Carcere e telefonate: un crudele ritorno al passato di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 22 aprile 2023 Storie di ordinaria disumanità: Ha un figlio in Germania, un altro a Malta, la figlia e la moglie vivono a Padova, la madre in Tunisia, è detenuto nella Casa di reclusione di Padova: finora, “grazie al Covid”, poteva fare una telefonata al giorno di dieci minuti, ora la prospettiva è di tornare a una telefonata di dieci minuti a settimana, quindi quei figli, quella moglie, quella madre lo sentiranno ognuno una volta al mese, spartendosi quei pochi minuti di telefonata concessi. Questa è una storia come tantissime altre, di inutile crudeltà del carcere. C’è qualcosa di assurdo, nella questione delle telefonate delle persone detenute: concederne di più non costa nulla, se le sono sempre pagate; è un dovere delle Istituzioni aiutare a rafforzare gli affetti, e non a disintegrarli come si fa ora; è una delle poche forme concrete e significative di prevenzione dei suicidi, in un momento in cui questa piaga sembra essere diventata inarrestabile; è un elemento fondamentale della rieducazione, che richiede di agevolare “opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. E invece, che succede? Succede che in carceri sovraffollate e palesemente fuorilegge, in carceri che non rispettano la “territorialità della pena”, cioè la obbligatoria vicinanza della persona detenuta al domicilio della sua famiglia, l’unico pensiero è “riportare alla normalità” le telefonate. Succede così che, di punto in bianco, le persone detenute dovranno dire ai loro cari che praticamente non telefoneranno quasi più: e già immagino quelle madri e quelle mogli, che se la prenderanno con i famigliari detenuti, immaginando chissà quali violazioni, e che si arrabbieranno con loro pensando che ancora una volta non hanno saputo tenersi buona quella piccola conquista dei dieci minuti al giorno. E invece no, e invece non sono i detenuti che non hanno meritato la fiducia, sono le Istituzioni che hanno avuto paura di mostrare un volto umano. Ma al peggio non c’è mai limite in carcere: credevamo che la doppia sofferenza del Covid vissuto nelle ristrettezze della galera e il triste record degli 84 suicidi del 2022 costituissero una emergenza vera e preoccupante, e invece no, l’assurdo è che ora nelle carceri si sta tornando “alla normalità”, e la normalità quale sarebbe? Quella della telefonata di dieci minuti a settimana, la miserabile telefonata con cui una persona detenuta dovrebbe soddisfare tutto il bisogno di affetto suo e dei suoi famigliari. Nelle carceri di normalità non ce n’è per niente, c’è sovraffollamento, manca personale, non c’è il lavoro per le persone detenute, che dovrebbe invece essere obbligatorio, c’è miseria e sofferenza, però lasciare la telefonata quotidiana, un provvedimento a costo zero per lo Stato, quello no, quello non si può. Nonostante la legge permetta una ampia discrezionalità ai direttori, nonostante a un direttore che usa la sua discrezionalità per prevenire i suicidi, autorizzando più affetto attraverso le telefonate, nessuno dovrebbe avere il coraggio di contestare di aver abusato del suo potere, nonostante la telefonata quotidiana sia una delle poche cose sensate in un sistema, che di senso ne ha sempre meno, nonostante tutto questo i telefoni nei prossimi giorni taceranno, e per esempio quel detenuto, che aspetta ansiosamente la notizia della nascita del nipote, dal momento che oggi non è nato dovrà aspettare la settimana prossima per sapere come sono andate le cose. E toccherà sempre più spesso al volontariato dare le belle, e soprattutto le brutte, notizie. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Senza le telefonate, ritorna l’inutile crudeltà del carcere Ristretti Orizzonti, 22 aprile 2023 Un appello delle persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti. Sono passati più di tre anni da uno dei momenti più tragici della vita delle carceri, quando, a causa della pandemia, la chiusura sia alle visite dei parenti, che all’ingresso della “società civile” si era trasformata in una tragedia con rivolte, morti, desolazione. Ma per fermare quelle rivolte, avvenute principalmente per la paura di noi detenuti di essere lasciati soli, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva invitato tutti i Direttori degli istituti di pena a incrementare quanto più possibile i colloqui telefonici con i nostri famigliari. Così in molte carceri da allora abbiamo potuto effettuare più telefonate, fino a una telefonata al giorno di dieci minuti. Inoltre, i colloqui in presenza sono stati sostituiti con la videochiamata, così da permetterci di mantenere i contatti, anche visivi, con le nostre famiglie. Prima della pandemia ci era consentita una telefonata alla settimana - sempre di dieci minuti - e sei ore di colloquio visivo al mese. Sei ore al mese fanno tre giorni all’anno, tre miseri giorni da dedicare alle nostre famiglie. A Padova però le telefonate erano due a settimana, grazie alla disponibilità dei direttori che si sono succeduti alla guida della Casa di Reclusione a usare la loro discrezionalità per autorizzare una telefonata in più a settimana, in considerazione della situazione di particolare difficoltà in cui si trovavano le persone detenute anche prima del Covid: basta pensare al sovraffollamento, alla mancanza di personale, ai suicidi, agli atti di autolesionismo. Ora, pare che la cessata emergenza pandemia stia portando a una “normalizzazione” da parte dell’amministrazione, con il ritorno alla telefonata settimanale per larga parte delle persone detenute. Per tre anni non si sono verificati problemi legati alla sicurezza, anzi, la telefonata giornaliera ha rasserenato gli animi e avvicinato più che mai le famiglie; inoltre non c’è stato nessun aggravio di spesa per l’amministrazione penitenziaria, perché le telefonate sono a carico delle persone detenute, come del resto sono sempre state anche quando erano una sola alla settimana. E quanto al personale, poco e affaticato dalle tensioni e da un clima di sfiducia e ansia, dalle telefonate in più per le persone detenute ha solo da guadagnare un po’ di serenità in un lavoro certamente non facile. Ci chiediamo allora per quale motivo si vuole far ripiombare nella solitudine e nella disperazione noi detenuti e le nostre famiglie, e questo nonostante nelle prigioni italiane solo nell’anno 2022 si siano registrati 84 suicidi, in larga parte dovuti alla solitudine e alla paura dell’abbandono. Di fronte alla drammatica EMERGENZA dei suicidi, di fronte alla sofferenza delle nostre famiglie, che sarebbero costrette a “regredire” ai miserabili dieci minuti di telefonata a settimana, vogliamo sperare che il direttore della Casa di reclusione di Padova, che già prima del Covid concedeva una telefonata in più a settimana, non riduca il numero delle telefonate, e anzi si faccia garante per le persone detenute, e inviti anche i suoi colleghi a farlo, di quella che la Corte Costituzionale, nell’ordinanza N.162/2010, definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Non ci può essere progressività né, quindi, il rispetto della Costituzione se si interrompono le telefonate e si privano le famiglie di questo forte, importante legame con i loro cari. Il buco nero della gestione dei farmaci nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2023 Quello dei farmaci è uno dei punti critici ricorrenti nelle nostre carceri che comportano ingestibili eventi critici. Ed è quello che emerge dalla relazione annuale redatta da Roberto Cavalieri, il garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia Romagna. Secondo il garante, la questione denota un quadro rilevante e di complessa gestione. Si riporta l’esempio del trasferimento di detenuti da territori non regionali e che giungono in carcere con terapie farmacologiche che possono non trovare l’assenso dei nuovi sanitari oppure prevedere farmaci non presenti nei protocolli regionali. Il tema si concentra in particolare sui farmaci psicoattivi. Emerge che il fenomeno dell’uso improprio di farmaci è assai diffuso nelle strutture penitenziarie e rappresenta una preoccupazione per la tutela della salute dei detenuti e la sicurezza degli istituti. Nel mese di dicembre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato una circolare contenente l’invito ai Provveditorati di vigilare sull’uso improprio del farmaco Lyrica, farmaco utilizzato per la cura delle patologie neurologiche per trattare l’epilessia, il dolore neuropatico e il Disturbo d’Ansia Generalizzata (GAD). Perché la necessità di questa circolare? Il garante Cavalieri denuncia che i detenuti dividono in metà le capsule inalando il contenuto per raggiungere effetti simili a quelli offerti dalla cocaina e quindi altamente eccitanti. L’assunzione così descritta non è circoscritta ai detenuti destinatari della prescrizione ma si estende agli altri reclusi che entrano in possesso, in modo improprio e con meccanismi spesso coercitivi, del farmaco con quelli che si definiscono meccanismi di “scambio”. Questa tipologia di fenomeno è largamente presente negli istituti penitenziari. Sempre nella relazione annuale relativa agli istituti penitenziari dell’Emilia Romagna, si osserva che gli unici deterrenti al fenomeno dell’uso improprio dei farmaci appaiono essere: il controllo delle prescrizioni di farmaci e delle tipologie di farmaci, la somministrazione a vista dei farmaci, la riduzione della concentrazione di detenuti che abusano di sostanze in una medesima sezione detentiva. Tutti queste possibili azioni di contrasto - denuncia il Garante Cavalieri nella relazione - comportano problematiche attuative data l’alta richiesta di farmaci da parte dei reclusi, il maggior impiego di operatori sanitari che richiede la somministrazione a vista, l’impossibilità di ridurre la concentrazione di detenuti tossicodipendenti rappresentando questi una larga parte della popolazione detenuta. Emerge anche che la distribuzione dei farmaci comporta criticità assai complesse. Dal rischio di abuso, traffico e anche accumulo generando così degli eventi critici. Anche le competenze circa la distribuzione dei farmaci cosiddetti da banco ha generato problemi di competenza in alcuni istituti. Nel mese di agosto il Garante regionale Cavalieri è dovuto intervenire dopo che la sanità penitenziaria aveva interrotto la distribuzione di farmaci non prescritti alle detenute del reparto AS3 generando una serie di problematiche intere e la protesta delle recluse. “È opportuno richiamare la necessità di autonomia dei sanitari nelle decisioni che devono avere carattere unicamente deontologico e finalizzato alla tutela della salute del paziente. In alcun modo la somministrazione di farmaci può essere sollecitata o richiesta da personale di Polizia Penitenziaria per la gestione di detenuti con problematiche comportamentali”, osserva il Garante nella relazione. Il carcere più complesso e difficile sul versante sanitario è quello di Parma. Trattasi di un Istituto che nel corso degli anni è stato destinatario di diversi interventi che ne hanno determinato una vocazione primaria nell’ambito del circuito alta sicurezza (AS1, AS3 e 41 bis), riducendo contestualmente la capienza per i detenuti appartenenti al circuito media sicurezza, presenti sia in sezioni circondariali che di reclusione. Lo scorso anno è stato aperto il nuovo padiglione, di circa 200 posti destinato a detenuti di media sicurezza. La complessità e le problematiche dell’istituto sono aggravate dalla presenza di un SAI (Servizio Assistenza Intensificata) e di una sezione minorati fisici. Ciò continua a determinare numerose assegnazioni di detenuti anche da altri distretti, a causa delle carenze dei servizi della sanità penitenziaria in alcune regioni. L’elevato numero di tali assegnazioni determina l’allocazione dei detenuti assegnati per problematiche di salute prevalentemente nelle sezioni ordinarie. Il Garante sottolinea le ricorrenti criticità che si riscontrano in ambito sanitario in questa struttura di massima sicurezza: alto numero di persone assegnate e bisognose di essere collocate nel centro clinico invece che nella sezione comune (si è spesso superato il numero di 200 persone), necessità che la sanità riceva preventivamente informazioni sui soggetti che giungono per cure da altri istituti al fine di permettere una valutazione e programmare gli interventi necessari, ridurre le barriere architettoniche presenti, predisposizione di una sezione dimittendi. Non solo. L’alto numero di detenuti non autosufficienti nel carcere di Parma e comunque bisognosi di un sostegno nelle attività di vita quotidiana indicano la necessità di avere personale socio- sanitario dedicato superando l’assegnazione ai cosiddetti piantoni (detenuti assunti dall’amministrazione penitenziaria per assistere i detenuti malati) privi delle necessarie competenze. A luglio scorso è stato evidenziato alla direzione del carcere e al referente sanitario il fatto che dai colloqui con i ristretti emergevano preoccupazioni, in particolare da parte di coloro che soffrono di patologie cardiopatiche, in relazione alla qualità della vita quotidiana in quanto persone malate. I punti attenzionati sono stati diversi. Gli orari in cui si svolgono le ore di aria che vengono collocate in momenti in cui il caldo parrebbe indicare un pericolo nell’esposizione all’aperto di persone detenute cardiopatici. Sul punto il Garante regionale ha indicato la necessità di offrire alternative all’accesso all’ora d’aria tali da tutelare la salute dei detenuti cardiopatici optando per ambienti coperti e orari antimeridiani che sfruttino le prime ore di luce. Punto due. Favorire l’accesso ad attività motorie anche con il coinvolgimento di istruttori; Altri punti sono il rispetto delle diete alimentari e, conseguentemente, la fornitura di pasti corretti ove prescritti; la necessità di collocare sia dei defibrillatori che siano visibili e accessibili nei piani delle sezioni per un pronto intervento in caso di urgenza, sia di fornire un valido supporto psicologico per sostenere le preoccupazioni dei pazienti cardiopatici; ridurre i tempi di accesso degli operatori del 118 quando interpellati per le urgenze. A ciò si aggiungono le criticità, diffuse, legate alla fornitura di vitti per persone con patologie. Ricorrenti sono le lamentele dei detenuti in tal senso. Il problema rilevato dal Garante regionale si concentra su due punti: da una parte l’assenza della prescrizione del nutrizionista e dall’altra le difficoltà delle direzioni nell’assicurare con i servizi interni questa tipologia di bisogno. Cavalieri ha constatato che in tutte le carceri è apparso insufficiente l’attenzione prestata alla carta dei servizi sanitari erogati nelle strutture detentive. La documentazione non è reperibile nei contesti penitenziari, appare essere nei contenuti disallineata o non aggiornata rispetto ai servizi presenti, poco comprensibile sulle modalità di accesso ai servizi, in un solo caso esistono traduzioni in lingua. In tutte le documentazioni esaminate è assente l’indicazione del servizio di relazione con il pubblico con i riferimenti ai quali rivolgersi in caso di criticità. “Migliaia di detenuti con pene inferiori a due anni. Carcere solo per chi ha un forte profilo delinquenziale” di Gabriele D’Amico Quotidiano di Sicilia, 22 aprile 2023 Per comprendere le istanze dei detenuti italiani e le loro maggiori difficoltà ci siamo rivolti al presidente dell’Autorità garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà nazionale, Mauro Palma. Presidente, quando si parla di detenuti si pensa subito al sovraffollamento. Ma quali sono i problemi maggiori per i detenuti in Italia? “Questa mattina (giovedì scorso, nda), i detenuti registrati in camera (escludendo le persone in ospedale o in permesso) sono 55.960, mentre la capienza è 51.264. C’è una differenza di circa 4.700 a cui si devono aggiungere le celle inutilizzabili. Quei 4.700 diventano oltre 5.000 detenuti in più. è certamente un problema, ma non ritengo che sia l’unico e neanche il maggiore. I problemi più gravi sono quelli che riguardano l’inutilità del tempo detentivo. Quando questo tempo perde di significato, per l’assenza degli operatori o per la tendenza ad avere in carcere persone con pene molto brevi, diventa inutile per un reinserimento sociale. In carcere ci sono 1.477 detenuti che devono scontare una pena inferiore a un anno. Nella maggior parte dei casi sono persone senza fissa dimora, che rappresentano la povertà. Ne abbiamo altri 2.741 con una pena tra uno e due anni. Il carcere è diventato punto di arrivo di tutte le contraddizioni che dovrebbero essere risolte fuori. Nei nostri istituti ci sono ancora 5.000 italiani che non hanno adempiuto all’obbligo scolastico. Se non ridiamo significato al carcere con maggior organico di area sociale non si risolverà nulla”. Quali sarebbero le misure che il Governo e la maggioranza parlamentare dovrebbero attuare per cambiare volto ad un sistema più volte ripreso dagli Enti europei? “La prima misura è avere il coraggio di pianificare un tipo di strutture nei territori, anche con il patrimonio edilizio pubblico esistente, di controllo e supporto per il reinserimento di chi ha pene brevissime. Le carceri devono essere destinate solo a chi ha un profilo delinquenziale maggiore. Bisognerebbe, inoltre, investire di più sulle figure di tipo sociale per non far gravare tutto sulla polizia penitenziaria che finisce per essere l’unico frontline rispetto ai detenuti. La terza cosa è un maggiore investimento nell’istruzione e nella formazione professionale. Bisogna stabilire un contatto di formazione che segua il ritmo del tempo esterno”. Il non rispetto del principio di rieducazione e reinserimento quanto è grave? “Vedo che c’è spesso la volontà di assecondare le paure sociali. C’è il rischio di prendere delle decisioni per avere consenso di una società impaurita e non perché effettivamente siano funzionali. Io non sono per il ‘liberi tutti’ ma in carcere sicuramente non ci deve stare solo chi per ignoranza o per assenza di supporto fa reati minori e poi finisce per fare un’educazione interna ai reati maggiori”. Lo stato dell’edilizia carceraria quanto pesa sulla vita dei detenuti? “Sul piano dell’edilizia, piuttosto che stare ad immaginare nuove carceri grandi, abbiamo bisogno di un investimento che levi lo stato di fatiscenza degli edifici. Nel regolamento del 2000 c’è scritto che nelle sezioni delle carceri ci deve essere il refettorio. In realtà, ad oggi, tutti mangiano sui letti perché non ci sono questi spazi. Non c’è mai stato un vero investimento”. Un detenuto ha lo stesso accesso alla sanità di un cittadino libero? “Dal 2008 la sanità non dipende più dalle singole carceri ma dalle Aziende sanitarie locali. È stato un grande passo in avanti, ma anche qui, c’è bisogno che le Asl investano. Ci sono due principi da tenere presenti. Il primo è che la popolazione detenuta richiede maggior impegno economico rispetto a un campione di popolazione esterno. Su cento persone dentro e cento fuori, ci sono molte più patologie dentro che fuori. Secondo aspetto: è interesse della collettività investire di più oggi perché le persone non ritornino sempre nello stesso modo anche dal punto di vista sanitario”. Episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere, i suicidi, gli eventi sollevati dal Cpt durante l’ultima visita in Italia dimostrano che la violenza in carcere è un’emergenza nell’emergenza: come si potrebbe risolvere? “Dopo il Covid c’è maggiore aggressività e tensione ma bisogna trovare strategie per diminuirla. Questa aggressività ha due direzioni: violenza verso gli altri e verso sé stessi. Già oggi siamo al 18esimo suicidio in sedici settimane dall’inizio dell’anno. Lo scorso anno ce ne sono stati 85. Sono numeri che fanno pensare. Credo che molto conti l’immagine esterna del carcere. I detenuti hanno la sensazione di essere caduti in un mondo di cui non importa più niente a nessuno, da dove usciranno solo con lo stigma di essere detenuti. Bisogna fare tutto per far vedere il carcere come un quartiere della propria città, problematico e difficile certo, ma non un mondo separato da un muro”. Quali sono i rapporti con il Dap in seguito al rinnovamento dei vertici dovuto al cambio di Governo? “Da sette anni sono garante e ho cambiato sei governi. Ognuno di loro ha inciso con la propria visione. Con il capo dipartimento attuale abbiamo grande stima reciproca. Quello che mi tranquillizza è che vedo una persona che sta investendo sul medio o lungo periodo”. Dal lato politico invece si discute della proposta sull’abolizione del reato di tortura. La vostra autorità come risponde a questa proposta? “Uno Stato che vuole fare passare il reato più grave ad una semplice aggravante di reati normali non è uno Stato che attua in pieno il mandato della Costituzione. Io ricordo che la Costituzione, in un solo caso dà una norma penale: ‘è punita ogni violenza fisica e psichica sulle persone’. Anche troppo tardi abbiamo introdotto il reato di tortura e con quelle proposte non mi voglio neanche confrontare”. Carceri che scoppiano: così la rieducazione è impossibile di Gabriele D’Amico Quotidiano di Sicilia, 22 aprile 2023 Oltre 5 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare degli istituti, l’Italia tra i peggiori in Ue. Alessio Scandurra (Antigone): “Entro il 2005 bisognava adattare tutte le strutture”. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È l’articolo 27 della Costituzione, un articolo che purtroppo spesso è scollato da una realtà fatta di violenze, sovraffollamento, suicidi, mancanza di servizi e diritti. “Parliamo degli ultimi degli ultimi”, dice Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, che ogni anno visita gli istituti italiani per verificarne le condizioni. “In questo periodo - spiega - riscontriamo l’aumento del numero di persone con forme di disagio psichico. Persone incompatibili con il carcere che non ha risposte terapeutiche adeguate. Inoltre, il regime di telefonate in più che era diventato normale con la pandemia, piano piano si sta restringendo”. Edilizia penitenziaria - Dall’ultimo rapporto di Antigone, effettuato in seguito alle visite in 96 istituti penitenziari nel 2021, risulta che tanti detenuti sono costretti a stare in celle non regolamentari. Nel 25% delle carceri non sono garantiti nemmeno tre metri quadri a persona, nel 20% non funziona il riscaldamento, nel 56% non è presente la doccia in cella e, addirittura, nel 5% dei casi il gabinetto non è separato rispetto al resto della cella. “Negli anni - spiega Scandurra - lo stato di salute dell’edilizia carceraria sta migliorando, però c’è ancora tanto da fare. Per legge entro il 2005 bisognava adattare tutti gli istituti alla normativa ma siamo ancora a metà del guado. Nel sud Italia ci sono tante carceri nate senza riscaldamento che ancora non sono state adeguate. Nel nord Italia il riscaldamento c’è ma all’ultimo piano non arriva l’acqua calda nei termosifoni. Questa situazione non è ovunque, chiaramente, ma in ogni caso, in carcere tutti indossano il giubbotto. È la normalità, perché anche se c’è, il riscaldamento è per sfigati: i servizi sono tarati su quell’utenza”. I problemi non sono solo in cella, ma anche negli spazi comuni. In più di un terzo degli istituti i detenuti non hanno accesso settimanalmente alla palestra o al campo sportivo. Generalmente perché sono inagibili o non ci sono. Mancano spazi per le lavorazioni nel 32% degli istituti visitati da Antigone, percentuale che sale al 45% negli istituti più vecchi, e nel 17% ci sono sezioni che non hanno spazi per la socialità. “Chi può - si legge nel rapporto - esce dalla sezione per andare a svolgere qualche attività, mentre gli altri passeggiano nel corridoio o passano in cella tutta la giornata”. Violenza e suicidi - A fine marzo, l’organo anti-tortura del Consiglio d’Europa, il Cpt, ha pubblicato il rapporto di una visita condotta in Italia durante il 2022 in cui sono state supervisionate le carceri di Monza, di San Vittore a Milano, al Lorusso e Cutugno di Torino e al Regina Coeli di Roma. Spulciando il documento saltano fuori violenze e intimidazioni tra i detenuti, maltrattamento da parte degli agenti di polizia, regimi carcerari da abolire e sovraffollamento. Una relazione che fa riaffiorare alla mente le immagini di Santa Maria Capua Vetere, per cui c’è ancora un processo in corso, che sono tuttavia l’estrema ratio di un sistema in cui la violenza e l’uso della forza è all’ordine del giorno. E lo dimostra anche la recente inchiesta condotta dalle autorità giudiziarie sull’istituto penitenziario di Biella: 23 agenti sospesi per il reato di “tortura di Stato” commesso ai danni di tre detenuti. Li picchiavano, sostiene la Procura sulla base delle testimonianze raccolte, e li immobilizzavano col nastro adesivo. “Oggi esiste il reato di tortura - dice Scandurra - e quindi si va a processo per cose che negli anni abbiamo raccontato e denunciato e mai visto nero su bianco nelle sentenze. Però non è una norma che cambia la realtà: è un processo che passa dalla formazione degli operatori. L’operatore di polizia deve avere chiaro cosa deve fare e cosa no, non vanno lasciate zone grigie. Purtroppo, Fratelli d’Italia continua a presentare un disegno di legge per l’abolizione del reato di tortura”. L’altra forma di violenza, su cui il Cpt non ha posto l’accento ma che rappresenta un’emergenza nell’emergenza, è quella dei suicidi in carcere. L’anno scorso sono stati 85 in 53 settimane. Quest’anno ne sono stati contati già 18. “Da tanto tempo - continua - il carcere è un luogo anomalo per il numero di suicidi. A mio parere la pandemia ha fatto male a tutti da un punto di vista della salute mentale. Se questa stessa situazione però si proietta su una comunità fragile e pluriproblematica ha sicuramente un effetto esplosivo. Il sospetto è che per i fragili e i deboli sono stati anni orribili e probabilmente non sono ancora finiti”. Sovraffollamento - Una forma di tortura sui detenuti fa da sfondo all’intero sistema penitenziario: il sovraffollamento. Per legge, ad ogni detenuto devono essere garantiti tre metri quadrati di spazio. Pochi metri quadri che a volte non riescono ad assere garantiti per l’eccesivo numero di presenze nelle carceri. Attualmente, secondo i dati del Ministero di giustizia, a fronte di 51.261 posti disponibili, i detenuti sono 56.605. Oltre 5.300 persone in più. Un numero da vedere certamente al rialzo, come confermano i rapporti di Antigone e il presidente dell’Autorità garante dei detenuti, a causa della momentanea inutilizzabilità di alcune celle o, talvolta, di interi bracci. È da sottolineare, inoltre, che il sovraffollamento è molto disomogeneo tra i 190 istituti penitenziari. Ci sono carceri con oltre 200 posti disponibili e carceri, come quello di Opera in Lombardia, con oltre 400 detenuti in più rispetto ai posti consentiti dalla legge. Il risultato è che il sovraffollamento è concentrato in 119 carceri, dove si contano quasi 9.300 persone oltre la capienza massima. “Quando ci sono troppi detenuti - commenta Scandurra - il vero problema è che le risorse per la sanità, per la formazione, per il personale si devono dividere per un numero più elevato di persone. Questo è il motivo per cui la costruzione di nuove carceri non è la soluzione: si fa solo più spazio per gli scatoloni, ma le persone non sono scatoloni”. Una sanità diversa - L’altro neo nel sistema penitenziario italiano è quello della malasanità. “In questo momento - spiega Scandurra - seguiamo tanti procedimenti legati alla malasanità purtroppo partiti dalla morte della persona. Casi in cui familiari o periti dicono che la morte non era il decorso di quella malattia ma che è la causa di interventi tardivi o mancati”. Quello alla sanità è uno dei diritti che lo Stato italiano dovrebbe garantire a tutti, eppure, “la sanità in carcere è molto più limitata di quella che c’è fuori”, dice Scandurra. Ovviamente non tutti gli istituti sono uguali, in quanto la sanità, come per qualsiasi altro cittadino, dipende dalle Asl locali. “È una situazione - continua - complessa ma in generale non ci siamo per nulla. Il 70% delle visite programmate in carcere non vengono effettuate perchè il personale di polizia non riesce ad accompagnare i detenuti presso le Asl in quanto in sotto organico”. Le criticità sono state individuate anche dal Cpt, che nella sua relazione pone soprattutto l’accento sulle malattie mentali: “le carceri non offrono un adeguato ambiente terapeutico” per “persone che richiedono un trattamento psichiatrico specialistico”, si legge nella relazione del Cpt. Assenza di figure sociali - A coronare i disagi delle carceri è “l’inutilità del tempo detentivo”, come spiega Mauro Palma nell’intervista sotto. Un fatto reale e incostituzionale che permea la vita dei detenuti impedendogli di fatto un percorso di reinserimento sociale. “Per ospitare in maniera dignitosa i detenuti - si legge nel rapporto di Antigone - non serve solo spazio, ma anche personale, attività, opportunità trattamentali, il sostegno della comunità locale”. Tra le figure più importanti per i detenuti manca quella dell’educatore: con un organico previsto di 896 unità, al 2021 erano 733 i funzionari effettivamente presenti. In media ne è stato contato uno per 83 detenuti. “Un numero estremamente irrisorio - commenta l’associazione - se si pensa che gli educatori collaborano alla progettazione di tutte le attività dell’istituto (da quelle scolastiche a quelle sportive a quelle formative) partendo dai bisogni del singolo”. Patto fra Cnf e Garante per tutelare i diritti di reclusi e migranti di Davide Varì Il Dubbio, 22 aprile 2023 L’incontro tra Mauro Palma e l’istituzione forense per garantire effettività e continuità alla difesa tecnica delle persone straniere trattenute nei Cpr. Si è tenuto ieri un incontro tra il presidente dell’Autorità garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, e l’Ufficio di Presidenza del Consiglio nazionale forense. Diversi i temi trattati: innanzitutto l’obiettivo comune di garantire effettività e continuità alla difesa tecnica delle persone straniere sottoposte alla misura del trattenimento amministrativo presso i Centri di permanenza per i rimpatri, nonché assicurare la competenza specialistica dei difensori d’ufficio che andranno a svolgere questa tipologia di incarico. “Il Cnf”, riporta una nota di via del Governo vecchio, “si farà portatore di una indicazione di revisione normativa sulla difesa d’ufficio e, medio tempore, si farà carico del compito di interloquire con i Consigli territoriali dell’Ordine degli avvocati affinché predispongano delle liste dedicate per questa tipologia di assistenza, unitamente alla organizzazione di corsi di formazione che assicurino adeguata e specifica competenza”. Resta naturalmente alta l’attenzione del Garante nazionale e dello stesso Consiglio nazionale forense alla condizione dei detenuti all’interno delle strutture penitenziarie. Il presidente Greco ha illustrato l’iniziativa di cui è promotore il Cnf e che si terrà il prossimo settembre ad Agrigento e Lampedusa riguardante gli strumenti di tutela dei diritti dei migranti: il vertice della massima istituzione dell’avvocatura ha invitato il presidente dell’Autorità Garante, Palma, a partecipare all’evento. E ha manifestato l’intendimento del Cnf di effettuare una visita presso una struttura penitenziaria che sarà poi individuata con lo stesso Garante nazionale al fine di farsi portatore di una maggiore sensibilizzazione sociale sulla condizione dei detenuti. Nadia Lioce al 41bis è una offesa alla legge di David Romoli Il Riformista, 22 aprile 2023 Comminare il carcere duro anche a coloro le cui organizzazioni di appartenenza siano state sgominate o siano inesistenti è un controsenso in termini di legge. È la condizione che vivono, oltre Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi. Subiscono questo trattamento dal 2003. Sulla carta il regime di carcere duro ai sensi dell’art. 41 bis serve a impedire contatti tra i boss detenuti con le loro organizzazioni criminali. Per considerare “boss” tutti i 728 detenuti in regime di carcere duro bisogna interpretare il termine in modo un bel po’ estensivo ma tant’è. Secondo logica, dunque, l’esistenza di dette organizzazioni dovrebbe essere condizione imprescindibile per dispensare le delizie del 41 bis. Anche qualora dalla carta si passi alla sostanza, in soldoni all’uso del massimo rigore carcerario come forma di pressione, o meglio di tortura, al fine di estorcere “pentimenti”, cioè denunce, il discorso non cambia. Per denunciare i complici bisogna che quelli esistano. Comminare il 41 bis a detenuti le cui organizzazioni di appartenenza siano state nel frattempo sgominate e non esistano più da lustri è di conseguenza un controsenso anche in termini di legge. Il carcere duro si configura in questi casi neppure più come forma di tortura finalizzata a un obiettivo ma come pura e semplice persecuzione. Una persecuzione alla quale i sepolti vivi in questione non hanno alcun modo per sottrarsi. È precisamente la situazione assurda in cui si trovano Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, i militanti delle Nuove Brigate Rosse condannati per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi, il 20 maggio 1999 e il 19 marzo 2002, e del sovrintendente di polizia Emanuele Petri, ucciso il 2 marzo 2003 in un uno scontro a fuoco sul treno Roma-Firenze in cui perse la vita anche il brigatista Mario Galesi e fu arrestata Nadia Lioce. Gli altri componenti del gruppo, tra cui Mezzasalma e Morandi, vennero arrestati il 24 ottobre dello stesso anno. Da allora sono sempre stati sottoposti al 41 bis. Un’altra militante delle Nuove Br, Diana Blefari Melazzi, fu arrestata il 22 dicembre 2003 e condannata in primo e secondo grado all’ergastolo. La sua salute mentale non resse al carcere duro, tanto che la Cassazione annullò la sentenza chiedendo che venisse verificata la sua condizione psichiatrica. Fu diagnosticata una condizione di stress post traumatico dovuto alla detenzione col 41 bis ma, nonostante le sue condizioni fossero ulteriormente peggiorate, il 27 ottobre 2009 la condanna fu confermata. I giudici considerarono “i suoi atteggiamenti apparentemente paranoici come il rifiuto del cibo” come una “reazione coerente al suo modo di porsi e conseguenza di un forte impatto dell’ideologia Br sulla sua personalità”. Diana Blefari Melazzi si impiccò tre giorni dopo la sentenza. Dal 2003, Lioce, Mezzasalma e Morandi, tutti condannati a diversi ergastoli per i tre omicidi delle Nuove Br, non sono mai usciti dal regime di 41 bis. Una settimana fa la Cassazione ha respinto il ricorso di Nadia Lioce per la decisione del Tribunale di sorveglianza di non consegnarle una lettera. Secondo la Cassazione il Tribunale di Sorveglianza ha solo “bilanciato i diritti della detenuta in regime speciale con la necessità di tutelare l’ordine pubblico”. Non che sia una novità: sia il Tribunale di Sorveglianza che la Cassazione hanno sempre respinto i ricorsi della brigatista anche se dell’organizzazione con cui non dovrebbe comunicare non c’è traccia dal 25 settembre 2006, data di un fallito attentato contro la caserma della Folgore a Livorno. È significativo che i responsabili di quel attentato siano stati accusati di “cospirazione politica mediante accordo” e non di banda armata. La banda armata nel 2006 non c’era già più. Inutili però ricorsi e proteste, e Nadia Lioce è stata una delle prime a protestare rumorosamente contro il 41 bis, con una prolungata battitura delle sbarre che le è costata un ennesimo processo, nel quale però è stata assolta. La risposta a ogni richiesta di tornare alle normali condizioni di detenzione è stata sempre negativa. Che le Br, vecchie o nuove, esistano o no non importa. Nel respingere il ricorso contro l’ultima proroga biennale del 41 bis decisa dal ministero della Giustizia il 5 settembre 2019 e già respinto dal Tribunale di Sorveglianza, la prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Monica Boni, confermava nel maggio dell’anno scorso “l’approdo ormai pacifico della giurisprudenza costituzionale” secondo cui il 41bis mira a impedire i collegamenti con i membri delle organizzazioni criminali in libertà. Specificando però che si tratta di “un accertamento prognostico” finalizzato alla prevenzione. Pertanto che l’organizzazione criminale esista o meno è secondario, perché il fatto che non ci sia oggi non esclude che possa ricostituirsi domani. “Il mero decorso del tempo non costituisce elemento sufficiente a escludere o attenuare il pericolo di collegamenti con l’esterno”, scrivevano infatti i giudici. Neppure incide il fatto che l’organizzazione sia palesemente inesistente. Bisogna infatti evitare i contatti dei tre detenuti anche in assenza “di pieno accertamento della condizione di affiliato”. Lioce, Mezzasalma e Morandi hanno passato in carcere a tempo pieno, senza permessi o misure alternative e anzi in regime di massimo isolamento, più decenni della stragrande maggioranza degli ex terroristi, inclusi i capi delle Br (quelle vere) e dei Nar, mai formalmente dissociatisi. Quegli ex terroristi, pur senza dissociazione, avevano però dichiarato chiusa l’esperienza armata. Ma anche considerando gli irriducibili non solo di nome, come i capi delle Br-Partito guerriglia, la differenza di trattamento è evidente. Natalia Ligas, arrestata nel 1982, fu spedita al carcere duro in condizioni di estremo rigore a Messina nel 1992. Quattro anni dopo a protestare contro quell’isolamento furono il magistrato Ferdinando Imposimato e il giurista futuro sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Nel 1998 le furono concessi i primi permessi e due anni dopo le misure alternative alla detenzione. Giovanni Senzani, leader delle Br-Partito guerriglia, ottenne la semilibertà nel gennaio 1999, a 17 anni dall’arresto. Erano tempi più civili. Lo stesso Imposimato, a lotta armata sconfitta, si diceva stupito per “i trattamenti differenziati, oggi, tra politici dissociati e irriducibili”. Le cose sono cambiate: se tre persone vengono sepolte vive senza alcun motivo ragionevole non se ne stupisce più nessuno. Peggio: non se ne accorge più nessuno. Bambini in carcere con le madri, una vita da reclusi di Rossella Grasso Il Riformista, 22 aprile 2023 Viaggio nell’Icam di Lauro tra le mamme detenute con i loro bambini. “Questo è proprio un carcere e lo stanno facendo i bambini. E soffrono”, dice una mamma. “Non lo so se mia figlia un domani mi potrà mai perdonare per dove l’ho portata. Ci penso ogni giorno. E mi fa stare male”. Sono questi i pensieri di due madri detenute insieme ai loro bambini nell’Istituto di Custodia Attenuata per Madri di Lauro, provincia di Avellino. Il Riformista ha potuto visitare il carcere insieme al Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, chiacchierare con le mamme che sono lì insieme ai loro figli e toccare con mano come vivono. “È un ossimoro dire mamme e carcere - ha detto Ciambriello entrando nella struttura - Qui dentro ci sono bambini da 3 o 5 anni. Come crescono? Io sono indignato”. Nell’Istituto di lauro ci sono 11 madri e 13 bambini. “Le mamme detenute possono tenere accanto i loro figli fino all’età di 8 anni, fino a qualche anno fa il limite era a 6”, spiega Ciambriello. Una scelta facoltativa per le madri che devono scontare una pena: “Io vengo dall’ordinario e non ho sofferto come soffro qua - racconta una mamma - Con il mio primo figlio ho preferito lasciarlo a casa e io scontare la pena da sola al carcere ordinario. Ma lui era a casa e soffriva per me. Adesso, il secondo figlio, ho deciso di tenerlo qui con me. Ma soffre. Se torna a casa dopo 15 giorni vuole la mamma. È piccolo, è normale. Che fare? Ti giuro qui stanno male. Io ho finito le lacrime a furia di piangere per questa situazione”. “Sono qui da quasi un anno con mio figlio che ha 6 anni, ne aveva 5 quando è entrato”, dice una mamma. “Sto qua da 9 mesi, ho una bambina che quando siamo entrate aveva 3 anni. Ha festeggiato, per modo di dire, il suo quarto compleanno qui dentro”, racconta un’altra. La sua storia è emblematica perché si intreccia con il dramma della lungaggine della giustizia italiana. Racconta di stare scontando ora un reato commesso 13 anni fa quando era una persona diversa. E soprattutto di avere una figlia, all’epoca, non aveva nemmeno mai pensato. “Tredici anni dopo arriva la condanna - racconta - se avessi potuto scontare all’epoca la pena, ora mia figlia sarebbe a casa sua in grazia di Dio, non con me in carcere. Perché questo è un carcere, non una casa famiglia come tanti credono”. La mamma racconta al Riformista che quando è stata condannata al carcere a sua figlia ha detto che insieme dovevano andare al campeggio per un certo periodo. “Ho cercato in tutti i modi di non farle pesare questa situazione raccontandole che era solo una vacanza in un posto dove c’erano anche altri bambini - continua - All’inizio ci ha creduto, credo. Poi qui ha parlato anche con altri bambini che sono più grandi che sanno dove si trovano. Purtroppo tra di loro se ne parla. Io spero che con il lavoro che sto facendo riuscirò ad annebbiare il ricordo di mia figlia di questo posto. Ho provato a dirle che io devo restare qui per lavorare. Lei mi ha detto che vuole andare a casa dai fratelli e che soldi non ne vuole. A volte non so cosa dirle. Io ringrazio l’Icam perché da una parte mi ha dato la possibilità di essere qui con mia figlia ma davvero non so se un domani mia figlia mi potrà perdonare”. L’ambiente dell’Icam non è proprio “penitenziario”: sui muri ci sono disegni dei personaggi Disney (alcuni un po’ scrostati), la sala colloqui è tutta colorata e a dimensione di bambino. In un’area comune all’aperto ci sono panchine, uno scivolo, qualche altalena e qualche altro gioco per i bambini. Giochi colorati che stagliano sul grigiore di sfondo: quello delle sbarre vicino alle finestre. Ogni mamma ha a disposizione una cella attrezzata come una sorta di piccolo appartamento per cercare di garantire al bambino una dimensione familiare. C’è la cucina dove la mamma può cucinare a pranzo e a cena, la camera da letto con un letto matrimoniale vero e un bagno con doccia e lavandino. “Comunque sono celle - racconta una mamma mostrando le foto appese nelle cornici - Qualcuno dice che sono mini-appartamenti ma sono celle”. Ogni mamma cerca di “arredare” la stanza come farebbe a casa con foto della famiglia e piccoli giochi. Qualcuna ha messo le tende alle finestre cercando di occultare le sbarre. Ma ci sono, è innegabile. “Io e mia figlia qui dentro passiamo il tempo da detenute, entrambi. Non facciamo nulla o quasi dalla mattina alla sera. Penso che non è giusto: non è il modo per educare noi o i bambini”, racconta ancora un’altra mamma. Anche la porta della stanza-cella viene aperta e chiusa secondo i dettami del carcere. “Nei periodi invernali i passeggi sono chiusi presto - racconta una mamma - i bambini sanno già cosa vuol dire ‘assistente’, ‘apertura’, ‘chiusura’. Quando sentono il rumore delle chiavi hanno paura”. Le detenute raccontano una giornata tipo all’Icam: al mattino sveglia e colazione in cella, poi le mamme preparano i bimbi per andare a scuola. Uno scuolabus li prende e li accompagna a scuola o all’asilo e alle 16 li riporta all’Icam. Qualcuno fa anche delle attività pomeridiane come ad esempio il calcetto. “Di solito tornano alle 16 e la giornata è finita, si torna in stanza. Non c’è nient’altro da fare e lui dice sempre che si annoia - racconta ancora una madre - È seguito da uno psicologo ma spesso ha crisi di pianto o sfoga mangiando tutto quello che trova davanti. È l’unico modo che ha per sfogarsi”. In realtà i bambini che sono nell’Icam sono liberi. Il problema e che dovrebbero avere qualcuno che li accompagna a fare attività e come in ogni carcere non sempre c’è il personale a disposizione. Le mamme raccontano che non possono lasciare la struttura, nemmeno per andare a parlare con le maestre o andare a vedere la recita o accompagnarli nel primo giorno di scuola. “Mia figlia ha fatto la prima recita della sua vita all’asilo. L’ho preparata io da qui, nella nostra stanza. L’ho dovuta salutare sull’uscio dell’Icam. Nonostante siano venuti i nostri familiari dalla Puglia per non farle mancare l’affetto, lei si è rifiutata di farla. Voleva la sua mamma e non poteva averla”. “I nostri sono ‘i bambini reclusi’ e vittime di pregiudizio fuori da qui - continua la mamma - Sono figli di detenuti e devono essere messi da parte. C’è una bambina che ha sentito parlare del panino del McDonald’s da uno degli ‘amici liberi della scuola’, come li chiamiamo noi, e voleva mangiarlo. Come fai a spiegarle che non lo può avere?”. C’è un’altra cosa che le mamme proprio non sanno come spiegare ai loro figli: “Ogni mese abbiamo i colloqui con i familiari e due telefonate a settimana - spiega una mamma - quando mio figlio piange che vuole parlare con il papà come faccio a dirgli che mamma ha finito il tempo? È giusto che il bambino debba aspettare?”. “Per noi è come una terza carcerazione qui dentro perché vedi tuo figlio soffrire e non puoi fare niente”, racconta una madre. “Mi manca proprio fare la mamma - racconta un’altra mamma - Se io sto qua con mia figlia io credo che è per continuare a fare la mamma però poi non ci danno la possibilità di farlo”. Le parole delle mamme arrivano dritte al cuore come un pugno. Nei loro occhi c’è tutto il dolore di chi sa di aver sbagliato ma sa bene che la loro colpa è caduta ingiustamente anche sui figli e non se lo perdonano. Per loro è un dramma è quando pensano al loro presente e anche al loro futuro. “Mio figlio non ha mai vissuto fuori da qui - spiega un’altra donna - cosa penserà del mondo fuori? È come se qui dentro stesse diventando più cattivo, arrabbiato, aggressivo”. Tra le difficoltà che le madri raccontano c’è il vitto. “Non viene dato in base alle esigenze del bambino - spiega Ciambriello - per cui le mamme devono ricorrere all’acquisto del sopravvitto, una spesa aggiuntiva che non sempre è sostenibile per loro. Ci vorrebbe una dieta specifica per i bambini non di quello che offre la gara al ribasso di una ditta. Servirebbe anche un pediatra che indichi una dieta adatta a un bambino e che fosse fisso perché adesso c’è solo per alcune ore e a chiamata. Ho chiesto anche maggiore personale femminile e personale che possa accompagnare più spesso i bambini fuori per attività all’aperto. Inoltre serve sostegno permanente per i bambini e le loro mamme, più educatori, assistenti sociali e pedagoghi”. “Ho sentito che Salvini promuove la costruzione di altri posti come questo - dice una mamma, arrabbiata - ma lo sa cosa com’è vivere qui dentro con un figlio? Come vivono? Comunque ci sono le misure alternative: i domiciliari, le case famiglia… perché non darci la possibilità di scontare lì le nostre pene senza far soffrire i nostri figli?”. Mentre la mamma parla è impossibile non pensare a come sarà quel drammatico momento del distacco, quello che alcune di loro dovranno vivere per forza di cose quando il bimbo sarà troppo grande per restare lì ma loro dovranno andare all’ordinario per finire la pena. Un dolore enorme che probabilmente il bambino non dimenticherà mai. E chissà come questo si trasformerà nella sua vita. Samuele Ciambriello da tempo si batte insieme a Paolo Siani per l’eliminazione di luoghi di reclusione come l’Icam. Per quanto nell’istituto si veda lo sforzo enorme per rendere la vita delle detenute madri e dei loro figli più vivibile e meno traumatica, resta una situazione paradossale e problematica nella sua concezione. “Può continuare a esistere la maternità in carcere? Come cresce un bambino in carcere? Che tipo di affetto e di relazioni potrà mai avere? È vero, possono andare a scuola. Ma non è meglio per loro un luogo alternativo al carcere? Una non deve venire in carcere con i figli. L’anno scorso il parlamento ha approvato una legge per far uscire dal carcere i bambini, creando delle comunità di accoglienza. Ebbe solo 6 voti contrari. Quest’anno è stata bloccata al Senato”. In tutta Italia ci sono 17 bambini detenuti con le loro madri, numero che negli ultimi giorni è lievemente aumentato. “In Italia non c’è più né fascismo né comunismo, c’è il giustizialismo che fa più morti alcune volte - continua Ciambriello - Il populismo politico e penale vuole che se una ha sbagliato deve andare in carcere. Peccato che qui ci sono anche persone accusate di piccolo spaccio con una condanna a tre anni. Perché non fargli vivere una misura alternativa al carcere? L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. Chiediamoci perché stanno qui loro con i figli. E chiediamoci perché 12mila minori in Italia e 6.400 in Campania vivono una disgregazione familiare, affettiva, familiare, economica. Quando ci occupiamo di loro? Quando commettono un reato grave? Non vorrei che la pubblicistica comune porti a non dare speranza a queste persone. Dico ‘No ai bambini in carcere’ e quindi liberando i bambini dobbiamo liberare anche le mamme. Lo so a volte la politica tra il dire e il fare ci mette il mare. Io chiedo di mettere il coraggio. Dobbiamo intervenire per ricucire queste vite disgregate altrimenti queste lacerazioni crescono. E i ragazzi che vivono qui dentro che idea si fanno? Non solo dei genitori ma dello Stato. Uno Stato vendicativo? Occorre liberare i minori ed educare gli adulti”. Dopo il caso Uss, Nordio è ancora più ostinato a riformare la giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 aprile 2023 Fonti di via Arenula smentiscono qualsiasi sensazione di “isolamento” del Guardasigilli, che anzi è ancora più determinato a portare avanti le sue riforme per cambiare le cose. Il ministro Nordio non molla, anzi rilancia. Il Guardasigilli non ha alcuna intenzione di lasciarsi condizionare dall’ondata di critiche da parte di opposizioni, magistrati e pure avvocati per la gestione del caso Artem Uss. Fonti di Via Arenula smentiscono categoricamente qualsiasi sensazione di “isolamento” di Nordio, che anzi, si riferisce, nelle ultime ore è apparso ancora più determinato a portare avanti le sue riforme per cambiare la giustizia. Tra pochi giorni, a maggio, dovrebbe essere presentato il primo pacchetto di riforme, dal contenuto molto ampio: abuso d’ufficio, traffico di influenze illecite, prescrizione, intercettazioni, custodia cautelare e appellabilità delle sentenze di assoluzione. Dopo le vacanze estive, Nordio vorrebbe invece presentare il pacchetto di riforme costituzionali, puntando soprattutto sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, e sulla modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Insomma, altro che passo indietro. Carlo Nordio guarda avanti spingendo sull’acceleratore, seppur con un po’ di stupore per l’errata interpretazione delle norme in materia di estradizione che a suo parere continua a essere offerta sul caso Uss da diversi esponenti della magistratura (un assist inaspettato al ministro è invece giunto dall’ex presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che in un incontro a New York ha detto che “Nordio ha ragione”). Su abuso d’ufficio e traffico di influenze, Nordio punta alla loro revisione, e non alla cancellazione come inizialmente si era ipotizzato. Lo scopo, resta comunque lo stesso: limitare il campo d’azione dei due reati che paralizzano l’attività di sindaci e amministratori locali, spingendoli alla fuga dalla firma. Sulle intercettazioni, l’obiettivo del Guardasigilli è quello di limitarne l’uso per i reati di mafia e terrorismo, e i vari reati satelliti collegati a quest’ultimi, ma soprattutto trovare una soluzione per evitare la diffusione delle captazioni penalmente irrilevanti (un punto sul quale il ministro si è detto addirittura “disposto a battersi fino alle dimissioni). Come da lui stesso anticipato in un’intervista al Foglio, il ministro intende anche eliminare l’appello per l’assoluzione in primo grado. Visto che in Italia vi è il principio che l’imputato è condannato se risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio - disse Nordio - “mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole”. Sulle misure di custodia cautelare, si punta a prevedere che a esprimersi sia un organo collegiale. Possibile anche l’introduzione di un interrogatorio preventivo, e non successivo all’applicazione delle misure. Ripristinare la prescrizione sostanziale, superando il pasticcio creato dalla riforma Bonafede e dalla “toppa” introdotta da Cartabia, sarà un’altra delle priorità. Insomma, vasto programma. Tanto che fra i corridoi del ministero della Giustizia c’è chi sospetta che la marea di attacchi giunta sul caso Uss da diversi settori della magistratura associata sia da legare anche - se non soprattutto - a un sentimento di opposizione delle toghe alle radicali riforme immaginate da Nordio. Caiazza: “Sulle riforme solo annunci. Diamo forza alle idee di Nordio” di Angela Stella Il Riformista, 22 aprile 2023 Ministro commissariato a via Arenula? Ma Sisto promette: “Separazione delle carriere dopo l’estate”. Ieri ultimo giorno di astensione dei penalisti, Caiazza: “Tante riforme annunciate ma la realtà è di segno opposto, vogliamo dare forza alle idee del ministro”. Sisto: “Dopo l’estate legge sulla separazione delle carriere”. Contesto, protesta, soluzione. Potremmo schematizzare con queste tre parole l’assemblea di ieri a Roma dell’Unione della Camere Penali Italiane al termine di una tre giorni di astensione non contro Nordio, ma contro ciò che impedisce a Nordio di agire come lui vorrebbe: che sia Fratelli d’Italia o la squadra di cui si è circondato a Via Arenula non importa. Come ha detto il presidente Caiazza “sono i risultati a contare. Il percorso del ministro della giustizia ha provocato tra i penalisti preoccupazione e delusione, con una contrapposizione tra le riforme annunciate, con la solennità degli impegni presi in Parlamento, e una realtà di segno radicalmente opposto”. In quanto fino ad ora non si è visto nulla, nonostante i buoni propositi del Guardasigilli, al momento apparentemente commissariato a casa sua. A delineare il contesto, caratterizzato da profonde deviazioni rispetto alle linee programmatiche espresse da Nordio e agli annunci in campagna elettorale dei partiti di maggioranza, ci ha pensato il responsabile giustizia di Azione, onorevole Enrico Costa: “sulla separazione delle carriere Fratelli d’Italia non ha presentato proposte di legge, a differenza mia, di Forza Italia e Lega. Senza il loro appoggio non andiamo da nessuna parte”. Poi “sulla riforma del Csm entro giugno sarebbero dovuti essere approvati i decreti attuativi ma tutto è slittato di sei mesi, forse per volontà dei magistrati fuori ruolo distaccati al Ministero che proprio per quella riforma dovrebbero diminuire”. Per Costa inoltre “il decreto rave rappresenta chiaramente la contraddizione rispetto agli annunci fatti sul diritto penale minimo e sulle depenalizzazioni”. Per non parlare del carcere: “basta fare un nome: Andrea Delmastro Delle Vedove per cui pena equivale solo a carcere e il garantismo cede il posto al giustizialismo in fase di esecuzione penale. In più, mi sarei aspettato - ha continuato il deputato - che Nordio prendesse una distanza politica dalle affermazioni fatte da Donzelli contro la delegazione del Pd che era andata in visita da Cospito”. Ultimo punto: “è paradossale che la prima azione disciplinare di Nordio venga avviata su un provvedimento che aveva sostituito la custodia cautelare in carcere con i domiciliari (caso Uss, ndr). Anche perché così il rischio è che i magistrati non concedano più i domiciliari per paura di subire azioni. Si proceda magari per i motivi opposti. In questi mesi, inoltre, non è stata avviata alcuna azione disciplinare per i numerosi casi di ingiusta detenzione, che sono tanti e sono molto peggio”. E passiamo dunque al senso della protesta, alle ragioni sottese allo sciopero dei penalisti italiani, che sintetizza il presidente uscente Caiazza: “tutto quello che si è prodotto in materia di politica giudiziaria in questi mesi è peggio di quello fatto nella legislatura precedente. Stiamo assistendo a riforme ispirate dalle notizie di cronaca. Dall’altra parte abbiamo ricevuto l’attenzione del Ministro Nordio nei nostri confronti dal primo giorno. Questo ci ha onorati, è un patrimonio politico per noi però i risultati sono diversi. Chiedo al vice ministro Sisto (presente in sala) il perché di questa anomalia. Noi comunque siamo qui perché vogliamo dare forza alle idee del Ministro”. Ed ecco palesarsi la (possibile) soluzione nelle parole di Francesco Paolo Sisto: “Ho parlato ieri (giovedì, ndr) con il Ministro Nordio e posso dirvi che il ministero presenterà una proposta di legge governativa sulla separazione delle carriere nella seconda parte del 2023, probabilmente dopo l’estate”. Nel dare l’annuncio il forzista ha anche sottolineato che “nessuno vuole toccare autonomia e indipendenza del pubblico ministero, questa balla deve morire una volta per tutte”. Non solo, secondo Sisto “ci saranno anche proposte sui temi dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul Csm”. Quanto alla riforma dell’abuso d’ufficio, Sisto ha spiegato che “si sta discutendo se ridimensionare questa fattispecie o intervenire in modo più netto. A mio parere, se non ci fosse almeno una parte abrogativa rischieremmo un intervento inefficace ad evitare processi inutili e, spesso, dannosi”. “Un’altra misura da realizzare - ha proseguito - riguarda poi il traffico di influenze. La norma sarà certamente revisionata per trovare una soluzione che sia più pragmatica e precisa, evitando la genericità deleteria dell’attuale formulazione”. In una fase successiva il Governo si impegnerà anche “sul tema delle intercettazioni, dell’appello alle sentenze di assoluzione, degli organi collegiali per le misure cautelari”. Caiazza ha accolto positivamente le parole del vice ministro: “Sisto ci ha detto cose importanti non solo sulla tempistica delle riforme; poi si tratterà di misurarsi sul merito. Noi intanto apprezziamo enormemente la scelta delle priorità”. “Questi tre giorni e questa manifestazione nazionale hanno prodotto un risultato politico concreto” ha concluso il presidente Caiazza. Riforma Cartabia, la Cassazione esclude l’illegittimità dell’improcedibilità limitata ai soli fatti commessi dal 2020 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2023 No a verifica sulla querela per ricorsi inammissibili o per la decadenza della misura cautelare ante 19 gennaio 2023. La Cassazione penale con due decisioni depositate oggi ribadisce il proprio orientamento in base al quale non intravede profili di illegittimità costituzionale della norma della riforma Cartabia che prevede l’appplicabilità dei nuovi termini di improcedibilità dell’azione penale per i soli reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020. In particolare l’avvenuto superamento del termine di due anni per lo svolgimento del giudizio di appello. E - con un’altra pronuncia - conferma che a fronte di ricorso per cassazione giudicato inammissibile non è necessario verificare la sussistenza della querela per il reato precedentemente perseguibile d’ufficio così come nel caso di applicazione di misura cautelare questa non decade se non è ancora decorso il termine di 20 giorni dall’entrata in vigore della riforma, cioè il 19 gennaio 2023. Improcedibilità azione penale - Con la sentenza n. 17165/2023 i giudici di legittimità hanno precisato che la mancata retroattività del nuovo articolo 344 bis del Codice di procedura penale a procedimenti relativi a fatti ante 2020 si giustifica per l’intreccio con la recente riforma del decorso della prescrizione e consente una corretta gestione organizzativa degli uffici giudiziari. Si potrebbe dire che tale ragionamento interpretativo - che ha non solo finalità logistiche, ma anche di buon senso, miri a evitare che siano travolti innumerevoli procedimenti - comporti una compressione del favor rei invocato dal ricorrente. L’incrocio normativo che porrebbe nel nulla moltissimi procedimenti pendenti in secondo grado è quello tra il nuovo secondo comma dell’articolo 159, varato con la legge 3/2019, che sospende il corso della prescrizione dalla pronuncia di primo grado e il nuovo articolo 344bis introdotto dalla legge 134/2022 secondo cui la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni è causa di improcedibilità dell’azione penale. Non a caso il legislatore della riforma Cartabia ha unificato l’applicabilità della causa di improcedibilità a quella già stabilità per il nuovo corso della prescrizione convergendo sulla limitazione temporale ai soli fatti commessi prima del 1°gennaio 2020. Procedibilità a querela di parte - Sempre la Cassazione penale - con la sentenza n. 17173/2023 - precisa, in adeguamento all’intervento nomofilattico delle sezioni Unite penali, che in caso di inammissibilità del ricorso di legittimità non è necessario verificare che sia intervenuta querela per il reato per cui vi è stato processo e poi sia divenuto per legge perseguibile d’ufficio. E nel rigettare il ricorso contro l’impugnata sentenza di patteggiamento la Cassazione penale ha avuto modo di affermare che avendo deciso il ricorso il 16 gennaio di quest’anno non è tenuta a verificare l’iniziale o successiva esistenza della querela che entro i 20 giorni dall’entrata in vigore del Dlgs 150/2022 (attuazione della legge delega della riforma targata “Cartabia”) deve essere presentata pena la decadenza della misura cautelare applicata all’imputato. Infatti, la novella entrava in vigore il 19 gennaio 2023 ossia 20 giorni dopo il 30 dicembre 2022 data di efficacia della maggior parte delle norme della riforma Cartabia. Solo la pericolosità sociale della puerpera giustifica i domiciliari al posto del rinvio obbligatorio della pena di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2023 Il giudice deve motivare puntualmente le ragioni per cui non accorda prevalenza alla tutela della maternità. Il tribunale di sorveglianza non può negare il differimento della pena alla donna che ha da pochi giorni partorito e accordarle invece la detenzione domiciliare senza puntualmente motivare il perché di una scelta di minor favore nei confronti della puerpera che in base all’articolo 146 del Codice penale avrebbe automaticamente diritto al rinvio dell’esecuzione penale. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 16820/2023 - ha ritenuto insufficiente la scarna motivazione del tribunale di sorveglianza che, nel negare la revoca della detenzione domiciliare, ha affermato stringatamente che tale misura restrittiva risultava essere un valido strumento di riabilitazione per la giovane adulta. In realtà, il giudice può nei casi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva disporre al posto dello status libertatis l’espiazione domiciliare se si accerta la pericolosità sociale anche residua della persona che ha per legge diritto al rinvio della pena da scontare. Però nel caso concreto non emerge che il tribunale di sorveglianza abbia specificato i profili della persistente pericolosità sociale della donna poco più che ventenne che doveva scontare una condanna. Non basta a ritenere compiuto l’accertamento sulla ritenuta pericolosità sociale affermare che la detenzione domiciliare si ritenga idonea alla riabilitazione della donna condannata la quale rientri nei casi di rinvio obbligatorio posti dal Codice penale a tutela dei diritti della prole. Infatti, il giudizio deve precisamente indicare il motivo per cui sia necessario mantenere una forma di restrizione personale della madre condannata. Reggio Emilia. Ilaria Cucchi alla Pulce: “Visita choc, ecco cosa ho visto” di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 22 aprile 2023 Ispezione della senatrice nel penitenziario: “Detenuti trattati come animali, tra gli escrementi”. Poi sul pestaggio di un carcerato: “Informata dalla famiglia, mi batterò”. “Arrivando qui mi aspettavo una realtà ben diversa, non potevo immaginare quello che ho trovato dentro il carcere reggiano”. Lo denuncia Ilaria Cucchi, senatrice di Verdi-Sinistra Italiana, ieri mattina in visita d’ispezione alla Pulce. “Al di là dei problemi che riguardano tutte le carceri, come il sovraffollamento, ho assistito con i miei occhi ad una scena terribile, a un trattamento che non viene riservato nemmeno alle bestie. Ho visto due detenuti, uno in particolare in isolamento, lì da una settimana abbondante, che vive in una cella di pochi metri quadrati circondato dai suoi escrementi. Ecco: si tratta di situazioni gravissime che la gente non conosce e che noi intendiamo denunciare e per la quale andremo a fondo”. Dichiarazioni choc che hanno subito trovato la replica del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (mentre abbiamo cercato senza ottenere risposta anche la direttrice della casa circondariale, Lucia Monastero). “Dalla Cucchi ci aspettiamo risposte e non domande - chiosano il segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante e il segretario provinciale Michele Malorni - una proposta di legge che vada nel solco tracciato dalla Corte costituzionale che ha affermato che la legge di chiusura degli Opg va rivista. E lo abbiamo detto noi del Sappe mesi fa, nel corso di un’audizione in commissione Giustizia al Senato, dove era presente la senatrice Cucchi. Ad oggi, nulla è stato fatto, nessuna proposta di legge è stata presentata”. La Cucchi poi ha parlato anche del pestaggio denunciato da un detenuto nel carcere reggiano da parte di un gruppo di agenti della polizia penitenziaria - come riportato dal Carlino - sul quale la Procura ha aperto un fascicolo d’inchiesta. “Sono al corrente della cosa, perché sono stata contattata dai familiari del detenuto, che ora è stato trasferito nel carcere di Parma. La mia intenzione è seguire questa vicenda e fare tutto ciò che è nelle mie possibilità, come parlamentare e come cittadina”. La strenua difesa di Ilaria Cucchi nei confronti di suo fratello Stefano, l’ha resa una paladina, un simbolo di coraggio e di tenacia nel combattere ogni battaglia per la conquista di un miglioramento della vita dei detenuti in carcere, per garantirne rispetto e dignità. Oltre alla possibilità di una riabilitazione. La senatrice nel pomeriggio della sua giornata reggiana ha voluto partecipare ad un incontro pubblico organizzato da Sinistra Italiana e Coalizione Civica. Al tavolo con lei Cosimo Pederzoli, referente Sinistra Italiana, Dario De Lucia, consigliere comunale di Coalizione Civica, Federica Zambelli di Città Migrante ed Elisa Visentin di Europa Verde. Bari. Detenuto cade dal letto e si frattura la gamba: aspetta l’operazione chirurgica da sei mesi di Erasmo Marinazzo Quotidiano di Puglia, 22 aprile 2023 Questa menomazione gli ha, inoltre, impedito di continuare a partecipare ai progetti di lavoro. Sei mesi fa si procurò una frattura alla gamba destra cadendo dal letto a castello nel carcere di Borgo San Nicola. Il detenuto venne visitato da un medico che gli prescrisse un intervento chirurgico. Sei mesi fa, ma in sala operatoria non ci è mai stato. Ed oggi zoppica, quel detenuto. Questa menomazione gli ha, inoltre, impedito di continuare a partecipare ai progetti di lavoro. Si è dovuto fermare e rinunciare a quelle iniziative che - dati alla mano - azzerano quasi del tutto la recidiva, assicurano una formazione e garantiscono qualche soldo alle famiglie a rischio - talvolta - di povertà. Questa storia di malasanità in carcere l’hanno raccontata il diretto interessato, claudicante, un giovane straniero con poca dimestichezza con la lingua italiana, ed un altro detenuto che lo ha aiutato ad esporre il problema ricordando la tanta buona volontà dimostrata nel volere partecipare ai programmi di lavoro. ed ha posto un problema, il detenuto italiano: “Ma dopo sei mesi l’osso non si sarà calcificato?”. Una storia emersa nel corso della presentazione della relazione di fine mandato della garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce, la professoressa Maria Mancarella. Sì perché nel corso della manifestazione tenutasi giovedì nel teatro della struttura carceraria fra il pubblico c’erano anche una ventina di detenuti. E sono stati invitati a non restare solo spettatori ma a intervenire per raccontare il loro rapporto con la garante. Che d’altronde nella sua relazione ha segnalato fra le criticità più rilevanti proprio la carenza di assistenza medica a Borgo San Nicola. Carenze rilevate in diversi passaggi della relazione della garante. Come questo: “Ho visto detenuti ingrassare fino a diventare obesi, perdere i denti e non poterli sostituire perché questo non è previsto (il dentista presente in carcere può solo curarli e al massimo estrarli, non sostituirli), aspettare tempi lunghissimi per visite specialistiche non effettuabili in struttura, attendere un mese per avere un medicinale acquistato personalmente (l’acquisto dei medicinali viene fatto mensilmente per problemi legati all’organizzazione e alla carenza di personale e spesso la farmacia centrale Asl è sprovvista del farmaco richiesto”. Ed ancora è stato rilevato dalla garante in questi cinque anni di mandato che la privazione della libertà condiziona la salute del detenuto anche perché costretto a vivere in ambienti insalubri, subire le scelte effettuate dall’amministrazione penitenziaria sia in merito, alle strutture che ai professionisti da cui dipendono le cure, senza sapere se la soluzione ci sarà e quando arriverà. Nelle 162 pagine della relazione, la professoressa Mancarella ha inoltre voluto ricordare che sebbene nel 2015 nel carcere sia stata creata una articolazione per la tutela della salute mentale, la struttura oggi è sottoutilizzata: “Per mancanza di personale medico”. Del caso del detenuto in attesa di intervento chirurgico da sei mesi si è interessata la direttrice Maria Teresa Susca, presente alla manifestazione che ha inoltre visto la partecipazione della stessa garante. C’era anche il sindaco Carlo Salvemini che durante l’intervento ha confermato il rinnovo della carica alla professoressa Mancarella. Ad ascoltare le storie arrivate da dentro al carcere, un pugno nello stomaco, anche la delegata del prefetto, Paola Matteo; il magistrato di Sorveglianza, Ines Casciaro; la professoressa Marta Vignola, delegata dell’Unisalento al polo penitenziario, con una delegazione di studenti; l’assessora comunale Silvia Miglietta; l’avvocato Alessandro Costantini Dal Sant, presidente della quinta commissione consiliare (Servizi sociali, pari opportunità ed altro); ed il presidente della Camera penale Francesco Salvi, l’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti. Assente, fra gli altri, il rappresentante dell’Asl di Lecce. Resta ora da capire cosa faranno l’Asl e la struttura carceraria per il detenuto in attesa da sei mesi dell’intervento chirurgico per ricomporre la frattura ma anche per garantire a tutti gli altri una assistenza medica dignitosa e tempi di attesa perlomeno equiparati con quelli di chi sta fuori da Borgo San Nicola. Volterra (Pi). Il Garante regionale dei detenuti in visita: “È un penitenziario modello” ilcuoioindiretta.it, 22 aprile 2023 “Una visita costruttiva e partecipata”. Proseguono le visite della commissione Bilancio e del Garante regionale alle carceri della Toscana Giuseppe Fanfani per indagare sulle emergenze del sistema penitenziario. Dopo gli istituti di Sollicciano e Massa, oggi è stato il turno del carcere di Volterra, dove nell’occasione si è unita una delegazione della commissione Istruzione e cultura. “Quella di oggi è stata una visita costruttiva, partecipata e molto attenta. La direttrice Maria Grazia Giampiccolo ci ha fatto un’illustrazione dettagliata di tutto il sistema carcerario di Volterra e delle opportunità di reinserimento lavorativo presenti nella struttura” ha spiegato Fanfani parlando in primis delle attività culturali, con in testa il teatro, ma anche di “altre discipline più pratiche non meno importanti” come la scuola di cucina e il reparto sartoria dove ai commissari sono stati fatti vedere alcuni dei prodotti realizzati come borse, mantelli e cuscini “davvero molto belli” ha affermato il Garante. La visita è proseguita nel giardino dove “sono già pronti i terreni per le prossime culture”. Quindi il “passaggio” nel teatro dove il regista Armando Punzo ha ripercorso la storia, i contenuti e le attività messe in campo in 35 anni. Ad accogliere la delegazione anche Cinzia de Felice, direttrice organizzativa e curatrice dei progetti della Compagnia della Fortezza a cui il Consiglio regionale ha recentemente consegnato il Gonfalone d’argento. Insieme a Fanfani, il presidente della commissione Bilancio Giacomo Bugliani e quella della commissione Cultura Cristina Giachi, con loro la vicepresidente della commissione Luciana Bartolini, e i consiglieri Valentina Mercanti, Silvia Noferi e Massimiliano Pescini. “Un’esperienza molto significativa e insuale - per il presidente della commissione Bilancio Giacomo Bugliani. - perché Volterra ci offre una testimonianza della vita detentiva del tutto diversa da quella che si può riscontrare in altri istituti toscani”. “Le emozioni e le impressioni sono molte - ha spiegato la presidente della commissione Cultura Cristina Giachi - la loro è un’esperienza carceraria di grande livello. Hanno celle singole, c’è un buon clima tra detenuti e il personale di sorveglianza. Con esperienze straordinarie come quella della Compagnia della Fortezza. Il lavoro del teatro si fa in tante carceri toscane, ma qui ha una punta di eccellenza. Il carcere di Volterra è un modello di detenzione con finalità trattamentali e rieducative di altissimo livello. Vorremmo che fossero tutti così in Italia. Noi siamo grati per questa bella esperienza che ha bisogno di assistenza, cura e logistica”. Napoli. La scrittura che libera le detenute di Patrizia Rinaldi La Repubblica, 22 aprile 2023 “Adotta uno scrittore” è il progetto del Salone del Libro di Torino che da più di vent’anni fa incontrare studenti e studentesse con le autrici e gli autori contemporanei. Dalle scuole primarie alle secondarie, alle strutture detentive, alle università. Per l’anno scolastico 2022/2023 coinvolge 38 autori e autrici e sarà attivo in Piemonte (26 autori); Liguria (4 autori); Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia (8 autori). In Campania partecipano al progetto il Liceo Scientifico “Leonardo Da Vinci - Salerno (Sa) e la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli e Cpia Casoria, Napoli. Solo sei istituti sono stati scelti per una documentazione filmica del progetto (regia di Fabio Ferrero e consulenza di Raffaele Riba). I video saranno trasmessi al Salone del Libro, il 22 maggio. La Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli è tra i sei istituti scelti. L’edificio, costruito nel 1472, è stato un convento fondato dai frati minori, poi destinato nel Novecento a sede di manicomio criminale femminile; ora ospita un’alta percentuale di straniere in 22 camere detentive distribuite su 3 piani. “Qui insegno un po’ di tutto. Perché se all’inizio abbiamo cominciato ad insegnare le diverse discipline separatamente, poi ci siamo accorti che era necessario collegarle tra di loro”, spiega Fausta Minale, insegnante dal 1993 a Pozzuoli. Più che sulle autrici e sugli autori coinvolti nel progetto, forse è il caso di spostare l’attenzione su chi da anni e anni, come la professoressa Minale, lavora per offrire alle detenute nuovi sguardi, possibilità conoscitive insperate nei giorni cosiddetti liberi, che quasi sempre liberi non sono stati per i più svariati motivi, dal privato al sociale. Il gruppo insegnanti è coeso e di alte competenze: le docenti Apa, Lucignano, Schiavone, Cicala, D’Emilio e Caccavale, insieme alla direttrice Palma e all’educatrice Intilla, collaborano nell’arduo compito di aiutare la parte integra e sana di ogni detenuta affinché resti tale. Le responsabilità individuali di ogni gesto illecito, dai minori ai più gravi, non sono messe in discussione né mai impoverite di senso e di seria riflessione, ma la Costituzione parla chiaro: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (3° comma dell’articolo 27). Se il condannato è una condannata le cose si complicano: la proporzione di donne detenute sul totale è bassa. Fino al 2021 i maggiorenni incarcerati in Italia sono quasi cinquantamila, di cui solo il 4,1% donne. Quindi l’attenzione necessaria scema inevitabilmente. In tale quadro della situazione, le iniziative di interazione culturale, promosse dalla Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, diventano azione e simbolo forte. Come è successo, a opera della professoressa Maria Franco, e succede per l’Istituto Penale Minorile di Nisida, questi luoghi diventano presidi dell’umano sentire, di un impegno che non considera solo scarti le parti devianti del corpo sociale. Mai come in questo periodo storico le parole di Voltaire andrebbero scolpite nei cuori e nelle teste di tutti: “La civiltà di un Paese è data dalle condizioni delle sue carceri”. Noi a Pozzuoli, nonostante le costanti del sovraffollamento e dei fondi sempre insufficienti, abbiamo un esempio da seguire. E dobbiamo ringraziare chi lavora ogni giorno fianco a fianco con le ospiti della Casa Circondariale, senza lasciarsi contaminare dalle impossibilità, dagli insuccessi, dalle mani che diventano solo indici puntati e non riescono più a stringere altre mani. Ricordiamo che, se la prevenzione negli ambiti a rischio seguisse dettami più rigorosi e fattivi, avremmo non solo maggiore compostezza sociale, ma anche un risparmio di denaro e di dolore. Quel dolore che ci riguarda, che è il fardello di tutti, nessuno escluso. Milano. Bollate, la biblioteca di Onida in dono ai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 aprile 2023 La biblioteca di Valerio Onida da domani troverà posto in uno dei luoghi in cui l’illustre costituzionalista, scomparso un anno fa, si è impegnato per promuovere l’idea di un “carcere della legalità”: la casa di reclusione di Bollate. È in questo istituto che il giurista - avvocato, docente e presidente della Corte costituzionale - ha prestato per molti anni consulenza gratuita ai detenuti. Ed è stato grazie al suo supporto che è nato, nel 2002, lo Sportello Giuridico. La biblioteca sarà donata a una rappresentanza di detenuti dal figlio di Valerio Onida, Marco, nel corso di una cerimonia di commemorazione che si terrà domani alle 10, nella biblioteca del V reparto, alla presenza dei familiari, di rappresentanti del mondo giudiziario, dell’amministrazione penitenziaria e del volontariato sociale. “Voglio rivolgere un sentito ringraziamento a nome della direzione di Bollate e di tutta la comunità penitenziaria al professor Onida”, ha commentato il direttore del carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, “per l’eccellenza del servizio svolto con l’umiltà che è propria delle grandi personalità”. Nel pomeriggio, sempre a Bollate, è in programma un evento rilevante su un altro piano, quello della tutela ambientale. In occasione della Giornata mondiale della Terra verrà messo a dimora un sistema agroforestale multistrato progettato per generare frutti eduli. Un modello che non si limiterà a svolgere funzioni legate al miglioramento estetico dell’area dove avverrà la messa a dimora, ma fornirà importanti servizi ecosistemici all’ambiente carcerario, in particolare lo stoccaggio di carbonio, la mitigazione delle temperature e la rigenerazione del suolo. L’iniziativa - ideata e realizzata Soulfood forestfarms hub Italia, con il sostegno economico dell’organizzazione internazionale OneTreePlanted e il supporto logistico del vivaio Cascina Bollate si inserisce nelle attività del “Progetto Carcere”, realizzate in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano. Nell’attività di piantumazione saranno coinvolti alcuni detenuti del Corso di Laurea in Scienze Umane dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio. Mondovì (Cn). “Vale la pena”: esperienze di vita e di lavoro in carcere provinciagranda.it, 22 aprile 2023 Iniziativa curata dall’associazione “Panatè”, presentata all’Istituto Alberghiero. “Antoher brick in the wall” cantavano i Pink Floyd. In un’epoca dove la costruzione di muri sembra ormai pervadere diversi ambiti della quotidianità, ognuno di noi rappresenta in effetti un potenziale mattoncino di quella barriera psicologica che ambisce a proteggere la società da ciò che non si conosce. Succede con le diversità culturali e le minoranze religiose, ma succede soprattutto con il mondo carcerario. Un ambiente temuto e osteggiato che l’opinione pubblica finge di non vedere, per una tematica, quella della rieducazione, che spesso è costretta a passare sottotraccia, in silenzio, per evitare stigmatizzazioni o strumentalizzazioni. Da qui, dunque, la volontà di fare una breccia nel muro dell’indifferenza e di proporre un momento di riflessione sul mondo carcerario e su una realtà, quella della cooperativa sociale Panaté, che da alcuni anni produce pane nella Casa di Reclusione di Fossano e nella Casa Circondariale di Cuneo. Lo scorso 20 aprile, allora, nell’Aula Magna “Paolo Borsellino” dell’Istituto Alberghiero “Giolitti” di Mondovì, è andato in scena l’incontro Vale la Pena, promosso da Panaté in collaborazione con l’Istituto Alberghiero stesso e l’associazione “Mondovì in Grande”. Un evento dal forte valore educativo, pensato per raccontare l’esperienza della riabilitazione lavorativa dei detenuti e per lanciare un messaggio di consapevolezza nei confronti del mondo carcerario, come sottolineato dal Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, intervenuto nell’occasione: “Ridare dignità alle persone e offrire loro la possibilità di ricostruirsi un cammino di crescita culturale e lavorativa, insomma, deve essere un’ambizione collettiva non personale”. Diverse le autorità che si sono alternate nel corso della mattinata, animata da Elena Tomatis e Davide Camoirano di “Mondovì in Grande”: dalla dirigente scolastica, Donatella Garello, al sindaco della Città di Mondovì e presidente della Provincia di Cuneo, Luca Robaldo; dalla direttrice della Casa di Reclusione di Fossano, Assuntina Di Rienzo, al commissario comandante della polizia penitenziaria di Fossano, Lorenzo Vanacore; dalla responsabile area trattamento funzionario giuridico-pedagogico della Casa di Reclusione di Fossano, Antonella Aragno, a Grazia Oggero della Cooperativa Agricola “Pensolato”, fino ad Alberto Parola, responsabile della panificazione di Panaté. Un partecipato momento di incontro e di riflessione impreziosito dal buffet conclusivo predisposto dai ragazzi dell’Istituto Alberghiero e da alcuni collaboratori di Panaté, reclusi nella struttura di Fossano. Un amalgama sociale e generazionale che si è innestato attorno alla metafora del pane, atavico simbolo di nutrimento del corpo e dell’anima. “Panatè nasce per produrre pane e prodotti da forno nel mondo delle carceri - il commento di Davide Danni ed Elio Parola, soci responsabili della cooperativa sociale - il commento di Davide Danni ed Elio Parola, soci responsabili della cooperativa sociale - e lo vuole fare dando concretezza all’articolo 27 della nostra Costituzione. Ogni preparazione è realizzata con materie prime di assoluta qualità e rivenduta ai nostri clienti a prezzi concorrenziali. Dietro la vendita del pane, però, c’è molto di più. C’è la rinascita di una persona, con le sue difficoltà, le sue emozioni, suoi sentimenti. C’è una nuova vita che ricomincia fatta di dignità, sogni e tanta consapevolezza”. Per maggiori informazioni sul progetto: www.panate.it; info@panate.it. Genova. I detenuti al lavoro per ripulire i giardini della Val Bisagno di Andrea Popolano primocanale.it, 22 aprile 2023 Il presidente del municipio Bassa val Bisagno Angelo Guidi: “ Si tratta di un’iniziativa che tutti auspicavano, che abbiamo voluto portare avanti con determinazione e che permette la realizzazione di un lavoro socialmente utile per la nostra comunità”. È pronta a partire l’iniziativa che vedrà alcuni detenuti del carcere di Genova Marassi impegnati in lavori socialmente utili all’interno dei municipi di Genova della Bassa Val Bisagno e Media Val Bisagno. Durante la giornata si occuperanno di ripulire da rifiuti e sporcizia di vario genere alcuni giardini presenti all’interno delle delegazioni. Un’iniziativa che porta con se un doppio obiettivo: il primo di portare avanti un percorso di reintegrazione dei detenuti all’interno della società in vista del termine della propria pena, dall’altra un fine di utilità sociale a favore della collettività tutta. “Ci siamo incontrati con il garante diritti dei detenuti del Comune di Genova Stefano Sambugaro e con l’assessore alla Sicurezza di Palazzo Tursi Sergio Gambino per mettere a punto il programma - spiega il presidente del municipio Bassa Val Bisagno Angelo Guidi -. Grazie alla collaborazione con la direzione del carcere di Marassi i detenuti che rientrano nel programma potranno uscire dalla struttura secondo i modi stabiliti dalla legge. Si occuperanno dei giardini ex Onpi di via Donati a Quezzi. Si tratta di un’iniziativa che tutti auspicavano, che abbiamo voluto portare avanti con determinazione e che permette di effettuare un lavoro socialmente utile alla nostra comunità e ai detenuti di passare diverse ore fuori dalle mura carcerarie” spiega Guidi. Non è la prima volta che i giardini ex Onpi sono coinvolti in iniziative simili: in passato ci fu l’impegno non dei detenuti ma dei percettori del reddito di cittadinanza che si misero al lavoro per recuperare l’area e renderla usufruibile alle famiglie e residenti della zona dopo un periodo di chiusura. L’iniziativa che vede coinvolti il carcere di Marassi e i due municipi della Val Bisagno è tesa ad allargarsi ad altre aree verdi delle delegazioni. Trani (Bat). Dal carcere alla panchina, i detenuti potranno diventare allenatori di calcio di Federico Conte Corriere del Mezzogiorno, 22 aprile 2023 Il progetto è stato presentato nel carcere di Trani e consentirà di conseguire il patentino da allenatore. Un progetto pilota che usa il calcio, le sue regole e i suoi ruoli per allenare alla speranza di un futuro nella legalità. Può essere sintetizzata così l’iniziativa presentata nel carcere maschile di Trani destinata al reinserimento sociale dei detenuti e chiamata proprio “Alleniamoci alla speranza”. Due i cardini del progetto. Il primo: consentire agli adulti reclusi negli istituti di pena di conseguire il patentino da allenatore. Il secondo invece, riguarda i minorenni che potranno indossare calzoncini e scarpini per correre su e giù dietro al pallone. Si tratta di una iniziativa - della durata di un anno - che coinvolge le carceri di Paola (Cosenza), Trani e Bergamo e le strutture per minori di Bari, Roma e Firenze. “Pensiamo che il progetto possa essere utile nella formazione e a dare una mano a chi è in difficoltà”, spiega Renzo Ulivieri presidente dell’associazione italiana allenatori calcio e con un passato sulle panchine di squadre come Bologna e Napoli. “I detenuti seguiranno il corso che permetterà di acquisire il titolo di allenatore per poter allenare nel mondo dilettantistico”, chiarisce Ulivieri evidenziando che le strutture carcerarie metteranno a disposizione “campi e aule, oltre a chi dovrà frequentare lezioni e allenamenti”. “Nel progetto c’è l’impegno dell’associazione allenatori, della Federazione italiano gioco calcio e della Lega dilettanti che si è impegnata a dare una mano per poter trovare un lavoro” anche “come allenatore in seconda, tanto per cominciare”, continua il presidente. L’iniziativa è stata possibile con la collaborazione di Bruna Piarulli, dirigente penitenziario e direttrice dell’Udepe Lecce. “Il progetto rientra nell’ottica della legalità e nell’abbattimento della recidiva”, puntualizza Piarulli. Quello stato di “Minorità” delle carceri italiane di Antonio Lamorte Il Riformista, 22 aprile 2023 Vinicio Capossela canta pena e coscienza di un ergastolano e di un magistrato. Si vede il sole a scacchi, si sente l’isolamento e lo sconforto, la voglia di non perdere neanche quel tempo, di ucciderlo, e la burocrazia che lo dilata perfino in gattabuia. Quel dimenticatoio della società si vede da Minorità, canzone che Vinicio Capossela ha pubblicato nel suo nuovo disco, 13 canzoni urgenti, una produzione La Cùpa, su etichetta Parlophone per Warner Music. “A chi servirà una pena che non sa cambiare ma solo consumare?”, scrive e canta l’autore, polistrumentista, cinque premi Tenco e direttore artistico dello SponzFest nell’ultimo capitolo di una carriera enciclopedica, vorace, poliglotta. Un brano che arriva dopo i casi dei pestaggi in carcere, il record di suicidi in cella, il caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Capossela ha definito i pezzi di questo disco, scritti e composti tutti insieme tra febbraio e giugno 2022, come “generati da un sentimento di urgenza nata dal pericolo e insieme dalla necessità di opporvi una reazione in affermazione della vita”. Disco polimorfo, una “diretta conseguenza del momento storico”, spiccatamente politico, anticipato dai brani La crociata dei bambini e La parte del torto. L’urgenza che infiamma l’autore è etica, educativa, esistenziale, umanistica, “di verità oltre le mistificazioni correnti”. Minorità è stata ispirata dal libro Fine pena: ora scritto dal magistrato Elvio Fassone, ispirato da una corrispondenza durata ventisei anni tra un ergastolano e il suo giudice. Quale percorso riabilitativo, quale domanda di sicurezza sociale si esaudisce tramite l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così il condannato al giudice: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia”. Una sorta di interrogativo che scuote e non lascia la coscienza del giudice. Minorità è una canzone che “affronta un’altra drammatica urgenza dei nostri tempi, ovvero la situazione delle carceri, specchio fedele delle disparità sociali, istituzione che ha rimosso la rieducazione per collassare nella sola forma utile al sistema: la reclusione”. Il Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cp), organo anti tortura del Consiglio d’Europa (CdE) ha bocciato le carceri italiane in un rapporto pubblicato appena il mese scorso. Le carceri italiane vivono costantemente in emergenza sovraffollamento: 56.319 (febbraio 2023) detenuti su 51.285 posti nei 189 istituti italiani. Il 2022 è stato definito “l’anno nero” dei suicidi in carcere, 84, uno ogni cinque giorni, 20 volte in più di quanto non avvenga nel mondo libero. I video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - per citare il caso più clamoroso e mediatico - hanno fatto il giro del mondo. Riportiamo la nota in commento dello stesso Capossela, che si conferma per l’ennesima volta degno depositario del cantautorato italiano. “Kant definiva l’Illuminismo come condizione di uscita dallo stato di minorità inteso come incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. La minorità è l’incapacità di essere padroni della propria volontà, l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità e di diventare compiutamente adulti. Una condizione che ogni potere ha sempre coltivato, dagli antichi monarchi per i quali il popolo doveva essere un docile corpo senza testa propria, alla condizione di omologato individualismo in cui versiamo oggi. Ma c’è un’istituzione che più di ogni altra realizza la condizione di minorità con l’uso della forza: il carcere”. “Il detenuto, alla base della cui detenzione dovrebbe esserci un percorso di riabilitazione atto a realizzare un cambiamento della persona, diventa un minore sul quale la patria potestà è esercitata da un sistema di regole in cui nessuno è direttamente responsabile. Questa organizzazione burocratica dell’esercizio dell’autorità si concretizza in una lunga catena che, da una porta a sbarre all’altra, trova il suo ultimo anello nella cosiddetta ‘domandina’, indispensabile formulario per ogni richiesta nei confronti dell’Autorità”. “I documentati abusi nelle carceri, le violenze e le restrizioni dovute alla pandemia, il sovraffollamento e i suicidi, l’alta percentuale di recidiva, sono come urla dal silenzio che vengono dagli istituti penitenziari alla cosiddetta società civile. Nella composizione della popolazione carceraria si riflette in maniera palese tutta la disparità sociale ed economica su cui si regge la società, che fa sentire rivolta a tutti noi la domanda che l’ergastolano Salvatore pone al suo giudice nel bellissimo libro del magistrato Elvio Fassone Fine pena: ora: ‘Che sarebbe successo a Lei, se solo fosse nato dove sono nato io?’. Earth Day, un miliardo di persone si battono per il futuro del pianeta di Serena Tarabini Il Manifesto, 22 aprile 2023 Giornata della Terra. La giornata di mobilitazione è arrivata all’edizione numero 53. Nata nel 1970 negli Usa oggi è un appuntamento globale. Gli ultimi otto anni i più caldi mai registrati. Nel 2022 emissioni di gas serra da record. La Giornata Mondiale della Terra (Earth Day), è arrivata alla sua 53esima edizione. Si tratta della più grande manifestazione ambientale per la salvaguardia del nostro pianeta, lanciata dagli Stati Uniti in parallelo con la nascita e lo sviluppo del movimento ambientalista moderno. Erano gli anni in cui un testo fondamentale come Primavera silenziosa della biologa Rachel Carson arrivava ad aprire gli occhi su come l’agire superficiale dell’umanità stesse provocando danni profondi alla natura. L’urlo dell’uomo che soffocava quello della terra era fatto di cui molti all’epoca erano ancora ignari, ma nonostante i 53 anni passati e la progressiva presa di coscienza delle conseguenze ambientali negative della nostra presenza e dei nostri bisogni di estrazione, produzione, consumo, trasporto delle risorse del pianeta, c’è ancora molto da fare affinché la salvaguardia del pianeta non rimanga solo uno slogan e una serie di eventi, che ci ricordano quanto è prezioso ciò che stiamo maltrattando. “Custodi incauti della nostra fragile casa”, sono le parole usate dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che anche quest’anno ha messo l’accento sulle crisi più gravi che affliggono il pianeta: disordine climatico, perdita di biodiversità, inquinamento e spreco. Tutti fenomeni di origine antropica. A scuotere le coscienze degli americani ai tempi fu, come spesso accade, un disastro ambientale, il terzo più grave della storia dopo quelli di Deepwater Horizon (2010) e l’Exxon Valdez (1989). Nel 1969 a Santa Barbara, in California, un’esplosione avvenuta in un giacimento offshore a 10 km dalla costa provocò una disastrosa fuoriuscita di greggio. In dieci giorni si riversarono nelle acque e sulle spiagge circa 100mila barili di petrolio greggio, provocando la morte di 3.500 tra uccelli marini, delfini, foche e leoni marini. Per l’opinione pubblica fu uno shock e la risposta immediata. Studenti e attivisti di tutta la nazione parteciparono a una serie di incontri e conferenze sull’ambiente fortemente volute dal Senatore del Wisconsin Gaylord Nelson. Questa mobilitazione culminò il 22 aprile del 1970 in una manifestazione in tutte le principali città statunitensi. Vi parteciparono 20 milioni di cittadini americani: era nata la Giornata Mondiale della Terra, che venne poi ufficializzata dalle Nazioni Unite nel 1971. Da allora, il movimento Earth Day è cresciuto costantemente e oggi, ogni 22 aprile, coinvolge più di un miliardo di persone in tutto il mondo, mobilitate per sensibilizzare quante più persone possibile circa i principali problemi della Terra, ma - e forse soprattutto - cercare soluzioni concrete e unitarie volte a delineare un futuro migliore per noi per il nostro pianeta. Futuro è il concetto chiave delle celebrazioni di quest’anno, il cui tema è quello di “Investire nel pianeta”. Come? Secondo gli organizzatori è necessaria l’azione congiunta e sinergica di governi nazionali, comuni cittadini, imprese e investitori. I grandi gruppi industriali e finanziari, ma anche le piccole medie imprese devono muoversi verso settori green, ad alta sostenibilità ambientale e sociale con elevato potenziale di innovazione tecnologica. I governi devono incentivare l’uso di risorse energetiche pulite e rinnovabili e promuovere la costruzione di infrastrutture adeguate. Niente di nuovo eppure siamo in ritardo, come ha sottolineato Guterres. Il solo obiettivo di limitare l’aumento della temperatura globale a 1.5 gradi presuppone un taglio drastico, superiore al 50%, delle emissioni da parte dei grandi inquinatori a partire da quest’anno. Un obiettivo ancora lontano visto che l’ultimo rapporto annuale appena pubblicato dalla Organizzazione Meteorologica Mondiale mostra che nel 2022 le emissioni globali di gas serra hanno continuato ad aumentare e le concentrazioni dei tre principali - anidride carbonica, metano e protossido di azoto - hanno raggiunto livelli record. La temperatura media globale nel 2022 è stata di 1,15°C sopra la media preindustriale (1850-1900) rendendo gli ultimi otto anni (2015-2022) i più caldi mai registrati. Il 2022 è stato il quinto o il sesto anno più caldo mai registrato e le conseguenze sono che siccità, inondazioni e ondate di caldo hanno colpito le comunità di tutti i continenti e sono costate molti miliardi di dollari. Il ghiaccio marino antartico è sceso alla sua estensione più bassa mai registrata e lo scioglimento di alcuni ghiacciai europei è stato, letteralmente, fuori scala. È necessario puntare sul terzo attore globale per il cambiamento individuato dal movimento Earth Day, ovvero i singoli cittadini, i cui strumenti a disposizione sono le decisioni di acquisto, che un poco alla volta reindirizzano il mercato, e quelli di influenza politica: voto, referendum, manifestazioni. Il clima come la guerra, proteggiamo i suoi migranti di Francesca Mannocchi La Stampa, 22 aprile 2023 Il futuro fa paura nel 2050 un miliardo di persone potrebbe essere sfollato a causa di disastri naturali. Lo scorso anno l’Unione Europea ha registrato il più alto numero di arrivi dal 2015, l’anno della rotta balcanica. L’anno del ritorno dei muri in Europa. L’anno, ancora, che ha messo la pietra angolare a un processo di esternalizzazione dei confini e subappalto del controllo delle frontiere di cui oggi quell’Europa che voleva proteggersi da un nemico inesistente è diventata vittima, spesso ricattata e messa sotto scacco da regimi autocratici cui ha delegato in cambio di soldi i pattugliamenti del mare nostrum. Gli uomini e le donne si muovono, è la storia dell’umanità, è il destino dell’umanità. Ma a forza di difendersi, l’Europa si chiede poco e male chi sono queste nuove persone migranti e perché i numeri stanno aumentando così velocemente. Questo perché, ad esempio, i governi non sanno riconoscere cosa stia lentamente e inesorabilmente generando la crisi climatica. I numeri cui assistiamo oggi sono parte di un movimento di rifugiati climatici senza precedenti. Sappiamo davvero chi e quanti sono? E ancora, sappiamo quanti e quali cambiamenti ci richiede questa inedito flusso di vite in fuga? Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 2008 ogni anno 21 milioni di persone sono state costrette a lasciare il posto in cui vivevamo a causa di inondazioni, tempeste, dell’innalzamento del livello delle acque e a causa delle temperature estreme. Negli ultimi 30 anni, il numero di persone che vivono nelle zone costiere ad alto rischio di innalzamento del livello del mare è passato da 160 milioni a 260 milioni, il 90% dei quali proviene da Paesi poveri in via di sviluppo e piccoli stati insulari. Pescatori le cui vite sono state sommerse dalle acque, agricoltori e pastori le cui terre non esistono più, comunità rurali spazzate via dalle tempeste e dai cicloni, milioni di persone in cammino dai bordi di Paesi che si stanno erodendo verso città e centri urbani che diventano sovrappopolati. Se questi sono i numeri preoccupanti del presente, le previsioni per il futuro sono spaventose: entro il 2050 un miliardo di persone potrebbe essere sfollato a causa di disastri naturali. Riconoscere il cambiamento climatico, riconoscerne l’impatto e le numerose conseguenze, significa cominciare anche a chiederci se abbia ancora senso definire queste vite “migranti climatici”, se non sia più opportuno, soprattutto giusto, considerarli rifugiati al pari di chi è in fuga dalle guerre. Soprattutto perché la quasi totalità dei Paesi così radicalmente colpiti dalla crisi climatica contribuisce e ha contribuito in quantità irrilevante alle emissioni di gas serra che hanno ammalato il pianeta. Nel marzo 2018, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, rilevando che molti rifugiati climatici non potessero rientrare nella definizione burocratica di “rifugiati”, li ha definiti “le vittime dimenticate del mondo”. Significa che non godono delle protezioni, delle tutele legali di cui per statuto godono i rifugiati in fuga da guerre, torture, persecuzioni. Per modificare questa condizione bisognerebbe ripensare, modificare la Convenzione di Ginevra del 1951, bisognerebbe ridefinire il perimetro delle tutele sulla base delle prospettive presenti. Equivarrebbe a riconoscere un diritto ma anche una responsabilità. Quella di chi ha contribuito di più alla crisi del clima verso chi, pur avendo contribuito marginalmente, soffre senza avere protezione. Ecco dunque che la nuova fase che stiamo vivendo ci impone un cambiamento urgente di condotta climatica e di lessico. Inquinare meno, chiamare i sofferenti per nome. Su entrambe le cose siamo in forte ritardo. Colpire le coppie gay: il vero scopo del reato universale sulla Gpa di Ezio Menzione Il Dubbio, 22 aprile 2023 Cosa sia un “reato internazionale” e quanto sia difficile introdurlo nella legislazione italiana in relazione alla gestazione per altri intrapresa da cittadini italiani in paesi che legittimamente la consentono e la disciplinano lo ha già ben spiegato sulle pagine di questo giornale (15 aprile scorso) un articolo di Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni, cui rimandiamo per i dettagli. Qui aggiungiamo solo che la necessità di convenzioni internazionali e il consenso dell’Onu rendono questo terreno assolutamente impraticabile. Gli Usa e il Canada, che in forme diverse prevedono la Gpa, il primo prevalentemente come forma di business e il secondo come atto di solidarietà, non vi accederebbero mai. E così pure l’Ucraina, che, a occhio e croce, trae dalla Gpa la seconda voce del Pil nazionale, dopo il grano e i frumenti (anzi, oggi possiamo dire la terza, dopo la guerra che ha preso il primo posto). Altri paesi vi sono, anche in Europa (Grecia, Portogallo) e in tutto il mondo che hanno verso la Gpa un atteggiamento meno ostile di quello di Meloni, Binetti e via vietando (comprese alcune componenti dei movimenti femminista e lesbico). Ma guardando alla proposta di legge princeps che è in discussione in commissione al Parlamento, si capisce subito che lo scopo vero non è quello di introdurre un “reato internazionale”, forse perché si intuisce che è una via impraticabile, bensì, più modestamente, si ricerca la perseguibilità nel nostro paese dei genitori italiani che si recano in paesi stranieri che consentono la Gpa per potere avere figli che loro non possono avere in via naturale: principalmente la perseguibilità delle coppie omosessuali maschili. Ma anche su questo secondo obbiettivo le cose, per l’eventuale legislatore, non sono messe così bene. Il comma 6 dell’articolo 12 della legge 40/ 2004 prevede che “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”. La legge base in discussione in commissione si limita ad aggiungere le parole “anche all’estero” a tale norma. Nulla a che fare con il “reato universale”, ma solo una espansione della punibilità. Ma la legge va anche interpretata, guai a darla per scontata. È abbastanza pacifico (vi è giurisprudenza sul punto) che i termini “realizza, organizza o pubblicizza” si riferiscono alla struttura clinica che opera, non ai genitori: la stessa entità della pena pecuniaria sta ad indicare il soggetto destinatario del divieto, che sarebbe illogico si riferisse a un privato. Figuriamoci, una multa fino a un milione di euro! Essa si attaglia a una impresa ma non a un singolo. Sul punto si è espressa con chiarezza, per esempio, la Corte d’Appello di Messina. Mai la Cassazione, che non ne è stata investita. Vi è poi l’elemento sistematico: l’art. 12 c. 8 L. 40/ 04 manda esenti da ogni responsabilità penale l’uomo o la donna che cadano nei comportamenti vietati di cui ai commi 1, 2, 4 e 5 stesso articolo e stessa legge, cioè tutte le pratiche connesse alla procreazione medicalmente assistita. Non comprende dunque il comma 6, che è l’unico che richiama la surrogazione? È chiaro, perché esso non vuole indicare come responsabili penali i genitori, ma soltanto le cliniche o chi le pubblicizza o ne commercializza il “prodotto”: dunque era inutile ripetere l’esclusione dalla responsabilità penale di chi si limita a usufruire del servizio. Conseguentemente l’estensione della perseguibilità del reato riguarderebbe solo i centri clinici e non i genitori. Le norme del codice penale che riguardano la perseguibilità dei reati commessi all’estero da cittadini italiani sono gli artt. 7, 8 e 9. Gli artt. 7 e 8 riguardano solo i reati cosiddetti politici: quelli cioè contro la personalità dello Stato, ancorché la ipotesi sub art. 7 p. 5 sia molto generica, ma deve, giocoforza, essere letta alla luce della portata della norma: su questo concordano dottrina e giurisprudenza. E la ratio della norma è quella di indicare oltre ai casi di delitti contro la personalità dello Stato elencati specificamente da 1 a 4, anche altri possibili e residuali delitti politici (come ribadisce il primo comma dell’art. 8). Dunque non resterebbe che richiamarsi all’art. 9, che prevede i reati comuni compiuti all’estero da cittadini italiani. La perseguibilità di questi, però è prevista in via generale al primo comma solo per i reati con pena non inferiore nel minimo a tre anni, mentre le ipotesi di cui al c. 6 art. 12 L. 40/ 04 attingono nel massimo a due anni. Quindi bisognerebbe fare ricorso al c. 2 che prevede la punibilità anche per pene inferiori ove vi sia richiesta del Ministero di Giustizia: che infatti in alcuni dei molti processi imbastiti contro i genitori negli ultimi anni (tutti, ma proprio tutti conclusi con assoluzioni) effettivamente talora vi fu, ma non bastò per configurare alcuna responsabilità in capo ai genitori. A proposito di genitori, concludiamo con un punto fondamentale: in queste settimane si è parlato fino alla nausea di genitori dello stesso sesso alludendo esplicitamente e quasi unicamente alle coppie di genitori maschi. Anche se il Procuratore della Repubblica di Padova vuole procedere per le coppie lesbiche a revocare il riconoscimento della seconda figura materna. Facile prendersela con le coppie maschili: per loro è ontologico (almeno per ora, in futuro si vedrà) riconoscere che a monte c’è per forza un’ovodonazione e una Gpa. Dunque si procederà solo contro le coppie gay? E che dire di quelle coppie eterosessuali che sono costrette a ricorrere alla Gpa perché riconosciutamente sterili e quindi impotenti a generare o a condurre una gravidanza? Eppure sono loro la stragrande maggioranza che si rivolge all’estero per una Gpa. Un dato esperienziale, però basato su dati messi insieme negli ultimi 20 anni, suggerisce che per ogni coppia gay vi sono almeno 20 coppie etero che sono costrette a ricorrere alla Gpa all’estero. E se per coloro che vanno in Ucraina è abbastanza facile dedurre che si sono avvalsi di una Gpa e poi con un’analisi del Dna accertarlo; per coloro che lo hanno fatto negli Usa è di fatto impossibile risalire alla pratica utilizzata, anche perché l’autorità giudiziaria americana quando decreta la genitorialità ordina anche la segretazione di ciò che vi sta a monte. Queste coppie etero dunque sfuggiranno agli accertamenti e alla possibile sanzione. Una disparità di trattamento che non potrebbe non essere portata subito alla attenzione della Corte Costituzionale, come diversa procedibilità basata unicamente sull’orientamento sessuale e dunque facilmente condannabile. Anche perché, se si volesse sul serio colpire lo sfruttamento della donna che si presta a fare da surrogata, il fenomeno riguarderebbe i genitori etero in primo luogo. E allora, concludiamo dicendo che meglio farebbe il governo ad ammettere la Gpa anche in Italia disciplinandola con intelligenza ed equilibrio. Ma forse è chiedere troppo. Non importa come sono nati, pari diritti a tutti i bambini di Emma Bonino e Riccardo Magi Il Riformista, 22 aprile 2023 Con una proposta di legge in Parlamento e una mozione nei consigli comunali, Più Europa si batte per tutelare i figli delle coppie omogenitoriali, discriminati da un governo retrogrado e proibizionista. “Caro Sindaco, trascrivi!”, è l’iniziativa che +Europa ha lanciato, insieme a Radicali Italiani, per invitare i Sindaci a procedere con le registrazioni degli atti di nascita dei figli di coppie omogenitoriali, indicando quali genitori entrambe le persone che si sono assunte la responsabilità della procreazione, indipendentemente dal loro sesso e da quale sia il Paese in cui i figli sono nati, e per sollecitare il Parlamento a sostenere la nostra proposta di legge depositata alla Camera su questo tema. Il Governo Meloni, infatti, che fin dal suo esordio ha dimostrato di essere il Governo più retrogrado e proibizionista della storia repubblicana, dopo avere indicato il carcere come soluzione contro chi organizza Rave Party, contro chi salva le vite in mare, contro chi ricorre a Gestazione per Altri, anche se all’estero in Paesi in cui la pratica è del tutlegale, contro i figli delle madri detenute, ha diffuso una circolare, per il tramite del suo Ministro-Prefetto Piantedosi, per obbligare i Sindaci italiani a interrompere le registrazioni all’anagrafe dei figli delle coppie omogenitoriali, laddove peraltro le circolare non è vincolante. Il cortocircuito, che è insito nell’approccio teorico su cui si fonda la proposta politica ultraconservatrice, appare in tutta la sua irragionevolezza se si considera il grave disinteresse della destra nei confronti di quelle bambine e di quei bambini, già nati, che continuano a subire una grave lesione dei propri diritti, tra i quali quelli al mantenimento, all’educazione, all’istruzione, ma anche i diritti successori, a fronte di posizioni, e di proposte di legge già depositate da esponenti di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, che continuano ad essere sostanzialmente contrarie alla pratica dell’aborto, a tutela, secondo loro, della “vita nascente”. Insomma, per i partiti della maggioranza chi non è nato ha più bisogno di essere tutelato di chi è già venuto al mondo. Vi sono, quindi, bambini che possono continuare ad essere discriminati, in quanto “non riconoscibili” dai due genitori che li hanno voluti, perché dello stesso sesso, e che, anzi, il Governo intende discriminare ulteriormente, proponendo di arrestare loro i genitori, colpevoli di averli fatti nascere ricorrendo ad una pratica, la Gestazione per Altri, in un Paese diverso dall’Italia in cui è del tutto legale e regolamentata. L’iniziativa di +Europa, duplice, la stiamo perseguendo in Parlamento e nel Paese, anche mobilitando i nostri gruppi locali e gli attivisti nei territori, spesso giovanissimi. La proposta di legge è estremamente puntuale, laica, ragionevole e di buon senso. Non riguarda il matrimonio egualitario, non regolamenta né legalizza la Gestazione per Altri in Italia, con buona pace del Governo e della Ministra per la famiglia e le pari opportunità, Eugenia Roccella, non contiene una modifica dei requisiti di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, né afferma l’estensione di un dito ritto alla genitorialità. Su tutti questi temi +Europa è favorevole, ma ora è urgente tutelare i diritti preminenti di persone che sono già nate, esattamente come la Corte Costituzionale ha invitato il Parlamento a fare nel 2021. Il Parlamento deve stabilire, semplicemente, che i bambini di coppie di persone dello stesso sesso, una volta nati, debbano essere automaticamente riconosciuti, in ogni caso, indipendentemente da come siano nati, se in Italia o all’estero. Parallelamente, abbiamo preparato il testo di una mozione, chiedendo, tramite i nostri gruppi locali, a tutti i Consigli Comunali d’Italia di sostenerla, per invitare i Sindaci, contro la circolare del Ministro Piantedosi, a procedere con le registrazioni anagrafiche dei figli di coppie omogenitoriali, indicando quali genitori entrambe le persone che si sono consapevolmente assunte la responsabilità della procreazione, e in più di una realtà si sta già procedendo in tal senso, e per sollecitare il Parlamento a sostenere la nostra proposta di legge. Migranti. “Sparizioni e detenzioni illegali”, dall’Onu nuove accuse alla Libia di Nello Scavo Avvenire, 22 aprile 2023 La missione delle Nazioni Unite, Unsmil: nelle prigioni di Tripoli uomini e donne sottoposti a violenze e torture. L’allarme riguarda anche i bambini vittime di traffico. La mafia dei trafficanti di uomini in Libia ha nomi noti. Molti abitano nei palazzi del potere e sono direttamente coinvolti nel business delle vite umane, associato allo smercio illegale di armi, idrocarburi e droga. Sono loro i datori di lavoro degli “scafisti” ed è a costoro che il segretario generale dell’Onu rivolge i riflettori nel suo ultimo rapporto. La missione Onu “ha continuato a ricevere segnalazioni di sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie prolungate di libici e non libici nelle carceri e nei centri di detenzione in tutto il Paese” premette Guterres rivolgendosi al Consiglio di sicurezza. Le informazioni e i riscontri arrivano direttamente dalla missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), che “ha continuato a ricevere segnalazioni consistenti di uomini e donne detenuti in tutte le parti della Libia sottoposti a maltrattamenti, violenze sessuali, torture o pratiche sessuali coercitive in cambio di acqua, cibo o beni di prima necessità”. Succede nei campi di prigionia statale, dove non solo le donne vengono abusate, spesso per riceverne in cambio un pezzo di pane e poter guadagnare la speranza di un altro giorno di vita senza i morsi della fame. Un orrore tollerato dai partner internazionali della Libia, tra cui Italia, Malta, Uniobne Europea, Turchia. Un inferno che non risparmia neanche i più piccoli. La missione Unsmil “ha osservato un preoccupante aumento della detenzione di bambini migranti - si legge - in violazione degli obblighi del Paese in materia di diritti umani internazionali”. Molti dei baby prigionieri “sono stati anche vittime di traffico e abusi” sottolinea Guterres che cita “24 casi verificati di bambini rapiti dal Sudan, dove erano stati registrati come richiedenti asilo e successivamente trafficati in Libia”. Il monitoraggio degli operatori Onu in Libia ha accertato che “questi bambini sono stati sottoposti a ulteriori violazioni dei diritti umani in Libia, tra cui il lavoro forzato in strutture militari senza alcun compenso”. E non è che il crimine minore: “Al 5 marzo, 60 bambini migranti e rifugiati non accompagnati erano detenuti arbitrariamente nel centro di detenzione di Shari’ al-Zawiya, senza alcuna prospettiva di rilascio”. E dove quello che accade è un tabù precluso alle agenzie umanitarie internazionali. Che i fondi di Italia e Ue per la Libia non finiscano per potenziare i diritti umani, lo dimostra un episodio tra i molti citati nella relazione inviata al Palazzo di Vetro dell’Onu. “Il 31 dicembre, il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale di Kufrah (nel Sud della Libia, ndr) ha espulso più di 400 migranti e richiedenti asilo, tra cui donne e bambini, principalmente provenienti dal Ciad e dal Sudan, la maggior parte dei quali espulsi verso il Sudan”. Che non si trattasse di trasferimenti legali lo prova una decisione di Tripoli. “Alle organizzazioni internazionali non è stato concesso l’accesso alla struttura. Prima dell’espulsione, i detenuti sarebbero stati sottoposti a traffico di esseri umani, torture, violenze sessuali e di genere, estorsioni e avrebbero sofferto di gravi malattie a causa del mancato accesso alle cure mediche di base. La loro espulsione collettiva - ricorda il segretario generale - viola gli obblighi del Paese ai sensi del diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento”. Le Nazioni Unite “hanno continuato a ricevere segnalazioni di centinaia di altri migranti e rifugiati detenuti e sottoposti a violazioni dei diritti umani in strutture gestite da gruppi armati” ribadisce Guterres che segnala anche il caso di 6 cristiani copti egiziani liberati dopo essere stati rapiti il 4 febbraio a Zawiyah, dove imperversano le milizie affiliate al clan al-Nasr, il cui personaggio più conosciuto è il comandante della guardia Costiera Abdurahman al-Milad, noto come “Bija”. Il gruppo di cristiani egiziano era stato confinato proprio nel campo di prigionia ufficiale governato dagli uomini del clan. La connessione tra guardacoste e trafficanti è un dato di fatto su cui lavora da tempo anche la Corte penale internazionale. All’1 marzo erano già 3.046 le persone, tra cui donne e bambini, intercettate e riportate in Libia. “La maggior parte dei migranti - ribadisce Guterres - è stata successivamente trasferita in centri di detenzione, ai quali le agenzie Onu non hanno accesso regolare”. E cosa ci sia da nascondere all’Onu lo sanno tutti. Afghanistan. Lasciare i Talebani o riconoscerli? Kabul, l’Onu fa un pasticcio di Giuliano Battiston Il Manifesto, 22 aprile 2023 “Ripensare l’attività nel paese”, dice un alto funzionario. “Invitarli all’incontro di Doha”, dice la vice di Guterres. Ed esplode un caso. Se non ci fosse di mezzo la popolazione afghana, nel pieno di una drammatica crisi umanitaria, in un Paese governato di fatto dai Talebani, ci sarebbe da ricavarne un film comico. Come fare un pasticcio diplomatico in poche ore. I protagonisti sarebbero i rappresentanti dell’Onu, che nel giro di 24 ore sono riusciti a mandare segnali politici contraddittori, lasciando gli afghani nell’incertezza: l’Onu vuole andarsene perché i Talebani discriminano le donne o vuole riconoscere l’Emirato islamico, per ammorbidirli? Andiamo con ordine: il 19 aprile, la Associated Press riporta le parole di Achim Steiner, funzionario delll’Undp, il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo: “È giusto dire che in questo momento l’intero sistema delle Nazioni Unite deve fare un passo indietro e rivalutare la sua capacità di operare”. Un’allusione alla possibilità che l’Onu sia costretta a levare le tende, dopo la decisione dell’Emirato di vietare alle donne afghane di lavorare anche per le Nazioni Unite (circa 600 in tutto il Paese). La dichiarazione fa parte di una strategia più ampia per esercitare pressioni sui Talebani, affinché rivedano non solo quella decisione, ma il più ampio pacchetto di politiche discriminatorie contro le donne. Della strategia fa parte anche un documento apparentemente più neutro, l’Afghanistan Socio-Economic Outlook 2023, reso pubblico il 18 aprile a Kabul dall’Undp, che registra una contrazione del 20,7% dell’economia dalla caduta della Repubblica islamica, nell’estate 2021. “Solo la piena continuità dell’istruzione delle bambine e la possibilità per le donne di dedicarsi al lavoro e all’apprendimento possono mantenere viva la speranza di un reale progresso”, nota Kanni Wignaraja, direttrice regionale per Asia e Pacifico delll’Undp. Senza le donne, sono a rischio anche gli aiuti umanitari. Nel 2022, l’Onu ha contribuito con 3,2 miliardi di dollari su un totale di 3,7 miliardi di aiuti esteri arrivati in Afghanistan. Quegli aiuti sono insufficienti a rimettere in sesto l’economia, ma sono indispensabili: “Il numero di poveri è cresciuto da 19 milioni nel 2020 a 34 milioni nel 2022”. Il leader dei Talebani e dell’Emirato, Haibatullah Akhundzada, sembra pensarla diversamente. Nel comunicato di pochi giorni fa con cui celebra la fine del Ramadan rivendica l’efficienza del nuovo regime, le riforme sociali e culturali in corso e il progressivo affrancamento dalla dipendenza dagli altri. Quegli “altri” che mostrano idee molto confuse. Il 19 aprile rimbalzano sui canali social di tutto il mondo, specie sui profili della diaspora afghana, le dichiarazioni fatte due giorni prima da Amina Mohammed. Non una funzionaria Onu qualsiasi, ma la numero due del segretario generale Antonio Guterres. Nel corso di un incontro alla Princeton University’s School of Public and International Affairs, Amina Mohammed annuncia che Guterres ospiterà a Doha, l’1 e il 2 maggio, una riunione a porte chiuse di inviati speciali per l’Afghanistan provenienti da diversi Paesi. Potrebbe essere l’occasione per “trovare quei piccoli passi per rimetterci sulla strada del riconoscimento” dell’Emirato. Si scatena un putiferio. La diaspora afghana insorge. I portavoce dell’Onu precisano, che non è in ballo alcun riconoscimento. Qualcuno ricorda che il riconoscimento è frutto di una lunga, complessa prassi procedurale e non di una decisione a tavolino. Ma il pasticcio è fatto. E l’Onu che barcolla è solo il simbolo di una comunità internazionale incapace di capire come comportarsi con i Talebani, autorità di fatto del Paese.