Carcere e telefonate: un crudele ritorno al passato di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 21 aprile 2023 Storie di ordinaria disumanità: Ha un figlio in Germania, un altro a Malta, la figlia e la moglie vivono a Padova, la madre in Tunisia, è detenuto nella Casa di reclusione di Padova: finora, “grazie al Covid”, poteva fare una telefonata al giorno di dieci minuti, ora la prospettiva è di tornare a una telefonata di dieci minuti a settimana, quindi quei figli, quella moglie, quella madre lo sentiranno ognuno una volta al mese, spartendosi quei pochi minuti di telefonata concessi. Questa è una storia come tantissime altre, di inutile crudeltà del carcere. C’è qualcosa di assurdo, nella questione delle telefonate delle persone detenute: concederne di più non costa nulla, se le sono sempre pagate; è un dovere delle Istituzioni aiutare a rafforzare gli affetti, e non a disintegrarli come si fa ora; è una delle poche forme concrete e significative di prevenzione dei suicidi, in un momento in cui questa piaga sembra essere diventata inarrestabile; è un elemento fondamentale della rieducazione, che richiede di agevolare “opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. E invece, che succede? Succede che in carceri sovraffollate e palesemente fuorilegge, in carceri che non rispettano la “territorialità della pena”, cioè la obbligatoria vicinanza della persona detenuta al domicilio della sua famiglia, l’unico pensiero è “riportare alla normalità” le telefonate. Succede così che, di punto in bianco, le persone detenute dovranno dire ai loro cari che praticamente non telefoneranno quasi più: e già immagino quelle madri e quelle mogli, che se la prenderanno con i famigliari detenuti, immaginando chissà quali violazioni, e che si arrabbieranno con loro pensando che ancora una volta non hanno saputo tenersi buona quella piccola conquista dei dieci minuti al giorno. E invece no, e invece non sono i detenuti che non hanno meritato la fiducia, sono le Istituzioni che hanno avuto paura di mostrare un volto umano. Ma al peggio non c’è mai limite in carcere: credevamo che la doppia sofferenza del Covid vissuto nelle ristrettezze della galera e il triste record degli 84 suicidi del 2022 costituissero una emergenza vera e preoccupante, e invece no, l’assurdo è che ora nelle carceri si sta tornando “alla normalità”, e la normalità quale sarebbe? Quella della telefonata di dieci minuti a settimana, la miserabile telefonata con cui una persona detenuta dovrebbe soddisfare tutto il bisogno di affetto suo e dei suoi famigliari. Nelle carceri di normalità non ce n’è per niente, c’è sovraffollamento, manca personale, non c’è il lavoro per le persone detenute, che dovrebbe invece essere obbligatorio, c’è miseria e sofferenza, però lasciare la telefonata quotidiana, un provvedimento a costo zero per lo Stato, quello no, quello non si può. Nonostante la legge permetta una ampia discrezionalità ai direttori, nonostante a un direttore che usa la sua discrezionalità per prevenire i suicidi, autorizzando più affetto attraverso le telefonate, nessuno dovrebbe avere il coraggio di contestare di aver abusato del suo potere, nonostante la telefonata quotidiana sia una delle poche cose sensate in un sistema, che di senso ne ha sempre meno, nonostante tutto questo i telefoni nei prossimi giorni taceranno, e per esempio quel detenuto, che aspetta ansiosamente la notizia della nascita del nipote, dal momento che oggi non è nato dovrà aspettare la settimana prossima per sapere come sono andate le cose. E toccherà sempre più spesso al volontariato dare le belle, e soprattutto le brutte, notizie. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Senza le telefonate, ritorna l’inutile crudeltà del carcere Ristretti Orizzonti, 21 aprile 2023 Un appello delle persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti. Sono passati più di tre anni da uno dei momenti più tragici della vita delle carceri, quando, a causa della pandemia, la chiusura sia alle visite dei parenti, che all’ingresso della “società civile” si era trasformata in una tragedia con rivolte, morti, desolazione. Ma per fermare quelle rivolte, avvenute principalmente per la paura di noi detenuti di essere lasciati soli, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva invitato tutti i Direttori degli istituti di pena a incrementare quanto più possibile i colloqui telefonici con i nostri famigliari. Così in molte carceri da allora abbiamo potuto effettuare più telefonate, fino a una telefonata al giorno di dieci minuti. Inoltre, i colloqui in presenza sono stati sostituiti con la videochiamata, così da permetterci di mantenere i contatti, anche visivi, con le nostre famiglie. Prima della pandemia ci era consentita una telefonata alla settimana - sempre di dieci minuti - e sei ore di colloquio visivo al mese. Sei ore al mese fanno tre giorni all’anno, tre miseri giorni da dedicare alle nostre famiglie. A Padova però le telefonate erano due a settimana, grazie alla disponibilità dei direttori che si sono succeduti alla guida della Casa di Reclusione a usare la loro discrezionalità per autorizzare una telefonata in più a settimana, in considerazione della situazione di particolare difficoltà in cui si trovavano le persone detenute anche prima del Covid: basta pensare al sovraffollamento, alla mancanza di personale, ai suicidi, agli atti di autolesionismo. Ora, pare che la cessata emergenza pandemia stia portando a una “normalizzazione” da parte dell’amministrazione, con il ritorno alla telefonata settimanale per larga parte delle persone detenute. Per tre anni non si sono verificati problemi legati alla sicurezza, anzi, la telefonata giornaliera ha rasserenato gli animi e avvicinato più che mai le famiglie; inoltre non c’è stato nessun aggravio di spesa per l’amministrazione penitenziaria, perché le telefonate sono a carico delle persone detenute, come del resto sono sempre state anche quando erano una sola alla settimana. E quanto al personale, poco e affaticato dalle tensioni e da un clima di sfiducia e ansia, dalle telefonate in più per le persone detenute ha solo da guadagnare un po’ di serenità in un lavoro certamente non facile. Ci chiediamo allora per quale motivo si vuole far ripiombare nella solitudine e nella disperazione noi detenuti e le nostre famiglie, e questo nonostante nelle prigioni italiane solo nell’anno 2022 si siano registrati 84 suicidi, in larga parte dovuti alla solitudine e alla paura dell’abbandono. Di fronte alla drammatica EMERGENZA dei suicidi, di fronte alla sofferenza delle nostre famiglie, che sarebbero costrette a “regredire” ai miserabili dieci minuti di telefonata a settimana, vogliamo sperare che il direttore della Casa di reclusione di Padova, che già prima del Covid concedeva una telefonata in più a settimana, non riduca il numero delle telefonate, e anzi si faccia garante per le persone detenute, e inviti anche i suoi colleghi a farlo, di quella che la Corte Costituzionale, nell’ordinanza N.162/2010, definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Non ci può essere progressività né, quindi, il rispetto della Costituzione se si interrompono le telefonate e si privano le famiglie di questo forte, importante legame con i loro cari. Carceri, il sovraffollamento penalizza soprattutto le donne di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2023 L’affollamento delle sezioni femminili è risultato essere del 115%, contro il 113,7% degli uomini. Le carceri si affollano. E a trascorrere pezzi di vita all’interno delle celle, non ci sono solo uomini ma anche donne e bambini. Il tutto in uno scenario che vede aumentare di mese in mese ingressi e numero dei presenti sistemati in spazi che non si allargano. Numeri in crescita - Benché il numero dei 60.769 reclusi del 2019 sia distante dal dato attuale, la tendenza degli ultimi anni vede lievitare il numero delle persone detenute. Il minimo degli ultimi anni, registrato il 31 dicembre del 2020 con 53.364 reclusi ormai è superato. Nel corso degli anni c’è stata una progressiva crescita. Al 31 dicembre del 2021 il dato del Dap certifica 54.134 detenuti. Il numero sale ancora: al 31 dicembre registra 56.196 presenti che diventano al 28 febbraio 2023 56.319. Dati che indicano una tendenza che, per le associazioni impegnate nelle attività di tutela e difesa dei diritti dei detenuti non devono essere sottovaluti, e meriterebbero soluzioni differenti. “Stiamo assistendo a una crescita progressiva della popolazione detenuta - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale -. Avremmo bisogno di investire su sanzioni e misure alternative alla detenzione, più sicure e meno costose”. Che la popolazione sia superiore rispetto a quanto previsto lo certifica anche il dato del ministero. Perché la capienza regolamentare prevista per ospitare i detenuti nei 189 istituti di pena prevede 51.285 presenze. I posti, come si legge nel documento del ministero “sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadri per singolo detenuto più 5 metri quadri per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni, più favorevole rispetto ai 6 metri quadri più 4 stabiliti dal CPT più servizi sanitari”. Il dato sulla capienza, si legge ancora nel documento, “non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”. In questo universo c’è poi un altro mondo, con numeri più piccoli ma che paga gli effetti del sovraffollamento. È quello rappresentato dalle detenute. Un mondo cui l’associazione Antigone ha dedicato il “Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia”. “Le donne subiscono i danni del sovraffollamento prodotto dagli uomini - si legge nel rapporto -. Il tasso di affollamento ufficiale delle carceri femminili risulta del 112,3%, superiore al tasso di affollamento ufficiale generale delle carceri italiane (pari al 109,2%, e tuttavia inferiore a quello reale vista la mancata considerazione dei posti letto inutilizzabili). L’affollamento delle sezioni femminili, rilevato durante le nostre visite, è invece risultato essere del 115%, contro il 113,7% degli uomini. Le donne, con il piccolo peso numerico che arrecano al sistema penitenziario, non sono responsabili del sovraffollamento carcerario ma lo subiscono più degli uomini, quando non soffrono al contrario di isolamento”. Le presenze femminili - Al 31 gennaio negli istituti penitenziari le donne presenti erano 2.392, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono sostanzialmente distribuite nelle 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. C’è poi il caso del carcere romano di Rebibbia femminile: “con le sue 334 detenute (118 straniere) risulta il più grande d’Europa. La capienza regolamentare è pari a 275 posti”. Bambini e mamme - C’è poi un altro aspetto che caratterizza il mondo delle carceri. Ossia quello delle mamme che scontano una pena e porta appresso i bambini. Il dato del Dap aggiornato al 28 febbraio certifica una crescita dato che parla di 21 madri con 24 figli al seguito. Numeri inferiori rispetto al passato, quando si sono registrate punte di 80 bimbi dietro le sbarre ma da non sottovalutare. “Pensare che poche mamme con altrettanti pochi bimbi possano costituire un problema di sicurezza lascia perplessi se non preoccupati - argomenta Patrizio Gonnella -. Vanno trovate soluzioni dirette alla decarcerizzazione. Tra l’altro chi ha a cuore la sicurezza deve sapere che se una donna madre detenuta è presa in carico dai servizi sociali o da esperti educatori in una casa famiglia protetta le percentuali di rischio di recidiva si abbattono. Il carcere tra l’altro aumenta i rischi di costruire carriere devianti”. Situazione da superare - Per Riccardo Arena conduttore di Radiocarcere “occorre incentivare il ricorso alle misure alternative”. “Ancora oggi, su oltre 40.800 detenuti condannati in via definitiva, sono poco più di 8.000 quelli che lo scorso anno sono usciti dal carcere per scontare la pena in modo diverso dalla mera detenzione - dice -. Un dato questo assai deludente se si considera che sono ancora circa 20 mila i detenuti che devono scontare meno di tre anni e che restano in carcere, anche se potrebbero scontare la pena in modo diverso e più utile anche in termini di recidiva”. E poi la questione dell’edilizia penitenziaria: “Occorre chiudere tutte quelle carceri vecchie dove la detenzione non può più essere eseguita secondo la legge e allo stesso tempo serve costruire sì carceri nuove, ma diverse tra loro e non tutte uguali e costose come avviene oggi”. Grazie al lavoro i detenuti possono ripartire davvero di Paola Scarsi Avvenire, 21 aprile 2023 Dare una nuova opportunità ai detenuti: questo l’ammirevole obiettivo di Seconda Chance, associazione non profit che vuole essere una sorta di “cerniera” tra le carceri e le imprese disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena usufruendo dei benefici concessi dalla legge Smuraglia. Seconda Chance è nata poco meno di un anno fa grazie all’impegno di Flavia Filippi, giornalista de La7, Alessandra Ventimiglia Pieri, autrice e documentarista e Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering. Grazie alla firma di un Proto collo d’intesa con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha dato concretezza alla legge 193 del 2000, la legge Smuraglia appunto, che offre ingenti sgravi fiscali e contributivi a chi assume, anche con contratti part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21, cioè ammessi al lavoro esterno. Alle imprese viene riconosciuto per ciascuno di questi lavoratori un credito d’imposta pari a 520 euro mensili e una riduzione del 95% dei contributi previdenziali se il lavoro si svolge all’interno degli istituti penitenziari o nel caso di assunzione da parte di cooperative anche all’esterno. In Italia sono moltissimi i detenuti che vogliono ripartire dal lavoro per dare una svolta alla propria vita, ma purtroppo le possibilità reali di farlo sono poche. Meno di un anno fa solo il 4,5% dei detenuti lavorava fuori dal carcere. l’impegno di Seconda Chance è aumentare questa percentuale. Agli imprenditori propone baristi, lavapiatti, cuochi, pasticcieri, camerieri, addetti alle pulizie, gastronomi, pizzaioli, aiuto-chef, scaffalisti, magazzinieri, macellai, muratori, elettricisti, idraulici, falegnami, giardinieri. E anche laureati. Per assumerli l’impresa deve presentare una dichiarazione d’interesse e stipulare una convenzione offrendo un contratto di almeno 30 giorni con retribuzione non inferiore a quanto previsto dai contratti nazionali. Il rapporto di lavoro può cessare in qualunque momento l’imprenditore lo desideri. Seconda Chance segue la relazione tra imprenditore e detenuto lavoratore in ogni suo aspetto, dall’iniziale incontro conoscitivo alla stipula del contratto e oltre, coinvolgendo i consulenti dell’impresa perché le agevolazioni della legge Smuraglia durano sino a 18 mesi dopo la scarcerazione del detenuto. L’articolo 27 della Costituzione che sottolinea come “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” è il faro di Seconda Chance. In pochi mesi l’associazione ha procurato oltre 150 posti di lavoro a Monza, Opera, Bollate, Venezia, Pescara, Viterbo, Civitavecchia, Rebibbia, Velletri, Frosinone, Rieti, Napoli, Enna coinvolgendo molte realtà tra le quali la Croce Rossa, la Cei, l’Istituto Superiore di Sanità, l’Unione Artigiani Italiani, il Cnel, il Cnr, la Rai, l’Anci, l’Ance, la Federazione Nazionale Imprese Di Pulizie, la Cepi (la Confederazione Europea Delle Piccole Imprese) e innumerevoli sostenitori del progetto. Tra gli ultimi inserimenti lavorativi, che vengono “registrati” sulla pagina Facebook dell’associazione, quelli di tre detenuti che andranno a lavorare nella Fattoria della Piana di Carmelo e Federica Basile in Calabria, di due a Roma che andranno nel ristorante Chiodo Fisso, uno come cameriere l’altro come lavapiatti e aiuto cucina, e di un altro in Liguria, al Byblos Beach di Ospedaletti la cui proprietaria, Milena Caputo, sta cercando sempre tramite Seconda Chance altre tre figure professionali da inserire nel suo staff. Alfredo Cospito resterà al 41bis? di Valentina Stella Il Dubbio, 21 aprile 2023 Dopo la pronuncia della Consulta, per l’anarchico al carcere duro si aprono due strade per la revoca della misura: una a Strasburgo, l’altra a Via Arenula. Dopo la decisione della Corte Costituzionale del 18 aprile che ha fatto cadere la norma che avrebbe vincolato la Corte d’assise d’appello di Torino a condannare Alfredo Cospito necessariamente all’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano, si sono susseguite una serie di dichiarazioni da parte di esponenti di Fratelli d’Italia, come il sottosegretario Delmastro e l’onorevole Varchi, atte a precisare che nonostante la presa di posizione della Consulta l’anarchico resta al 41 bis. Proviamo a chiarire come stanno le cose. I parlamentari hanno ragione nel sostenere che “la possibilità del riconoscimento delle attenuanti incide sulla pena finale e non certamente sul regime carcerario del 41 bis. Il regime del 41 bis rimane non solo per volontà politica, ma per conformi sentenze della magistratura italiana che hanno sempre precisato la pericolosità sociale di Cospito”. Tuttavia per l’anarchico, che due giorni fa ha interrotto il digiuno iniziato il 20 ottobre, si aprono due strade per la revoca del ‘carcere duro’, che gli è stato confermato da Nordio lo scorso 9 febbraio. Una è quella europea: il suo legale Flavio Rossi Albertini insieme alla collega Antonella Mascia hanno inviato alla Cedu un ricorso “nel quale sono state lamentate gravi violazioni della Convenzione EDU”. Esso però “verrà valutato nel merito nel termine di due o tre anni (tali sono i tempi di una pronuncia) e potrebbe rappresentare il grimaldello giuridico che bandirà lo strumento inumano del 41 bis, così come avvenuto nel caso dell’ergastolo ostativo”. L’altra strada per la revoca della misura è quella italiana, porta direttamente a Via Arenula, e si fonda su tre pilastri. Sulla scrivania di Nordio il 23 marzo arriva una istanza (poi integrata il 7 e il 19 aprile) di revoca anticipata del regime differenziato basata su tre elementi. Primo: nel processo relativo all’operazione Bialystok, che riguardava cinque persone accusate di aver fatto parte di una cellula eversiva anarco-insurrezionalista a Roma, con base il centro sociale Bencivenga Occupato, a Batteria Nomentana, la Corte di Assise di Roma ha assolto il 28 settembre 2022 gli imputati e accertato che non vi era alcuna associazione anarchica di cui Cospito sarebbe stato l’ispiratore. Secondo: a marzo 2023 il Tribunale della Libertà di Perugia ha revocato l’ordinanza di custodia cautelare per Cospito e altri cinque indagati per, a vario titolo, istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico in relazione ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista Vetriolo. Il Tribunale per la seconda volta aveva ritenuto che le esternazioni del Cospito non fossero idonee ad istigare in quanto “l’impiego di un linguaggio violento e, a tratti, truce non costituisce un elemento, di per sé solo, valorizzabile nella valutazione della carica istigatoria dei contenuti pubblicati”. Terzo: l’ulteriore elemento di novità scaturito dalla decisione della Consulta lo scorso 18 aprile. Essa ha compiuto una dichiarazione di incostituzionalità del divieto di prevalenza di tutte le attenuanti, nei confronti della recidiva reiterata, per tutti i reati la cui pena edittale sia fissa e contempli il solo ergastolo”. Pertanto, “in considerazione della valutazione compiuta dalla Corte di Assise di Appello in termini di lieve entità del fatto di reato ascritto al Cospito e di quella in diritto compiuta dalla Corte Costituzionale”, “risulta incontestabile come la stessa incide necessariamente, depotenziandolo notevolmente, sul profilo criminale così elevato del Cospito, per come tratteggiato nel decreto applicativo nonché nella precedente decisione di rigetto del Ministro stesso”. Da tutto questo si rinforza la richiesta del legale di revocare il 41 bis attraverso “una rivalutazione complessiva del regime differenziato”: “l’eventuale mantenimento del regime differenziato al Cospito coltiverebbe una finalità squisitamente politica”. In pratica, sta sostenendo il legale, da quando a Cospito è stato inflitto il 41 bis da parte dell’ex Ministra Cartabia, sono emersi elementi oggettivi (assoluzione, mancata capacità di istigazione, decisione favorevole della Consulta) che dovrebbero indurre il Guardasigilli a revocare il 41 bis. Se così non avvenisse, per Flavio Albertini, la presa di posizione sarebbe solo di natura politica e non giuridica, volendo utilizzare Cospito per riscrivere la politica criminale del nostro Paese. Lo schiaffo di Nordio all’Anm: “È mio dovere vigilare sulle toghe” di Simona Musco Il Dubbio, 21 aprile 2023 Il ministro rispedisce al mittente le accuse dopo la fuga di Uss: “Ho chiesto il mantenimento della custodia cautelare per consegnarlo agli Usa, i miei allarmi ignorati”. “Così come nessuno può addebitare a un procuratore della Repubblica un intento intimidatorio nei confronti degli indagati, nessuno può permettersi di imputare al ministro un’interferenza invasiva quando esercita le sue prerogative per verificare la conformità del comportamento dei magistrati ai doveri di diligenza, tra i quali campeggia il dovere motivazione dei provvedimenti. Perché in democrazia vige il principio di uguaglianza, in democrazia non esistono surrogati della legge. In caso contrario dovremmo domandarci se le migliaia di cittadini sottoposti a procedimenti penali con accuse poi rivelatesi infondate siano meno uguali rispetto a chi, indossando la toga, dovrebbe essere il principale garante di questa eguaglianza”. Non fa passi indietro il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che nello scontro con le toghe sulla decisione di avviare l’azione disciplinare sui giudici di Milano decide di andare fino in fondo. L’oggetto del contendere è la fuga dell’imprenditore russo Artem Uss dai domiciliari, dove si trovava con il braccialetto elettronico. Un soggetto estremamente pericoloso, accusato dagli americani che ne chiedevano l’estradizione - di frode bancaria e riciclaggio, nonché di contrabbando di petrolio e tecnologie civili e militari dagli Usa alla Russia. Da qui l’incidente diplomatico con Washington e le accuse a Nordio sulle sue responsabilità, rispedite al mittente dal Guardasigilli. Secondo cui a sbagliare sarebbero stati i giudici della Corte d’Appello di Milano, che nonostante i ripetuti allarmi lanciati dalla procura generale e dal ministero - che li avrebbero “inondati di osservazioni sul pericolo di fuga” - hanno scelto di concedere i domiciliari. Il ministro ha dunque deciso di usare il potere disciplinare, scatenando le ire della magistratura, la cui indipendenza, ha tuonato l’Anm, sarebbe stata “minacciata”. Non secondo Nordio, però: “Se l’ordinamento consente o addirittura impone di accertare la conformità del comportamento dei magistrati alla normativa esistente - ha sottolineato -, è dovere del ministero procedere con gli stessi criteri con cui i pubblici ministeri inviano l’informazione di garanzia ai cittadini nei cui confronti svolgono le indagini”. Fermo restando, ha aggiunto, che a decidere se gli ex colleghi abbiano agito bene non sarà lui, ma il procuratore generale della Cassazione, nel cui ufficio “questo ministero nutre la massima e incondizionata fiducia per quanto riguarda la sua competenza e la sua imparzialità”. Ma facciamo un passo indietro. Nordio ha deciso di rivolgersi direttamente al Parlamento, con un’informativa, per “chiarire le competenze e le risoluzioni del ministero” e replicare a “critiche e insinuazioni” arrivate anche da chi di diritto, afferma, dovrebbe capirne qualcosa. Un errore “da matita blu” che ignora un fatto: il ministero, ha sottolineato, non aveva “nessuna competenza e men che mai oneri di controllo su decisioni giurisdizionali”. Ed è singolare, ha aggiunto, che le accuse di non aver agito per impedire la concessione dei domiciliari arrivi proprio da chi, solitamente, attacca il ministro con la scusa di difendere autonomia e indipendenza della magistratura. Il tutto anche alla luce del fatto che Nordio aveva comunque comunicato, con una nota, “la propria volontà di richiedere il mantenimento della custodia cautelare in carcere nei confronti di Uss per assicurare la consegna di costui alle autorità statunitensi”. Le possibilità di azione del ministero erano regolate, in questo caso, dall’articolo 716 del codice di procedura penale, che disciplina la facoltà di arresto della persona nei confronti della quale sia stata presentata domanda di arresto provvisorio, concessa alla polizia giudiziaria se ricorrono le condizioni di legge. Il ministero è dunque intervenuto dopo l’arresto di Uss, bloccato all’aeroporto di Malpensa il 17 ottobre 2022 da parte della polizia aeroportuale, a seguito di un ordine di cattura internazionale. L’unica azione concessa a via Arenula era quella di chiedere il mantenimento della misura coercitiva entro dieci giorni dalla convalida della stessa, richiesta comunicata il 20 ottobre alla Corte d’appello di Milano, al ministero dell’Interno, divisione Interpol, e al Maeci, allo scopo “di assicurare la consegna di costui alle autorità statunitensi”. Da qui la palla è passata ai magistrati, gli unici a poter modificare le misure cautelari. Nordio ha ripercorso l’intero iter della vicenda, a partire dalla nota del 15 ottobre, con la quale il Dipartimento di giustizia degli Usa chiedeva l’arresto di Uss evidenziandone la pericolosità. Dopo l’arresto, il 19 ottobre, lo stesso dipartimento segnalava “l’evidente e sostanziale rischio di fuga” in caso di rilascio. Da qui la nota con la quale il ministero, il giorno successivo, ha chiesto alla Corte d’Appello il mantenimento della custodia cautelare in carcere. Gli Stati Uniti hanno poi ribadito la pericolosità di Uss il 25 ottobre, con una nota, estesa anche alla Corte d’Appello e alla procura di Milano. La procura generale della Corte d’Appello, dal canto suo, ha espresso il parere contrario alla richiesta di domiciliari con braccialetto elettronico, depositando un “parere documentatissimo” sul pericolo di fuga. Nel frattempo si è aperta la partita dell’estradizione: a invocarla sono stati sia la Russia - la cui richiesta, presentata il 7 novembre, è stata inoltrata ai magistrati il 15 novembre - sia gli Usa - la cui domanda è arrivata il 9 novembre e inoltrata a Milano il giorno successivo -, richieste rispetto alle quali il ministero, il 22 novembre, ha sottolineato l’esistenza di “solide ragioni giuridiche e non giuridiche” a sostegno dell’estradizione verso gli Stati Uniti. Ma il 25 novembre, la Corte d’Appello, V sezione penale, ha accolto l’istanza avanzata dalla difesa di Uss, concedendo i domiciliari corredati dall’applicazione del braccialetto elettronico. Una scelta motivata in “cinque righe”, ha sottolineato Nordio: a convincere i giudici sarebbe stata la dimostrazione, da parte di Uss, di disporre di un’abitazione a Milano e della disponibilità della moglie ad accogliere il marito. “Ciò nonostante l’autorità giudiziaria ha sottolineato Nordio - fosse stata inondata di osservazioni sul pericolo di fuga”. La decisione ha suscitato stupore nelle autorità statunitensi, che il 29 novembre hanno dunque inviato una nota al ministero e all’Interpol esortando l’Italia “a prendere tutte le misure possibili per applicare la custodia cautelare in carcere per tutto il periodo di estradizione”. Una nota che non conteneva “alcuna novità”, ha sottolineato Nordio per replicare a chi lo ha accusato di non averla girata ai giudici milanesi con celerità, ovvero solo il 19 dicembre. Il Nordio espiatorio. Ecco perché alla politica non interessa il caso Artem Uss di Salvatore Merlo Il Foglio, 21 aprile 2023 Il ministro della Giustizia accusa i giudici di Milano. L’opposizione accusa il ministro. Ma resta il fatto: qualcuno non vigilava. Un famiglio di Putin, il figlio di un ex governatore siberiano, ricercato negli Stati Uniti e accusato, tra le altre cose, di aver portato in Russia tecnologia militare rubata in America, sfugge alla giustizia italiana, al suo sistema carcerario e agli apparati di sicurezza. E che succede? Niente. A rendere bene l’idea di quale sia il grado d’interesse, allarme e consapevolezza è l’immagine dell’Aula della Camera praticamente vuota ieri pomeriggio. Non appena il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, fa il suo ingresso a Montecitorio per “comunicazioni urgenti” relative al torbido caso della fuga di Artem Uss, più della metà dei parlamentari presenti si alzano ed escono. Tra questi Giuseppe Conte ed Elly Schlein. D’altra parte sono le due passate, dopo il dibattito sul Pnrr è l’ora del supplì alla bouvette. Carlo Nordio entra in Aula mentre tutti escono. Il ministro inizia a parlare al microfono, ma la voce è coperta da un brusio distratto. Gente che gioca sul cellulare. Due deputati del Pd scherzano e ridono in un angolo. Non si sono nemmeno seduti. Il presidente del Copasir, l’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si alza in piedi, li raggiunge, allarga le braccia. Labiale: dai su, fate silenzio. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, l’uomo che a Palazzo Chigi ha la delega ai servizi segreti, prende posto sui banchi del governo, anche questi mezzi vuoti. Alle spalle di Nordio c’è Luca Ciriani, ministro dei rapporti col Parlamento. In prima fila anche i sottosegretari alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari. Ma l’Aula sprigiona una noia di cancelleria provinciale infestata dalle mosche. I deputati del Pd sono venticinque su sessantanove. Quelli del M5s sono addirittura soltanto in sei, poi arriva anche Chiara Appendino. Sette. In un gruppo parlamentare composto da cinquantadue persone. Eppure questi politici, questi partiti, sono gli stessi che negli ultimi giorni, intorno al russo fuggito, si eccitavano sulle onde schiumose della radio e della televisione. Ben presto si capisce qual è il punto: usare questa faccenda di Artem Uss soltanto a scopo di politica interna. La guerra in Ucraina, il ruolo dell’Italia, la sua affidabilità e la sua eventuale porosità a infiltrazioni russe contano zero. Nordio è sulla difensiva. Tutto il suo lungo intervento alla Camera è prigioniero della polemica politica tra lui, i magistrati di Milano contro i quali ha chiesto l’avvio di un procedimento disciplinare e le opposizioni. E verte, in soldoni, su un reciproco scambio di accuse intorno alla sottovalutazione del rischio di fuga di Artem Uss: di chi è la colpa se questo ricercato, sospettato di essere poco meno di una spia, stava ai domiciliari e non in carcere? È colpa di Nordio, dice il Pd, con Deborah Serracchiani. È colpa del tribunale di Milano che ha sottovalutato gli avvertimenti allarmati del dipartimento di giustizia americano, dice il ministro. Come se il punto fossero i domiciliari, e non il fatto che il russo è scappato perché nessuno lo controllava. Ma questo rimpallo bizantino sembra l’unica cosa che conti per la politica. La sinistra capisce che Nordio è debole, e forse persino un po’ isolato nel centrodestra che in realtà non lo ama per le sue posizioni garantiste e per l’annunciata riforma giudiziaria condivisa soltanto da Giorgia Meloni. Anche nel governo sembra preferiscano si parli del tribunale di Milano e di Nordio. Forse perché è meglio non farsi troppe domande sull’assenza dei servizi segreti (“ho letto articoli di stampa che li tirano in ballo, ma questa è soltanto una vicenda giudiziaria”, dice Carolina Varchi, deputato e responsabile giustizia di Fratelli d’Italia). Ma è davvero possibile che il figlio di un uomo descritto dallo stesso Nordio come “amico di Putin” e “politico di primo piano”, un signore “accusato di traffico di tecnologia militare dal dipartimento della giustizia americano”, non fosse sorvegliato dai servizi segreti proprio in virtù della sottovalutazione del sistema giudiziario? Se i servizi non intervengono in autonomia, quando necessario, a che cosa servono? Davvero la sorveglianza di un prigioniero russo di “riconosciuta pericolosità” (parole di Nordio) era affidata al maresciallo e agli appuntati della stazione dei carabinieri di Basiglio, un comune di 7.970 abitanti in provincia di Milano? Alla Camera nessuno solleva nemmeno di striscio questi argomenti. L’Aula, vuota e sonnolenta, è concentrata (si fa per dire) sull’inafferrabilità bizantina delle procedure giudiziarie relative alla carcerazione preventiva. Si eccita e si accende, eufemismo, sulla questione che riguarda i poteri di Nordio e i presunti ritardi del ministero della Giustizia nel notificare ai magistrati certi elementi che potevano convincerli a considerare con più rigore il caso di Artem Uss. Ed è forte l’impressione, come sempre, che il bizantinismo nasconda il solito pasticcio italiano. Quale rete di complicità ha permesso al figlio milionario di un oligarca russo che rischiava l’estradizione negli Stati Uniti di fuggire con documenti falsi, di liberarsi del braccialetto elettronico e di rispuntare dopo qualche giorno a Mosca ringraziando misteriosi “amici stranieri” che lo hanno aiutato a fuggire? Domande senza risposta. Alla sinistra interessa solo colpire Nordio, perché percepisce quanto il ministro garantista sia l’anello debole del branco di governo. E al governo, forse, sotto sotto, va bene così. Chissà che ben presto non si scopra che Nordio è in realtà sacrificabile. Il ministro espiatorio. Altro che riaprire quelli chiusi, andrebbero soppressi almeno altri 20 “tribunalini” di Edmondo Bruti Liberati Il Domani, 21 aprile 2023 Al ministero si discute di riaprire i piccoli tribunali soppressi con la riforma Severino. Invece bisognerebbe chiuderne altri, altrimenti si continuerà a sprecare risorse. Oggi abbiamo 158 tribunali e 58 hanno meno di 20 magistrati, che non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi quando sopravvengono emergenze. Si moltiplicano le iniziative dell’avvocatura, con qualche sponda a livello parlamentare e anche di governo, per rispristinare sedi soppresse o mantenere definitivamente quelle “provvisoriamente” salvate, come i tre tribunali abruzzesi dopo il terremoto de L’Aquila. Oggi la giustizia è in affanno per molteplici ragioni, non ultima la carenza di magistrati per i vuoti di organico (quasi il 15 per cento), non colmabili a breve. E lo stesso vale per il personale ammnistrativo. Distribuire al’ meglio le poche risorse disponibili è il presupposto per un servizio giustizia efficace. La bella parola d’ordine della “giustizia di prossimità”, prima ancora che con la specializzazione (ovviamente impossibile nei piccoli tribunali) deve misurarsi con la brutalità dei numeri. Altro che riaprire i “tribunalini” soppressi dalla “sciagurata” riforma Severino: è necessario e urgente piuttosto superare i limiti della benemerita quanto incompiuta riforma Severino. È la cosiddetta regola del 3: immutate le corti di appello, mantenere tutti i tribunali capoluogo di provincia, almeno tre tribunali per ogni distretto. Ipotesi di riorganizzazione - Per le corti d’appello il principio dovrebbe essere quello di una per regione. Ma la Sicilia ne ha quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania; la Puglia ne ha, di fatto, tre: Bari, Lecce e Taranto. Se due corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Campania, altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. La mini corte d’appello di Campobasso non ha ragione di esistere, e d’altronde, storicamente quel territorio era ricompreso nella corte di Napoli. Né sarebbe ostacolo insuperabile il riferimento alla regione Molise. La Valle d’Aosta, che è per di più regione autonoma, non ha una corte di appello ed è accorpata a Torino. È stato insensato mantenere un tribunale in ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le situazioni. In Belgio nel 2014 è stato più che dimezzato il numero dei distretti giudiziari rispetto alla organizzazione voluta da Napoleone, per la quale il pubblico ministero in meno di ventiquattro ore doveva poter raggiungere in carrozza qualunque luogo del suo distretto. Forse anche noi possiamo tenere conto dei collegamenti ora assicurati da strade, autostrade e ferrovie. Invece abbiamo conservato, per fare un solo esempio, il tribunale a Lodi in quanto capoluogo di provincia. Ma da Lodi - come insegna la canzone del Quartetto Cetra - già si poteva raggiungere Milano anche a piedi, sia pure “con la marsina color ciclamino”, per vedere la “bella Gigogin”. Cito Lodi, che è un mini-tribunale neppure tra i più piccoli, ma che di fatto ricorrentemente, soprattutto per la procura (e ne ho avuto puntuale esperienza a suo tempo) può funzionare solo con applicazioni da Milano. Il tribunale di Lodi andrebbe accorpato non a Milano, che ha già le dimensioni oltre le quali si genera inefficienza, ma a Pavia. Tenuto conto degli accorpamenti già effettuati con la riforma Severino, con l’aggiunta di Lodi avremmo a Pavia un tribunale medio grande del sud milanese. Oggi abbiamo 158 tribunali: 58 sono mini-tribunali con meno di 20 magistrati, di questi 12 sono micro-tribunali con meno di 10 magistrati. E’ stato calcolato che tribunali con meno di 20 magistrati non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi quando sopravvengono emergenze. Altrimenti si continuano a sprecare risorse - Del resto, per una nuova revisione non si partirebbe da zero. Vi è la proposta della Commissione Vietti del 2016 e il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari. In mancanza di un incisivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria è inevitabile un rilevante spreco di risorse. Sarebbe sufficiente la soppressione anche solo di una ventina di tribunali e di tre o quattro corti d’appello per consentire un non indifferente recupero immediato di risorse. Si potrebbero redistribuire per un migliore utilizzo circa 300 magistrati; la conseguente soppressione di almeno una cinquantina di posti direttivi, tra giudicanti e requirenti, consentirebbe al Csm una più rapida e oculata nomina dei dirigenti. Quanto poi alle esigenze di prossimità, per molte attività non strettamente giurisdizionali, come le certificazioni, si possono mantenere agili sportelli decentrati, per non dire di tutto quanto oggi si può fare da remoto. Ho insistito sui brutali dati strettamente organizzativi, ma non occorre spendere molte parole per rammentare che neppure una minima specializzazione, indispensabile per una giustizia di qualità, è possibile nei mini-tribunali. Invece, sembra addirittura che si voglia tornare a questi. Riforma della giustizia, il confronto va fatto sui dati di Michele Caianiello* e Daniela Piana** Il Dubbio, 21 aprile 2023 Se ci soffermiamo a riflettere, difficile appare oggi parlare di giustizia senza trovarsi, volens o nolens, in una sorta di impasse di carattere connotativo. Molti degli aggettivi che sono stati introdotti per descrivere una determinata forma processuale o uno specifico istituto di diritto sostanziale, per non parlare degli assetti ordinamentali, hanno acquisito, attraverso un percorso che ad oggi appare ricostruibile con una storiografia che attinge dalla storia politica i suoi quadri concettuali ed esplicativi, una sempre più forte connotazione ideologica? Confrontarsi con un aspetto del funzionamento della giustizia in Italia significa ipso facto, per il gioco delle contrapposizioni, non affrontarne un altro, contentende con il primo, o quantomeno disegnare una scala delle priorità temporali che diventano oggetto di polemica. Non si tratta di un problema in sé. La letteratura delle scienze giuridiche, della teoria empirica delle istituzioni, delle democrazie costituzionali è ricca di esempi che mostrano come i concetti che usiamo sono “contestabili”, e di fatto contestati, perché possono acquisire nuances diverse a seconda dei contesti. Ma non è questo il punto. Senza che ce ne avvedessimo il sistema politico italiano si è trovato a vivere il tema giustizia, e forse ancor più le riforme che insistono sul settore giudiziario, come divisivo, polarizzante, capace, addirittura, in talune circostanze, di fare cadere i governi, di costringere al rimpasto, a obbligare ad abbandonare i proposito di riforme integrate e organiche; in tal modo, ci si è troppe volte rassegnati a portare a compimento solo parte di una agenda che meglio si sarebbe realizzata se vista e vissuta nel suo insieme, prendendo atto che riuscire a fare ciò risultava insostenibile politicamente ed era dunque meglio lavorare per ambiti disaggregati. Con costi di cambiamento moltiplicati e costi di monitoraggio non prevedibili né per il legislatore - sempre più - delegato né per le istanze incaricate poi di attuare le riforme. Il che nella giustizia significa non solo tutte le professionalità della giurisdizione, ma finanche i titolari di diritti, cioè i cittadini. La polarizzazione della issue “giustizia”. Non nascondiamoci. Ovviamente. È evidente che le posizioni di valore e le visioni di cosa sia giusto, di cosa sia equo e cosa sia preferibile sono diverse e talvolta opposte. Inutile negare che quando si parla di modelli archetipici, del processo penale accusatorio o inquisitorio si parla di qualcosa che divide, proprio anche per aspetti specifici dell’una opzione processuale e dell’altra. Per non dire di quanto sia polarizzante discutere di intercettazioni, tema divisivo non solo per le élite della politica, ma anche nel contesto della società italiana nel suo complesso; o, ancora, discutere della compressione delle libertà fondamentali, personali o reali, quando sia in gioco il contrasto alla criminalità organizzata. Analogamente divisivo è, anche se apparentemente meno conflittuale, il tema delle priorità fissate in materia di giustizia civile. Come organizzare il tribunale delle persone, della famiglia e dei minorenni, quando ad esempio sarebbe forse opportuno avere elementi di forte aggregazione delle risorse ma al contempo si discute della necessità di assicurare presidio del territorio? Le proposte che qui si condividono sono il risultato delle riflessioni di due studiosi, che hanno inteso nella missione intellettuale integrare anche quella civica e istituzionale, e con questo spirito partecipato a tavoli e sedi dove di riforme si è discusso, Un aspetto preliminare ci preme qui sottolineare. È evidente che la riforma della giustizia abbia nel nostro Paese un potenziale polarizzante. Le posizioni opposte vanno riconosciute come fatti socioculturali, ancor prima di opporsi a queste. Riteniamo che negare le differenze di posizione, negare la polarizzazione delle posizioni di partenza, sarebbe negare il portato storico della traccia che le esperienze di forte shock istituzionale che l’Italia ha vissuto dal dopoguerra ad oggi hanno lasciato. Significherebbe negare i fatti istituzionali. E poiché il diritto è un fatto istituzionale, oltre che una forma performativa del vivere sociale, una negazione del genere sarebbe fatale. Questo, tuttavia, non è che l’inizio della nostra proposta. Proponiamo infatti che qualsiasi forma di adesione valoriale debba accettare di confrontarsi con i dati, non tanto in una prospettiva di evidence- based policy making, quanto con un approccio di evidence- accepting policy making. Che qualsiasi posizione sia accolta sotto una sorta di principio di discussione che non trova nei fatti la legittimazione delle scelte, ma trova nella incompatibilità con i fatti una buona ragione per rimodulare le scelte. *Professore ordinario di diritto processuale penale Università di Bologna **Professoressa ordinaria di scienza politica Università di Bologna Riforma Cartabia, sconto di pena legittimo anche se non retroattivo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2023 Non è in contrasto con la Costituzione la norma della riforma Cartabia, secondo la quale lo sconto di pena per la mancata impugnazione si applica solo alle sentenze divenute definitive in primo grado, dopo l’entrata in vigore del Dlgs 150/2022. La Cassazione, con la sentenza 16054/2023, sgombra il campo dai dubbi di costituzionalità, sollevati dal ricorrente, per l’irretroattività della legge più favorevole. La norma di favore, di cui si chiedeva l’applicazione, era l’articolo 442, comma 2 bis del Codice di rito penale, introdotto dal Dlgs 150/2022, in virtù del quale la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione, se la condanna non viene impugnata né dall’imputato (quando è possibile l’impugnazione personale) né dal difensore. Un trattamento di favore che si applica alle sentenze divenute irrevocabili, per mancata impugnazione, dopo l’entrata in vigore della legge di riforma, anche se pronunciate prima. E l’irrevocabilità si verifica, ovviamente, solo in assenza dell’impugnazione: un atto di parte che blocca il passaggio in giudicato. Nel caso esaminato non solo il ricorrente censurava la non retroattività della legge, ma la sua difesa chiedeva anche la remissione nei termini, per poter riavvolgere il nastro del processo e rinunciare ad un appello che comunque c’era stato. Le censure sul supposto contrasto con la Carta, non erano dunque le uniche fuori fuoco, proposte dall’imputato condannato per il tentato omicidio della ex fidanzata. La Cassazione precisa che non è concepibile una richiesta di restituzione nel termine, scollegata dalla necessità di compiere un atto del processo che non sia stato compiuto per caso fortuito o forza maggiore, ma finalizzata solo a passare un colpo di spugna su un atto processuale tempestivamente proposto. I giudici di legittimità colgono l’occasione per ricordare che lo scopo della norma è quello di ridurre la durata del procedimento penale. Un taglio dei tempi reso possibile dalla definizione della causa in primo grado, saltando la fase delle impugnazioni (appello, se previsto o giudizio di legittimità) “quando esse, alla luce della valutazione rimessa all’imputato e al difensore, non siano giustificate da un concreto interesse. Riforma Cartabia, per i nuovi reati a querela è sufficiente il permanere della costituzione come parte civile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2023 Lo ha ribadito la Suprema corte con la sentenza n. 16570 depositata ieri. Anche se il reato di “Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone” previsto dall’articolo 659, primo comma, del cod. pen., nelle more del giudizio di cassazione, è divenuto procedibile a querela, a seguito della Riforma Cartabia (articolo 3 Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150), la Corte deve comunque esaminare i ricorsi agli effetti penali. Lo ha ribadito la Suprema corte, con la sentenza n. 16570 depositata oggi, affermando che non ricorre il difetto della querela richiesta dall’articolo 3 Dlgs n. 150 del 2022, perché, in relazione al reato per cui si procede, sono rimaste ferme alcune costituzioni di parte civile e una delle parti civili ha anche presentato le sue conclusioni in udienza. Secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite, infatti, “la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione”, e, quindi, “può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio”, con la conseguenza che i precisati atti e comportamenti possono ritenersi equivalenti ad una querela nel caso in cui la proposizione di quest’ultima sia divenuta necessaria per disposizioni normative sopravvenute nel corso del giudizio (Cass. n. 40150/2018, con riferimento ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del Dlgs 10 aprile 2018, n. 36, ed ai giudizi pendenti in sede di legittimità). La Cassazione aggiunge poi che questo principio si collega ad una “consolidata elaborazione giurisprudenziale”. E, “per tutte”, viene citata la sentenza n. 5193 del 2019, relativa a una fattispecie di condanna per appropriazione indebita aggravata (ex articolo 61, n. 11, cod. pen.), delitto divenuto procedibile a querela (ex articolo 10, comma 1, Dlgs. 10 aprile 2018, n. 36), dopo la sentenza di primo grado, in relazione alla quale la Corte ha rilevato che la sussistenza della condizione di procedibilità era desumibile dalla riserva di costituzione di parte civile formulata dalla persona offesa nella denunzia. La Cassazione chiarisce anche che la parte civile, in linea di principio, è legittimata ad impugnare tutte le sentenze di proscioglimento, e che la stessa, inoltre, ha specifico interesse ad impugnare una sentenza di assoluzione perché, se questa diviene irrevocabile, nei suoi confronti “ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile [...] per le restituzioni e il risarcimento del danno”. Ne consegue che “deve ritenersi consentito che la parte civile proponga appello avverso una sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado in relazione a reato in quel momento già prescritto per ottenerne la riforma agli effetti civili in sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, e che il giudice, in accoglimento del precisato gravame, decida in conformità con tale richiesta”. Emilia Romagna. Carceri, è emergenza sovraffollamento. La metà dei detenuti sono stranieri La Repubblica, 21 aprile 2023 Allarme sovraffollamento nelle carceri dell’Emilia Romagna dove ci sono il 114% in più di detenuti, uomini e donne, rispetto alla capienza massima delle strutture penitenziarie: più del doppio, quindi, dei posti teoricamente disponibili. Il dato è emerso dall’annuale relazione del garante regionale per le persone prive della libertà personale Roberto Cavalieri, nel corso della commissione Parità e diritti presieduta da Federico Alessandro Amico. In Emilia-Romagna ci sono 3.339 detenuti, di cui il 48% stranieri (il 60% dei quali proveniente dal Maghreb). Le donne sono poco più del 4% (di cui nel corso dell’anno quattro recluse insieme ai figli minori). Il 35% dei reclusi ha pene che permetterebbero di accedere a misure alternative, mentre 190 (di cui 51 over 70) sono ergastolani, il 70% dei quali detenuto a Parma, la città che ospita un carcere ad alta sicurezza strutturato anche per la gestione dei detenuti al 41bis. Almeno il 50% dei detenuti ha provato almeno una volta un atto di autolesionismo. Da segnalare, inoltre, la carenza dell’organico della polizia penitenziaria. Nel corso del 2022 Cavalieri ha ricevuto oltre 400 segnalazioni di richiesta di intervento, ha visitato numerose strutture carcerarie, in primis quella di Castelfranco Emilia, e distribuito ai detenuti il vademecum realizzato per informarli di quali diritti godono, in primo luogo sulla possibilità di accedere a misure alternative. “La capienza regolamentare delle carceri è una fisarmonica e anche una semplice ristrutturazione edilizia può creare disagi notevoli. Il problema del sovraffollamento inevitabilmente si riverbera anche sulle persone che operano nella struttura, con importanti sovraccarichi di lavoro”, spiega il garante Roberto Cavalieri. Preoccupazione per la situazione nelle carceri emiliano-romagnole è espressa anche da Elia De Caro, presidente dell’associazione Antigone, che ribadisce l’importanza di favorire l’accesso a modalità alternative alla detenzione. Campania. Carceri, l’emergenza nelle cifre del Garante dei detenuti metropolisweb.it, 21 aprile 2023 Il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ha presentato, in Consiglio regionale, la Relazione semestrale 2022 sulla detenzione campana, alla presenza del Garante nazionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Mauro Palma, della vicepresidente del Consiglio della Regione Campania Valeria Ciarambino, di consiglieri regionali, magistrati, associazioni del Terzo settore. “Questa mia relazione è uno sguardo sulla complessità dei luoghi campani in cui le persone sono private della libertà personale, in particolare del carcere. Anche se di troppe speranze nel carcere si muore. La relazione si pone l’obbiettivo di promuovere la cultura dell’accoglienza, del dettato costituzionale e dell’impegno civico. I numeri impietosi che ho dato provocano la coscienza di ogni singolo cittadino, le responsabilità delle istituzioni ai vari livelli e sicuramente provvedimenti consequenziali per ricucire ferite aperte”, così Samuele Ciambriello aprendo i lavori della sua relazione al Consiglio regionale. Nei saluti introduttivi la Vice Presidente del Consiglio regionale Valeria Ciarambino nel porgere gli auguri per il rinnovo della carica del Garante Ciambriello, ha dichiarato: “È necessario sensibilizzare, favorire, potenziare percorsi detentivi riservati ai detenuti, soprattutto perché la Campania ha uno dei tassi più elevati di disoccupazione”. I numeri del carcere in Campania: tossici, malati psichiatrici e stranieri - Rilevanti i numeri presentati durante la presentazione della relazione sui detenuti Campani: sono 1.329 i tossicodipendenti su 6.704 persone detenute; più di 400 con problemi psichici e psichiatrici. Tra gli eventi critici da rilevare, si segnalano 1400 atti di autolesionismo, 178 tentativi di suicidio e 6 sucidi. Tra i detenuti della Regione Campania 850 sono stranieri, 333 donne e 167 semiliberi. Nelle misure alternative gestite dall’Ufficio dell’esecuzione penale esterna, ci sono 13.886 persone, solo a Napoli e provincia 8.089. Per quanto riguarda la sanità, sono stati effettuati 577 T.S.O. e 1.254 trattamenti sanitari volontari nelle strutture sanitarie della Campania. L’anno scorso 6.400 adolescenti sono stati presi in carico dal servizio sociale. Più di 400 accusati di furto, 27 omicidio e 80 tentato omicidio. Sul ruolo le funzioni dei Garanti a vari livelli nelle sue conclusioni è intervenuto il Garante nazionale Mauro Palma: “Bisogna tutelare lo Stato rispetto a possibili censure, per rendere l’istituzione del Garante indipendente. È sbagliato considerare l’Ufficio del Garante un ufficio di parte, è un’autorità indipendente. Si è dalla stessa parte della magistratura di sorveglianza, della polizia penitenziaria, delle direzioni e di tutte le persone private della libertà personale”. Pesaro. Morì suicida in cella, la sorella vince il ricorso: “Carcere inumano” di Alessandro Mazzanti Il Resto del Carlino, 21 aprile 2023 Anas Zemzami si è ucciso nel 2015. “Non gli furono date cure tempestive ed adeguate”. Il Ministero della Giustizia dovrà versare 32mila euro. Più volte, davanti al tribunale di Pesaro, gli amici e la sorella avevano fatto dimostrazioni di protesta per ricordare il suo caso. Ora, a distanza di quasi 8 anni dalla sua morte, Anas Zemzami, che era detenuto nel carcere di Villa Fastiggi e lì si uccise nel settembre 2015, ha ottenuto giustizia. Il giovane, 29 anni, marocchino, si uccise impiccandosi con delle lenzuola. Era stato arrestato per aver rifiutato di dare le sue generalità. Soffriva di gravi problemi psichiatrici. Il governo italiano ha infatti riconosciuto davanti alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) che le autorità dello Stato sono responsabili del suo suicidio. In una comunicazione alla Corte di Strasburgo, Roma afferma di aver violato il diritto alla vita e a non subire trattamenti inumani e degradanti di Anas Zemzami, e che verserà alla sorella 32mila euro per danni morali e altri 1.000 per coprire le spese legali che ha sostenuto. A perorare la causa di Anas Zemzami alla Cedu è stata proprio la sorella. Il 2 marzo del 2020 ha presentato un ricorso in cui sosteneva che le autorità non avevano preso tutte le misure necessarie a proteggere la vita di Anas e che le indagini sulla sua morte sono state inefficaci. Inoltre la donna afferma che le autorità carcerarie, attraverso il trattamento riservato al fratello prima del suicidio, e in particolare la presunta incapacità di fornirgli cure mediche tempestive e adeguate, l’hanno sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La sorella di Anas non voleva accettare la dichiarazione di colpevolezza del governo italiano e avrebbe preferito che la Cedu proseguisse l’esame del caso, soprattutto perché Roma non si è impegnata a riaprire un’indagine su quanto è accaduto prima del suicidio di Anas. Ma a questo proposito la Cedu evidenzia che la sua decisione di accettare la dichiarazione del governo non esime le autorità italiane dal loro obbligo di condurre un’indagine approfondita ed efficace per far luce sui fatti, anche in considerazione del fatto che l’Italia ha riconosciuto la violazione dei diritti di Anas. Lucera (Fg). Ex detenuto sul carcere: “È un orrore, se lo chiudono è meglio” foggiatoday.it, 21 aprile 2023 Ha fatto scalpore e rumore la testimonianza di Giovanni, ex detenuto del carcere di Lucera, rilasciata nel corso della puntata di “Radio Carcere” condotta da Riccardo Arena, andata in onda il 13 aprile. Per l’ex recluso, l’istituto penitenziario sarebbe “come un orrore” e “un tugurio”. Le celle sarebbero più piccole e non verrebbe garantito il minimo dei tre metri quadri stabiliti per ciascun detenuto: “Siamo come schiavi e zombie, senza acqua calda, senza bidet, con un lavandino piccolo”. Inoltre, aggiunge, “il bagno non è coperto ed è a vista, si sente la puzza mentre dormiamo e mangiamo, è una porcheria. La notte dobbiamo aprire le finestre, anche quando fa freddo, c’è una puzza enorme, non c’è igiene, non c’è niente. La privacy non esiste, ci trattano come animali, come bestie. Devi sentire anche la puzza dell’altro, che è una cosa che dà molto fastidio”. E ancora, “le celle sono piene di formiche, non c’è igiene. Le persone mangiano, non lavano ed è normale che escono formiche e scarafaggi”. Per Giovanni la struttura andrebbe ristrutturata: “Ci sono i fili volanti, i tubi dello scarico dei piani superiori, non c’è un termosifone, una lampada adeguata, le bilancette sono rotte. Il pavimento si muove specialmente al secondo piano. La lavanderia è a pagamento e ci sono persone che non hanno soldi e rimangono con i panni sporchi”, che “lavano solo con l’acqua sotto la doccia”. Non funzionerebbero bene nemmeno gli apparecchi televisivi, mentre la doccia pare si possa fare soltanto dopo le 15. “Ci danno le gocce, per passare la giornata nell’inferno, la riabilitazione del carcere di Lucera è quella di far diventare zombie i detenuti” denuncia. “Non ci vogliono inserire. L’unica cosa è la scuola dalle 9 alle 11.30”. I detenuti avrebbero effettuato reclamo anche al magistrato di sorveglianza. “Non ci ha mai risposto”. Il racconto di Giovanni prosegue: “Le docce in comune sono spregevoli, non c’è una doccia che funziona, nemmeno lo scarico. Puzza sempre di muffa, non vengono nemmeno pulite bene”. L’ex detenuto ha avuto da ridire sulle modalità di lavoro degli educatori e degli agenti penitenziari; e ha avanzato dubbi sui soccorsi ai reclusi che si sentono male. “Non auguro a nessuno di passare quello che ho passato io in quel carcere. Se lo chiudono è meglio, diventano tutti zombie li dentro”. Dopo questa puntata Maurizio Portaluri, medico di Brindisi, Vito Totire, medico di Bologna, Michele Lospalluto, infermiere di Altamura, Riccardo Ierna, psicologo di Latiano e Gino Stasi, educatore di Mesagne, hanno scritto al Presidente della Regione Puglia e al sindaco di Lucera: “Oltre le frequenti denunce che abbiamo fatto sulle carceri pugliesi, prendendo spunto anche da luttuosi fatti di cronaca, abbiamo tentato di raccogliere informazioni attraverso altri canali (per esempio chiedendo di acquisire i riscontri delle visite che le Asl devono fare ogni sei mesi negli istituti di pena), ma non abbiamo mai ricevuto risposta e quindi “Radio Carcere” rimane, per noi, la fonte di informazioni più esaustiva. Le condizioni attuali esigono una dichiarazione di inagibilità igienico-sanitaria ed edilizia e un provvedimento dunque di chiusura immediata; ogni struttura ricettiva nello stato che è stato descritto sarebbe destinataria di un provvedimento di chiusura per iniziativa di concerto tra Asl e sindaco in veste di autorità sanitaria locale; le carenze socio sanitarie riferite sono intollerabili in una società civile: precarietà delle condizioni igieniche, sovraffollamento (150 persone recluse), carenze socio-assistenziali (soli tre educatori…); chiediamo dunque la dichiarazione di inagibilità e intanto chiediamo di acquisire copia del rapporto delle visite relative al primo e secondo semestre 2022 al fine di confrontare i riscontri della Asl con i contenuti dell’intervista rilasciata a Radio Carcere”. Quali invece le prospettive future per Lucera? “La questione è aperta, quello che non è tollerabile è la eventuale procrastinazione dello status quo. In mancanza di segnali istituzionali dobbiamo chiedere alle persone recluse di ponderare la proposta di inviare una segnalazione alla Corte europea dei diritti dell’uomo al fine di propiziare il superamento delle attuali disumane condizioni. Facciamo appello a tutte le persone di buona volontà a respingere ogni tendenza alla rimozione ed all’assuefazione alle ingiustizie. Superare le condizioni attuali del carcere non è soltanto una questione umanitaria che riguarda le persone recluse, ma è nell’interesse di tutta la comunità in quanto una gestione degli istituti coerente con la Costituzione è la migliore premessa per la prevenzione della recidiva e per l’incremento di livelli adeguati di coesione sociale, a vantaggio di tutti”. Reggio Emilia. Presunto pestaggio di un detenuto, ci sarebbero i filmati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2023 La Procura valuterà l’episodio dopo l’esposto dell’avvocato del detenuto, i cui comportamenti autolesionistici sono stati segnalati dagli agenti. Intanto si discute un disegno di legge di Fdi per abrogare il reato di tortura. Una ventina di agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia lo avrebbero fatto stendere sul pavimento, con la faccia rivolta verso terra. Poi gli avrebbero coperto il volto con un tessuto e colpito con dei pugni. Dopodiché lo avrebbero portato in cella di isolamento. Il condizionale è d’obbligo perché l’episodio risalente al weekend prima di Pasqua è al vaglio della Procura dopo l’esposto presentato dal legale del detenuto, Luca Sebastiani. Come ha notiziato per la prima volta Il Resto del Carlino, nei giorni successivi il 40enne è stato portato all’ospedale Santa Maria Nuova, e risulta non aver riportato ferite gravi. Il presunto pestaggio - segnalato dal difensore civico di Antigone anche al garante regionale Roberto Cavalieri - sarebbe stata immortalato dalle telecamere interne, i cui filmati passeranno al vaglio degli inquirenti. Secondo quanto riferito dall’avvocato Sebastiani, che lo ha incontrato per un colloquio, il detenuto presentava delle lesioni al volto. Il reato di tortura è stato indicato nella denuncia sporta dal detenuto in riferimento all’uso della presunta violenza dispiegata dagli agenti, specie quando lui sarebbe stato messo in posizione prona, verso il suolo, da più poliziotti. Sarà la Procura a valutare, in fase di indagini preliminari, quanto accaduto: in particolare se siano configurabili reati a carico dei poliziotti perché avrebbero oltrepassato il limite, o se invece abbiano agito in modo proporzionato a riportare alla calma un detenuto esagitato. Sì, perché a loro volta, gli agenti lo avrebbero segnalato per i suoi comportamenti autolesionistici. Intanto rimane l’incognita sul reato di tortura. La discussione è iniziata con l’arrivo del disegno di legge presentato dalla deputata di Fratelli d’Italia Imma Vietri per abrogare gli articoli 613- bis e 613- ter del codice penale. Il ministro della Giustizia Nordio, durante la question time, ha tranquillizzato che non ci sarà alcuna abolizione. Nei fatti, però, l’eliminazione di quegli articoli avrebbe due conseguenze negative: da un lato, renderebbe meno gravi e talvolta giustificabili gli abusi commessi dalle forze dell’ordine contro le persone private della loro libertà; dall’altro, metterebbe l’Italia in conflitto con gli obblighi internazionali assunti da ormai 35 anni e manderebbe un messaggio preoccupante alla comunità internazionale che cerca di combattere la tortura. Come ha ricordato Luigi Manconi, all’epoca senatore del Partito democratico che fu il primo firmatario della proposta di legge nel lontano 2013, il dibattito per l’introduzione ebbe una accelerazione a seguito della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per le violenze degli apparati di polizia messe in atto durante i giorni del G8 di Genova (2001), in particolare per il comportamento tenuto in occasione dell’irruzione notturna nella scuola Diaz. Ma anche a seguito del caso Cedu “Irino e Renne c. Italia”. Nell’ottobre del 2017 venne pronunciata una sentenza di condanna per i fatti avvenuti al carcere di Asti. I ricorrenti avrebbero, a seguito di un alterco con un comandante di reparto della polizia penitenziaria, subito la reclusione in due diverse celle d’isolamento, dopo essere stati percossi da vari agenti. Privi di un materasso o coperte, di acqua corrente e di riscaldamento, i detenuti sono stati soggetti a violenze e percosse per almeno una settimana, privati del sonno, offesi verbalmente e costretti praticamente al digiuno ed alla somministrazione di piccole quantità d’acqua. Il 16 dicembre 2004, il ricorrente Renne viene condotto in ospedale a causa della sua precaria condizione di salute a seguito dell’isolamento. Il 7 luglio 2011, cinque agenti della polizia penitenziaria sono portati a processo con le accuse di maltrattamenti di cui all’art. 572 c. p., le aggravanti di cui all’art. 61 c. p. n. 9, lesioni personali ex art. 582 c. p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c. p.: tutti i reati però prescritti durante il procedimento. Sul versante delle sanzioni disciplinari, che corrono su un binario parallelo rispetto ai procedimenti penali, soprattutto in relazione alla tortura e ai trattamenti inumani, vediamo l’applicazione della sospensione dal servizio dai 4 ai 6 mesi (nessuno di queste però disposte durante l’indagine), e solo due agenti licenziati, di cui uno reintegrato. Le Corti Italiane non possono fare altro quindi che confermare l’accertamento dei fatti così come descritti dai ricorrenti, in un contesto (quello degli anni 2004 e 2005), in cui è ravvisata nel carcere di Asti una sistematica pratica di maltrattamenti simili nei confronti dei detenuti considerati “problematici”. Tutto questo è avvenuto nella più completa impunità dovuta all’acquiescenza dell’allora amministrazione penitenziaria riguardo a tali incresciosi episodi di violenza. La Corte di Strasburgo non ha nutrito dubbi sulla qualificazione delle sevizie subite dai ricorrenti come tortura ai sensi dell’art. 3 Cedu. Anche in questo caso, la Cedu ha parlato dell’assenza del reato di tortura all’interno del codice penale italiano. Nel 2017 quindi viene introdotto il reato di tortura. Anche se ben diverso da quello proposto da Luigi Manconi. Le differenze cruciali che hanno fatto della proposta iniziale una legge parziale sono essenzialmente tre. L’ex senatore le riassume così. La prima. Il reato è comune e non proprio: ovvero attribuibile a chiunque e non imputabile solo ai pubblici ufficiali e a chi esercita un pubblico servizio. Un reato, dunque, che non deriva dall’abuso di potere di un funzionario dello Stato ma da una qualunque forma di violenza tra individui. La seconda. La necessità che vi sia una pluralità di violenze e di minacce e il ripetersi di più condotte perché si verifichi la tortura. Il rischio è che una violenza esercitata da un singolo ufficiale su una persona oppure una violenza non reiterata e non protratta nel tempo non rientri nella fattispecie di tortura. La terza. La pretesa che vi sia una verificabilità oggettiva del trauma psichico derivante da tortura. Eppure, nonostante le imperfezioni, dal 2017 a oggi, il reato di tortura è stato contestato a numerosi imputati in diversi procedimenti giudiziari: da Ferrara a San Gimignano, da Torino a Sollicciano, fino a Santa Maria Capua Vetere, in genere a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria. In alcuni c’è stata già sentenza di condanna. L’esistenza del reato di tortura non impedisce alle forze dell’ordine di svolgere diligentemente il loro lavoro, anzi, è una misura che tutela anche chi opera per il rispetto della legge. Così come, non è vero che l’uso della forza si traduce in tortura. Diversi i casi archiviati, perché i magistrati stessi hanno reputo l’uso legittimo. Come non ricordare il fatto - denunciato dal Garante nazionale nel 2019 - dell’uso degli idranti usato nei confronti di un detenuto chiuso dentro la cella? Il detenuto, preso da una evidente esagitazione aveva rotto il portellino dello spioncino e gli agenti volevano che lui consegnasse il pezzo di ferro e il fornelletto che aveva in dotazione. Siccome lui non aveva eseguito l’ordine, gli agenti avrebbero aperto l’idrante, indirizzando il getto d’acqua in ogni angolo della cella. Fatto denunciato alla procura competente che, a sua volta, ha reputato di archiviare perché non ha intravisto alcun reato. Opinabile o meno, questa è la dimostrazione che gli agenti, agendo in buona fede, non corrono alcun rischio. Lecce. Garante dei detenuti: presentata a Borgo San Nicola la relazione di fine mandato comune.lecce.it, 21 aprile 2023 Il 20 aprile è stata presentata, di fronte ad un pubblico composto dai detenuti della casa circondariale di Lecce, da rappresentanti istituzionali e operatori sociali la relazione di fine mandato della professoressa Maria Mancarella, Garante delle persone private della libertà personale dall’aprile 2018. La relazione della Garante ripercorre le attività svolte nei cinque anni di mandato, volte a rendere più forte e reciproco il rapporto tra i cittadini che vivono temporaneamente tra le mura del penitenziario e la città. Il lavoro della Garante, che si è svolto in piena e sostanziale collaborazione e integrazione con l’amministrazione comunale, la direzione del carcere e le associazioni che si occupano della tutela dei diritti dei detenuti, si è sviluppato su quattro fronti: il rafforzamento dei rapporti istituzionali, le attività di sensibilizzazione svolte in città, la collaborazione con l’Università del Salento e le attività nel e per il carcere. Dalle raccolte di beni di prima necessità per i detenuti in condizione di povertà, alla collaborazione con Unisalento per l’avvio del Polo Universitario Penitenziario, dagli ascolti dei detenuti alle visite in sezione, agli incontri con i familiari, ai cineforum e ai libri in carcere, all’attenzione per l’istruzione, la Garante si è affermata in questi anni come un nuovo punto di riferimento per i detenuti, raggiungendo gli obiettivi che le sono assegnati dal Regolamento che ne ha istituito la figura con delibera di Consiglio comunale nel 2018: promuove l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale, promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti delle persone private della libertà personale, promuovere iniziative di collaborazione tra le istituzioni per migliorare le opportunità di riabilitazione di chi è recluso. Nel corso del suo mandato, inoltre, più di 40 studenti universitari sono stati assistiti dalla professoressa Mancarella - già docente di Sociologia della famiglia e politiche sociali presso l’Università del Salento - nello svolgimento del loro periodo di tirocinio universitario, entrando in contatto diretto con la realtà del carcere, avendo l’opportunità di formarsi sul campo La Spezia. Il Garante dei detenuti della Liguria in visita alla Rems di Calice Gazzetta della Spezia, 21 aprile 2023 Ha parlato con le persone che si trovano nella struttura ed ha verificato le recenti implementazioni sul fronte della sicurezza. Lunedì 17 aprile 2023 il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Liguria, dott. Doriano Saracino, ha fatto visita ai pazienti della R.E.M.S. (Residenza per l’esecuzione delle Misure di Sicurezza) di ASL5 in località Santa Maria Le Cassorane di Calice al Cornoviglio. Il Garante (istituito presso il Ministero della giustizia dal decreto-legge 23 dicembre 2013 n. 146) è un organo di garanzia indipendente dei diritti fondamentali delle persone in stato di detenzione ovvero internamento, con potere di controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, grazie al quale i pazienti possono esternare eventuali richieste soprattutto in caso di evidente compromissione dei diritti previsti dall’ordinamento italiano. Dopo aver incontrato per ASL5 il Direttore Generale Paolo Cavagnaro, la Direttrice Socio Sanitaria Simonetta Lucarini e la Responsabile Coordinatrice Funzionale Elisabetta Olivieri per raccogliere informazioni sulla mission della R.E.M.S e sull’accoglienza rivolta agli ospiti, Saracino si è intrattenuto in colloqui con i pazienti durante i quali ha ascoltato le loro percezioni e avuto informazioni sulle modalità di collaborazione con il personale sanitario presente in struttura. Contestualmente ha potuto, anche, rilevare la recente implementazione della messa in sicurezza della R.E.M.S. che consiste nello specifico: nel potenziamento del sistema di videosorveglianza grazie a due monitor di 50 pollici e all’attivazione di password per l’accesso; nell’installazione di offendicoli che impediscono lo scavalco della recinzione interna; nell’ampliamento del servizio di guardianaggio con un’unità in più nella fascia diurna (8/20); nell’apertura delle serrature a codici delle porte con badge. Inaugurata il 9 giugno e attivata il 4 luglio 2022, la R.E.M.S. di Calice al Cornoviglio fino ad oggi ha ospitato 21 pazienti sottoposti a misure detentive perché socialmente pericolosi e incapaci di intendere e volere nel momento della commissione del reato. Si tratta di persone provenienti da quasi tutte le regioni italiane, (la struttura è l’unica in Italia preposta ad ospitare pazienti anche non liguri) con un elevato indice di turn over di copertura dei posti letto. Di questi 4 pazienti sono rientrati presso le REMS di competenza territoriale, 3 presso le Comunità Terapeutiche individuate dopo condivisione del percorso tra l’equipe della struttura e i DSM (Dipartimento di Salute Mentale) della Regione di appartenenza, uno è in libertà vigilata. Paolo Cavagnaro, Direttore generale ASL5, dichiara: “Ringrazio moltissimo il dott. Saracino per questa visita: la sua presenza è stata molto importante per i pazienti e ha offerto agli operatori la possibilità di un riscontro rispetto al lavoro che stanno svolgendo con queste persone. Il mio grazie va anche all’equipe sanitaria che qui opera con grande impegno e professionalità nel prendere in carico i pazienti al fine di stabilizzarli dal punto di vista clinico e riavvicinarli poi al territorio di origine in tempi relativamente contenuti come dimostrano i dati”. Scheda della struttura - La R.E.M.S. è una struttura residenziale, nata dall’inedita collaborazione tra il Ministero di Giustizia e il Ministero della Salute, con funzioni terapeutico-riabilitative a permanenza transitoria (il periodo di degenza ha un limite temporale) ed eccezionale, a numero chiuso, senza la presenza di Polizia penitenziaria, che sostituisce l’esecuzione delle misure di sicurezza negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e nelle case di cura e custodia, chiuse definitivamente dal 1 aprile 2015, come previsto dall’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 - convertito in legge 17 febbraio 2012, n. 9 - relativo a interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri. La REMS di Calice vanta un’area di circa 1200 mq, venne acquistata da ASL5 nel 2014 per 1 milione e 180mila euro per poi essere ristrutturata con un investimento di circa altri 3 milioni di euro. È gestita dal Dipartimento di Salute mentale e dipendenze di ASL5 attraverso una convenzione con due cooperative che si sono costituite ad hoc e aggiudicate un appalto regionale che prevede anche il comodato d’uso, rinnovabile nel tempo, dell’immobile e di tutto l’arredamento e la strumentazione con i quali è stata allestita la struttura. Usufruisce fino al 2024 di 2,6 milioni di euro all’anno e ospita 20 detenuti che vengono seguiti da 14 infermieri turnisti e un coordinatore infermieristico, 12 oss, 4 educatori, uno psicologo, un assistente sociale. A questo staff si aggiungono 3 psichiatri che sono presenti in struttura 12 ore al giorno e reperibili di notte, a cui si affianca uno psichiatra Asl, di raccordo tra la struttura e l’azienda, che garantisce 18 ore a settimana e ha funzione di direttore sanitario. Al fine di garantire nella R.E.M.S. la massima sicurezza per gli ospiti, gli operatori e il territorio, tenuto conto anche della particolarità del sito in cui è ubicato il complesso, è stato elaborato un protocollo tra ASL, Regione Liguria e Prefettura di Spezia (in ottemperanza all’art. 32 del decreto legge n. 17 del 1 marzo 2022 convertito con legge 27 aprile 2022 n. 34) che ha individuato le modalità di intervento in caso di necessità. La REMS di Calice, infatti, è una struttura all’avanguardia e, oltre ad un sistema di videosorveglianza e antintrusione interno e esterno, gode, sulle 24 ore, di un servizio di Guardie Giurate Particolari, dell’attento monitoraggio delle Forze di Polizia territorialmente competenti e dell’attuazione di un collegamento di emergenza fra la centrale operativa del servizio di vigilanza interno alla REMS ed il 112. Civitavecchia (Rm). Una “Seconda chance” lavorativa per i detenuti bignotizie.it, 21 aprile 2023 Il progetto presentato ieri in Fondazione Cariciv. La Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia e la società Energy Efficiency EPC S.r.l. di Roberto Serafini hanno aderito al progetto presentato dall’associazione “Seconda Chance” creato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia per permettere ai detenuti di crearsi una possibilità d’inserimento nel mondo del lavoro grazie ad una stretta collaborazione tra imprese. La presentazione del progetto c’è stata ieri presso la Fondazione Cariciv di Civitavecchia alla presenza Bravetti, direttore dei due istituti penitenziari, che ha suggellato l’adesione totale al progetto, la volontà di dare risposte concrete ai tanti detenuti potenzialmente ammessi al lavoro esterno. L’associazione Seconda Chance opera in tutta Italia e permette agli imprenditori che aderiscono al progetto di ottenere un credito d’imposta di 6.000 euro l’anno e di compiere un gesto concreto verso persone in difficoltà donandogli una seconda possibilità. “Anche sul nostro territorio c’è grande richiesta di personale e questa proposta, fortemente apprezzata dalla presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia Gabriella Sarracco, può essere utile sotto vari punti di vista. Sul territorio di Civitavecchia alcune società hanno già aderito al progetto: la società Joule S.r.l. di Roberto Pau che gestisce la logistica per Conad Nord Ovest, ha già assunto 4 detenuti magazzinieri e Moditech ha preso un detenuto elettricista” ha dichiarato Flavia Filippi, giornalista di La7 che ha coordinato il progetto. “Già oggi la referente di Seconda Chance Civitavecchia, la dr.ssa Allegra Mariotti, ha incontrato l’area educativa dei due istituti penitenziari per concordare future modalità di intervento. Presto i cv dei detenuti più meritevoli e vicini alla scarcerazione cominceranno a circolare tra gli imprenditori civitavecchiesi. L’auspicio è che i ristoratori, le imprese edili e agricole, le società dell’indotto del porto e della centrale elettrica scelgano di andare anche loro in carcere per valutare personale” ha concluso la Filippi. Soddisfatta Gabriella Sarracco: “La Fondazione Cariciv non poteva che sposare questo progetto che offre una seconda chance a chi non la avrebbe avuta. La sinergia con associazioni locali e con la dottoressa Bravetti è totale”. Molto contento dell’iniziativa anche l’imprenditore Roberto Serafini: “Quando si collabora con associazioni bisogna essere certi che siano di valore. Questa sicuramente lo è e di valore è anche il loro progetto”. Sempre nel progetto sono in partenza anche alcune attività ricreative come un corso di teatro rivolto alle detenute, ideato e tenuto da una volontaria di Seconda Chance Beatrice Valeri. Per aderire al tavolo tecnico gli imprenditori possono contattare l’Associazione Seconda Chance inviando una mail a info@secondachance.net Como. Nuovi percorsi di vita nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 21 aprile 2023 Non è “un percorso vita” come gli altri quello inaugurato martedì scorso vicino al campo sportivo del carcere di Como. Gli attrezzi ginnici da cui è composto sono stati disegnati e costruiti dai detenuti e la sua realizzazione si può dire abbia coinvolto un’intera cittadinanza. Il nuovo spazio si deve, infatti, al progetto “Como: una città unita dentro e fuori il carcere”, del Centro di Servizio per il Volontariato (CSV) dell’Insubria, in collaborazione con Fondazione CESVI e sostenuto da Intesa Sanpaolo, attraverso il Programma Formula, iniziativa di crowdfunding, a cui hanno contribuito privati cittadini, imprese e lo stesso gruppo bancario. Un “percorso”, dunque, impegnativo e partecipato che offrirà ai detenuti l’opportunità di svolgere attività fisica all’aperto e di vivere momenti di aggregazione e socializzazione. Con i fondi raccolti grazie al “Programma Formula” sono state promosse anche delle esperienze sul territorio, attraverso la conoscenza, il dialogo e lo scambio attivo tra ex detenuti, persone in esecuzione penale e cittadini con l’obiettivo di rendere il carcere un luogo integrato nella città di Como. In particolare, sono state realizzate anche attività di formazione per volontari e corsi professionali per favorire l’inclusione lavorativa di detenuti nei 12 mesi successivi alla scarcerazione. Milano. “Dal buio alla speranza”, un recital nel carcere di Opera cattolicanews.it, 21 aprile 2023 Alessandro Cozzi e Giuseppe Pellicanò, detenuti nello stesso reparto della Casa di reclusione di Opera, si sono trovati a condividere la passione per le canzoni e le poesie del Brasile. “All’inizio era un divertissment, un modo per impiegare il proprio tempo attorno a un progetto che portasse altrove il cuore, i pensieri, le energie. Sì, una sapiente forma di “evasione” - ha raccontato Elisabetta Matelli, docente di Storia del teatro greco e latino in Università Cattolica e presidente dell’Associazione Kerkís. Teatro Antico In Scena -. Poi, grazie ai rapporti con i volontari di diverse Associazioni come Cisproject con “Leggere Libera- Mente”, “Incontro e Presenza”, “In Opera”, “Sesta Opera San Fedele”, “Talenti in Opera” è nato il progetto di uno spettacolo da realizzare nel Teatro del Carcere davanti a pubblico esterno, a cui ha collaborato anche la Cappellania della Casa di Reclusione”. È nato così il recital Dal buio alla speranza. Poesia e canti del Brasile che andrà in scena venerdì 5 maggio alle ore 20 nel Teatro della Casa di Reclusione di Opera e che attraverso l’associazione Kerkis è stato aperto al pubblico esterno. Professoressa, in che cosa consiste il progetto promosso nel carcere di Opera da un’associazione che si occupa di rappresentazioni di teatro classico? “Il recital nasce dal percorso di “rinascita” di due reclusi condannati all’ergastolo che, in un lavoro di riappropriazione della propria persona in questo spazio di cattività, hanno scelto di utilizzare il linguaggio allegorico e piacevole dell’arte per elaborare il proprio percorso umano che va “dal buio alla speranza”. Per quanto ho potuto io stessa riscontrare, il percorso di riabilitazione dei detenuti è fortemente aiutato se ci sono occasioni che permettono un confronto e un dialogo con la società civile esterna al carcere. Incontrare l’indubitabile grande sofferenza e le domande delle persone recluse all’interno delle mura del carcere è stato per noi un sorprendente dono, che ha superato ogni previsione”. Come siete entrati in contatto con questa realtà? “Abbiamo inizialmente risposto a un invito del direttore della Casa di Reclusione di Opera, Silvio Di Gregorio, proponendo nel Teatro del Carcere alcuni spettacoli di teatro classico recitati dai giovanissimi attori dell’Associazione Kerkís. Teatro Antico In Scena, convenzionata con l’Università Cattolica, che permette agli studenti l’esperienza sul campo di un teatro universitario di livello artistico abbastanza alto. La nostra sfida è stata ed è quella di avvicinare i grandi capolavori di un passato arcano alla sensibilità dei giovani d’oggi e di persone emarginate dal contesto sociale dominante. All’inizio, la nostra iniziativa dentro alle mura del carcere era sperimentale ma abbiamo subito verificato il grande potere catartico dei grandi miti quando riescono a comunicare importanti emozioni e conseguenti riflessioni. Da un confronto con i detenuti è nata l’occasione di farci promotori di questo recital di poesie e canti della tradizione brasiliana attorno ai quali Alessandro Cozzi e Giuseppe Pellicanò stanno lavorando da almeno un anno”. Cosa hanno a che fare canti e poesie brasiliane con il teatro classico? “L’universalità dei miti antichi permette un dialogo con tutte le espressioni artistiche e culturali che mettono al centro l’uomo, del suo bisogno di amore e di amicizia, della sua ricerca di senso, di riscatto dagli errori, e molto, molto altro”. Quella del 5 maggio sarà la prima dello spettacolo? “No. La prima rappresentazione si realizzò per la prima volta il 13 giugno 2022 e una seconda volta il 24 marzo 2023. La terza rappresentazione sarà, appunto, quella del 5 maggio, da noi proposta in collaborazione con il PIME, l’Associazione Incontro e Presenza e il Centro Pastorale dell’Università Cattolica. A ogni replica il Recital si evolve: si tratta di un vero e proprio work in progress, e io stessa sono curiosa di verificare come si sarà evoluto rispetto a un anno fa”. Quanto è importante la collaborazione tra associazioni di volontariato per progetti formativi ed eventi culturali all’interno di un carcere? “Innanzitutto, è fondamentale la dimensione del volontariato in sé all’interno del carcere. I volontari possono avvicinare i detenuti in modo diverso rispetto ai funzionari della Casa di reclusione perché lo fanno per libera scelta e hanno una maggiore facilità a incontrare le persone che sono dietro a ogni detenuto, con la possibilità di scambiare sguardi, stringere mani, ascoltare, dialogare, interagire su dei progetti. Le associazioni di volontariato rappresentano un fondamentale anello di congiunzione tra società civile e le Case di Reclusione. Un valore aggiunto è la cooperazione tra le diverse associazioni di volontariato perché si possono organizzare proposte più complesse, il cui risultato supera la somma delle parti e risulta ancor più a favore dei detenuti, come hanno osservato loro stessi”. Lo spettacolo prevede un’offerta libera a favore del Progetto “Non di solo pane. Nutrirsi in Camerun, Ciad e Costa d’Avorio” della Fondazione Pime. Ci racconta brevemente di cosa si tratta? “Questa campagna missionaria della Fondazione Pime intende migliorare il livello di sicurezza alimentare in questi tre Paesi africani con progetti di sviluppo sostenibile e interventi concreti di promozione della sicurezza alimentare. Tuttavia, l’intento è anche quello di sensibilizzare bambini, giovani e adulti in Italia ai temi della missione e della sicurezza alimentare, attraverso attività culturali, di educazione alla mondialità e di animazione missionaria. Questo intento si concretizza in Università Cattolica grazie a due progetti della Fondazione Pime Onlus in collaborazione con il Centro Pastorale dell’Ateneo, Mission Exposure e Be Present”. Grazie alla partecipazione a questo progetto del Pime e dell’Università Cattolica, lo spettacolo Dal buio alla speranza si arricchisce di un significato ancora più profondo assumendo la forma di un lavoro “socialmente utile”. L’ingresso è libero ma la prenotazione necessaria entro il 27 aprile, compilando un format online e inviando il documento d’identità a invito5maggio@gmail.com. Se dopo la pandemia è sparita la felicità di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 21 aprile 2023 Oggi non parliamo di Pil, ma di Bes oltre il Pil, benessere equo e sostenibile, un sistema di indicatori potente, flessibile, sul fronte economico, sociale ambientale, implementato dall’Istat in forte interazione con la comunità scientifica, la società civile, gli organismi internazionali. I dati del Bes ci dicono che è stato un anno faticoso, il 2022. Stiamo cercando di risalire la china, ma con non poche difficoltà. A poco più di due anni dalla pandemia, e a un anno dall’aggressione russa all’Ucraina, con conseguente crisi energetica e inflazione elevata, nel 2022, non potevamo aspettarci chissà quale balzo. Ancora non ci siamo, sprazzi di luce dopo lo shock e la tempesta. Su alcune dimensioni non siamo tornati al livello precedente della pandemia, in altri casi siamo peggiorati, in altri il miglioramento non è stato sufficiente per farci recuperare tutto ciò che avevamo perso. In altri ancora siamo migliorati, anche superando il 2019, ma ci collochiamo a livelli talmente bassi da non poterci ritenere soddisfatti. Crescono le famiglie che dichiarano che la situazione economica è peggiorata, siamo arrivati a più del 35%. I nostri livelli di disuguaglianza economica e di povertà sono più alti della media europea. Segnali di miglioramento emergono nei tassi di occupazione, ma il confronto con l’Europa ci fa capire che troppo lievi sono gli incrementi in atto, minori che negli altri Paesi. Siamo precipitati all’ultimo posto per tasso di occupazione, generale e femminile. È cresciuta la componente precaria. Rimane alta la differenza tra tasso di occupazione delle donne con figli e senza. E sebbene torni a diminuire il numero di giovani che non studiano e non lavorano e che interrompono gli studi, manteniamo livelli tra i più elevati di Europa. Inoltre, si aggrava la situazione delle competenze alfabetiche e numeriche dei ragazzi in terza media inferiore, la nostra distanza dall’Europa sui laureati tra i giovani di 30-34 anni è elevata (27% contro 40%), e più della metà degli utilizzatori di internet non ha competenze digitali di base. Facciamo fatica a riprendere le relazioni sociali come prima della pandemia. La partecipazione sociale aumenta, sia a livello di volontariato che di associazionismo, ma ci collochiamo ancora 6 punti percentuali sotto il 2019. Analogamente succede per la fruizione culturale che più aveva risentito degli effetti della pandemia. Cresce di nuovo la fruizione di spettacoli culturali, ma siamo 12 punti sotto il 2019. E chissà quando torneremo a quei livelli, perché accanto alle difficoltà del riprendere i ritmi della vita quotidiana dopo lo shock subito, ci sono i tanti cambiamenti innestati dalla rivoluzione tecnologica e dalle mille forme che assume il modo di fruire cultura e tempo libero. Segnali negativi sul fronte della lettura. Peggiorata la situazione della sicurezza dei cittadini per quanto riguarda borseggi e furti di abitazione. Non a caso i cittadini si sentono un po’ meno sicuri di un anno fa. La soddisfazione per la propria vita, però torna a livelli alti, e ciò anche per i giovani che più degli altri nel 2021 avevano sofferto delle scarse relazioni sociali. Ciò si era riflesso nel peggioramento dell’indice di salute mentale. Lo scarso benessere psicologico rimane preoccupante soprattutto per le ragazze da 14 a 24 anni. Peggiora la situazione ambientale sia in termini di aumento delle emissioni di Co2 e dei gas effetto serra, sia in termini di numero di giorni annui di elevata temperatura (40 giorni), e di numero di giorni non piovosi consecutivi (27 giorni) in crescita. Bassa la presenza di donne nei luoghi decisionali, tranne nel caso dei Cda delle imprese su cui ha agito la Legge Golfo Mosca. Insomma, siamo un Paese affaticato dalla lunga serie di crisi che ci ha colpito di non bassa entità, nel 2008-2009, nel 2013, nel 2020, nel 2021. Un Paese che ce la sta mettendo tutta ad affrontare le difficoltà, che ha la necessità di sconfiggere le alte disuguaglianze di genere, generazionali, territoriali e di ritrovare la forza in se stesso. Un Paese che dà segnali positivi ma che ha bisogno di una visione strategica di sviluppo equo e sostenibile, di un timone dritto, di grande capacità di perseguire e concretizzare gli obiettivi da parte di chi lo governa. Anche ma non solo del Pnrr. *Direttrice Centrale ISTAT. L’intervento è a carattere personale Migranti. Così cambia il decreto Cutro. Ma il giro di vite rimane di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 aprile 2023 La protezione speciale limitata a pochi casi, stretta anche sulle malattie. Il giro di vite, seppur con la correzione in extremis che ha rimesso la norma nella cornice di rispetto dei trattati internazionali, c’è stato. Il cosiddetto decreto Cutro infatti, nella versione approvata ieri dal Senato e destinata ora al vaglio della Camera, pur mantenendo i permessi di soggiorno per protezione speciale, li limita a poche fattispecie, eliminando inoltre la possibilità di convertirli in permessi di soggiorno per ragioni lavorative, (finora concessa nei casi in cui il beneficiario straniero riusciva a trovare un impiego). Ma vediamo nel dettaglio cosa cambierà, se il decreto verrà convertito in legge prima del 10 maggio. Via la clausola Lamorgese. Il decreto legge approvato dal Cdm a Cutro il 9 marzo ha modificato l’articolo 19 della legge quadro sull’immigrazione, eliminando il divieto di espulsione o allontanamento “di una persona verso uno Stato, qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, a meno che non sia messa a rischio la “sicurezza nazionale, l’ordine e sicurezza pubblica o la protezione della salute”. Finora, per valutare quel rischio, secondo quanto disciplinato dal decreto Lamorgese (che aveva recepito la più recente giurisprudenza italiana e della Cedu), si doveva tenere conto di vari elementi (“La natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”), ma il nuovo dl abroga quei parametri. Il rispetto dei trattati. Invece, la correzione di mercoledì sera ha ripristinato l’obbligo - nei respingimenti e nelle espulsioni - di rispettare i trattati internazionali. Meno tutele sanitarie. Un’altra restrizione, sempre nell’articolo 19, riguarda il divieto di espulsione di persone in “gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie”. Abrogando la formula “gravi condizioni psicofisiche”, sono rimaste solo le patologie di particolare gravità, ma solo se “non adeguatamente curabili nel Paese di origine”. No a permesso di lavoro. Si elimina la possibilità di trasformazione il permesso speciale in uno per lavoro. Calamità “eccezionale”. Resta il permesso in caso di “calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza” nel proprio Paese, ma l’evento (che prima era definito “grave”) ora dovrà essere “contingente ed eccezionale”. Il permesso di 6 mesi potrà essere rinnovato una sola volta. Norma transitoria. Cosa accadrà alle migliaia di migranti che hanno presentato domanda prima del varo del decreto? Una norma transitoria consente l’applicazione della “disciplina previgente” a quelle istanze. Migranti. Aumenta il trattenimento nei Cpr: “Più costi e maggiore sofferenza” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 aprile 2023 Più detenzione amministrativa non significa più rimpatri: la metà delle persone detenute non può essere espulsa perché non c’è accordo con i paesi terzi. Più Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e tempi più lunghi di detenzione amministrativa. Sono due delle norme votate ieri dal Senato durante la conversione in legge del decreto Cutro. L’aumento di queste strutture, “una per regione” come previsto già dal decreto Minniti-Orlando del 2017, era contenuto nell’articolo 10 del testo originario che consente al governo di derogare a una serie di norme per le nuove costruzioni. Il prolungamento dei tempi di trattenimento, invece, è stato inserito ieri con un emendamento che aggiunge altri 45 giorni al tetto attuale (inizialmente ne erano stati ipotizzati 90). L’obiettivo dichiarato dal governo è aumentare i rimpatri, ma che le nuove misure possano aiutare a raggiungerlo resta da vedere. “Si tratta di provvedimenti slogan: chiunque, compresa la polizia, sa che se non riesci a identificare una persona in 90 giorni non succederà dopo”, afferma l’avvocato Guido Savio, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Al momento la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri può durare fino a tre mesi, prorogabili di un altro in casi specifici: 15 giorni in più per chi arriva direttamente dal carcere e altri 15 se la persona viene da un paese con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio. Intuitivamente si potrebbe pensare che a un numero maggiore di Cpr corrisponderanno più rimpatri. Ma è un’illusione ottica. Almeno per il momento. Le dieci strutture oggi in funzione hanno una capienza di quasi 1.400 posti. Il dato più aggiornato, alla scorsa settimana, dice che erano trattenute 619 persone. Viene dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, le cui rilevazioni statistiche sugli ultimi dieci anni dicono che solo il 50% delle persone passate dai Cpr sono state rimpatriate. “Per l’altra metà il trattenimento è stato improprio e indebito”, afferma il garante Mauro Palma. Durante i suoi sette anni di mandato, nei Cpr sono finiti 33.252 migranti e ne sono stati espulsi 15.938. Il nodo, ovviamente, non sono le percentuali, ma i numeri assoluti. Questi però non dipendono dalle presenze nei centri di detenzione, dipendono dagli accordi di rimpatrio con i paesi terzi. Questo governo, come molti altri del resto, ha l’obiettivo di aumentarli e ampliarli. Fino a quel momento, però, cresceranno le persone detenute e il tempo trascorso dietro le sbarre. Per ora gli accordi che “funzionano” sono con Tunisia, Albania, Marocco, Egitto, Nigeria e Georgia. Lo scorso anno sono state rimpatriate 3.916 persone: 2.308 a Tunisi, 518 a Tirana, 329 al Cairo e 187 a Rabat. “Se non cambieranno gli accordi si abbasserà solo la percentuale dei rimpatriati rispetto ai trattenuti. Un paradosso, che ha un costo in termini economici e di sofferenza - continua Palma - Le nuove misure rischiano di giocare soltanto una funzione simbolica, di consenso elettorale. Ma in questo simbolico entra la vita delle persone”. Anche perché i Cpr sono un unicum nel panorama detentivo italiano. Sono a gestione privata, assegnata in funzione di gare al ribasso che comportano un peggioramento delle condizioni detentive. Gli studi degli ultimi anni hanno rilevato abuso di psicofarmaci, assistenza sanitaria carente, diffuso autolesionismo e diversi morti. Un fallimento, insomma, sia rispetto all’obiettivo dei rimpatri, che riguardano poche migliaia di persone, sia rispetto a quello della garanzia della dignità e dei diritti fondamentali di chi è trattenuto senza aver commesso alcun reato. Migranti. La giudice Silvia Albano: “Non si può eliminare la tutela dei diritti fondamentali” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 aprile 2023 “La protezione speciale ha un fondamento costituzionale e perciò non è abrogabile”, dice Silvia Albano, giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione. Albano è componente del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e dell’esecutivo nazionale di Magistratura democratica. Il Senato ha votato la stretta sulla protezione speciale. Cosa cambia? L’articolo 7 della legge elimina la parte della protezione speciale che tutela la vita privata e familiare. Questo però è un diritto fondamentale previsto anche dalla Cedu e dalla Carta dei diritti fondamentali Ue, quindi non si può cancellare. Poi restringe le altre due ipotesi specifiche dell’art. 19 del Testo unico immigrazione: i permessi per cure mediche e calamità naturali. Inoltre l’emendamento approvato stabilisce che il permesso per protezione speciale non sarà convertibile in quello per lavoro. La ratio di questa disposizione è incomprensibile. In genere chi ottiene la protezione speciale è integrato nel tessuto sociale e lavorativo. Se ha i requisiti per la conversione significa che ha un impiego. Perché gli si dovrebbe negare? Ha citato le convenzioni internazionali. Inizialmente il governo voleva cancellare il riferimento agli obblighi che derivano da quelle e dalla Costituzione... Credo fossero consapevoli che probabilmente la legge non sarebbe stata promulgata. Già con il decreto Salvini il Presidente della Repubblica scrisse una lettera in cui affermava che gli obblighi costituzionali e internazionali dello stato italiano restavano comunque fermi. La parte abrogata con il “decreto Cutro” era una specificazione di uno di questi obblighi (art. 8 Cedu), che sono molto ampi. Quindi la protezione speciale potrà comunque essere concessa a tutela di tutti i diritti fondamentali degli stranieri. Secondo il governo bastano asilo politico e protezione sussidiaria... Non è così. Su questo c’è un’elaborazione giurisprudenziale della Cassazione e della Consulta secondo cui la protezione speciale, che prima si chiamava umanitaria, è il completamento del diritto d’asilo previsto dall’art. 10 comma 3 della Costituzione. Quell’articolo ha una formulazione ampia che non può essere ridotta a status di rifugiato o protezione sussidiaria. Secondo tale norma, hanno diritto d’asilo in Italia gli stranieri ai quali sia impedito nel paese d’origine l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Secondo la dottrina costituzionalistica e la Consulta, l’ampio concetto di libertà democratiche comprende i diritti fondamentali previsti dalla Carta. La protezione speciale ha un fondamento costituzionale, è espressione del diritto fondamentale di asilo che certo non è abrogabile con legge ordinaria. L’altro provvedimento governativo sul tema immigrazione si è concentrato sulle navi Ong. Finora ha prodotto due fermi. Secondo lei ha dei profili di illegittimità? Il cosiddetto “decreto Piantedosi”, poi convertito in legge, normativizza una sorta di codice di condotta per le Ong che potrebbe andare in rotta di collisione con le convenzioni internazionali sull’obbligo di soccorso. Perché questo è assoluto, come assoluto è il diritto alla vita. Significa che non può essere limitato, nemmeno da un codice di condotta. Le prescrizioni che contiene rischiano di costituire in realtà ostacoli alle attività di salvataggio delle Ong. Poi prevede obblighi inesigibili, come assicurare a bordo la possibilità di chiedere asilo. Mentre il dovere di raggiungere il porto assegnato senza ritardi vuole dichiaratamente evitare che la Ong che trovi sulla sua rotta una barca in pericolo possa intervenire, in violazione della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare. In acque territoriali violerebbe anche le norme penali del codice della navigazione. La legge è formulata in modo da prestarsi a diverse interpretazioni sui mezzi di ricorso. Il governo è riuscito a escludere la magistratura togata? Con la nuova legge si torna al regime sanzionatorio di tipo amministrativo dei decreti Salvini (con sanzioni pecuniarie enormi). Così si ritarda l’intervento del giudice, mentre la sanzione viene adottata subito. Dal prefetto o dall’autorità portuale. In questo modo, se alla presentazione del ricorso il giudice nega la sospensiva, la misura rimane comunque in vigore e nel caso del fermo non si può usare la nave. Inoltre il giudizio pendente può avere un impatto anche sull’eventuale valutazione della recidiva da parte dell’autorità amministrativa. In pratica potrebbero essere disposte sanzioni più pesanti, fino alla confisca della nave, senza che ci sia ancora stato il pronunciamento del giudice sul primo ricorso. Intanto il Viminale ha adottato la prassi di assegnare porti lontanissimi. È legittimo costringere le navi delle Ong, e solo loro, a percorrere centinaia di chilometri per far sbarcare i naufraghi? No, perché la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas) prevede l’assegnazione del porto che può essere raggiunto con la minima deviazione della rotta per la nave che ha prestato soccorso, con il minor aggravio anche per le persone salvate. Questo significa che deve essere il porto sicuro più vicino. Le persone vanno sbarcate e assistite lì, poi possono essere trasferite nei centri di accoglienza sul territorio nazionale con i mezzi che lo Stato deve mettere a disposizione. Omofobia: povera nazione! L’Europa ci ha messo tra i paesi canaglia di Aldo Torchiaro Il Riformista, 21 aprile 2023 L’Europa accende i riflettori sui diritti calpestati dal governo? E loro tirano dritti: al Senato il Dl Cutro (che Elly Schlein ha ribattezzato “Decreto Ungheria”) passa tra frizzi e lazzi del centrodestra. Matteo Salvini festeggia: “Recupera lo spirito e l’efficacia di quanto avevo fatto da Ministro dell’Interno, rimediando a gravi storture introdotte dalla sinistra”. Brinda il capogruppo della Lega a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo: “Finisce il business dell’immigrazione clandestina”. Il Pd protesta: “Adesso migliaia di persone che vivono legalmente e spesso lavorano in Italia verranno condannate alla clandestinità. Altro che integrazione”, dice il senatore del Pd Franco Mirabelli. L’approvazione del controverso - e criminogeno - decreto Cutro arriva mentre l’Italia finisce per due volte di fila sotto i riflettori dell’Europa. Per il Parlamento europeo, la situazione in Italia della comunità Lgbt è preoccupante, tanto da venire affiancata a quella dell’Uganda. Così dice la risoluzione con cui Strasburgo ha condannato la nuova legge approvata dall’Uganda che prevede pesanti pene per gli omosessuali: nel testo è stato inserito un emendamento proposto dai Verdi in cui si condanna l’uso della “retorica” contro la comunità Lgbt in Ungheria, Polonia e, per l’appunto, Italia. Il Parlamento Europeo ha votato la condanna “Alla diffusione di retorica omofoba da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia”. Nelle stesse ore, una sentenza della Corte di Giustizia del Lussemburgo se la prende con la mancata applicazione della direttiva Bolkenstein sulle assegnazioni delle spiagge ai balneari: “Le concessioni sulle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente”, ha stabilito la Corte di giustizia Ue. “Si deve avere contezza di quante siano le concessioni assegnate e di quante aree libere siano ancora disponibili. Sostanzialmente si tratta del Principio della mappatura che deve stabilire a livello nazionale la scarsità della risorsa”, fa eco Assobalneari, soddisfatta della stoccata europea. “I giudici nazionali e le autorità amministrative italiane - ha sottolineato la Corte - sono tenuti ad applicare le norme pertinenti del diritto europeo, disapplicando le disposizioni nazionali non conformi”. Nelle ultime settimane a dare fuoco alle polveri del lungo confronto tra Roma e Bruxelles è stato il decreto Milleproroghe, con il via libera all’ulteriore dilazione di un anno, fino al 31 dicembre 2024, delle concessioni. All’Europa guarda con preoccupazione anche il ministro Raffaele Fitto che ha iniziato ad ammettere le difficoltà sul Pnrr, in un sistema che “rende impossibile la messa in cantiere delle opere previste nel periodo da qui al 2026”. Ieri alle 14 il ministro ha presieduto una riunione dedicata, insieme agli esponenti del governo dei ministeri interessati e al sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, incontreranno i rappresentanti di categoria, imprese e sindacati. Sull’allarme per il mancato aggancio con le scadenze Pnrr sono mobilitate le opposizioni - il Pd fa sentire il richiamo di Antonio Misiani, responsabile economico - e anche di qualche riserva nobile della Repubblica. Se l’ex senatore dem Luigi Zanda propone una cabina di regia per le grandi opere, anche per uscire dall’eterna gestione dell’emergenza, l’ex senatore azzurro Eugenio Filograna punta sulle risorse umane: “È ora di creare un hub per Autonomi e Partite Iva”, twitta. Il suo Centro Studi Autonomi e Partite Iva si mette a disposizione. Perché anche su questo tema - la selezione di professionisti per la P.A. - l’Europa bacchetta l’Italia. “Procedure lente, poca trasparenza e contratti a tempo determinato non adeguati, da stabilizzare”, rimprovera ancora la Commissione. Insomma: Bruxelles, abbiamo un problema. Che si riverbera a Roma. Dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio arriva una doccia fredda sul Def, le cui coperture risultano inadeguate. Dal Def “nell’insieme sembrerebbero necessarie cospicue risorse di copertura che appaiono difficili da reperire, dopo il periodo di risanamento del recente passato, mantenendo i livelli attuali di prestazione dei servizi e politiche sociali”, come rileva la presidente dell’Upb Lilia Cavallari in audizione presso le commissioni Bilancio di Camera e Senato. Cavallari ha rilevato che sui rinnovi contrattuali è “forte il rischio di aumenti significativi” e che provvedimenti come quello sulle pensioni “potrebbero richiedere risorse aggiuntive, di cui va individuata adeguata copertura finanziaria”. Nuvoloni si addensano sul ministro Giorgetti. E ci si mette anche l’Istat: dove manca la voce degli statisti, arriva quella degli statistici. Sono loro a confermare che la ludi miele degli italiani col centrodestra è finita. Per l’Istat parla Linda Laura Sabbadini, che ieri ha presentato il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile. Un italiano su tre si sente più povero di prima. Effetto della crisi Covid? “I progressi non sono sufficienti. Per esempio sul tasso di occupazione, nel 2022 siamo cresciuti ma siamo sprofondati ultimi in Europa”. Lo svantaggio dell’Italia nel contesto dell’Ue27 si rileva “in alcuni indicatori di Benessere economico aggiornati al 2021, tra cui il rischio di povertà e la grande difficoltà ad arrivare a fine mese, o al 2020, come la disuguaglianza del reddito netto”. Non c’è pace neanche su un tema che potrebbe mettere insieme tutti come quello delle ricorrenze solenni: i giorni di festa si trasformano in campi di battaglia. A partire dal 25 aprile, su cui a Palazzo Madama si sono scontrate due mozioni contrapposte. Entrambe approvate, la prima dell’opposizione, la seconda della maggioranza. A prendere l’iniziativa era stata l’opposizione: Pd, M5S, Az-Iv, Autonomie e AVS. Il documento (passato con voto bipartisan, 133 sì un solo astenuto), ispirato da Liliana Segre, si conclude impegnando il Senato “ad adottare le iniziative necessarie affinché le commemorazioni delle date fondative della nostra storia antifascista si svolgano nel rispetto della verità storica condivisa”. Scontro in aula sulla votazione assai meno condivisa della mozione della maggioranza di destra-centro che estende l’auspicio della “accuratezza storica contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia’, e segnatamente contro il nazismo, il fascismo, il comunismo”. Non una bella pagina, dividersi sulla storia: “Ci presentiamo con due mozioni, e questa è una prima sconfitta. Di fronte a una mozione della minoranza, si sarebbe potuto fare lo sforzo di costruire un testo comune”, può ben dire la presidente del gruppo azione-Italia Viva al Senato, Raffaella Paita. Giorgia Meloni ha preferito occuparsi delle feste da imbandierare di tricolori: ha incontrato a Palazzo Chigi il presidente del Comitato Olimpico Internazionale (Cio), Thomas Bach, per fare il punto sui Giochi Olimpici invernali di Milano Cortina 2026, e successivamente il Comitato Promotore Roma Expo2030 e una delegazione del Bie in occasione della visita ispettiva per la candidatura dell’Expo2030. Dal Cdm è stata esclusa la discussione sui balneari: i lavori si sono concentrati sull’approva zione del Ddl annuale per il mercato e la concorrenza 2022 con il proseguimento dell’esame su Imprese e Made in Italy. Ma c’è stato anche modo di introdurre il tema della riforma dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze, cause di quella “paura della firma” che ingessa gli iter amministrativi, rischiando di vanificare parte del Pnrr. Guarda positivamente ad una riforma che renda governabili gli enti locali il presidente dell’Unione delle camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza: “Bene, sono norme che creano solo danni e determinano un controllo penale della pubblica amministrazione improprio”. “I crimini contro la natura sono il quarto mercato illegale al mondo”: il report del Wwf di Silvia Morosi Corriere della Sera, 21 aprile 2023 Dal Nord al Sud non c’è regione italiana che sia esente dai crimini contro la natura. I crimini contro la natura sono la quarta attività criminale più redditizia al mondo: preceduti “solo” dal traffico di droga, dalla contraffazione e dal contrabbando di armi. Un mercato che genera entrate per 280 miliardi di dollari l’anno e costituisce un settore della criminalità in crescita. I dati sono emersi il 12 aprile in occasione della presentazione del workshop organizzato dal Wwf a Roma per il Progetto LIFE SWiPE. L’Italia è un crocevia fondamentale del traffico di specie protette e, in generale, dei crimini contro la fauna selvatica. Le sanzioni comminate dai Carabinieri ammontavano nel 2018 a oltre 5 milioni e mezzo di euro (oltre 1 milione nel 2020). Tra il 2016 e il 2019 la Regione in cui sono stati denunciati più illeciti è la Lombardia con 5.256 denunce, seguita da Veneto con 2.526 e Toscana con 2.247 denunce (qui il report completo in pdf). Dal nord al sud, non c’è però regione che non sia esente dai crimini di natura: i bracconieri puntano su passeriformi, aquile e falchi, ungulati, anatidi, uccelli limicoli, ghiri, anguille, lupi, orsi. In mare, invece, si fa incetta di ricci di mare, datteri, pesce spada sotto taglia, squali, oloturie, coralli, bianchetti e tartarughe marine. Non si risparmiano nemmeno le specie vegetali protette, come le radici della genziana lutea, ricercata per farne liquori. In Italia tra il 41 e il 46% degli illeciti vengono archiviati prima del dibattimento, e tra il 38-50% vanno in prescrizione. Solo il 27% degli illeciti di natura arriva a condanna. Non esiste una banca dati centralizzata sui crimini di natura. Chi uccide una specie protetta può cancellare dalla fedina penale il proprio crimine con soli 1.000 euro, e le sanzioni per i crimini contro gli animali selvatici sono bassissime. Due terzi degli agenti deputati alla vigilanza su questi crimini sono volontari. E ancora, il personale appartenente alle forze di polizia è troppo ridotto e non equamente ripartito nel territorio nazionale. Per questo l’azione di vigilanza delle Guardie volontarie Wwf è essenziale per supportare lo Stato nel contrasto alle illegalità. Solo nei 5 mesi della stagione venatoria 2021-22 le Guardie Wwf della Campania hanno tratto in salvo 120 animali, trasmesso alle autorità 97 violazioni penali, effettuato 77 sequestri ed elevate 25 violazioni amministrative, per un totale di 172 segnalazioni alle autorità. Un bilancio dei soli archetti (micidiali trappole che spezzano le zampe ai piccoli uccelli) raccolti, sequestrati o distrutti nelle Valli bresciane dai volontari e delle altre associazioni impegnate nei campi antibracconaggio, è di oltre 200.000 pezzi. C’è una diffusa sottovalutazione del fenomeno dei crimini contro la natura, “che vanno derubricati da episodi isolati o locali: bracconaggio e traffico di specie protette sono fenomeni criminali che hanno impatti gravi sulla biodiversità e possono essere veicolo di diffusione di patologie e producono ingenti redditi”, spiega Luciano Di Tizio, presidente Wwf Italia. La richiesta dell’associazione è quindi quella di “istituire banche dati efficienti e interconnesse, di potenziare il controllo sul territorio, indebolito negli ultimi anni con la dismissione delle polizie provinciali, e di sviluppare attività di formazione e sensibilizzazione, sia per il grande pubblico che per le forze di Polizia e magistratura”.