presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone, la direttrice della Casa Circondariale, Mara Teresa Susca, il direttore del Polo biblio-museale salentino, Luigi De Luca, e per Ama, l’Accademia mediterranea dell’attore, il direttore Franco Ungaro e le attrici-pedagoghe Carmen Ines Tarantino e Benedetta Pati insieme all’associazione Antigone. Per le Edizioni Kurumuny, è intervenuto Giovanni Chiriatti. Il progetto, di carattere educativo, è incentrato sul tema dell’essere madri, e nella stessa Casa circondariale, coinvolgerà alcune detenute, nonché donne madri dei settori educativo, amministrativo, medico e di polizia penitenziaria, che verranno chiamate ad utilizzare i linguaggi del teatro e del video, al fine di indagare, raccogliere e restituire, all’esterno e all’interno del carcere, frammenti emotivi, visivi e narrativi. Tutte, inoltre, concorreranno alla realizzazione di una trama innovativa e inedita. La finalità del progetto, è di evidenziare la condizione delle madri recluse, attraverso un’attività di ricerca e di laboratorio teatrale, che porterà a realizzare una coralità di racconti e testimonianze da far confluire in un lavoro di arte audiovisiva, realizzato da Mattia Epifani di Muud Film, e dalle già citate Tarantino e Pati. “Perché l’8 marzo non sia solo una serie di convegni parlati - ha dichiarato la presidente Capone - per questo nasce il bando Futura, e perché volevamo essere di supporto a tutte quelle bellissime realtà, culturali e sociali, con progetti straordinari e utili che, però, non prevedono sbigliettamento e quindi rischiano di restare chiusi in un cassetto. La risposta è stata a dir poco incredibile e i contenuti tutti di sostanza, quella bella che indaga e va a fondo, che fa del dialogo e del confronto la sua misura e la sua ricchezza. Ma’ è certamente uno di questi. Madre e carcere è certamente un ossimoro e per questo apprezzo molto l’impegno di tantissime associazioni affinché le madri con figli piccoli possano scontare misure alternative alla detenzione in carcere. E d’altra parte la legge lo prevede. Serve più coraggio, forse, e più strutture”. “Ma’ - Di parti e rinascite nel carcere femminile”, si articola in più fasi: ricerca collettiva, documentazione e confronto con la rete di partenariato; incontri laboratoriali con le detenute e con il personale educante e amministrativo; creazione di una residenza artistica nella sede del Polo Biblio-museale, finalizzata alla selezione dei materiali, scrittura sceneggiatura e produzione del contenuto audio-visivo artistico. Infine, la presentazione al pubblico di una installazione video nelle tre sedi del Polo Biblio-Museale, della Casa circondariale di Lecce e della sede di Kurumuny a Martignano. Rimini. “Una giustizia che ricrea”, due incontri con Fiammetta Borsellino newsrimini.it, 23 aprile 2023 L’Associazione culturale Il Portico del Vasaio propone un duplice incontro dal titolo “Una giustizia che ricrea”: alla città il 26 aprile alle ore 21 presso il teatro Galli a Rimini e per le scuole superiori il 27 aprile al mattino, presso il Palasport Flaminio. Protagonisti dell’incontro saranno Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, magistrato che insieme a Falcone fu vittima dell’attentato mafioso che più ha segnato la memoria di tutti gli italiani, don Claudio Burgio, fondatore dell’associazione Kairos, e, solo per il momento della sera, il magistrato Roberto di Bella, ideatore del progetto “Liberi di scegliere” e presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania. L’incontro del 26, aperto a tutti fino esaurimento posti, intende mettere a fuoco, attraverso punti di vista differenti, il tema della giustizia. I relatori, in ambiti e con ruoli diversi, di fronte a situazioni di enorme gravità (subita o incontrata), hanno saputo non cedere al cinismo ed allo sconforto, ma hanno trovato la forza e l’intelligenza di aprire nuove strade. Fiammetta Borsellino combatte da anni per scoprire la verità sulla morte di suo padre, individuando nei silenzi e nelle contraddizioni dello Stato, elementi di grande sconcerto e, tuttavia, nel desiderato incontro con i carnefici in carcere ha manifestato la preoccupazione di immaginare e costruire percorsi di cambiamento che possano avvicinare i colpevoli alle vittime o ai loro familiari. Don Claudio Burgio, cappellano nel carcere minorile Beccaria di Milano, di fronte a giovani disillusi e spesso protagonisti di violenza efferata, afferma che “non esistono giovani cattivi”, immedesimandosi profondamente nella loro solitudine e nel disagio che si vive nelle periferie delle nostre metropoli e dando vita all’associazione Kayros, che offre percorsi di rieducazione alternativi al carcere. Roberto di Bella, mentre era giudice minorile in Calabria, non si è rassegnato a vedere i giovani figli delle famiglie della Ndrangheta intraprendere necessariamente la strada dei loro padri, ed ha inventato nuovi protocolli affinché possano essere “liberi di scegliere” (questo il nome del suo progetto e il titolo del film a lui dedicato). Tre visuali sulla giustizia del tutto nuove ed originali - spiegano i promotori - tali da completare il sempre più forte impegno nella lotta contro tutte le mafie, lotta sempre più necessaria anche nelle nostre terre, non esenti da fenomeni di deterioramento sociale foriero di dinamiche malavitose che rischiano di divenire endemiche. E tuttavia, si tratta di una battaglia che non sarà vinta, se non si vincerà il “mafioso che è in noi” (Fiammetta Borsellino). L’invito dunque è ad una serata di riflessione e di dialogo, ma anche a porre l’inizio di un percorso che possa aprire nuove possibilità e nuovi scenari per tutti. Non solo il reo necessita di trovare nuovi percorsi, ma ognuno - insegnano i tre protagonisti - ha bisogno di costruire strade che aprano una speranza, così da vincere la “palude sociale” in cui sorgono tutte le negatività che poi assumono forme così radicate e gravi al punto da divenire fenomeni difficilmente controllabili. L’incontro è stato proposto al mattino a tutte le scuole superiori del riminese grazie alla collaborazione operativa dell’Ufficio Scolastico Provinciale e della Consulta Provinciale degli Studenti ed è stato reso possibile grazie alla sponsorizzazione della “Fondazione Gigi Tadei” e da “Romagna Banca Credito cooperativo”. L’iniziativa è promossa dal Portico del Vasaio, in collaborazione con il Comune di Rimini e il patrocinio dell’”Osservatorio provinciale sulla criminalità organizzata” e dell’”Istituto Storico per la Resistenza”. Maggiori notizie e documentazione sul sito del Portico del Vasaio (porticodelvasaio.org). Milano. Non più scarti: dietro le sbarre nasce la creatività di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 aprile 2023 Il titolo è “Senza invito” ma la prenotazione in realtà ci vuole, non è che in una prigione entri come ti pare. Dopodiché però, concordato l’orario, a gruppi, si varcano i tre cancelli che portano a metà del primo raggio e già lì trovi al pianoterra un’anticipazione fotografica di quel che ti aspetta di sopra: pezzi di cassette trasformate in arredi, bottiglie che diventano candelieri... benvenuti all’antologia del design fatto in carcere con quel che c’è, e il carcere è quello di San Vittore a Milano. Il parallelo tra gli “scarti materiali” che possono diventare opere d’arte e gli “scarti umani” chiusi in un carcere che aspirano a essere considerati persone è piuttosto immediato. Poi a guidare i visitatori di sopra e nella rotonda centrale sono gli autori, nomi senza cognomi perché prima di mettere in piazza che certo hai fatto una bella cosa ma l’hai fatta stando in galera, e magari il tuo vicino di casa non lo sa neanche che sei dentro, insomma ci pensi. E dunque ecco Paolo, Tiziano, Oscar, Brahim, Emiliano. Ma l’importante, mentre uno guarda le loro opere, in realtà sono le loro voci che spiegano, rispondono alle domande: “Quando sei dentro - dice uno di loro sorridendo - impari ad arrangiarti. Una volta più che oggi, in realtà. Ma ancora adesso è normale che in cella si facciano mensole, armadietti, persino forni per il pane, con quello che si ha, fornelli da campeggio e cassette foderate di stagnola. In questo laboratorio abbiamo scoperto che dall’arrangiarsi alla creatività il passo può essere breve. Basta non mettere limiti alla fantasia”. Il progetto “Senza invito” è stato curato da Davide Crippa (“L’invito in realtà - dice - c’è e consiste nel voler “guardare oltre”, attraverso l’apertura alla città di uno spazio normalmente inaccessibile, proprio nei giorni del Salone del Mobile “) ed è promosso dall’associazione culturale Repubblica del Design. La mostra in particolare è l’esito di un anno di lavoro del laboratorio di Economia Circolare fondato a San Vittore da Rada Scauri e condotto da docenti di design dell’università Iuav di Venezia in collaborazione con Fondazione Eris. Ad arricchire il percorso le foto di Marco Merati e le osservazioni dei ricercatori del Politecnico di Milano. Fino a oggi, info@repubblicadeldesign.it. “Via dei librai”, Bonvissuto e Albinati: “Le carceri non siano luoghi statici, ma umani” di Marta Occhipinti La Repubblica, 23 aprile 2023 La seconda giornata del Festival tra fumetti, cold case i big ospiti. Il Premio Strega Albinati: “La realtà delle carceri è peggiorata. Rieducare è una parola sospetta”. Il Cassaro alto è un viale affollato di lettori che, sotto al sole della primavera in città, si aggirano in mezzo a stand di libri, librai ed editori indipendenti. La terza giornata del festival “La Via dei librai” in Corso Vittorio Emanuele per molti editori è il primo giorno di grandi presenze. Complice il fine settimana e il ponte del 25 aprile, che ha portato a Palermo turisti, per buona parte stranieri. Ospiti clou della giornata il premio Strega Edoardo Albinati e lo scrittore Einaudi Sandro Bonvissuto all’Isola Robinson di “Repubblica”. “È la mia prima volta qui a Palermo - dice Josephine, 28 anni, turista francese, appena uscita dalla Cattedrale - vedere così tanta arte unirsi ai libri su strada è meraviglioso. Sembra una boulevard perfetta, dove al posto degli alberi ci stanno le pagine di carta a dar vita alla città”. In mezzo agli stand, sono arrivati per dei firmacopie anche i due fumettisti Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso, autori Feltrinelli Comics e già autori Marvel e Panini, ospiti entrambi in piazza Sett’Angeli per l’incontro “Generazioni a fumetti”: dibattito insieme a Costanza Santoro, allieva del terzo anno della Scuola del fumetto di Palermo, e Gabriella Chianello, siciliana scelta da Tim Burton per la pubblicazione del graphic novel “Nightmare before Christmas: Mirror Moon”, edito da TokyoPop/Disney e in Italia da Panini. “È bello che i libri escano fuori dai luoghi che ad essi sono eletti, come le biblioteche e le librerie, e che ritornino in strada - dice Marco Rizzo, primo italiano sceneggiatore di un episodio di Spider-Man per la storica rivista anglosassone ‘Spider-Man Magazine’ - i fumetti hanno una storia né giovane, né recente. Ma sono cambiati i linguaggi, i mezzi e l’accesso al mondo stesso della narrativa per immagini. Oggi ci sono più lettori di fumetti e più scelte editoriali per un pubblico vario: quello che non deve cambiare è la capacità critica dei fumettisti, di qualsiasi generazione essi siano, ovvero quella passione che non è vittima delle mode e dei pubblici, ma è capace di scelte culturali”. “Il fumetto non è solo pop - aggiunge Lelio Bonaccorso - lo dimostra il nostro percorso da grahic journalist dell’antimafia prima e dell’attualità dei migranti, poi. Per disegnare e comunicare emozioni serve sempre la presenza nei luoghi. Anche le immagini, come la scrittura, vivono di empatia con la società. E non sono ad essa estranei”. Tra gli ospiti, ancora l’ex questore Renato Cortese, nell’incontro sui cold case di Palermo ricostruiti dal lavoro giornalistico di Gian Mauro Costa e Roberto Leone. Non è facile riaprire dei cold case: “Occorre che emergano elementi nuovi, che magari la scienza forense trovi elementi. Ma non vorrei che si pensasse che tutto possa essere rimesso alla scienza, la componente dell’uomo che ragiona, il poliziotto che ha acume - dice Cortese - la “sbirritudine”, termine che qui a Palermo conosciamo bene, è essenziale. E mica solo per casi minori, anche per i delitti di mafia. Se si vuole sconfiggere la mafia, bisogna togliere il consenso popolare che la mafia ha nei confronti dei cittadini”. Spazio anche alla cronaca e all’attualità, con il dibattito insieme a Sandro Bonvissuto, giornalista e scrittore, che ha parlato di carceri. “Spesso si sa poco o nulla della vita dietro le sbarre - dice Bonvissuto - bisognerebbe conoscere di più. La strada è quel luogo da cui dovremmo ripartire per recuperare un po’ di umanità e creare meno barriere con l’altro”. Poi commenta l’arresto della preside antimafia dello Zen: “Se un intero quartiere sta nelle mani di una preside, c’è qualcosa che non va - dice - se un intero quartiere come presidio di legalità ha una preside, c’è davvero qualcosa che non va”. Puntuale alle 19, all’Isola Consolo, al piano della Cattedrale, l’ospite big della giornata il premio Strega Edoardo Albinati. “È la prima volta che mi ritrovo a parlare davanti con alle spalle mille anni di storia - dice riferendosi alla Cattedrale - Palermo è sempre una città dove ritorno volentieri. E ogni volta mi stupisce sempre”. Albinati ha parlato di solitudine, quella desiderata come pace privata e quella cui si è costretti per l’emarginazione sociale. “Tutti vorrebbero avere uno spazio che non dovrebbe essere invaso da altri. Ma ci sono anche solitudini affollate come quelle dei detenuti in carcere”. Lo scrittore, che dal 1994 insegna lettere a Rebibbia, commenta poi lo stato e la funzione degli istituti penitenziari oggi. “Il carcere è peggiorato - dice Albinati - la reclusione serve a restituire il male a chi l’ha commesso. Ma le carceri sono peggiorate. Rieducare è una parola sospetta. La staticità della realtà carceraria è mortificante. La funzione delle carceri è ancora lontana, dal mio punto di vista, da un ulteriore gradino che riesce a dare senso alla detenzione, che non sia dannoso per la società. Non sono un buonista, anzi un ‘cattivista’. Converrebbe anche ai più cinici che queste persone escano migliori dagli istituti di pena, perché prima o poi usciranno e verranno reinseriti nella società”. Si scrive merito, si legge reddito. La scuola italiana rafforza le disuguaglianze di Chiara Sgreccia L’Espresso, 23 aprile 2023 Dopo anni di tagli e mancati investimenti, il sistema d’istruzione ha perso la sua funzione di ascensore sociale. Ed è diventato lo specchio dei divari che frantumano la società. Che neanche il Pnrr riesce a livellare. Dopo anni di mancata manutenzione l’ascensore si è rotto. In Italia chi nasce in una famiglia povera e con un basso livello di istruzione nella maggior parte dei casi muore nelle stesse condizioni. È la trappola della povertà educativa che la scuola non riesce più a contrastare. Scarse possibilità economiche limitano l’apprendimento, mancate opportunità di studio generano esclusione sociale, quindi povertà materiale. Lo dimostrano gli ultimi dati disponibili di Eurostat 2020: il 53 per cento dei minori a rischio povertà o esclusione sociale ha genitori che non hanno il diploma. Il 10 per cento ha genitori laureati. Anche da un’analisi dei risultati delle prove Invalsi del 2022, test che valutano i livelli di apprendimento degli studenti sul territorio nazionale, si traggono le stesse conclusioni: più il punteggio delle prove è alto, più è elevato il livello sociale, economico e culturale delle famiglie in cui gli studenti sono cresciuti. Ma che merito ha il più bravo della classe se vive in una casa in cui si parla correttamente l’italiano, ha uno spazio adatto a studiare, gli strumenti per farlo e familiari disposti a spiegargli quello che non ha capito durante le lezioni? La scuola invece di essere equa, di garantire a tutti le stesse opportunità di conoscenza, certifica le disuguaglianze. “Basta pensare alle spese che ogni famiglia deve affrontare per il materiale scolastico. E ai costi dei viaggi di istruzione”, sostiene Aurora Iacob, del sindacato studentesco Rete degli studenti medi: “Chi è in difficoltà resta senza libri, non va in gita, non si può permettere le ripetizioni. Ottiene risultati più bassi e per questo viene considerato inferiore. Si demotiva e abbandona il percorso formativo con più facilità. La scuola dovrebbe offrire a tutti gli stessi strumenti, invece non lo fa”. Perché i divari che frantumano il sistema educativo sono gli stessi che dividono l’Italia e sono intrecciati tra loro. A impedire che le pari opportunità siano un diritto di tutti non ci sono solo le differenze di classe ma anche le disparità tra il Nord e il Sud del Paese, tra i centri e le periferie, tra il pubblico e il privato. Divari, anche di genere, che, come sottolinea Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità, sono destinati a crescere se non si inverte la rotta: “La scuola dovrebbe tornare a essere una priorità della politica perché è il presupposto per lo sviluppo. Invece, da anni gli investimenti nella pubblica istruzione sono inferiori alla media europea: nel 2019, ad esempio, l’Italia ha speso circa 70 miliardi di euro per l’istruzione. La Germania più di 150, la Francia quasi 128 miliardi. I tagli impediscono alla scuola di svolgere la funzione di ascensore sociale che le è propria. E favoriscono sotto traccia anche la crescita degli istituti privati”. Che rispondono alle esigenze che il pubblico non è più in grado di soddisfare. Ma solo per chi se le può permettere. “Crescono le disuguaglianze anche all’interno dello stesso comune: da un lato ci sono i ragazzi che vanno alla scuola pubblica che ha abbassato le pretese pur di sopravvivere, dall’altro quelli che accedono alle paritarie e vivono contesti privilegiati e iper-protetti. Due mondi che non comunicano tra loro”, spiega Pasqualino Costanzo, educatore di Cantiere Giovani, non profit che promuove l’inclusione sociale nell’area metropolitana di Napoli dove la dispersione scolastica sfiora il 23 per cento mentre nel resto del Paese è attorno al 12. In una regione, la Campania, in cui i risultati delle prove Invalsi sono tra i peggiori d’Italia. “Creiamo il tempo pieno dove non c’è”, dice Cinzia Festa, la responsabile del progetto “Cantiere dei pirati”, a supporto dell’attività scolastica: “Prendiamo in gestione le casette dei custodi che ci sono quasi in ogni scuola, ma di solito sono abbandonate, e le trasformiamo in spazi polifunzionali dove gli studenti possono trascorrere i pomeriggi per fare i compiti e altre attività a favore dell’integrazione. Perché è provato che questi servizi non sono solo fondamentali per la conciliazione dei tempi di vita privata e di lavoro dei genitori ma costruiscono anche il diritto dei minori di accedere a percorsi di studio educativi che livellino le disuguaglianze”. Negli istituti del Sud mancano le palestre, non ci sono le mense, solo il 18 per cento delle scuole ha il tempo pieno, contro il 48 per cento del Centro-Nord. Tanto che - emerge da un recente studio di Svimez - gli studenti del Mezzogiorno frequentano la scuola così tante ore in meno che è come se perdessero un anno di formazione rispetto ai loro coetanei del centro-nord. La scuola pubblica si sta trasformando nel contenitore di chi non ha un’alternativa, mentre gli istituti paritari accolgono gli altri: i figli di chi cerca il tempo pieno per conciliare la cura con l’occupazione, crede nell’importanza di studiare le lingue straniere, del fare attività fisica per accrescere il benessere individuale. Così le differenze di opportunità, determinate dalle condizioni di partenza e non dal merito, diventano strutturali. Balzano subito agli occhi di chi percorre la strada che, senza nessun riguardo per la divisione tra i centri abitati, attraversa l’area nord della città metropolitana di Napoli: basta uno sguardo veloce su Google maps per notare l’alta concentrazione di scuole private che c’è tra i Comuni di Frattamaggiore, Frattaminore, Cardito e Casandrino, zona conosciuta anche come il “diplomificio d’Italia”. E di strutture ospitali pronte a accogliere gli studenti che arrivano dal resto del Paese per dare gli esami. Ma serve percorrere a piedi quella strada dai marciapiedi dissestati per vedere come accanto a casermoni grigi e a volte anche dall’apparenza fatiscente - le scuole pubbliche - spuntino edifici colorati, dall’aspetto invitante: le scuole paritarie non statali che attraggono iscritti, dai tre anni fino al diploma. Probabilmente così gradevoli anche grazie ai finanziamenti che ricevono dallo Stato, triplicati negli ultimi 10 anni: dai 286 milioni del 2012 ai 626 dell’ultima legge di Bilancio. Un trend positivo inverso a quello che caratterizza l’istruzione pubblica. Che dalla crisi del 2008 e con la riforma Gelmini, di cui l’attuale ministro Giuseppe Valditara era stato relatore al Senato, sopporta un carico di tagli supplementari. Come spiega Salvatore Cingari, ordinario di storia delle Dottrine politiche all’università per stranieri di Perugia, “in quegli anni prende forma l’idea, ripresa dal governo oggi, che i docenti debbano valorizzare il merito per contrastare il lassismo e l’egualitarismo post-sessantottino, così da consentire a chi è bravo di emergere, senza riguardo per le condizioni sociali e senza aspettare chi rimane indietro. Smantellando il carattere democratico e emancipativo della scuola pubblica. Anche perché ciò che è meritevole è relativo e viene stabilito dai rapporti di potere: ad esempio, oggi è meritevole chi risponde alle esigenze delle imprese, chi sopporta lo stress. Ma siamo certi di volere una scuola selettiva che esalti la competizione invece di uno spazio per l’apprendimento che favorisca la cooperazione e insegni a pensare che ogni persona ha il proprio diverso valore?”. L’idea che un merito supposto, calato dall’alto, indirizzi le vite delle persone era già presente nel filosofo Giovanni Gentile (e prima di lui in Benedetto Croce) la cui riforma varata nel 1923 quando era ministro della pubblica istruzione nel primo governo Mussolini, puntava a fare della scuola il luogo di formazione della classe dirigente. Di cui potevano fare parte solo coloro che avevano superato l’esame di ammissione necessario per frequentare i licei classico e scientifico, gli unici a dare accesso all’università. “Generando un meccanismo di differenziazione sociale basato sulla diversificazione dei percorsi scolastici, destinato a perpetuare se stesso perché superavano l’esame soprattutto gli studenti che provenivano da contesti privilegiati”, conclude Cingari, autore del libro “La Meritocrazia” che dimostra come il termine abbia una connotazione negativa fin dalla sua invenzione, con il romanzo del sociologo Michael Young in cui veniva utilizzato per descrivere una società distopica in cui la classe dirigente è al governo perché lo merita in quanto più intelligente secondo i test scientifici. Il risultato è una nuova società di casta in cui la maggioranza, umiliata ancora più sottilmente, alla fine si rivolta. A 100 anni dalla riforma Gentile il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha l’obiettivo di risanare le disuguaglianze che spaccano il Paese, tra nord e sud, centro e periferia, aree interne e aree urbane, così tanto che la riduzione dei divari territoriali è una delle tre priorità che attraversa tutto il Piano. Perché per accrescere la mobilità sociale in Italia, che è tra le più basse d’Europa, serve livellare le disparità di partenza. Quella educativa in particolare, a cui è dedicato anche un intervento specifico, l’investimento 1.4 della quarta missione, a cui sono destinati 1,5 miliardi di euro. La prima tranche da 500 milioni è stata assegnata a 3.198 istituti scolastici. Ma, sottolinea Andrea Morniroli, “è mancata l’individuazione di un set di indicatori aggiornato e condiviso e il coinvolgimento delle comunità educanti. La povertà educativa non si contrasta con i finanziamenti a pioggia calati dall’alto attraverso bandi di un anno, due o sei mesi. Si devono individuare le aree critiche e attuare interventi che accompagnino i progetti per archi di tempo che permettano di agire sui fenomeni che riducono la dispersione esplicita - chi abbandona - e implicita, cioè chi pur frequentando non acquisisce le competenze di base. In modo che gli istituti siano messi al centro di politiche non solo educative ma anche di rigenerazione sociale. Anche perché la scuola pubblica, seppur frantumata, resta ancora in molte zone d’Italia il punto di contatto tra la popolazione e la Repubblica”. L’anima persa dei figli del Covid di Elena Stancanelli La Stampa, 23 aprile 2023 Ragazzi da salvare: mai come oggi i ragazzi fanno i conti con angosce, violenze e dipendenze. I disturbi mentali sono tra i più diffusi in età evolutiva e il bisogno assistenziale è enorme. Ho iniziato a pensare a questo viaggio qualche tempo fa. Mi pareva che stessimo liquidando la pandemia troppo in fretta. Finita l’emergenza sanitaria c’è venuta smania di dimenticare. Abbiamo trattato il Covid come una lunga notte, finita la quale, tornato a splendere il sole, sarebbe bastato non pensarci più. Ma se questo è comprensibile per ognuno di noi, forse è addirittura sensato per chi ci riesce, è invece sbagliato e inefficace, oltre che pericoloso, in politica. Serviva attenzione, puntare lo sguardo su una discontinuità così violenta. Le chiusure in casa, la diffidenza verso gli altri considerati untori, la difficoltà a distinguere le notizie dalle bufale. Servivano rimedi, denaro, protocolli. E invece niente, si è sperato che si rimarginasse tutto senza bisogno di cure, che passasse da sé. Ma ovviamente non è passato. Ho iniziato a pensare a questo viaggio quando alcune delle mie amiche che insegnano a scuola mi hanno parlato dei loro ragazzi e ragazze. Di un’esplosione incontrollata di disagio, angoscia, violenza, che stava lasciando tutte loro sgomente e disarmate. Da una parte si gridava all’”emergenza adolescenti” in modo sguaiato e scomposto, dall’altra nessuno provava a trovare rimedi, a ridefinire programmi e approcci per andare loro incontro. Sentivo sempre più spesso storie di suicidi di adolescenti, così spesso da farmi provare l’imbarazzo di chi non si accorge che sta accadendo qualcosa di epocale, di enorme. Ho deciso quindi di provare a capirci qualcosa insieme a voi e per farlo ho iniziato questo viaggio andando a parlare col dottor Stefano Vicari, che dirige l’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile dell’Irccs, l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Vicari è anche autore di alcuni libri, tra i quali “Corpi senza Peso” e “Nostro Figlio è Autistico”, nel 2018 ha pubblicato per Giunti, insieme ad Andrea Pamparana, “Il Filo Teso” e nel 2021 la guida per genitori “Bambini Autonomi, Adolescenti Sicuri”. Ha anche interpretato se stesso in una serie televisiva intitolata “Disordini”, perché, mi spiega, crede fermamente che ci sia bisogno di fare divulgazione sui temi della salute mentale dell’età evolutiva. E che per farlo serva raccontare le storie dei ragazzi e le ragazze, non fare terrorismo. I disturbi di bambini e adolescenti, mi spiega, hanno cominciato a crescere parecchi anni fa. “Era già abbastanza chiaro nel periodo 2010/2019 che stava accadendo qualcosa. Il 10 % dei bambini e il 20% degli adolescenti presentava un disturbo mentale già prima della pandemia. Tra i 10 e i 25 anni il suicidio era diventata la seconda causa di morte. La prima è l’incidente stradale e la terza, ma a grande distanza, il tumore cerebrale, il più frequente tra i tumori infantili. I disturbi mentali sono i disturbi più diffusi in età evolutiva e il bisogno assistenziale nella neuropsichiatria infantile è enorme”. Non è possibile, gli chiedo, che noi siamo diventati più bravi a intercettarli e diagnosticarli, non è possibile che anche prima ci fosse quel disagio che adesso ci appare dilagante? “No no, i casi di malattie nervose sono nettamente aumentati. E le ragioni di questo incremento sono tante. Prima di tutto sono diminuiti i meccanismi di difesa, cioè le strutture educative, la scuola e la famiglia (intesa come comunità educante non come modello sociale). I genitori lavorano fino a tardi, i bambini passano troppo tempo da soli davanti agli schermi di televisione, smartphone, tablet. Lo stile genitoriale, il parentig fa la differenza. La crisi degli adolescenti di oggi è la crisi degli adulti, che non accettano il loro ruolo istituzionale, non accettano lo scontro coi figli. Da quando sono piccoli. Un bambino di tre anni al quale non sappiamo dire no, rischia di diventare un adolescente che picchia i genitori se non ottiene immediatamente quello che chiede. Tendiamo a soddisfare ogni bisogno immediatamente. Manca un’educazione alla frustrazione, al no. Tutto e subito significa impedire una progettazione sul futuro. In chi ha una fragilità biologica questo assume i contorni del disturbo mentale. Io tremo quando vedo la mamma vestita come la figlia, con gli stessi tatuaggi. O quando la mamma dice sono la migliore amica di mia figlia. Noi adulti non accettiamo più di invecchiare, e quindi di appartenere a una generazione diversa rispetto ai nostri figli. Una ragazzina mi diceva io non ne possono più di ascoltare mia madre che mi racconta tutti i suoi fidanzati. Noi lavoriamo molto quindi anche sui genitori. Il parent traning è tra le cure più efficaci dei disturbi mentali. Un adolescente risponde molto di più al parent training che ai farmaci. Se un genitore non è compliante, se non ha compliance, non è collaborativo, non fa parte dello stesso progetto di cura, è molto difficile ottenere risultati coi minori. La scuola poi è sempre più competitiva. È indicativo che il Ministero si chiami adesso dell’Istruzione e del Merito. Il merito è importante, ma è importante che alla partenza siamo tutti nelle stesse condizioni, altrimenti il merito diventa una carta truccata. Altrimenti è una bestialità. Ma soprattutto abbiamo inondato il mercato dei minori di sostanze. I bambini incontrano i cannabinoidi in prima media, vengono svezzati dalle sostanze. Quando cioè il cervello è sotto una spinta maturativa fortissima. L’adolescenza è questo: la neo corteccia, cioè le strutture cerebrali superiori, si saldano con le strutture più impulsive, sottocorticali, che sono tipiche del bambino. Perché gli adolescenti fanno un mare di sciocchezze? Perché hanno un fisico che consente loro di fare qualsiasi cosa ma un cervello in cui l’inibizione è ancora molto modesta, quindi non sono in grado di valutare le conseguenze dei loro atti come dovrebbe fare un adulto. Se in un cervello che ha una spinta neuronale così forte si buttano dentro sostanze che interagiscono coi neuroni è un grosso problema”. Quali sostanze, chiedo, solo cannabis? “Tutto. I ragazzi di cui parlo sono poliabusatori, si fanno una canna, ci mettono sopra l’alcool, gli psicofarmaci. Ed è un’abitudine molto più diffusa di quanto si creda. Le stime dicono che il 40% ragazzi, tra i 12 e i 18, fa un uso occasionale di sostanze. Dunque in questi dieci anni, nei quali per varie ragioni i casi si moltiplicavano, i posti letto in ospedale diminuivano. E i servizi territoriali, quelli che dovrebbe fare la prima accoglienza, il filtro, riprendere i pazienti quando li dimettiamo si indebolivano. Io ho una paziente di Napoli, ricoverata qui da due settimane per un tentativo di suicidio, e sto cercando di farla entrare in un protocollo nella sua città, ma faccio un’enorme fatica perché i posti sono troppo pochi”. Quanti anni ha, gli chiedo. “Quindici. E stiamo per accogliere da L’Aquila un’altra ragazzina che ha tentato il suicidio, perché ci sono regioni che non hanno posti letto. Le risorse della psichiatria per i minori sono insufficienti. Mentre per gli adulti l’offerta corrisponde alla domanda, per i minori siamo molto lontani da quello che servirebbe. In tutta Italia ci sono circa 100 posti letti, e in alcune regioni nessuno. Noi ne abbiamo otto e sette sono occupati”. Sta parlando del reparto che ho appena visitato. È una zona dell’ospedale alla quale si accede attraverso una porta che non può essere aperta se non dal personale sanitario. Dentro ci sono otto stanze e uno spazio comune. Nelle stanze non ci sono maniglie, i sanitari sono di metallo perché è capitato che quelli di porcellana venissero spaccati e usati per ferirsi o per ferire, alle porte manca una grossa sezione triangolare in alto per evitare che, come è successo, qualcuno possa incastrare il lenzuolo contro lo stipite per tentare di impiccarsi, non ci sono sporgenze di nessun tipo e tutti i mobili, dal letto ai comodini, sono fissati a terra. Qui arrivano i ragazzi e le ragazze nella fase acuta. Chi ha tentato il suicidio o ha manifestato una intenzione suicidiaria non equivocabile (ci sono parametri che permettono di capire se si tratta di una minaccia a scopo dimostrativo o se la persona è davvero determinata a uccidersi), o ragazze con disturbi alimentari che arrivano al Pronto Soccorso con una bradicardia tale da metterne a rischio la sopravvivenza. Quindi cosa è cambiato con la pandemia, chiedo? Non è vero che c’è stata un’impennata di malattie psichiatriche tra bambini e adolescenti? “L’epidemia è stato un periodo di forte stress e nei periodi di stress crisi economiche, guerre, pandemie, quando c’è un’incertezza nella società questo ha una ricaduta sulla salute mentale. Durante il Covid i ragazzi non hanno potuto fare attività fisica, e anche questo ha influito sul disagio mentale. Ma la cosa grave è che nessuno sembra averci messo attenzione. I minori non sono al centro dell’agenda politica. Nei decreti del presidente Conte, durante il primo lockdown, tra marzo maggio 2020, vengono citati i cani, i runner, ma mai i bambini e gli adolescenti. Nel Pnrr le risorse destinate alla salute mentale, in particolare alla salute mentale dell’età evolutiva, sono zero. I dati dell’Oms e dell’Unicef dicono che oggi il 40% dei ragazzi soffre di ansia e depressione. Noi nel 2019 abbiamo fatto 50 ricoveri, nel 2022 ne abbiamo fatti 150, tre volte tanto. Sono numero enormi”. C’è una differenza tra maschi e femmine, chiedo. “Sì, questa epidemia la stanno pagando soprattutto le ragazze. Lo stress - come dimostrano modelli biologici anche animali - viene vissuto diversamente da maschi e femmine. Le ragazze soffrono molto di più di ansia e depressione, che si traduce in autolesionismo e tentativi di suicidio. Nei maschi invece lo stress si trasforma in un aumento di aggressività e violenza, perdita di controllo, schizofrenia. Le ragazze tentano il suicidio più dei maschi, anche se i tentativi riusciti sono maggiori nei maschi. E poi, come dicevamo, ci sono i disturbi alimentari. A soffrire di bulimia o anoressia sono al 90% donne, anche se i casi di uomini con disturbi alimentari sono in crescita”. La pandemia quindi ha fatto da detonatore ma nelle nostre società c’è un malessere mentale più profondo e più radicato che colpisce soprattutto i giovani in età evolutiva? Che cosa sta accadendo? “I disturbi mentali, come l’infarto e come il cancro, sono disturbi complessi, non hanno un’unica causa. Al primo posto come fattore di rischio c’è la familiarità: un padre, una madre con un disturbo bipolare, per esempio, aumentano il rischio che un figlio sviluppi a sua volta un disturbo mentale. La genetica c’entra moltissimo, ma non spiega tutto. Ci sono i fattori ambientali, che modulano questo rischio. Ma sono soprattutto le scelte, e direi le scelte politiche, a cambiare il destino mentale delle persone. Le carenze nutrizionali aumentano il rischio di malattie mentali e quindi tutelare la salute della donna in gravidanza è una forma di prevenzione rispetto alla salute mentale. La povertà quindi, ma anche l’alimentazione vegana durante gravidanza e allattamento, se non supportata da una terapia integrativa a base di vitamina B12 aumenta il rischio di ritardo mentale del figlio. Ma la cosa più sorprendente è il ruolo della bellezza. Ci sono degli studi sulla stimolazione cognitiva pre-natale che dimostrano quanto la salute mentale sia legata alla consuetudine con la bellezza. Ascoltare Mozart, per esempio. Madri che hanno ascoltato musica di Mozart in gravidanza hanno avuto figli più solidi psichicamente, meno soggetti a malattie. La bellezza favorisce la salute mentale. Se le scuole fossero luoghi belli e non quegli spazi fatiscenti che sono diventati nella maggior parte dei casi, questo aiuterebbe a prevenire angoscia, depressione, stress”. La buona notizia è che dai disturbi mentali dell’età evolutiva si guarisce, ma serve molta più attenzione, denaro e soprattutto attenzione dalla politica. La condanna dell’Europa sui diritti Lgbt è un guaio non da poco di Simone Alliva L’Espresso, 23 aprile 2023 Il Parlamento Europeo “condanna fermamente la diffusione di retorica anti-diritti lgbt da parte di alcuni governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia” e c’è subito qualcosa che è sfocato. Non convince. Bisogna allontanarsi due passi dal battere della cronaca quotidiana e guardare la prospettiva d’insieme a quello che successo. Perché nell’insieme si rivela una assai più interessante geografia. I fatti, prima di tutto. Il Parlamento europeo ha approvato giovedì un emendamento presentato dai Verdi alla risoluzione sulla depenalizzazione universale dell’omosessualità, alla luce dei recenti sviluppi in Uganda. È una risoluzione: cioè non vincolante. Tuttavia, politica, un segnale come si dice gergo. Dentro viene fatto scivolare un emendamento che cita Italia, Ungheria e Polonia. Il Parlamento europeo, si legge nel testo, “esprime preoccupazione per gli attuali movimenti retorici anti-diritti, antigender e anti-Lgbtiq a livello globale, alimentati da alcuni leader politici”. La menzione dell’Italia è stata approvata con 282 voti a favore, 235 contrari e 10 astenuti. “Uno sgambetto” al governo Meloni. “No, una vergogna” rispondono dall’opposizione. Dai Popolari spiegano che l’emendamento era “estraneo allo scopo d’urgenza” della risoluzione così l’indicazione che arriva è quella di non votare per la proposta dei Verdi. Non votare, non vuole dire esprimersi esplicitamente contro. Così, oltre agli stessi Verdi, si sono schierati a favore dell’emendamento i socialisti di S&D, la Sinistra e i liberali di Renew. La risoluzione è passata con 416 voti a favore, 62 contrari e 36 astenuti. Dal calcolo dei voti qualcosa non torna, fanno notare dentro l’Europarlamento, un gruppo di parlamentari del Ppe - probabilmente del nord Europa - ha sostenuto l’emendamento. “Ma quella mozione - spiegano da Forza Italia- era un chiaro un attacco al governo italiano”. Può darsi. Non era necessario inserire l’emendamento in una risoluzione che parlava di Uganda. Ed era scontato che l’Italia non votasse contro sé stessa. Ma il Ppe si è spaccato. Perché? Si ritorna a quello che scrivevamo giorni fa su L’Espresso: la retorica anti-lgbt adottata dal governo non convince neanche la destra. Anzi la disturba. E disturba ancora di più la destra europea del Partito Popolare. Lo scriveva Repubblica i primi di marzo riportando confidenze di tre autorevoli politici della Cdu tedesca e un esponente di primissimo piano del Ppe: “Una convergenza tra Popolari europei e Giorgia Meloni non è impensabile, ma è vincolata a delle condizioni. E noi del Ppe stiamo alla finestra. La campagna elettorale per le elezioni europee sarà dura. Chi ci dice che non tornerà la Meloni “di prima”, che non tirerà fuori i suoi argomenti populisti, sovranisti e antieuropei?”. Sui diritti il Governo Meloni non riesce a moderarsi: si affida ai negazionisti di Pro-Vita, parla di sostituzione etnica, rende difficile la vita delle famiglie arcobaleno. La condanna dell’Europa in fondo politicamente è un messaggio: la conditio sine qua non perché Meloni possa dialogare in futuro con una famiglia politica che da decenni dà le carte in Europa, è che abbia una posizione filoeuropeista e garantisca il rispetto, in Italia, dello Stato di diritto. Sulle posizioni radicali frana il tentativo del presidente del Ppe, il tedesco Manfred Weber, di consolidare la collaborazione con i Conservatori meloniani dell’Ecr. A spingere giù la trattativa non sono solo i diritti Lgbt, ma anche la linea anti-migranti che segnala una delle differenze fondamentali tra l’Ecr e il Ppe. Mentre i Conservatori meloniani dell’Ecr invocano il blocco, i popolari sono tradizionalmente disponibili al confronto. Così l’Italia stretta nella morsa dei Paesi di Visegrad, si allontana sempre di più dall’Europa. Migranti. Il decreto Cutro inutilmente cattivo, così il governo svela la sua propaganda di Donatella Stasio La Stampa, 23 aprile 2023 La stretta sulla protezione speciale potrebbe sbriciolarsi contro gli obblighi costituzionali e internazionali. Ancora carte bollate, giudici, sentenze, anni d’attesa e nel frattempo vite sospese e diritti umani spezzati. Al grido “meno protezione speciale, più sicurezza” la maggioranza si avvia a convertire in legge il decreto Cutro che, secondo il governo, si muove “nella logica e nello spirito” del decreto sicurezza 2018, firmato Salvini. Ma la propaganda, come le bugie, ha le gambe corte. A smascherarla, nel 2020, ci pensò la Corte costituzionale, che bocciò l’esclusione, voluta proprio dal decreto Salvini, dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica e spiegò che la norma censurata, oltre ad essere irragionevolmente discriminatoria e lesiva della “pari dignità sociale” degli stranieri, andava in direzione opposta a quella, dichiarata dal governo dell’epoca, di aumentare la sicurezza pubblica. Insomma, era inutilmente cattiva nei confronti di tante vite umane. Come lo è il decreto Cutro, che nel limitare la protezione speciale vanta così nobili ascendenze. Inutilmente cattivo perché, delle due, l’una: o si sbriciolerà strada facendo contro il muro degli “obblighi costituzionali e internazionali” (ai quali hanno dato corpo giudici comuni, Corte costituzionale, Cassazione, Corte europea dei diritti dell’uomo), per cui la decantata stretta sarà minima, pur devastando comunque tante vite umane; oppure, se se ne forzerà l’applicazione per ottenere risultati maggiori, la nuova disciplina finirà nel cestino perché in contrasto con quei vincoli, interni ed esterni. “Obblighi costituzionali e internazionali”, infatti, non è una formuletta vuota, inserita in corsa al Senato, giovedì scorso, per far contento il Presidente della Repubblica che già nel 2018 l’aveva richiamata; è un argine vero e proprio su cui vigilano i giudici ma con cui bisognerebbe fare i conti già quando si scrivono le leggi, perché con i diritti umani non si scherza mai. La partita è ancora aperta. Governo e maggioranza hanno due settimane per rinunciare alla propaganda e mostrare il loro volto costituzionale. Il decreto dev’essere convertito in legge entro il 9 maggio e, se si vuole, lo spazio per un’ulteriore correzione c’è tutto, visto che si va comunque verso la fiducia. È anche una questione di lealtà verso i propri elettori, che non vanno presi per il naso. Ma si tratta, soprattutto, di essere conseguenziali con l’introduzione nella futura legge del riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali, un vincolo in forza del quale i giudici avevano già ridimensionato gli effetti del decreto 113 del 2018, smascherandone la propaganda. Tra l’altro, la Corte costituzionale è intervenuta su quel decreto (che riduceva appunto i permessi speciali) anche con un’altra sentenza, la 194 del 2019, firmata da quattro giudici - Cartabia, de Pretis, Zanon, Barbera - perché tiene insieme giudizi diversi attivati dai ricorsi di varie regioni che contestavano la competenza dello Stato in quella materia. La Corte li dichiara inammissibili, ma è interessante leggere la motivazione là dove, ad esempio, dice: “L’effettiva portata dei nuovi permessi speciali potrà essere valutata solo in fase applicativa” ed “è appena il caso di osservare che l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nel Testo unico sull’immigrazione”. La stessa sottolineatura l’aveva fatta Mattarella, in sede di emanazione di quel decreto, nella lettera inviata al presidente del Consiglio dei ministri. E la Consulta lo ricorda espressamente. È dunque evidente che il richiamo agli “obblighi costituzionali e internazionali” non è puramente formale ma di sostanza. Bene, dunque, che oggi, a differenza del 2018 e grazie ancora una volta alla moral suasion del Quirinale, nel decreto Cutro sia stato inserito esplicitamente. Il che non mette la futura legge al riparo da possibili censure se l’area della protezione speciale non sarà ampliata. Lo si capisce proprio dalla sentenza 194/2019: la Corte scrive infatti che bisognerà vedere se “gli effetti restrittivi” della nuova norma rispetto “alla disciplina previgente” saranno “contenuti entro margini costituzionalmente accettabili”. Perché, se non lo saranno, la Corte ne valuterà la conformità alla Costituzione (sempre, ovviamente, che sia investita della questione in via incidentale). All’epoca, non ci si arrivò perché cambiò il governo e il Conte 2 sostituì il decreto 113/2018 con il decreto 130/2020, portando i permessi per la protezione speciale dal 2 al 21% del totale. Il ragionamento della Consulta, però, resta valido anche oggi, vista l’affinità tra il decreto Salvini e il decreto Cutro. In sostanza: o l’effetto restrittivo della nuova protezione speciale sarà “contenuto entro margini costituzionalmente accettabili” ma, in tal caso, sarà evidente agli elettori delle destre che il governo ha fatto solo propaganda; oppure, se quei margini saranno oltrepassati, la nuova norma potrebbe finire con ogni probabilità nel cestino. Finora, l’argine degli obblighi costituzionali e internazionali si è dimostrato robusto. La giurisprudenza, soprattutto di Cassazione, ha scritto parole importanti. In particolare, nel 2021 le sezioni unite hanno affermato che, ai fini del riconoscimento della protezione speciale, bisogna confrontare il livello di tutela dei diritti del richiedente in caso di rimpatrio e il grado di integrazione che dimostra di aver raggiunto, perché, ad esempio, parla l’italiano, lavora, ha una casa, manda i figli all’asilo o a scuola, partecipa ad associazioni sul territorio. Certo, ci vorranno carte bollate, timbri, moduli, mesi, anni, giudici, sentenze, e nel frattempo vite sospese, diritti umani spezzati. Un danno enorme anche per la reputazione internazionale dell’Italia. Migranti e lavoro: parlano male e pensano peggio di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2023 All’inaugurazione del Salone del mobile di Milano la presidente del Consiglio ha detto: “Credo che prima di arrivare al tema immigrazione si debba puntare, per esempio, sulla possibilità di coinvolgere molte più donne nel mercato del lavoro”. Nel 2018 la non ancora premier Giorgia Meloni ad Atreju dava una versione diversa, sosteneva cioè che visto che servono immigrati, è meglio “prenderli in Venezuela” perché ogni società ha diritto di privilegiare un’immigrazione “compatibile con la propria cultura” (era assente alla lezione sul valore della diversità): in Venezuela sono cristiani. Così non si verificherebbe la temuta “sostituzione etnica”, recentemente riesumata dal cognato d’Italia, ministro Francesco Lollobrigida: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”. Alla “risorsa dei migranti si attinga dopo che si è esaurita la richiesta interna di lavoro”. Del resto sappiamo da cotanto presidente del Senato che i migranti vengono qui in massa a causa di un malsano “tam tam ideologico”: “Andate in Italia che lì possiamo starci come vogliamo”. La famosa pacchia di Salvini. Ma insomma: questi migranti servono o no? Nel Def si legge che un aumento della popolazione di origine straniera del 33% farebbe calare il debito pubblico di 30 punti, una contrazione del 33% lo farebbe aumentare di quasi 60 punti: parola del ministero dell’Economia, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. Dunque, a parte il fatto che i ministri dovrebbero mettersi d’accordo tra loro e con la loro presidente, c’è un tema che riguarda le parole, importanti perché nascondono il pensiero, anzi un’allarmante assenza di pensiero. Lavoro, diritti umani e povertà (solo per fare qualche esempio) sono, nelle dichiarazioni di chi ci governa e nel discorso pubblico più in generale, una mera questione numerica e di funzionalità. Serve manodopera? Prendiamo i poveri del Venezuela, che hanno fame, sono cristiani e più simili a noi (sono anche meno colorati di altri). Ma il lavoro non a caso è fondamento della Repubblica perché la Costituzione gli riconosce il valore sociale non solo di strumento che consente la sussistenza, ma soprattutto di “tramite necessario” per l’affermazione della persona, come si leggeva nel manuale universitario del Mortati. Non qualcosa che “serve” al sistema economico, ma che serve ai cittadini per la realizzazione piena di ogni individuo nel suo vivere dentro la società. Stesso dicasi per l’immigrazione, un fenomeno complesso in cui non possono essere chiamate in causa unicamente le prospettive funzionali. I popoli si spostano da sempre (a causa di molteplici fattori, dalle guerre ai cambiamenti climatici, dai regimi dittatoriali alle crisi economiche) e oggi l’unico ragionamento che riusciamo a fare è quello dell’utilità. Il progresso non è sempre un miglioramento e l’impoverimento del pensiero, privo di qualunque visione a dispetto delle filippiche sull’identità e la tradizione, si traduce in un discorso sul vantaggio immediato, che non conosce né principi né etica. Quella che ascoltiamo tutti i giorni da dichiarazioni e talk show non è politica, è gestione contabile del presente, con particolare riguardo a vere e presunte emergenze. La società però non è un condominio a cui partecipare in base ai millesimi e i governanti non sono amministratori che si occupano del guasto dell’ascensore o del lavaggio scale. O almeno, non dovrebbe essere così. Nella vecchia Europa la società multietnica è una ricchezza di Francesco Billari*, Anais Ginori, Antonello Guerrera, Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 23 aprile 2023 Altro che temuta “invasione” degli stranieri. E quale “sostituzione etnica”, tanto per riprendere l’allarme-shock lanciato nei giorni scorsi dal ministro di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida. I Paesi trainanti del Vecchio Continente hanno saputo - e non da ora - tradurre in vantaggio i flussi migratori. Senza voler dipingere a tutti i costi scenari idilliaci, Germania, Regno Unito e Francia hanno frenato così il preoccupante calo della natalità, riuscendo a creare più lavoro e diminuendo il deficit, zavorra di ogni nazione. Gli immigrati “sostituiscono” i bambini non nati? Domanda scomoda ma non illegittima, per la scienza. Le Nazioni Unite, in un rapporto del 2000 divenuto celebre tra gli studiosi di popolazione, si chiedevano infatti se e a quali condizioni l’immigrazione sarebbe stata una soluzione alle sfide dell’invecchiamento della popolazione e al declino demografico. Da allora, la replacement migration è entrata nel gergo accettato dai ricercatori, in modo ben distinto però dalle teorie sulle cospirazioni che parlano senza fondamento scientifico di sostituzione etnica. La ricerca dimostra che una maggiore immigrazione può rallentare o addirittura invertire i problemi causati dal declino delle nascite. Un importante esempio: nel secondo dopoguerra il Nord-Ovest del nostro Paese ha avuto una fecondità sotto i due figli per coppia, livello raggiunto solo per meno di un decennio durante il baby boom degli anni ‘60. Per questo, senza la replacement migration, il Nord-Ovest avrebbe avuto quasi 5 milioni di abitanti in meno al 2001, e un terzo anziché un quarto di ultrasessantenni. La differenza l’hanno fatta le migrazioni interne, soprattutto dal Sud e dalle isole, che nel XX secolo avevano braccia, cuori e teste da offrire. Come sappiamo, il processo di integrazione non è stato semplice, ed ha anche generato problemi e tensioni, talora intolleranze. I ristoranti meridionali si sono però moltiplicati a Milano, e poi in tutto il Nord. Soprattutto, la dinamica virtuosa della demografia è stata decisiva nel boom economico che ha fatto decollare le aree più ricche del Paese. Oggi però, le migrazioni interne non sono più sufficienti: com’è ormai noto, da anni è l’Italia intera a dover affrontare i “buchi” lasciati dal calo delle nascite. In modo poco governato, anche per questo è aumentato velocemente il numero di immigrati dall’estero. Per capire dove siamo oggi è sempre utile confrontarci con gli altri Paesi europei. All’inizio 2022, l’8,5% della popolazione residente in Italia è classificata come straniera. La Germania è al 13%. La Francia è all’8%, ma con più cittadini nati all’estero rispetto a noi, grazie a tassi più elevati di acquisizione della cittadinanza. Ci sono inoltre le “seconde generazioni”: sia in Germania sia in Francia, gli uffici di statistica hanno stimato la quota di residenti che hanno almeno un genitore immigrato, rispettivamente l’11 e il 13%. Si aggiunga che il 10% dei francesi sono di “terza generazione”, con almeno un nonno immigrato. Si sono create inevitabilmente coppie miste, come sanno molti italiani con parenti nei due Paesi, dove noi siamo stati il principale Paese di origine fino agli anni 60. La replacement migration è stata, e presumibilmente continuerà ad essere, un ingrediente chiave per lo sviluppo economico delle economie avanzate, che devono fronteggiare l’invecchiamento della popolazione e un calo delle nascite. Per l’Italia, che ha una fecondità sotto il livello di sostituzione delle generazioni da quasi cinquant’anni, solo l’immigrazione consentirà di riempire veramente i “buchi” alla base della piramide demografica dei prossimi anni. Come è successo per le migrazioni interne, questo processo non sarà semplice e genererà tensioni, talora intolleranze. Ancor più che nel caso delle migrazioni interne, sarà fondamentale avere politiche attente e lungimiranti, che guidino questa replacement migration dall’estero e il processo di integrazione in modo attivo, senza subirla passivamente o nascondere la testa sotto la sabbia. La demografia va governata. Per il bene degli italiani. *Francesco Billari è demografo e rettore dell’università Bocconi di Milano Sunak, Khan e gli altri ci sono gli stranieri nei posti di comando, di Antonello Guerrera Londra - Se volessimo riciclare le deprecabili parole del ministro Francesco Lollobrigida, la sostituzione etnica nel Regno Unito è già avvenuta. E, sorpresa, non abbiamo assistito a nessuna catastrofe, a nessun disfacimento dello Stato, a nessun sacrilegio delle tradizioni, o ripudio del patriottismo inglese o scozzese. Anzi, qui oltremanica il multiculturalismo è il tessuto sociale del Paese e sempre più una ricchezza, le istituzioni democratiche sono più solide che mai, i partiti estremisti non arrivano al 2%. E persino il 74enne re Carlo coinvolgerà tutte le fedi alla sua incoronazione. Se non bastasse, abbiamo un primo ministro induista di origine indiana, Rishi Sunak. Abbiamo un sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano e di origine pachistana, e ora anche il primo premier scozzese musulmano della storia, Hamza Yousaf, al posto della dimissionaria Nicola Sturgeon. Tutti astemi, nella patria dei pub. Non per questo gli inglesi hanno smesso di bere fiumi di birra. Non solo. Lo stesso partito conservatore, di centro-destra, è incredibilmente multiculturale: nel governo di Liz Truss l’anno scorso c’erano solo 10 ministri bianchi su 23. E persino l’attuale ministra dell’Interno, Suella Braverman, uno dei peggiori falchi di sempre contro l’immigrazione, paradossalmente è nata da genitori indiani di origine africana. Londra poi è fieramente la città più multiculturale d’Europa. Nonostante, come a Birmingham, i bianchi siano scesi sotto il 50% della popolazione, così come in minoranza assoluta sono diventati i cristiani per la prima volta dal Medioevo. E la più grande metropoli del continente è anche la più cool e funzionale, continua ad attrarre cittadini di tutto il mondo nonostante la Brexit. Certo, le sfide dell’immigrazione sono tante e talvolta complicate, fuori Londra le città sono molto più bianche e talvolta più intolleranti, l’immigrazione massiccia negli anni Novanta (soprattutto dall’Est Europa), approvata senza filtri da Tony Blair, ha generato tensioni tra comunità e molto probabilmente è stata la causa principale del voto antisistema per Brexit. Ma il virtuoso esempio britannico dimostra come sia insensato abbandonarsi a fobie e complottismi. E dopo l’uscita dalla Ue, il Regno Unito ora ha disperato bisogno di migranti per colmare oltre un milione di posti di lavoro, vacanti da un anno e che gli inglesi non vogliono fare. Migrante un francese su dieci. E lo ius soli? In vigore fin dall’800, di Anais Ginori Parigi - “Da quando si contano gli stranieri, cioè dai tempi del Secondo Impero, non ci sono mai stati così tanti immigrati come oggi”, spiega Didier Leschi, direttore generale dell’Office français de l’immigration et de l’intégration (Ofii) e autore del pamphlet “Ce Grand Dérangement. L’immigration en face” che riprende l’espressione del “Grand Remplacement”, la teoria della grande sostituzione, trasformandola nel “Grande Disturbo”, perché anche Oltralpe è un tema di dibattito incandescente. In Francia la percentuale di immigrati è compresa tra il 9 e l’11 per cento della popolazione francese (a seconda delle rilevazioni), ovvero il doppio rispetto a un secolo fa. Quasi un quarto della popolazione francese ha oggi un legame con l’immigrazione, un dato simile a quello degli Stati Uniti, simbolo del melting pot. “Accogliamo i perdenti del sistema europeo, coloro che sono stati respinti dai Paesi in cui speravano di stabilirsi o che non volevano rimanere in Spagna o in Italia. Alla fine vengono perché da noi è più facile ottenere lo status di rifugiato”. Il tasso francese di protezione per nazionalità, tra i più alti in Europa, deriva da un’antica tradizione. Sin dall’Ottocento esiste lo ius soli e già la Costituzione del 1793 concedeva la cittadinanza agli stranieri che prestavano “servizi eminenti” alla Nazione. Nei tanti rapporti di denuncia delle Ong non resta molto di quel glorioso passato. “È vero, non abbiamo posti letto sufficienti per tutti”, ammette Leschi ricordando però che il numero è raddoppiato in cinque anni e le autorità francesi offrono copertura sanitaria e sussidi più elevati rispetto ad altri paesi europei. “È vero - prosegue - ci sono accampamenti con condizioni di vita indegne. Ma è anche perché noi chiudiamo un occhio quando le associazioni distribuiscono le tende per permettere ai migranti di occupare il suolo pubblico”. È uno dei motivi, dice il capo dell’Ofii, che spiega perché ci sono più accampamenti a Parigi che a Londra o a Berlino. “Significa che sono più accoglienti di noi? Non credo proprio. Al contrario. Sono Paesi dove lo sgombero è quasi immediato. In Inghilterra mendicare è reato”. Talvolta, racconta Leschi, sono i migranti che rifiutano di andare negli alloggi proposti dallo Stato. “A Calais, qualunque cosa facciano le autorità, è più forte la volontà di attraversare la Manica”. Più arrivi, meno debiti: la ricetta Merkel dà ancora i suoi frutti, di Tonia Mastrobuoni Berlino - Angela Merkel veniva dalla fisica e amava ragionare con i numeri. E ha sempre giustificato con la demografia la sua scelta di favorire l’immigrazione in Germania. Più migranti vuol dire più lavoro, più figli, meno debito pubblico, in poche parole: un futuro per i tedeschi. E la demografia, alla fine di un quindicennio di grandi cambiamenti, le ha dato ragione. Prima, la Germania pativa la stessa malattia dell’Italia: una lenta e inesorabile condanna all’estinzione causa invecchiamento della popolazione. Oggi oltre un quarto delle persone che vivono in Germania, 21,6 milioni, ha origine straniera secondo Destatis, l’Istituto tedesco di statistica. Tra questi il 20% ha meno di 15 anni, contro il 10% dei tedeschi. Se si guarda invece agli over-65, è il contrario. Sono anziani un quarto dei tedeschi e appena il 10% di chi ha origine straniera. E oltre ad essere in media più giovani, i migranti fanno più figli e sono chiaramente destinati a mantenere gli anziani tedeschi. Altro che”turismo sociale”, come lamenta la destra più reazionaria, accusando i migranti di scippare sostegno economico alla Germania. Nel 2011 la Germania aveva registrato il più basso tasso di nascite dal 1946. Nel 2019, invece, dopo due grandi ondate di immigrazioni, i nuovi nati in Germania hanno registrato un record che non si vedeva dal 1972. Un’inversione di tendenza impressionante, avvenuta nel giro di soli otto anni. Come diceva Gene Wilder in Frankenstein Jr: “Si può fare!” Negli ultimi quindici anni la Germania ha vissuto due fasi di immigrazione forte. La prima dopo la crisi finanziaria e dei debiti del 2007-8, con nuovi ingressi “soprattutto dal Sudeuropa” - dunque Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. Ad essi si sono aggiunti, dal 2011, immigrati provenienti dai nuovi Paesi dell’Est Europa. La seconda impennata di arrivi in Germania si è registrata dal 2014 con l’emergenza dei profughi siriani, afghani, iracheni, quella che fece dire a Merkel la famosa frase “ce la facciamo”. E uno sguardo ai numeri del picco della crisi, nel 2015, chiarisce che accanto ai profughi extraeuropei in fuga dalle guerre, sono continuati ad arrivare ancora molti europei, in parte da Paesi che oggi sbattono le porte in faccia ai migranti come la Polonia. I primi quattro Paesi di provenienza del 2015, infatti, sono stati la Siria (326.000), la Romania (212.000), la Polonia (190.000) e l’Afghanistan (95.000). Stati Uniti. “Nelle celle di Guantánamo si invecchia prima” Il Manifesto, 23 aprile 2023 È quanto emerge dal rapporto di Patrick Hamilton, capo delegazione della Croce rossa per Canada e Stati uniti, dopo la visita al centro di detenzione Usa (in terra cubana). “Chi è ancora detenuto mostra sintomi di invecchiamento precoce”. È un passaggio del rapporto di Patrick Hamilton, capo delegazione della Croce rossa per Canada e Stati uniti, dopo la visita al centro di detenzione Usa (in terra cubana) di Guantanámo. Hamilton mancava dal 2003, l’anno dopo l’apertura sotto l’allora presidente Bush. “I bisogni di salute mentale e fisica crescono e sono diventati difficili da gestire - scrive - Chiediamo all’amministrazione Usa e al Congresso di trovare soluzioni adeguate e sostenibili”. A preoccupare è la carenza di cure mediche che avrebbe accelerato, secondo la Croce rossa, l’invecchiamento dei prigionieri, a oggi circa 30, di cui gran parte mai sottoposti a processo. Israele. È la necessità della convivenza a tenere unito il paese di Victor Magiar Corriere della Sera, 23 aprile 2023 Un’esigua maggioranza parlamentare (che rappresenta il 49% degli elettori) vuole introdurre diverse norme che metterebbero in discussione fragili equilibri, sia istituzionali (fra i poteri dello Stato) che sociali, etnici e religiosi. Tutti gli Stati nascono due volte: prima come nazione e poi come democrazie. La prima nascita, quella nazionale, è caratterizzata dallo scontro contro forze esterne, contro un nemico esterno, un potere straniero. La seconda nascita, quella valoriale - quella che definisce i contenuti, la scala di principi morali condivisi, il carattere di un popolo - è caratterizzata da una guerra civile o da una serie di guerre civili, fratricide, spesso segnate da connotati religiosi. Gli esempi non mancano: la Francia nasce come primo stato nazione d’Europa dopo aver sconfitto inglesi e tedeschi nel XIII secolo; rinasce nel 1789 come Repubblica e definisce, con la Rivoluzione Francese, il proprio carattere nazionale, lo stesso che conserva ancora oggi. Gli Stati Uniti d’America nascono nel 1776 con una Guerra di Indipendenza contro gli inglesi ma poi nascono una seconda volta nel 1861 con una drammatica guerra civile, ovvero la Guerra di Secessione, presentata soprattutto come la guerra contro la schiavitù ed anche come lo scontro fra l’arretrata società rurale e la moderna società industriale metropolitana. Anche l’Italia, che nasce come Regno nel 1861, rinasce nel 1948 come Repubblica democratica, dopo una sanguinosa guerra civile e di liberazione. Questo è il percorso di ogni popolo, di ogni democrazia: l’esito non è scontato. Questo è il passaggio ineludibile che attende lo Stato d’Israele. Saprà Israele approdare ad un nuovo ordine istituzionale evitando che lo scontro diventi una vera e propria guerra civile? Che ruolo avranno in questa vicenda polizia, intelligence ed esercito? È bene aver presente che Israele è nato 75 anni fa combattendo contro soverchianti nemici esterni - il nazionalismo fascistoide arabo, il panarabismo, il panislamismo - combattendo una guerra nazionale, non solo per stabilire un diritto primario, quello di essere nazione, ma soprattutto per garantire la propria sopravvivenza. È stata proprio la lotta costante per la sopravvivenza a spiegare la necessità della convivenza, a tenere unito un Paese altrimenti diviso dalle sue mille differenze: basti pensare agli oltre a 70 gruppi etnico linguistici diversi, fra cui molti “tipi” di ebrei (alcuni di questi non prestano nemmeno nel servizio militare), molti “tipi” di arabi (alcuni dei quali prestano servizio militare) e molti “tipi” di non-ebrei-non-arabi (alcuni dei quali prestano servizio militare). Questa condizione di necessitata convivenza ha generato uno status quo giuridico e politico che ha permesso fino ad oggi di supplire alla mancanza di un’architettura costituzionale che sancisse rigidamente e formalmente alcuni principi, fra cui la divisione dei poteri, le forme di garanzia per le leggi fondamentali dello Stato e la laicità dello Stato (questione assolutamente decisiva in un paese abitato da decine di confessioni religiose diverse). Oggi, questo status quo è stato rotto: un’esigua maggioranza parlamentare (che rappresenta il 49% degli elettori) vuole introdurre diverse norme che metterebbero in discussione fragili equilibri, sia istituzionali (fra i poteri dello Stato) che sociali, etnici e religiosi. Israele non si divide solo su una singola importante riforma, quella della Corte Suprema, ma sulle oltre 100 nuove proposte di legge che, rompendo l’attuale status quo, cambierebbero il carattere o, meglio, l’anima del Paese. Anche se sono già passati dei mesi, lo scontro vero è proprio non è ancora andato in scena: questa storia è solo all’inizio. Se il governo andrà avanti lo scontro sarà più duro, ed è ragionevole pensare che scorrerà anche del sangue: solo a quel punto forse si inizierà a ragionare per stabilire un nuovo compromesso. La gravità della situazione è ben dimostrata non solo dal fatto che dopo mesi la contestazione sembra inarrestabile (coinvolgendo tutti i settori della società compresi molti elettori della stessa maggioranza) ma soprattutto dal fatto che sembrano coinvolti nella contestazione popolare persino la polizia, il sistema dell’intelligence e l’esercito, istituzioni peraltro assolutamente contrarie alla proposta di creare una cosiddetta Guardia Nazionale. È bene aver presente che l’esercito israeliano è la più importante istituzione del Paese: multietnico, laico e multireligioso, l’esercito insegna ai giovani di diverse provenienze a lavorare insieme, a combattere insieme, a vivere e morire insieme. La tenuta del carattere multietnico, multireligioso e inclusivo dell’esercito è il primo presupposto per la tenuta stessa del Paese. L’esercito non può permettere la rottura dello status quo che per 75 anni ha permesso questa potente coesione - fra ebrei, drusi, circassi, beduini, cristiani ed altri gruppi - che ha garantito la sicurezza del Paese secondo il principio “non c’è sicurezza senza democrazia, non c’è democrazia senza sicurezza”: nessuno si deve illudere che gli israeliani non combatteranno per ciò in cui credono. Per 75 anni questo status quo ha fatto di Israele un Paese molto progredito, moderno in ogni suo aspetto, avanzatissimo centro culturale, scientifico e tecnologico, ormai noto come Start-up Nation e, secondo il World Happiness Report, sarebbe anche il quarto paese più felice al mondo. Gli israeliani non possono tornare indietro. Sudan. A Khartum non c’è tregua che regga. Avviata l’evacuazione degli stranieri di Matteo Fraschini Koffi Avvenire, 23 aprile 2023 Tajani assicura: “Tutto è pronto”. L’Italia ha una lista di circa 200 civili da riportare in patria attraverso il punto di raccolta in Gibuti dove ci sono gli aerei della 46esima Brigata. Numerosi piani di evacuazione per uscire dall’inferno sudanese sono in corso. Mentre alcuni stranieri sono già riusciti a lasciare il Paese, altri stanno aspettando l’arrivo di aerei in grado di raggiungere la capitale, Khartum, dalle basi militari a Gibuti, nel Corno d’Africa. L’Italia ha una lista circa 200 persone da portare in salvo. “È pronto a partire su disposizione della Difesa un piano per l’evacuazione di circa duecento civili italiani dal Sudan - ha dichiarato sabato il ministro degli Affari esteri, Antonio Tajani -. L’operazione avverrà con le stesse modalità di quanto disposto in Afghanistan ma, in questo caso, riguarderà solo i nostri connazionali”. Nella giornata di sabato sono invece già arrivati a Gedda, in Arabia Saudita, almeno 50 sauditi oltre a “diversi cittadini di altri Paesi amici”. Anche altre nazioni occidentali affermano di essere pronte a evacuare i propri connazionali nel più breve tempo possibile non appena ci siano conferme rispetto a una tregua tra le fazioni belligeranti. Gli Stati Uniti hanno invece giudicato “ancora troppo insicura” l’opzione di un piano di fuga per i propri cittadini. Anche la Nigeria, prima potenza economica del Continente, ha espresso forti dubbi su un’immediata evacuazione a causa degli alti livelli di insicurezza che stanno caratterizzando non solo la situazione nella capitale ma anche in altre parti del Paese. “Sebbene sia tutto pronto da parte nostra il piano per evacuare oltre 4mila nigeriani dal Sudan - ha spiegato venerdì sera Abike Dabiri-Erewa, a capo della commissione per la Diaspora nigeriana -, la crisi sudanese è ancora troppo rischiosa per effettuare questo tipo di operazione”. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha presieduto sabato una riunione d’emergenza per discutere la situazione sudanese con il ministro della Difesa, Ben Wallace. “Riconosciamo che la situazione è estremamente preoccupante per i cittadini britannici intrappolati dai combattimenti in Sudan”, ha detto un portavoce del governo britannico -. Stiamo facendo tutto il possibile per sostenere i nostri cittadini e il personale diplomatico a Khartoum”. Nonostante l’annunciata tregua di 72 ore, gli scontri tra l’esercito e i paramilitari delle Forze di rapido supporto (Frs) hanno continuato fino a sabato sera. Il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del governo di transizione, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ex vicepresidente e ora considerato capo della ribellione, continuano ad accusarsi a vicenda rispetto alle frequenti violazioni di cessate il fuoco. “Sono almeno 600 le vittime di questo conflitto che dura da otto giorni - ha comunicato il ministero della Sanità sudanese. I tentativi di tregua continua ad essere di breve durata”. Secondo le Nazioni Unite sono numerose le località dove si sono registrati scontri. “Gli scontri armati si stanno verificando soprattutto nella fascia meridionale del Paese - ha riferito sabato un rapporto dell’Ufficio Onu per il coordinamento umanitario (Ocha). Oltre a Khartum si combatte nelle regioni di Darfur, Kordofan, Nilo Blu, ma anche a Merowe, 300 chilometri a nord della capitale”. Secondo al-Burhan, le Fsr sono il principale ostacolo alle evacuazioni. “I ribelli delle Fsr sono dispiegati nei quartieri e usano i civili come scudi umani - ha detto sabato il presidente sudanese alla stampa -. Abbiamo bisogno di avviare un dialogo interno per risolvere questa crisi”. L’esercito sostiene di avere sotto controllo vari aeroporti sparsi attraverso il territorio sudanese eccetto quelli a Khartum e Nyala, in Darfur. Da parte sua, paradossalmente, Dagalo si è detto “disposto a un completo cessate il fuoco” e al “rispetto del diritto umanitario internazionale”. Nessuna delle fazioni sembra però veramente pronta a sedersi a un tavolo per arrestare le violenze. I civili sudanesi si stanno organizzando per percorrere centinaia di rischiosi chilometri per raggiungere il confine con l’Egitto, mentre migliaia di rifugiati hanno già oltrepassato il confine occidentale con il Ciad.