Carcere e telefonate: un crudele ritorno al passato di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2023 Storie di ordinaria disumanità: Ha un figlio in Germania, un altro a Malta, la figlia e la moglie vivono a Padova, la madre in Tunisia, è detenuto nella Casa di reclusione di Padova: finora, “grazie al Covid”, poteva fare una telefonata al giorno di dieci minuti, ora la prospettiva è di tornare a una telefonata di dieci minuti a settimana, quindi quei figli, quella moglie, quella madre lo sentiranno ognuno una volta al mese, spartendosi quei pochi minuti di telefonata concessi. Questa è una storia come tantissime altre, di inutile crudeltà del carcere. C’è qualcosa di assurdo, nella questione delle telefonate delle persone detenute: concederne di più non costa nulla, se le sono sempre pagate; è un dovere delle Istituzioni aiutare a rafforzare gli affetti, e non a disintegrarli come si fa ora; è una delle poche forme concrete e significative di prevenzione dei suicidi, in un momento in cui questa piaga sembra essere diventata inarrestabile; è un elemento fondamentale della rieducazione, che richiede di agevolare “opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. E invece, che succede? Succede che in carceri sovraffollate e palesemente fuorilegge, in carceri che non rispettano la “territorialità della pena”, cioè la obbligatoria vicinanza della persona detenuta al domicilio della sua famiglia, l’unico pensiero è “riportare alla normalità” le telefonate. Succede così che, di punto in bianco, le persone detenute dovranno dire ai loro cari che praticamente non telefoneranno quasi più: e già immagino quelle madri e quelle mogli, che se la prenderanno con i famigliari detenuti, immaginando chissà quali violazioni, e che si arrabbieranno con loro pensando che ancora una volta non hanno saputo tenersi buona quella piccola conquista dei dieci minuti al giorno. E invece no, e invece non sono i detenuti che non hanno meritato la fiducia, sono le Istituzioni che hanno avuto paura di mostrare un volto umano. Ma al peggio non c’è mai limite in carcere: credevamo che la doppia sofferenza del Covid vissuto nelle ristrettezze della galera e il triste record degli 84 suicidi del 2022 costituissero una emergenza vera e preoccupante, e invece no, l’assurdo è che ora nelle carceri si sta tornando “alla normalità”, e la normalità quale sarebbe? Quella della telefonata di dieci minuti a settimana, la miserabile telefonata con cui una persona detenuta dovrebbe soddisfare tutto il bisogno di affetto suo e dei suoi famigliari. Nelle carceri di normalità non ce n’è per niente, c’è sovraffollamento, manca personale, non c’è il lavoro per le persone detenute, che dovrebbe invece essere obbligatorio, c’è miseria e sofferenza, però lasciare la telefonata quotidiana, un provvedimento a costo zero per lo Stato, quello no, quello non si può. Nonostante la legge permetta una ampia discrezionalità ai direttori, nonostante a un direttore che usa la sua discrezionalità per prevenire i suicidi, autorizzando più affetto attraverso le telefonate, nessuno dovrebbe avere il coraggio di contestare di aver abusato del suo potere, nonostante la telefonata quotidiana sia una delle poche cose sensate in un sistema, che di senso ne ha sempre meno, nonostante tutto questo i telefoni nei prossimi giorni taceranno, e per esempio quel detenuto, che aspetta ansiosamente la notizia della nascita del nipote, dal momento che oggi non è nato dovrà aspettare la settimana prossima per sapere come sono andate le cose. E toccherà sempre più spesso al volontariato dare le belle, e soprattutto le brutte, notizie. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Senza le telefonate, ritorna l’inutile crudeltà del carcere Un appello delle persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti Sono passati più di tre anni da uno dei momenti più tragici della vita delle carceri, quando, a causa della pandemia, la chiusura sia alle visite dei parenti, che all’ingresso della “società civile” si era trasformata in una tragedia con rivolte, morti, desolazione. Ma per fermare quelle rivolte, avvenute principalmente per la paura di noi detenuti di essere lasciati soli, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva invitato tutti i Direttori degli istituti di pena a incrementare quanto più possibile i colloqui telefonici con i nostri famigliari. Così in molte carceri da allora abbiamo potuto effettuare più telefonate, fino a una telefonata al giorno di dieci minuti. Inoltre, i colloqui in presenza sono stati sostituiti con la videochiamata, così da permetterci di mantenere i contatti, anche visivi, con le nostre famiglie. Prima della pandemia ci era consentita una telefonata alla settimana - sempre di dieci minuti - e sei ore di colloquio visivo al mese. Sei ore al mese fanno tre giorni all’anno, tre miseri giorni da dedicare alle nostre famiglie. A Padova però le telefonate erano due a settimana, grazie alla disponibilità dei direttori che si sono succeduti alla guida della Casa di Reclusione a usare la loro discrezionalità per autorizzare una telefonata in più a settimana, in considerazione della situazione di particolare difficoltà in cui si trovavano le persone detenute anche prima del Covid: basta pensare al sovraffollamento, alla mancanza di personale, ai suicidi, agli atti di autolesionismo. Ora, pare che la cessata emergenza pandemia stia portando a una “normalizzazione” da parte dell’amministrazione, con il ritorno alla telefonata settimanale per larga parte delle persone detenute. Per tre anni non si sono verificati problemi legati alla sicurezza, anzi, la telefonata giornaliera ha rasserenato gli animi e avvicinato più che mai le famiglie; inoltre non c’è stato nessun aggravio di spesa per l’amministrazione penitenziaria, perché le telefonate sono a carico delle persone detenute, come del resto sono sempre state anche quando erano una sola alla settimana. E quanto al personale, poco e affaticato dalle tensioni e da un clima di sfiducia e ansia, dalle telefonate in più per le persone detenute ha solo da guadagnare un po’ di serenità in un lavoro certamente non facile. Ci chiediamo allora per quale motivo si vuole far ripiombare nella solitudine e nella disperazione noi detenuti e le nostre famiglie, e questo nonostante nelle prigioni italiane solo nell’anno 2022 si siano registrati 84 suicidi, in larga parte dovuti alla solitudine e alla paura dell’abbandono. Di fronte alla drammatica EMERGENZA dei suicidi, di fronte alla sofferenza delle nostre famiglie, che sarebbero costrette a “regredire” ai miserabili dieci minuti di telefonata a settimana, vogliamo sperare che il direttore della Casa di reclusione di Padova, che già prima del Covid concedeva una telefonata in più a settimana, non riduca il numero delle telefonate, e anzi si faccia garante per le persone detenute, e inviti anche i suoi colleghi a farlo, di quella che la Corte Costituzionale, nell’ordinanza N.162/2010, definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Non ci può essere progressività né, quindi, il rispetto della Costituzione se si interrompono le telefonate e si privano le famiglie di questo forte, importante legame con i loro cari. Psicologi in carcere, quell’opportunità così poco sfruttata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2023 Concretizzare le linee di lavoro e collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria e l’Ordine degli Psicologi. Valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nelle carceri, ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche per detenuti e personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti e migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn. Questo il compito del tavolo di lavoro congiunto tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop) che si è insediato alla presenza del Capo de Dap Giovanni Russo e del Presidente Cnop David Lazzari accompagnato da Donatella Fiaschi, Ilaria Garosi, Daniela Pajardi, e Giorgia Zara. L’obiettivo generale è quello di valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nel contesto carcerario, “sia nei ruoli esistenti che in nuovi ruoli” ed in particolare “ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche” per i detenuti ed il personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti ex art. 80, migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn. Il capo dipartimento Dap Giovanni Russo ha evidenziato l’importanza di questo lavoro per le esigenze dell’amministrazione e la volontà di dare concretezza agli obiettivi concordati. “Le premesse sono importanti e chiare e devono segnare una svolta nella presenza e collaborazione tra la professione e mondo delle carceri” ha sottolineato nell’incontro il presidente Lazzari. Resta il fatto che, tuttora, La psicologia nel contesto carcerario è una realtà indispensabile ma ampiamente sottovalutata e sottoutilizzata. Non utilizzare gli strumenti che può offrire, al personale e ai detenuti, presente, di fatto, un’arretratezza culturale e operativa. Ancora è presente il bisogno di un rafforzamento di questa presenza ma anche di assegnargli un ruolo appropriato, in linea con le più avanzate esperienze internazionali. “Bisogna ricordarsi che prevenire è fondamentale anche in carcere, che la riduzione dello stress e la gestione dei conflitti richiedono competenze specifiche”, ha sottolineato il presidente Cnop David Lazzari all’indomani della notizia sui pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nell’ambito penitenziario, tre istituzioni si interfacciano al fine di definire le modalità di esecuzione delle pene e di metterle in atto: il Tribunale di Sorveglianza, le strutture detentive e gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. Queste istituzioni interloquiscono costantemente con i servizi per la salute mentale e i servizi per il trattamento delle dipendenze. Il mandato sociale che fonda i rapporti tra questi enti e servizi è dato dall’art. 27 della Costituzione che sancisce la funzione rieducativa della pena “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Gli psicologi sono presenti, con funzioni differenti, in ciascuna di queste istituzioni/ servizi. Negli istituti penitenziari e negli UEPE lavorano psicologi esperti ex art. 80 O. P. che operano con incarico affidato dall’amministrazione penitenziaria oppure dall’UEPE. In molti istituti penitenziari sono presenti anche psicologi afferenti al SSN (servizi per le dipendenze e per la salute mentale) o del privato sociale. L’intervento psicologico nel sistema penitenziario, sia durante la detenzione nella struttura carceraria, sia durante le misure alternative alla detenzione, richiede elevata professionalità e risponde al principio di individualizzazione del trattamento penitenziario. Gli psicologi, pertanto, all’interno del sistema penitenziario svolgono una serie di attività finalizzate a definire il programma di trattamento penitenziario più consono al singolo condannato. Per fare tutto ciò, è importante il lavoro di equipe con le altre figure professionali. Però emerge un problema. La figura dello psicologo in carcere, non ha il numero di ore né gli strumenti adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i loro colleghi dei servizi sanitari. Problema che ha trovato l’apice nella regione Sicilia. L’ufficio del Garante Nazionale, nel corso del 2021, è stato subissato di richieste mancato intervento rivolto ai detenuti. Tra le maggiori criticità continua a rientrare, in particolare, l’insufficiente disponibilità di psichiatri e di psicologi, essendo molto rilevante anche negli istituti siciliani il numero dei soggetti, sia in custodia cautelare, sia condannati, che soffrono di patologie psichiatricamente rilevanti o comunque di disturbi di personalità nonché di disagi psichici di varia natura. Le aziende sanitarie locali dovrebbero assicurare un costante sostegno psichiatrico e psicologico, con la predisposizione di programmi riabilitativi. Nell’ultima relazione al parlamento, il Garante fa anche l’esempio del carcere di Perugia dove sono impiegati dalla USL psicologi per un monte di 30 ore settimanali, e psichiatri per 15 ore (dato riferito a dicembre 2020), a fronte di oltre 163 soggetti in osservazione/ terapia psichiatrica che, in queste condizioni, non può che essere semplicemente di tipo contenitivo- farmacologica. Addirittura, nell’istituto ternano non è stata garantita per almeno un anno, la presenza in istituto di specialisti, con ulteriori evidenti ripercussioni in termini di continuità terapeutica. Resta il fatto che, come si legge nel rapporto di Antigone del 2019, la media nazionale delle ore di presenza settimanale di psicologi ogni 100 detenuti, è di 13,5. Significa che, virtualmente, lo psicologo dedica al singolo detenuto intorno agli 8 minuti settimanali. Si tratta di numeri che devono far riflettere sull’efficacia dell’intervento terapeutico e riabilitativo in un contesto peculiare come quello penitenziario e su quanto il mancato o insufficiente intervento dei professionisti della salute mentale rischi di scaricare il problema sulle altre figure che vivono e lavorano in carcere, dagli educatori, al personale di sicurezza ai compagni di detenzione. Ma da qualche tempo, si è aperto uno spiraglio almeno per la polizia penitenziaria. Di recente vari provveditorati hanno aperto i bandi di procedura per la selezione di professionisti per Supporto Psicologico rivolto agli agenti. Bandi scaturiti dalla circolare 4 febbraio del 2022 n. 035776 e ss. della Direzione Generale del Personale che ha fornito le linee guida per l’elaborazione dei progetti finalizzati al supporto psicologico. Questo perché, dovrebbero essere stanziate più risorse in tal senso. La decisione della Corte Costituzionale sulle attenuanti vale per tutti, Cospito incluso di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2023 La Corte Costituzionale si è pronunciata ieri sulla questione sollevata dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino, la quale dubitava della legittimità del divieto di far prevalere le circostanze attenuanti sulla recidiva aggravata in relazione ai delitti puniti con l’ergastolo. Tale divieto è contenuto nel quarto comma dell’art. 69 del codice penale, per come modificato dalla legge cosiddetta ex-Cirielli del 2005. Nella decisione di ieri, la Consulta (di fronte alla quale Antigone ha proposto le proprie ragioni con un atto d’intervento) ha affermato - “in continuità con i suoi numerosi e conformi precedenti sulla disposizione censurata”, come si legge nel comunicato stampa - che il divieto in questione è incostituzionale. Come prevede ogni questione di legittimità costituzionale, la pronuncia della Corte origina da una vicenda giudiziaria concreta, in questo caso quella di Alfredo Cospito. Ma la decisione ha tuttavia valenza generale e intende puntare il dito su una norma non coerente con i principi sanciti dalla Costituzione italiana, la cui modifica avrà ricadute sull’intero sistema e sui procedimenti futuri. La Corte ha sostenuto ieri che la pena dell’ergastolo, essendo di per sé fissa e non modulabile, esige che al giudice non venga sottratta libertà decisionale nel poter bilanciare circostanze aggravanti e attenuanti, come fa invece la norma censurata. In altre parole, il giudice deve poter valutare caso per caso, senza essere costretto a comminare la pena dell’ergastolo a prescindere dalla concretezza dei fatti compiuti. Nel caso che ha dato origine alla decisione - che, si badi bene, non ha effetto diretto sul regime di 41-bis contro il quale si è indirizzata la protesta di Cospito attraverso lo sciopero della fame - il reato contestato è quello di cui all’art. 285 c.p., cosiddetto di strage politica, il quale si differenzia dalla strage comune non per l’elemento materiale del delitto bensì, come ha spiegato la Cassazione nel lontano 1985, solo per l’intento “di recare offesa alla personalità dello Stato”, in una visione tipica dell’epoca fascista in cui il codice è nato, secondo la quale l’individuo è sempre subordinato all’interesse dello Stato. Come è noto, l’attentato presso la Scuola di Fossano del giugno 2006 per il quale Cospito è stato condannato all’ergastolo non fece morti né feriti. La Corte d’Assise d’Appello di Torino, proprio in considerazione dei danni limitati, chiedeva se non si dovesse riconoscere l’attenuante per i fatti di lieve entità, essendone tuttavia impossibilitata dall’art. 69 quarto comma messo ieri in discussione. Naturalmente la decisione di ieri non significa che Cospito automaticamente non avrà più l’ergastolo. È esattamente il contrario: la decisione di ieri va contro gli automatismi. Restituisce libertà di valutazione al magistrato. Afferma che la decisione di comminare una pena perpetua non può che tener conto del singolo evento. La legge ex-Cirielli ha dato vita a un circuito penale parallelo e automaticamente più severo sulla base non della gravità del reato ma dei precedenti della persona, andando così a incidere negativamente sul percorso risocializzante della pena, che deve sempre avere valutazioni individuali. Il diritto penale liberale, democratico, costituzionalmente orientato deve giudicare i fatti commessi dalle persone e non le loro biografie. Per questo non si deve mettere la recidiva al centro del giudizio nella determinazione della pena. La legge ex Cirielli è stata il simbolo del doppio binario della giustizia: prevedeva tempi brevi di prescrizione per i delitti dei colletti bianchi, di solito al primo reato, e automatismi punitivi per i recidivi, di solito legati alla piccola criminalità di strada e alla tossicodipendenza. Fortunatamente la Corte Costituzionale ha negli anni, per ultimo ieri, smantellato pezzo per pezzo le previsioni della legge del 2005. Nonostante ciò, il tema viene riproposto in nuove forme e in nuovi disegni di legge (a volte dallo stesso Edmondo Cirielli), evidenziando così una scarsa attitudine al rispetto delle alte istituzioni del Paese. *Coordinatrice di Antigone Cospito interrompe lo sciopero della fame, ma sul 41bis è polemica di Valentina Stella Il Dubbio, 20 aprile 2023 L’anarchico rompe il digiuno dopo sei mesi: la decisione arriva all’indomani della pronuncia della Consulta, che ha aperto la strada per uno sconto di pena. Dopo quasi 6 mesi di digiuno e all’indomani della decisione della Corte Costituzionale - che ha fatto cadere la norma che avrebbe vincolato la Corte d’assise d’appello di Torino a condannarlo necessariamente all’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano - Alfredo Cospito, l’anarchico esponente della Fai, ha deciso di interrompere lo sciopero della fame contro il 41bis, iniziato il 20 ottobre. Lo ha comunicato lui stesso su un modello prestampato a disposizione dei detenuti e in cui ha scritto: “Dichiaro di interrompere lo sciopero della fame”, avvisando così i vertici del Dap, del carcere di Opera e del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Lo ha confermato una nota del suo avvocato Flavio Rossi Albertini: “Era il 20 ottobre 2022 quando Alfredo Cospito, nel corso della prima udienza alla quale aveva diritto a partecipare dopo il suo trasferimento al 41 bis del 4 maggio 2022, dichiarava di voler iniziare uno sciopero della fame. Le ragioni della protesta risiedevano nella aspra critica propugnata dall’anarchico contro il regime del 41 bis e l’ergastolo ostativo”. Dal 20 ottobre “sono ormai trascorsi 181 giorni nei quali Cospito, attraverso il suo corpo sempre più magro e provato, ha svelato cosa significhi in concreto il regime detentivo speciale: illogiche privazioni imposte ai detenuti, aspre limitazioni prive di una legittima finalità, deprivazione sensoriale, un ambiente orwelliano in cui si è costantemente osservati e ascoltati da telecamere e microfoni”. Grazie alla protesta di Cospito, prosegue il legale, “alle mobilitazioni del variegato mondo dell’attivismo politico extraparlamentare, al movimento anarchico, agli intellettuali schieratisi a sostegno delle ragioni della protesta, al mondo dei media che ha permesso la veicolazione di questi scomodi argomenti nelle case delle persone, milioni di soggetti, tra cui soprattutto le nuove generazioni, hanno compreso l’incompatibilità del 41 bis o.p. con i principi di umanità della pena e quindi con la Costituzione nata dalla lotta antifascista”. Insomma grazie a lui, “il 41 bis è sempre meno tollerato da una opinione pubblica che in questi mesi è stata chiamata ad un ruolo attivo che superasse e bandisse l’indifferenza nei confronti dell’altro”. A questo risultato immediato se ne deve però aggiungere un altro, “ossia la dichiarazione di ricevibilità e conseguente registrazione del ricorso proposto dall’avvocato Antonella Mascia di Strasburgo e dallo scrivente alla Corte europea dei diritti dell’uomo, avente proprio ad oggetto il regime penitenziario differenziato previsto dall’articolo 41-bis o. p.”. Il ricorso verrà valutato nel merito nel termine di due o tre anni e “potrebbe rappresentare il grimaldello giuridico che bandirà lo strumento inumano del 41 bis, così come avvenuto nel caso dell’ergastolo ostativo”. Da ultimo, “l’oggettiva vittoria conseguita con la decisione del 18 aprile della Corte Costituzionale”. Conclusivamente “la lotta intrapresa da Cospito può dirsi abbia raggiunto gli obiettivi prefissati”; quindi “Cospito, trascorsi 180 giorni di digiuno e dopo aver esposto a rischio la propria vita, essere dimagrito 50 chilogrammi e aver ormai irrimediabilmente compromesso la propria funziona deambulatoria dovuta allo scadimento irreversibile del sistema nervoso periferico, il 19 aprile 2023 ha deciso di porre fine allo sciopero della fame”. La polemica sul 41bis - “La sentenza di ieri della Corte Costituzionale - ha detto la senatrice di Avs Ilaria Cucchi - ha dato ragione a quanti come me in questi mesi hanno contestato la rigidità dell’ergastolo ostativo. Grazie all’imparzialità della Corte, che non si è lasciata influenzare da un dibattito tutto ideologico, ieri c’è stata una vittoria dei diritti”. Pronta la replica del sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro Delle Vedove: “Ancora una volta la sinistra sul caso Cospito tenta di intorbidire le acque dopo la sentenza della Consulta. La possibilità del riconoscimento delle attenuanti incide sulla pena finale e non certamente sul regime carcerario del 41 bis. Il regime del 41 bis rimane non solo per volontà politica, ma per conformi sentenze della magistratura italiana che hanno sempre precisato la pericolosità sociale di Cospito”. Per Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, la decisione dei giudici costituzionali “è ineccepibile. Leggeremo le motivazioni, ma lo è già per il fatto che introduca la dimensione dell’attenuante, che può in qualche modo compensare se non prevalere sulle aggravanti. In linea di massima tutto ciò che riguarda la giustizia temperata dalla “dolcezza” della grazia, credo sia il senso più profondo, più vero, più autentico dell’amministrazione della giustizia”. Non delegittimare la magistratura di Gian Carlo Caselli La Stampa, 20 aprile 2023 Esercitare l’azione disciplinare contro i magistrati rientra ovviamente nei poteri del ministro della Giustizia. Ma se lo si fa con rullo di tamburi e alla vigilia di un dibattito parlamentare che si preannuncia delicato anche per l’esecutivo; se poi al proclama del ministro si possono obiettivamente muovere alcune critiche nel merito (come quelle di Paolo Colonnello su questo giornale o del direttore di “Questione giustizia” Nello Rossi, secondo il quale “scelte da valutare con riferimento al momento in cui sono state assunte” vengono di fatto censurate “a piedi giunti” con un “ministeriale senno del poi”), ecco che il quadro si complica e si intorbida. Vero è (come insegna Piero Calamandrei) che un avvocato - ma il discorso vale all’evidenza per ogni giurista - “opera sulla realtà come lo storico, che raccoglie i fatti secondo un criterio di scelta da lui prestabilito, e trascura quelli, che, al lume di tale criterio, gli appaiono irrilevanti”. Ma “tradirebbe il suo ufficio se alterasse la verità col raccontare fatti inventati”. Mentre “non lo tradisce, finché si limita a cogliere e a coordinare della grezza realtà i soli aspetti che giovano alla sua tesi”. Ma indiscutibilmente è altrettanto vero che quando è in gioco l’indipendenza della magistratura occorre essere particolarmente scrupolosi e precisi, per non avventurarsi in una apodittica e unilaterale prospettazione dei fatti che possa anche solo apparire come un sostanziale “invito ai giudici a uniformarsi sempre e comunque ai desideri dell’esecutivo” (Così Rossi). Perché l’indipendenza della magistratura non è un privilegio di casta, ma un valore costituzionale patrimonio dei cittadini. L’unica speranza che essi hanno è che la legge possa riuscire a essere davvero uguale per tutti. E non finisca invece per fare gli occhi dolci a qualcuno e la faccia feroce agli altri a seconda delle direttive o degli orientamenti del potere esecutivo contingente. Il vero garantismo è questo: veicolo di uguaglianza per tutti. Altrimenti non è. “In tempi di libertà - ci ricorda ancora Calamandrei - quando le correnti politiche soffiano in contrasto da tutti i lati, il giudice si trova esposto come l’albero sulla cima del monte: se non ha il fusto ben solido, per ogni vento che tira rischia di incurvarsi da quella parte”. Un dato di fatto che non va mai dimenticato. Men che mai da un ministro della Giustizia, che abbia a cuore la solidità di quel fusto. Flick: “Non si può punire una scelta dei giudici anche se fosse sbagliata” di Liana Milella La Repubblica, 20 aprile 2023 L’ex presidente della Consulta prende posizione sul conflitto che Nordio ha scatenato contro i giudici di Milano: “Questa iniziativa può indurre i magistrati a evitare di concedere gli arresti domiciliari”. Lei è stato Guardasigilli ed è un illustre avvocato nonché ex giudice e presidente della Consulta. Cosa pensa del conflitto che Nordio ha scatenato contro i giudici di Milano? “Cito un illustre ex presidente della Corte costituzionale, mio predecessore, che alla domanda: “Cosa pensa di Nordio?”, ha risposto: “Io non penso”. Lei parla di Gustavo Zagrebelsky. E questo “non pensare” ha una caratura negativa dopo le notizie sull’azione disciplinare di Nordio? “Ha una caratura di perplessità di fronte a un’iniziativa che sembra basata su una grave e inescusabile negligenza dei magistrati della Corte d’Appello nel decidere di sostituire con gli arresti domiciliari e il braccialetto elettronico la custodia in carcere di una persona nel procedimento d’estradizione”. La legge del 2006 sulla responsabilità disciplinare dice però che la contestazione è possibile “solo” davanti a “un errore macroscopico o a una grave e inescusabile negligenza”... “Esatto, la legge dice proprio così. E dice anche che non si può confondere la diversa valutazione di un fatto, giusta o sbagliata che sia, con la grave e inescusabile negligenza perché si tratta di due cose molto diverse”. In che senso? “L’errore, se non è macroscopico, non può configurare un illecito disciplinare neppure sotto il profilo di una grave e inescusabile negligenza. È un errore che, se esiste, va corretto dal pm che impugna la decisione di non mantenere la custodia in carcere”. L’Anm parla di “una grave invasione di campo nella giurisdizione” ed è pronta a “difendere i valori costituzionali”. Lei li vede in pericolo? “Nonostante le perplessità che più volte ho manifestato di fronte a certe loro prese di posizione che sembravano debordare nella sfera solo politica o corporativa, questa volta sono d’accordo e sono solidale con la preoccupazione della magistratura”. Gli avvocati della Camera penale di Milano parlano di “forte elemento di intimidazione” da parte di Nordio... “Condivido la perplessità e il timore degli avvocati anche di fronte al rischio che questo possa diventare uno stimolo per evitare in generale la concessione degli arresti domiciliari”. Sarebbe singolare, perché il ministro “garantista” Nordio ha sempre criticato l’eccessivo ricorso al carcere, tranne in questo caso... “Concordo con la sua perplessità e proprio per questo mi auguro che al più presto possibile vi sia una trasparenza totale e per tutti su questa vicenda”. Una toga come Nello Rossi dice di non aver mai visto un’azione disciplinare “per il solo fatto di non condividere la decisione assunta”... “La legge non lascia spazi di interpretazione che consentano di entrare nel merito della decisione, giusta o sbagliata che sia, a meno che non sia stato commesso un errore macroscopico o una negligenza grave e inescusabile, come aver ignorato o travisato una prova evidente. In altre parole, l’illecito disciplinare non può mai consistere nel punire una valutazione sbagliata o difforme da quella di altri”. Il Guardasigilli per un’estradizione può imporre la detenzione in carcere? “Il ministro ha una presenza molto attiva nella procedura per il suo evidente carattere politico oltre che giuridico, ma non fino al punto di imporre ai giudici la detenzione e le sue modalità una volta che la richiesta sia pervenuta. Mentre in attesa che arrivi può chiedere la misura coercitiva”. Non risulta che Nordio lo abbia fatto. Ma un fatto è certo, dopo la sua azione disciplinare contro Milano, ogni magistrato avrà paura di un intervento simile... “Mi auguro di no, ma ho paura che possa crearsi un clima di interferenza per via di decisioni politiche che possono comportare conseguenze sull’attività giudiziaria. Per essere chiari aggiungo che la trasparenza è urgente anche perché in questo caso coesistevano due istanze di estradizione, una verso gli Usa con l’opposizione di Uss, l’altra verso la Russia con la sua ovvia adesione, pervenuta due giorni prima. In questo contesto la chiarezza è essenziale da subito”. Sta pensando alla sua esperienza da Guardasigilli nel caso Priebke? “Sì, certo, anche se allora le due richieste, una italiana e una tedesca, verso l’Argentina si conclusero con la possibilità di completare il procedimento penale nei confronti di Priebke nel rispetto della legge; mentre ora è finita con la fuga di Uss che ha evitato al governo italiano l’imbarazzo di decidere”. C’è una poltrona che nessuno vuole occupare: quella della Commissione Antimafia di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2023 C’è una poltrona che nessuno pare voglia occupare nelle fila della maggioranza: quella della presidenza della Commissione parlamentare Antimafia. La Commissione non c’è, pur essendo stata istituita per legge orami un mese fa. L’iter di costituzione infatti prevede che i gruppi parlamentari indichino i propri componenti ai Presidenti di Camera e Senato e ad oggi non tutti i gruppi lo hanno fatto. Ma soprattutto sembra che la maggioranza non trovi l’accordo per la presidenza, il nome che era circolato qualche settimana fa, quello della onorevole Carolina Varchi, non circola più ed al suo posto si sente quello della onorevole Chiara Colosimo, che in comune con la Varchi ha l’appartenenza a Fratelli d’Italia. Posso immaginare che più del prestigio che deriverebbe da questo ruolo, pesi la preoccupazione di dover poi dare, o decidere di cercare, risposte ad una serie sempre più complessa di questioni, che precipiterebbero sul tavolo della presidenza della Commissione un attimo dopo la sua elezione. La Commissione infatti, pur non avendo una funzione paragonabile a quella del Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica), rappresenta certamente lo strumento attraverso il quale il Parlamento e quindi il popolo sovrano, testa continuamente lo stato dell’arte nel conflitto mafie-Stato, decidendo volta, volta, cosa approfondire, quali giudizi esprimere, quali politiche proporre, quali segnali dare. E forse, di questi tempi, a qualcuno potrebbe sembrare preferibile, semplicemente, rimandare, rinviare, lasciar andare le cose come vanno, senza metterci né la faccia né le mani. Facciamo qualche esempio. L’ultima relazione semestrale della DIA fotografa lo strapotere della ‘Ndrangheta rispetto alle altre consorterie mafiose, con ripercussioni destabilizzanti su economia legale, Enti locali, coesione sociale. Una forza ancora prevalentemente fondata sulla ricchezza prodotta dal narcotraffico internazionale (complimenti alla Guardia di Finanza per l’operazione di sequestro di tonnellate di cocaina galleggianti in mare aperto!). Che fare? Che fare sul Codice degli appalti, appena entrato in vigore e ribattezzato “Codice Salvini”, che a detta di molti osservatori spalanca le porte agli affari delle mafie, esponendo maggiormente gli amministratori pubblici alle pressioni criminali. Che fare sulle misure di prevenzione amministrativa (come le “interdittive prefettizie” e lo scioglimento dei comuni per infiltrazione mafiosa), o su quelle di prevenzione patrimoniali (sequestri e confische di beni immobili ed aziendali) che in molti vorrebbero liquidare. Che fare sul 41 bis e più generalmente sulla condizione carceraria (i giorni passano e di Raduano, boss della mafia garganica, letteralmente saltato fuori dal carcere di massima sicurezza di Nuoro, non c’è traccia), che finiscono sotto i riflettori ad intermittenza mentre meriterebbero una attenzione sistematica. Che fare sugli strumenti investigativi (le intercettazioni) e sul diritto/dovere di informare l’opinione pubblica, che rischiano di subire nuovi giri di vite, pericolosi. Un altro esempio? Il caso Giletti (perché è un “caso”): già la Commissione avrebbe dovuto occuparsi della cattura di Matteo Messina Denaro, cogliendo almeno l’occasione per riavvolgere il nastro su trent’anni di latitanza (incrociando fatalmente le traiettorie di personaggi illustri come il potente senatore Antonino D’Alì - di cui si torna incidentalmente a parlare, dopo la sua condanna definitiva per concorso esterno, perché il suo storico e fidato capo di Gabinetto ai tempi del Viminale, il prefetto Valenti, è appena stato nominato dal Governo super Commissario per la “emergenza” sbarchi -, il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, o di personaggi che per ragioni di servizio hanno pagato un prezzo alto, come Rino Germanà, Giuseppe Linares, il prefetto Fulvio Sodano) ma la improvvisa sospensione della trasmissione di Giletti da parte dell’editore Urbano Cairo, ha reso tutto ancora più incombente ed ingombrante. Almeno bisognerà liberare il campo dal sospetto che la sospensione del programma sia l’effetto di una vera e propria intimidazione estorsiva. Ed infine, ultimo esempio, ci sono i “segnali” che vanno dati, perché la forza delle mafie sta anche nella inesauribile capacità simbolica, a cui lo Stato deve saper opporre una altrettanto curata proiezione di segnali alternativi, segnali di vicinanza. Come quello di cui avrebbe bisogno il Liceo scientifico di Partinico che ha deciso di cambiare il proprio nome, adottando quello di “Peppino Impastato” e che dovrà vedersela con il Comune che potrebbe mettersi di traverso. Come quello di cui avrebbero bisogno i famigliari di Giulio Giaccio, assassinato a 26 anni a Pianura, il suo corpo sciolto nell’acido, per uno scambio di persona, che hanno rifiutato il risarcimento proposto dai due presunti colpevoli, killer di camorra. Ma per dare questo tipo di “segnale” non bastano intelligenza politica e effervescenza social, serve credibilità. *Attivista antimafia ed ex deputato Pd Reggio Emilia. “Picchiato in carcere”, trasferito il detenuto di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 20 aprile 2023 Al vaglio degli inquirenti le telecamere che avrebbero ripreso tutto. Richiesta del difensore del magrebino: “Indagate per tortura”. La difesa degli agenti. Tortura: è il reato che, nero su bianco, un detenuto segnala di aver subìto da parte di un gruppo di agenti della polizia penitenziaria. A suo dire, pochi giorni prima di Pasqua, una ventina di loro lo avrebbe pestato nel carcere di Reggio Emilia. La denuncia del presunto episodio di violenza, raccontato in anteprima dal Carlino, è arrivata sul tavolo della Procura ed è stata segnalata anche al Garante regionale dei detenuti. Il racconto del carcerato contrasta con quello degli agenti, che, secondo quanto si apprende, lo hanno a loro volta denunciato per i comportamenti aggressivi che avrebbe tenuto verso i pubblici ufficiali. Intanto emergono nuovi dettagli: in seguito al fatto, il detenuto non si trova più a Reggio, ma è stato trasferito in un’altra struttura penitenziaria. L’uomo, un magrebino quarantenne, si trova dietro le sbarre per una vicenda di spaccio. Da quanto trapela, la presunta aggressione da lui subita sarebbe stata preceduta da alcune sue richieste avanzate al comandante, occasione in cui avrebbe iniziato a dare in escandescenze, dando calci e sputi. Poi, mentre lui e i poliziotti si stavano spostando nel carcere reggiano, sarebbe avvenuta la violenza. Dapprima gli agenti, a suo dire una ventina, lo avrebbero fatto stendere sul pavimento, con la faccia rivolta verso terra. Poi gli avrebbero coperto il volto con un oggetto avvolgente, forse di tessuto. Infine lo avrebbero picchiato, dandogli pugni da sopra. L’episodio si sarebbe prolungato per alcuni minuti, poi l’uomo è stato accompagnato in cella di isolamento. Nei giorni successivi il 40enne è stato portato all’ospedale Santa Maria Nuova: non ha riportato ferite gravi. Da quanto si apprende, la presunta aggressione sarebbe stata immortalata dalle telecamere interne, i cui filmati passeranno al vaglio degli inquirenti. Il reato di tortura è stato indicato nella denuncia sporta dal detenuto in riferimento all’uso della forza, a suo parere eccessivo, dispiegato dagli agenti, specie quando lui sarebbe stato messo in posizione prona, verso il suolo, da più poliziotti. Sarà la Procura a valutare, in fase di indagini preliminari, quanto accaduto: in particolare se siano configurabili reati a carico dei poliziotti perché hanno oltrepassato il limite, o se invece abbiano agito in modo proporzionato a riportare alla calma un detenuto esagitato. Di certo, il caso riporta l’attenzione su un argomento d’attualità, cioè l’abrogazione del reato di tortura. Questa fattispecie, introdotta in Italia nel 2017, punisce chi, con condotte violente, causa acute sofferenze fisiche o un trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, o in minorata difesa: il fatto dev’essere commesso con più condotte o comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità. Proprio nei giorni scorsi Fratelli d’Italia ha depositato una proposta di legge alla Camera per eliminare questo reato, per tutelare il lavoro delle forze dell’ordine, scatenando però la contrarietà delle opposizioni. Spicca il pollice verso della senatrice di Sinistra Italiana Ilaria Cucchi, che proprio domani è attesa a Reggio Emilia per la tavola rotonda ‘Mai abbassare la guardia’, a cui parteciperà anche il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri. Treviso. “A dicembre il carcere minorile sarà trasferito a Rovigo” di Denis Barea Corriere del Veneto, 20 aprile 2023 Era stato chiuso dopo alcune rivolte scatenate da detenuti minorenni nell’aprile del 2022 ed era diventato in gran parte inservibile a causa di un incendio appiccato dai più facinorosi. La riapertura però, sosteneva il ministero, era prevista per fine febbraio. Ma per rendere agibili le dieci celle (su quindici a disposizione) dell’istituto penitenziario minorile bisognerà pazientare ancora un mese. Poi il suo futuro sarà completamente riscritto: la struttura trevigiana diventerà infatti un centro di prima accoglienza per detenuti e tutti i detenuti del vecchio edificio ospitato all’interno del S. Bona saranno trasferiti, entro la fine dell’anno, nel carcere di Rovigo. Le criticità relative ai lavori di ristrutturazione del penitenziario non sono sfuggite al senatore del Partito Democratico (e segretario regionale) Andrea Martella, che nei giorni scorsi ha depositato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Permangono forti dubbi sull’adeguatezza di una struttura contigua al carcere per adulti e per la cui gestione continua a mancare gran parte del personale - ha scritto Martella al Guardasigilli dopo le visite fatte a Treviso il 30 gennaio e il 14 aprile scorsi - i responsabili dell’amministrazione penitenziaria, gli agenti della polizia penitenziaria e gli operatori hanno riferito che gli interventi di ripristino lasciano sostanzialmente immutati i rischi di incolumità dei detenuti, del personale in servizio e di tutti coloro che accedono all’Istituto”. Sul banco degli accusati era finita soprattutto la convivenza di un unico reparto di detenuti minorenni e detenuti adulti, la mancanza di un locale per eventuali isolamenti sanitari, l’esistenza di un unico sbarramento che separa la sezione dal resto dell’istituto e dalle porte di uscita. “È evidente - ha sottolineato il segretario dei Dem veneti - come le attuali condizioni dell’istituto difficilmente rispondano alle finalità rieducative dei detenuti e anzi rischiano di aggravarne le condizioni di fragilità. Tanto più che da circa un anno manca un direttore in pianta stabile e dal 1 marzo 2023 questa figura è divenuta del tutto assente. Dei sette educatori previsti dalla pianta organica ne sono poi presenti solo 2 e nel complesso su 15 unità di personale civile risultano esserne in servizio solo 5. A quanto detto si aggiunga che mancano anche 11 unità di polizia penitenziaria”. A gettare acqua sul fuoco ci pensa Donato Capece, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. “I ritardi - spiega - sono dovuti a interventi minimali che saranno portati a termine entro qualche settimana. I detenuti di Treviso sono stati trasferiti in altre sedi, anche fuori regione, ma entro un mese circa dieci di loro (per lo più stranieri) rientreranno a S. Bona. Quello che è più importante e che a dicembre il carcere minorile sarà trasferito a Rovigo, in un immobile decisamente più nuovo e in grado di soddisfare meglio le esigenze particolari di una popolazione carceraria molto particolare come è quella dei giovanissimi”. Firenze. Quando a sbagliare è un minore di Giovanni Ballerini La Nazione, 20 aprile 2023 Abbiamo intervistato Antonia Bianco, direttrice del carcere minorile Meucci. Cos’è un carcere minorile? “Le carceri minorili si chiamano Istituti penali per i minorenni e sono luoghi dove, oltre a scontare una pena o attendere il giudizio, i ragazzi vengono guidati in un percorso di recupero”. Che età hanno i ragazzi che entrano in un istituto carcerario? Qual è il percorso che fanno prima di accedervi? “Un ragazzo può essere portato in un istituto penale a partire dai 14 anni; la sua permanenza può protrarsi fino ai 25 nel caso di una pena più lunga. Il minore appena arrestato viene portato nel centro di prima accoglienza e solo successivamente può essere trasferito nell’istituto, se lo decide il giudice”. Qual è il reato più frequente? Quanti detenuti ospitate? “Alcuni ragazzi commettono reati molto gravi come gli omicidi, ma principalmente illegalità come spaccio, furti e violenze. Attualmente a Firenze ci sono 14 ospiti di tante nazionalità diverse”. In base alla sua esperienza, sa dirci se effettivamente la rieducazione cambia la mentalità dei ragazzi? “In buona parte dei casi si registra un cambiamento positivo, ma purtroppo non è sempre così. Tutti dovremmo aiutarli di più quando escono”. Lucca. Commissione politiche sociali in visita al carcere: “Molte le criticità” luccaindiretta.it, 20 aprile 2023 Il consigliere Bianucci elenca i problemi della struttura e chiede in tempi celeri un nuovo bando per il garante dei detenuti. Si è svolto ieri, 19 aprile, il sopralluogo alla casa circondariale in via San Giorgio della Commissione politiche sociali del Comune di Lucca. La struttura, inserita nella cerchia muraria, un tempo ospitava un convento e venne convertito in casa di correzione da Maria Luisa di Borbone, nel 1815. Lo scopo della visita di stamani era quello di osservare il funzionamento della struttura penitenziaria evidenziando le sue criticità. “Era la prima volta che entravo in una struttura penitenziaria e devo dire che è stata un’esperienza importante e molto toccante - dice il commissario di opposizione Daniele Bianucci -. Purtroppo nel sopralluogo abbiamo constatato molte criticità, la prima e la più evidente è la carenza di personale. Nella casa circondariale di San Giorgio dovrebbero lavorare 93 operatori, ma attualmente sono solo 61, una differenza del 30 per cento”. Questo rende il carcere di Lucca, la struttura penitenziaria con un’incidenza di carenza di personale più alta di tutte le altre strutture del centro Italia. “Proprio per questa ragione abbiamo voluto parlare con gli operatori e ringraziarli per il loro lavoro, perché sappiamo bene le difficoltà di chi si trova ad operare in carenza di personale. A loro va tutto il nostro ringraziamento e sostegno”. “Il terzo braccio è inagibile dal 2021 - prosegue Bianucci - di conseguenza anche lo spazio per le celle è limitato e dove dovrebbe stare una sola persona, ci sono 2 o 3 carcerati. Sono stati fatti dei lavori importanti, al campo sportivo e alla palestra, quest’ultima però non viene utilizzata, non si sa per quale motivo. Stessa cosa per i pannelli fotovoltaici che sono stati installati sul tetto della palestra, non sono stati fatti ancora gli allacci, di conseguenza non sono in funzione.” Scaduto anche il mandato alla garante dei detenuti e per adesso non è ancora pronto il bando per la sostituzione. “Purtroppo la situazione è ancora peggio - sottolinea Bianucci -, perché ci è stato detto che la carica al garante non può più essere prorogata, di conseguenza Alessandra Severi non si può recare neanche in carcere. Occorre che l’amministrazione comunale faccia quanto prima un bando perché attualmente non c’è una figura per questo ruolo”. Le molte criticità evidenziate, rendono quindi indispensabile la realizzazione di una nuova struttura penitenziaria più moderna e magari esterna alle mura? “A mio avviso no - dice Bianucci - Nelle parti che sono state ristrutturate si vede la bellezza e l’architettura, mi riferisco in particolare alla palestra e al campo sportivo. Questo non può che significare che se c’è volontà di recupero, c’è anche qualità nei risultati. Ho sentito dire spesso di restituire il convento a San Giorgio alla cittadinanza - precisa -, poi però deve esserci fatto qualcosa, sennò finisce in abbandono come la Manifattura tabacchi. Il centro, con la nuova amministrazione, si è votato al turismo più sfrenato ma la città non è un negozio a cielo aperto e alle nove di sera non si tira giù la serranda per riaprire il giorno dopo”. Palermo. Detenuti e universitari, nasce il primo corso misto per 30 studenti di Marta Occhipinti La Repubblica, 20 aprile 2023 Allievi ordinari e ristretti studieranno su temi trasversali che abbracciano sette dipartimenti dell’Ateneo. Lezioni negli istituti penitenziari Pagliarelli e Ucciardone. Un corso interdisciplinare, da Scienze umanistiche a Giurisprudenza, rivolto per la prima volta in Sicilia, non solo a studenti ordinari ma anche a persone che stanno scontando una condanna penale. L’iniziativa è dell’Università di Palermo, che da due anni lavora per incrementare il numero di iscritti nel polo universitario penitenziario, oggi passato da 5 a 18 studenti. Uno dei gruppi più numerosi di studenti detenuti siciliani. Sono oltre cento gli immatricolati che scontano una pena nei 23 istituti penitenziari dell’Isola: il grosso, 73, è a Catania, Messina ne ha appena sette. Il prossimo 2 maggio, all’istituto penitenziario Ucciardone, una classe composta da 30 studenti, per metà detenuti e per metà ordinari, potrà iniziare il corso interdipartimentale che consentirà loro di ottenere crediti formativi riflettendo sul tema dell’identità. Il corso avrà una durata di dieci incontri, da maggio a giugno, tutti negli spazi del carcere, e proseguirà per una seconda parte al penitenziario Pagliarelli in autunno per un altro mese. L’esame finale degli studenti sarà la descrizione del percorso, scritta in un diario di bordo. Il tema dell’identità sarà trattato dai docenti, secondo i rispettivi ambiti disciplinari: dall’identità in letteratura allo sviluppo dell’identità emotiva nella fase di crescita in psicologia, e ancora in architettura nella conquista di spazi urbani, fino alla dignità come diritto. “È una forma di innovazione di didattica che presuppone un cambio di prospettiva - dice Alessandra Sciurba, delegata della Terza missione dell’Università di Palermo e responsabile del corso assieme a Paola Maggio, delegata del Polo universitario penitenziario di Palermo - vorremmo che questa esperienza segnasse una normalità conquistata per i detenuti, oltre che un’occasione di crescita e di messa in discussione per i nostri studenti ordinari. Significa portare la realtà delle carceri nella società e viceversa”. Il modello sperimentale del corso guarda a esempi come la Statale di Milano, che conta oltre 120 iscritti fra i detenuti e numerosi corsi misti svolti negli istituti penitenziari, con interi comparti universitari spostati all’interno delle carceri per garantire il diritto allo studio. Diversa la situazione in Sicilia, che ancora si scontra con la mancanza di spazi da dedicare alla formazione universitaria che rientra nei trattamenti rieducativi dei ristretti. Inoltre, spesso la scelta di un percorso formativo di laurea si scontra con la durata della pena e il livello scolastico di partenza dei detenuti, per il 60 per cento fermo alla licenza elementare o media, a eccezione delle carceri di alta sicurezza dove il livello di istruzione risulta più alto. “Il progetto del corso misto si inserisce all’interno degli obiettivi di inclusione e pari opportunità portati avanti dall’Ateneo - dice Paola Maggio, delegata al Polo universitario penitenziario di Palermo e coordinatrice del corso - nonché uno dei risultati più prossimi a quanto da anni voluto dal Garante regionale per i diritti dei detenuti. L’acquisizione di competenze trasversali potrà solo essere un arricchimento per gli studenti ristretti, che intendiamo da sempre come persone da reinserire nella società”. Alessandria. “Bread for peace”, il pane dei detenuti per la pace in Ucraina di Roberta Barbi vaticannews.va, 20 aprile 2023 Si tratta del progetto di Pausa Cafè, la cooperativa sociale che da anni gestisce il forno interno alla casa di reclusione San Michele di Alessandria. Il grano importato dal Paese est-europeo, in carcere si trasforma in farina e bontà che vengono venduti anche per finanziare l’autonomia dei piccoli produttori. Quando gli ultimi si occupano degli ultimi, c’è da scommettere che ne uscirà fuori qualcosa di buono. E nel caso del progetto “Bread for peace”, che attraverso la cooperativa Pausa Cafè coinvolge i detenuti fornai del carcere di Alessandria, quel qualcosa oltre a essere buono è anche caldo e fragrante, perché si parla di pane, grissini e farina. “Abbiamo dieci panettieri che impastano pane biologico realizzato con lievito madre, che poi viene consegnato in oltre 60 punti vendita aderenti della rete Novacoop che è partner del progetto”, racconta con soddisfazione a Vatican News Marco Ferrero, presidente di Pausa Cafè. Il grano dall’Ucraina - finora 46 tonnellate - viene importato da un unico fornitore, poi lavorato in Italia dai detenuti panettieri e parte del ricavato è quindi reinvestito in Ucraina. Per ogni confezione di grissini o di farina, ad esempio, 30 centesimi vengono utilizzati per acquistare sementi e attrezzature a sostegno di 72 produttori della zona di Leopoli. In questo modo si garantisce la sicurezza alimentare sia a loro sia alle famiglie sfollate nell’area, provenienti da Lugansk e dalle altre zone di guerra. “A noi piace chiamarla solidarietà circolare - dice Ferrero - perché poi proprio quei produttori locali diventeranno fornitori di alimenti freschi e di qualità per chi ne ha bisogno”. Non è la prima volta che il forno del San Michele, gestito da Pausa Cafè, si impegna per il prossimo: “Il sostegno a chi sta peggio di noi, l’aiuto, sono concetti fondamentali anche quando si è in carcere - continua il presidente - dobbiamo ricordare, infatti, che i reclusi sono persone private della libertà, ma solo di quella, non della loro umanità o dell’empatia, perciò possono e devono essere considerati non solo oggetti, ma anche possibili soggetti di solidarietà”. Il progetto è ora entrato nella cosiddetta fase di auto-aiuto e, nel corso dell’ultima missione di Pausa Cafè in Ucraina, è stato presentato al governatore Maksym Kozytskyy; nella stessa circostanza, in occasione della prima distribuzione di beni, è stato anche offerto un pranzo conviviale agli sfollati di Lugansk presenti nel centro di raccolta di Leopoli. Aiuto ai profughi - Dall’inizio del progetto, con missioni prima in Polonia e poi nella stessa Ucraina, “Bread for peace” ha contribuito a far uscire dal Paese martoriato dalla guerra oltre 150 persone che oggi sono ospitate in Italia. “Adesso il nostro desiderio è diffondere quanto più possibile il progetto - conclude Ferrero - sarebbe bello, ad esempio, che tutto il pane presente nelle scuole o negli uffici pubblici del Piemonte fosse pane solidale come il nostro… no?”. Ferrara. Iniziative “green” per il reinserimento sociale dei detenuti estense.com, 20 aprile 2023 Si amplia il progetto di Comune, associazioni e casa circondariale. Via libera alla convenzione. Si amplia l’intesa per sviluppare iniziative “green” funzionali al reinserimento sociale dei detenuti della casa circondariale di via Arginone attraverso la cura dell’ambiente e del verde urbano. La giunta - su proposta dell’assessore Alessandro Balboni - ha infatti approvato una nuova convenzione (biennale, rinnovabile) con le associazioni di volontariato, la direzione del carcere di Ferrara, Zerbini Garden e altri partner per estendere le aree interessate dal progetto e introdurre nuove attività. L’intesa amplia gli accordi già in essere e attivi da luglio 2022. I detenuti saranno chiamati ad eseguire piccole manutenzioni, pulizia di aree verdi comunali e, soprattutto, nuove piantumazioni. Per questo il progetto è stato chiamato “Manutenzione e piantagione solidale”. Sono, al massimo, dieci le persone coinvolte, individuate dalla direzione della casa circondariale. Si occuperanno, dopo la messa a dimora delle piante, anche della loro cura e irrigazione, oltre a realizzare: piccole potature, la manutenzione di piccole aiuole e la periodica raccolta dei rifiuti abbandonati in aree appositamente individuate. “Un progetto attivo di reinserimento sociale - spiega l’assessore Balboni - che, alla luce dei buoni risultati prodotti in mesi di attività, oggi allarga le sue potenzialità d’azione, garantisce nuove opportunità agli stessi detenuti, e potenzia anche la sua valenza pubblica, sempre avvalendosi del prezioso e fondamentale supporto delle associazioni, che ringrazio”. Le giornate dedicate al progetto passano inoltre da una a tre, ogni settimana. I detenuti individuati dalla casa circondariale lavoreranno dalle 8,30 alle 12,15, quindi la pausa pranzo dalle 12,30 fino alle ore 13.30 - alla mensa di viale K - e il rientro in carcere alle 14,15. Le associazioni saranno presenti con propri volontari, forniranno supporto e compileranno un diario quotidiano utile alla rendicontazione delle attività svolte. In particolare, Il Germoglio metterà a disposizione biciclette per gli spostamenti, mentre la Rete Lilliput offrirà la dotazione di indumenti e scarpe antinfortunistiche. I guanti saranno invece donati da Zerbini Garden. Nel complesso sono una ventina i luoghi al centro della convenzione, a partire da aree come quella di via XVII Novembre, interessata dalla messa a dimora degli alberi. Il Comune assicura chi realizza lavori di pubblica utilità, con premio istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Tra i firmatari della convenzione, soggetti attivi e partecipi del progetto, ci sono anche: Fare Verde, Plastic Free Ferrara, la comunità di pratiche Green Team, la cooperativa sociale il Germoglio Onlus, associazione K, Difesa Ambientale estense, Ferrara Progea Aps, Per la voce degli alberi. Avellino. Giustizia riparativa, nel carcere di Bellizzi Irpino il confronto con i detenuti giornalelirpinia.it, 20 aprile 2023 Confronto questa mattina presso la casa circondariale di Bellizzi Irpino sulla giustizia riparativa. Al confronto hanno partecipato il magistrato di sorveglianza di Avellino, Francesca De Marinis, Girolamo Daraio, docente di Diritto penitenziario nell’Università di Salerno, Giovanna Perna, avvocato penalista. Presente anche un gruppo di detenuti. Gli ospiti del carcere hanno posto una serie di domande per informarsi sui percorsi di giustizia riparativa. “L’incontro - dice l’avvocato Giovanna Perna - ha rappresentato essere una preziosa occasione di discussione e confronto su un tema, la “giustizia riparativa”, coltivato intensamente, negli ultimi decenni, dagli studiosi del sistema penale, oltre che da sociologi e criminologi, ma che non è mai riuscito a catturare, in egual misura, l’attenzione della comunità sociale; probabilmente, per una insufficiente informazione, gli strumenti e le potenzialità operative di tale innovativo modello di giustizia penale, proteso - diversamente dal sistema di giustizia penale tradizionale - a ricucire rapporti e risanare ferite, piuttosto che ad accertare responsabilità individuali. Del resto, fino alla recente riforma Cartabia, è mancata nel nostro Paese una regolamentazione normativa di tale strumento, avente carattere, per così dire, “relazionale” e “dialogico”, in quanto basato sullo scambio comunicativo tra il reo, la vittima (anche surrogata) e/o la comunità sociale; sicché, il paradigma riparativo, se si eccettua una sua apprezzabile affermazione nell’ambito della giustizia minorile, è riuscito a ritagliarsi solo spazi periferici ed elitari, ricavati, peraltro, da previsioni normative formulate in maniera piuttosto generica e non prive di ambiguità. Con il d.lgs. n. 150/2022 è stata finalmente introdotta una disciplina organica in materia, ciò che dovrebbe determinare un sensibile ampliamento delle occasioni di ricorso alla giustizia riparativa quale strumento “concorrente” e “complementare” di gestione del conflitto generato dal reato. In questo nuovo scenario, favorevole all’innesto di percorsi di giustizia riparativa sia all’interno della fase della cognizione penale sia in executivis, si troverà ad operare il Centro di giustizia riparativa - mediazione e di aiuto alle vittime di reato, denominato “Il lampione della cantonata” istituito presso la ex caserma Litto al Corso Vittorio Emanuele di Avellino, che svolgerà azioni di mediazione reo-vittima sia in costanza dell’accertamento penale sia post iudicatum, nel corso dell’esecuzione penale, ed in particolare entro il perimetro delle misure alternative al carcere; azioni che, spesso, per essere massimamente efficaci, esigeranno l’assunzione, da parte della comunità locale, di una “corresponsabilità” nella gestione delle conseguenze del reato, nella ricerca cioè di possibili soluzioni agli effetti “distruttivi” generati dal comportamento illecito. Ciò che presuppone la maturazione di una diversa cultura delle pene, con il superamento dell’obsoleta ed insostenibile visione del carcere come unico modello di risposta sanzionatoria al reato, ed una presa d’atto dell’importanza della giustizia riparativa ai fini del superamento della situazione conflittuale interpersonale generata dal reato e della ricostituzione del patto di cittadinanza violato”, conclude l’avvocato Perna. Alghero. Abolire il carcere: al festival “Dall’altra parte del mare” shmag.it, 20 aprile 2023 Una serata di riflessione sul sistema carcerario italiano. Sandro Bonvissuto, Costantino Cossu, Padre Pasquale Agostino e Luigi Manconi discutono della situazione carceraria italiana. Giovedì 20 aprile il festival “Dall’altra parte del mare” dedica un momento di riflessione a una delle più controverse discussioni dell’attualità italiana. Partendo dal libro di Luigi Manconi “Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”, alle 18:15 ad Alghero, nella sala conferenze de Lo Quarter, lo scrittore Sandro Bonvissuto, il giornalista Costantino Cossu, Padre Pasquale Agostino e lo stesso Luigi Manconi discuteranno della situazione carceraria in Italia. “Abolire il carcere” non è una provocazione. Nel 1978 il Parlamento italiano votò la legge per l’abolizione dei manicomi dopo anni di denunce contro la loro disumanità. Ora dobbiamo abolire le carceri che, come dimostra questo libro, riproposto in una nuova edizione ampliata e aggiornata, servono solo a riprodurre crimini e criminali e tradiscono i principi fondamentali della Costituzione. L’Italia è il fanalino di coda tra i paesi europei più avanzati che stanno riducendo il numero dei detenuti (solo il 30 per cento dei condannati va in carcere in Francia, il 36 per cento in Inghilterra, mentre in Italia sono il 55 per cento). Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. E dunque? La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione. Per questo la invoca. La detenzione in strutture spesso fatiscenti e sovraffollate deve essere abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso. Luigi Manconi, già docente di Sociologia dei fenomeni politici e già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, è presidente di A “Buon Diritto Onlus”. La sua pubblicazione più recente è “Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un poco credente” (con Vincenzo Paglia, Einaudi 2021). È editorialista de “la Repubblica” e “La Stampa”. Sandro Bonvissuto è nato nel 1970, fa il cameriere in un’osteria romana ed è laureato in filosofia. Per Einaudi ha pubblicato “Dentro” (2012), è fra gli autori di “Scena padre” (2013), e “La gioia fa parecchio rumore” (2020 e 2022). Mare Fuori, la moltiplicazione del successo: dopo la serie si pensa al film e al musical di Francesca D’Angelo La Stampa, 20 aprile 2023 Le indiscrezioni parlano di uno spin-off che potrebbe riportare in scena Carolina Crescentini. Avanza il progetto del remake negli Usa, alla Rai richieste anche da Spagna, Francia, Germania. Mare Fuori prende il largo. Dopo aver sbancato (nell’ordine) Netflix, RaiPlay e Rai2, la serie rivelazione del servizio pubblico sarebbe pronta a conquistare pure il cinema, il teatro e - perché no? - persino la tv americana. Al momento il condizionale è ancora d’obbligo, perché di firmato non c’è nulla: siamo ancora alla fase “conversazioni in corso”. Tuttavia le ambizioni sono quelle e, in fondo, non potrebbe essere altrimenti: un successo del genere capitata raramente e cavalcarlo è un imperativo a dir poco categorico, tanto per la casa di produzione Picomedia, quanto per la stessa Rai. Dunque, quelli che per ora sono catalogati come rumors, trattative o voci, potrebbero in pochi mesi diventare realtà. A oggi, l’indiscrezione più concreta sembra essere quella che, sulla carta, suonerebbe come la più complessa: il remake americano di Mare fuori. A confermare le trattative tra Italia e Usa è stata la stessa direttrice di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati. Dunque dopo il medical drama Doc, il cui rifacimento sbarcherà sul canale Fox nella stagione 2023-2024, un’altra fiction nostrana potrebbe essere adattata oltreoceano. Secondo i ben informati anche altri Paesi sarebbero interessati a realizzare un remake: si parla di Spagna, Francia e Germania. Per la Rai sarebbe un vero colpaccio, anche se in realtà il merito di cotanta visibilità internazionale andrebbe spartito con Netflix: se Mare Fuori non fosse passato anche dalla celebre piattaforma streaming, visibile in oltre 190 Paesi, difficilmente sarebbe ora così noto e gettonato. In ogni caso i “work in progress” non riguardano solo il mercato straniero: si starebbe parlando anche di alcuni progetti tutti italiani. A darne notizia è stato il blog Cinguetterai, che non è esattamente come dire il Times, tuttavia non siamo in zona fake news: le conversazioni a riguardo esisterebbero realmente, tant’è vero che il rumors è stato ripreso su Instagram del regista Ivan Silvestrini. E si sa: oggi una story vale quasi come un comunicato stampa. I progetti in questione sono due. Il primo sarebbe uno spettacolo teatrale: più precisamente, un musical. Un’operazione del genere sarebbe decisamente sensata, visto il successo riscosso dalla colonna sonora della serie tv. Ormai non c’è infatti karaoke dove non si canti l’iconica sigla ‘O mar for. Il singolo, firmato da Stefano Lentini, Lolloflow, Matteo Paolillo e Raiz, ha superato il traguardo dei 35 milioni di streaming complessivi. Il brano è già stato certificato disco di platino. Gettonatissima anche la canzone Origami all’alba, realizzata in collaborazione con Clara Soccini. Il musical sarebbe dunque una scelta vincente perché valorizzerebbe uno dei punti di forza del teen drama, la colonna sonora. L’altro progetto guarderebbe invece alle sale cinematografiche: si starebbe ragionando sull’opportunità di fare un film. Magari uno spin off. I volti di certo non mancano, visto che stiamo parlando di una storia fortemente corale, i cui beniamini sono tutti - dal più losco al più simpatico - amatissimi dai fan. Magari sarebbe anche un modo per ripescare Carolina Crescentini, uscita di scena durante gli ultimi episodi trasmessi da Rai2: i fan non l’hanno presa affatto bene, tanto da indire una petizione per riportare l’attrice nel cast. Quel che è certo è che la quarta stagione ci sarà e per vederla non si dovrà aspettare troppo a lungo: le riprese inizieranno già a maggio. La generazione che cadde dentro un buco. Il settantasette, i movimenti, l’eroina di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 20 aprile 2023 “Non è stata colpa dell’eroina, anzi, l’eroina è stata la vita artificiale di uno zombie che negli ultimi anni avete visto circolare. Ero già morto. L’ero è stata una resurrezione artificiale”. Sono parole di Carlo Rivolta, la figura perno del film documentario di Marco Turco “La generazione perduta”, vincitore del Nastro d’argento per il miglior documentario dell’anno e in sala in tutta Italia in questi giorni. Carlo Rivolta era un giornalista di “Repubblica”. Giovane, bello, fascinoso, curioso in modo assoluto, fu il primo a indagare e raccontare l’espansione dell’eroina, le sue cause, gli effetti, il mercato, un fenomeno che in pochi anni annientò una generazione di giovani. Erano gli anni Settanta, il lungo Sessantotto stava esaurendo la sua carica rivoluzionaria, molti furono i delusi e gli sconfitti. Dell’eroina si sapeva poco, in tanti ci cascarono, tanti ne morirono. Marco Turco da tempo voleva realizzare un film su quell’oppioide ottenuto per acetilazione della morfina. “Mi sono immerso negli archivi e - racconta - visionando una mole e orme di servizi giornalistici, articoli, reportage mi sono imbattuto nella storia di Carlo Rivolta che è emblematica”. Emblematica in molti sensi, per la vicenda personale di Rivolta che, volendo indagare dal di dentro il fenomeno della diffusione dell’eroina, finì per diventare lui stesso un consumatore sviluppando una dipendenza che lo porterà alla morte. Emblematica perché rappresenta un modo di fare giornalismo che è di pochi, da vero insider che scava per capire la radice del danno e, con essa, le convenienze del mercato degli stupefacenti che in pochi anni sostituì l’eroina a cannabis e hashish, molto meno convenienti. Emblematica perché i suoi articoli sbugiardavano l’ottusità dei politici che non vollero vedere, scelsero di non capire che cosa si doveva e poteva fare, equiparando droghe leggere e pesanti, incarcerando gente solo perché aveva in tasca pochi grammi di marijuana, buttando tutto su punizione e repressione. È un atteggiamento che ci portiamo ancora dietro. La storia di Rivolta è anche emblematica di un periodo storico che lega il consumo dell’eroina alla sconfitta politica di una generazione, alla grande disillusione dopo la rivolta (che singolare coincidenza, quel cognome). C’è, nel film, la testimonianza di una ragazza che dice: “Certo, potrei disintossicarmi e iniziare il recupero. Ma che cos’è il recupero? Per fare quale vita? Per far parte di quale società? Per essere utile a chi? Se devo recuperarmi per diventare un ingranaggio che sottostà a un sistema che mi vuole buona e obbediente, allora non mi interessa”. Seguendo la vicenda di Carlo Rivolta, il film racconta un periodo storico e lo fa montando immagini d’archivio, testimonianze di ieri accanto a interviste di oggi. C’è Emanuela Forti che fu compagna di Rivolta, colleghi che lo conoscevano bene, amici. Poi ci sono giovani, soprattutto donne, che raccontano perché si fanno, come hanno cominciato, come hanno cercato di uscirne. Fra il ieri e l’oggi, ovvero fra gli spezzoni d’archivio e le interviste attuali, netta, e voluta, è la qualità delle immagini. Sgranate, a volte leggermente fuori fuoco, come nebbiose, le scene delle città, dei quartieri, del morto trovato dentro un’auto, dei ragazzi che si bucano per strada, delle manifestazioni, delle contestazioni degli anni Settanta. Vivide, invece, sono le luci e i colori delle interviste attuali, come a voler marcare la nebulosa che copre quel periodo e gli eventi che lo marcarono. In mezzo, enorme come un buco di angoscia, c’è la consapevolezza che, terminato il momento in cui si sperava di poter cambiare il mondo, nulla ha più senso, nemmeno la vita. È in quel buco che molti si sono perduti, oscillando fra la consapevolezza che si stavano ammazzando e l’incapacità di venirne fuori perché, come scrisse lo stesso Rivolta, “Per disintossicarsi serve uno scopo importante, capace di farti sfidare la morte”. Julian Assange scomodo pure al festival del giornalismo di Vincenzo Vita Il Manifesto, 20 aprile 2023 Al Festival del giornalismo di Perugia è ben curioso che manchi un dibattito dedicato al drammatico caso del fondatore di WikiLeaks. L’ormai consolidato Festival di giornalismo di Perugia, in programma da ieri alla prossima domenica 23 aprile, ha una lacuna non banale. Visto che si tratta di appuntamento che ha a cuore i temi dell’informazione, cercando di avere uno sguardo verso il villaggio globale, è ben curioso che manchi un dibattito dedicato al drammatico caso di Julian Assange. Nella passata edizione fu invitata la giornalista e scrittrice Stefania Maurizi, che presentò il suo libro Il potere segreto (2021), articolatissima trama su di una vicenda che -comunque- farà storia e precedente. Tuttavia, quest’anno sarebbe stato persino più importante riprendere l’argomento. Il fondatore di WikiLeaks è in attesa di conoscere se e quando verrà accettato l’appello inoltrato ai giudici dal collegio difensivo (di cui è parte la moglie e avvocata Stella Moris) contro l’estradizione negli Stati Uniti. E là lo attende una condanna a 175 anni di carcere per la presunta violazione di una legge del 1917 sullo spionaggio (Espionage Act). Nel frattempo, però, le condizioni psico-fisiche di Assange sono peggiorate ed è estremamente importante, quindi, alzare la voce prima che sia troppo tardi. Se ciò non avviene in un importante festival tematico, dove mai potrebbe alzarsi la richiesta di libertà? Numerose personalità hanno fatto sentire la propria opinione e varie municipalità hanno attribuito al giornalista australiano (riconosciuto professionalmente dallo stesso ordine dei giornalisti italiano e sostenuto dalla federazione della stampa) la cittadinanza onoraria. Non per caso a Perugia sono presenti gli attivisti di Free Assange Italia e Amnesty International, per ricordare che è disponibile un altro libro assai significativo, Il Processo a Julian Assange di Nils Melzer, fino a poco tempo fa Relatore delle Nazioni Unite sulla tortura e tra i primi a lanciare l’allarme sullo stato del prigioniero, tenuto senza processo di merito in un orrido istituto londinese, noto come la Guantanamo inglese. Ecco perché il buco nel programma di una discussione aggiornata appare sgradevole. Se pure nei luoghi in cui la tutela del sacro diritto di cronaca sembrerebbe essere la base stessa dell’intero palinsesto si tende a cancellare e a rimuovere un capitolo tanto doloroso, allora qualcosa davvero non va. Legittimo diviene il timore che il clima politico e culturale generale possa influire, determinando presenze e assenze. La speranza è che siano solo supposizioni pessimiste e che l’organizzazione del festival, costituita da figure una volta assai impegnate nel movimento per la libertà di informazione, voglia smentire. Ciò significa riprogrammare magari un panel, in nome del rispetto di un principio democratico cruciale e dell’attenzione ad una vita umana. Julian Assange siamo tutte e tutti noi. Oggi tocca a lui, ma domani bavagli e cesure, attacchi e repressioni potrebbero toccare chiunque. La storia ci insegna e non avere memoria è un peccato mortale. Buon festival, dunque, con molta amarezza. Dl migranti, caos in Senato. Il governo riscrive gli emendamenti durante la seduta di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 aprile 2023 Arriverà questa mattina il via libera del Senato al decreto Migranti, dopo che ieri sono stati votati gli oltre quattrocento emendamenti al testo presentati da maggioranza e opposizione. Il provvedimento verrà poi trasmesso alla Camera per il via libera definivo, atteso nelle prossime settimane. Quella di ieri a palazzo Madama è stata una seduta fiume, tra sospensioni, colpi di scena e accuse reciproche di aver “violato i patti” tra il Pd e il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani. Il tutto nelle stesse ore in cui a Montecitorio il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, rispondeva al question time sullo stesso decreto Cutro, e la segreteria del Pd, Elly Schlein, nella sua prima conferenza stampa al vertice del Nazareno accusava il governo di “cercare di portare l’Ungheria in Italia”. Il caos è cominciato in mattinata, con il ritiro da parte del governo del cosiddetto emendamento “canguro”, che secondo il Pd riscriveva “di fatto” una cospicua parte del testo. Dopo la respinta delle questioni pregiudiziali sul decreto, con 93 voti contrari e 67 favorevoli, e un’ulteriore sospensione per consentire alla commissione Bilancio di esprimere i pareri sugli emendamenti, la seduta è ripresa con la discussione generale e il voto sugli stessi emendamenti. E qui è cascato l’asino, con il caos su quello a firma del senatore azzurro Maurizio Gasparri, sulla protezione speciale per i migranti. Il testo dell’emendamento prevedeva la soppressione del rispetto degli obblighi internazionali della Carta di Nizza e della Carta europea dei diritti dell’uomo, un dettaglio che avrebbe reso con ogni probabilità incostituzionale la norma. Dopo l’ennesima sospensione Gasparri ha così deciso di riformularlo, togliendo il riferimento alle norme comunitarie. “Forse la maggioranza e il governo hanno capito che a questi obblighi internazionali di rispetto dei diritti umani non possiamo sottrarci”, ha spiegato nel suo intervento il senatore dem Andrea Giorgis. Dopo un caos durato diversi minuti il governo ha infine espresso, ovviamente, parere favorevole sull’emendamento riformulato e la discussione è proseguita regolarmente. Di protezione speciale aveva parlato poche ore prima anche Piantedosi alla Camera, spiegando che “solo una limitatissima percentuale, intorno al 5 per cento dei permessi rilasciati, è stata convertita in permessi di lavoro”. Per il titolare del Viminale, che ieri ha incontrato l’omologo olandese Eric Van der Burg e che ha ricevuto una richiesta di faccia a faccia dalla conferenza Stato- Regioni per discutere alcuni aspetti del decreto, i dati espressi testimonia “l’inidoneità dell’istituto nel favorire reali percorsi d’integrazione del migrante nella nostra società, divenendo, in buona sostanza, un fattore distorsivo delle regole di ingresso e soggiorno previste dal nostro ordinamento”. Insomma, secondo Piantedosi la norma è diventata una regola, “mentre avrebbe dovuto costituire una ipotesi di eccezione”, e per questo il governo vuole che torni a essere uno strumento “di tutela piena ed effettiva per le persone che fuggono da reali e oggettive situazioni di pericolo” e non “un espediente per eludere le regole in materia di ingresso e soggiorno sul territorio nazionale”. Parole che non hanno affatto convinto la segretaria del Pd, Elly Schlein, secondo la quale “quello che stiamo vedendo è pure peggio di quanto avessero fatto i decreti Salvini” e per questo il Pd si batterà “contro l’abolizione della protezione speciale”. Schlein ha poi attaccato direttamente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dandole della bugiarda “perché sono 18 i Paesi che hanno questa forma di protezione” e definendo “surreale” mettere in contrapposizione il lavoro delle donne con i migranti. “Dai tempi della Bossi- Fini la strategia della destra è sempre stata scrivere norme criminogene che aumentano l’illegalità per poi cavalcare quelle irregolarità - ha commentato - Noi dobbiamo fare ogni sforzo perché ci sia piena inclusione per chi arriva e che abbia via d’accesso legali e sicure”. E c’è stato spazio anche per il secondo tempo della polemica sulle parole del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, sulla “sostituzione etnica”, che non può essere la soluzione al calo delle nascite. “La mia era ignoranza, non razzismo”, ha cercato di difendersi lo stesso Lollobrigida, ma dalla Lega si sono alzate alcune voci di dissenso, con il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo che ha definito quella del ministro “un’espressione che indubbiamente si presta a delle polemiche”. Compatto il sostegno di Fratelli d’Italia, che parla di “strumentalizzazione” da parte delle opposizioni. Permessi speciali per i migranti: la maggioranza costretta al passo indietro sulla stretta di Vanessa Ricciardi Il Domani, 20 aprile 2023 Il decreto Cutro è attualmente in discussione al Senato, la maggioranza ha trovato la convergenza su un emendamento che stabilisce che molti permessi non possano essere convertiti in permessi di soggiorno per lavoro. A quelli per malattia viene tolta la “grave condizione psicofisica”. Alla fine la maggioranza ha dovuto fare un passo indietro da sola. La destra ha trovato l’accordo per limitare attraverso il decreto Cutro le ricadute della protezione speciale per i migranti a partire dall’eliminazione della possibilità di convertirla in permesso di lavoro, e riducendo l’applicazione dei permessi di soggiorno speciali sia nel caso di grave condizione psicofisica sia per le calamità naturali. Questo quanto si leggeva ieri mattina nel testo dell’emendamento presentato da Maurizio Gasparri (Forza Italia), Daisy Pirovano (Lega) e Marco Lisei (Fratelli d’Italia). In un primo momento, l’emendamento prevedeva lo stop al riferimento degli obblighi internazionali della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ma lo stesso Gasparri prima del voto ha chiesto la modifica. Ne è seguita una bagarre con le proteste dell’opposizione e il capogruppo del Pd Andrea Giorgis ha definito quantomeno “irrituale” una richiesta di questo tipo. Tutto il pacchetto - Nei giorni scorsi hanno fatto discutere le pressioni della Lega per eliminare del tutto i permessi speciali a chi, pur soffrendo di persecuzioni per motivi di razza, sesso o religione e a fronte di fondati rischi di tortura o a trattamenti inumani o degradanti, non abbia diritto alla protezione internazionale. Al momento dell’approdo in Aula la destra, hanno riferito fonti parlamentari sin dal primo mattino, si è ricompattata per marciare verso l’approvazione di una prima riduzione e degli altri emendamenti del governo presentati la settimana scorsa. Saltata l’ipotesi di un “canguro”, ovvero di un maxiemendamento, la maggioranza per prima cosa ha dato il via libera alle proposte dell’esecutivo della settimana scorsa: un pacchetto di misure che include la possibilità di usare i centri per il rimpatrio anche per i richiedenti asilo, la nascita di punti di accoglienza di emergenza con servizi minimi e l’affitto di un traghetto per portare via i migranti dal Lampedusa. In un rush finale è comparso anche una postazione medicalizzata del 118 presso l’isola. La protezione speciale - La concessione dei permessi di soggiorno, qualora il testo venisse convertito in legge, anche a fronte della mitigazione “Gasparri”, arriverà ad avere un’applicazione più ridotta. Oltre al blocco di “conversione” in permesso di lavoro, si sono concretizzati infatti anche i ritocchi sul rilascio del permesso per cure mediche e per calamità. Nel primo caso, la nuova versione non prevede più le “gravi condizioni psicofisiche”, ma permette il rilascio solo per “condizioni di salute derivanti da patologie di particolari gravità” e che, secondo lo stato italiano, non possano essere affrontate nel paese di provenienza. Per quanto riguarda il permesso di soggiorno collegato al problema di origine naturale, l’evento calamitoso per giustificare il rilascio del permesso non dovrà essere più “grave”, ma “contingente ed eccezionale”. Così come per la protezione speciale, anche questi permessi di soggiorno non potranno essere convertiti in permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Il Pd prima ancora del voto ha accusato il governo di aver messo sul tavolo un decreto legge incostituzionale, ma le questioni pregiudiziali presentate in assemblea sono state bocciate. Salvo sorprese, il decreto Cutro con gli aggiornamenti dovrebbe essere approvato da palazzo Madama oggi per poi passare all’esame della Camera. Il Piantedosi pensiero - Insieme al canale parlamentare, l’esecutivo ha sfruttato anche quello comunicativo per perseguire la sua azione contro i migranti. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, si è fatto sentire ancora rispondendo alle interrogazioni parlamentari alla Camera, ma già prima con una nota per ringraziare la questura di Roma per aver fermato due rapinatori alla stazione Termini: “Gli autori della rapina sono due giovani di 19 e 21 anni - ha spiegato -. Entrambi hanno fatto ingresso in Italia clandestinamente, da minorenni”. Un racconto che per Piantedosi basta a giustificare un maggior utilizzo delle forze dell’ordine presso le stazioni e anche una maggiore severità nel perseguire l’ “immigrazione illegale”. Per questo, rispondendo a tre distinte interrogazioni di Nicola Fratoianni (Alleanza Verdi-Sinistra), Tommaso Foti (Capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera) e Alfonso Colucci (M5s) ha dato nuovamente la visione Piantedosi: la protezione speciale, in realtà “potrebbe essere un espediente per introdursi nel nostro paese”, chi ne usufruisce “solo per una limitatissima percentuale” lo trasforma in permesso di lavoro, e infine bene ha fatto il governo a stabilire lo stato d’emergenza “non ideologico” e a chiamare in aiuto un commissario. Nello specifico Valerio Valenti, come scritto su Domani, già capo della segreteria particolare del sottosegretario Antonio D’Alì, potente senatore di Forza Italia, che ha messo la sua funzione a disposizione di Cosa nostra, in particolare della famiglia Messina Denaro. Le associazioni umanitarie sono scese in piazza già martedì, e sono pronte a tornarci il prossimo 28 aprile. Lollobrigida: “Teoria complottista sulla sostituzione etnica? Io non la conoscevo” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 20 aprile 2023 Il ministro e la sostituzione etnica: “Non sono razzista. Non commento gli insulti. Querelerò chi mi ha rivolto offese gravi dandomi dell’hitleriano o paragonandomi a criminali nazisti”. Ministro Francesco Lollobrigida, non crede di aver detto una cosa enorme? “Chi abbia voglia di farlo e non di creare il caos, può ascoltare almeno la parte del mio intervento che riguardava l’immigrazione”. Lei ha parlato di sostituzione etnica, che per molti studiosi è un mito hitleriano e mussoliniano... “Nelle mie parole non c’era alcun riferimento a visioni ben lontane dalla mia formazione”. Ha detto di aver sbagliato per ignoranza. Davvero un ministro del suo calibro non sa nulla del piano Kalergi, che trova credito nell’estrema destra sovranista? “Non credo sia corretto definirmi ignorante perché fino a ieri non sapevo chi fosse il signor Kalergi. Ho letto molto nella vita, ma non perdo tempo con folli e complottisti a cui la sinistra dedica molta attenzione”. Cosa voleva dire con quella infelice espressione? “Stavo parlando in positivo di immigrazione legale, il cui primo nemico è quella illegale. Un concetto chiaro, per dire che l’indirizzo del governo è prendere atto di un drammatico decremento della natalità, che fa prevedere nei prossimi anni un abbattimento drammatico della nostra popolazione”. L’Italia ha bisogno degli immigrati, lo dice anche il Def che avete appena varato... “La mia locuzione voleva indicare un’alternativa. C’è chi pensa che, se facciamo meno figli, la strada sia avere un maggior numero di immigrati. A nostro avviso invece la prima scelta è costruire un sistema di welfare che crei le condizioni per chi vuole di mettere al mondo i figli”. Lei però ha evocato, magari involontariamente, la teoria del complotto mondiale cara alle destre xenofobe e neonaziste, a stragisti e negazionisti della Shoah. Ammette l’errore o no? “Cerchiamo di capirci. Nella mia vita ho preso distanze siderali da chi immagina complotti internazionali, e altre follie di questa natura. E ricordo alcuni esempi clamorosi di sostituzione, perpetrati dal fascismo in Alto Adige, da Stalin con la russificazione dell’Ucraina o da Putin in alcune aree del Donbass”. Il tema dell’invasione dei migranti e della sostituzione etnica degli italiani fu rilanciato anche da Meloni e Salvini, ma allora non eravate al governo. “Se siamo italiani e pensiamo che i nostri valori debbano essere tutelati dobbiamo difenderli, con la nascita di bambini così fortunati da venire al mondo in Italia. Senza ostacolare l’integrazione, ma senza cancellare la nostra cultura a vantaggio di altre. Si può diventare italiani anche venendo qui, lavorando, apprezzando il nostro modello e giurando sulla Costituzione, pietra miliare che distingue i cittadini italiani dal resto”. C’è chi nei suoi argomenti avverte echi razzisti del Ventennio. La parola meticciato le dice qualcosa? “Ma scusi, io in Aula ho detto che quando uno indossa la maglia della nazionale vedo solo l’azzurro e non il colore della pelle. Definire gli italiani per il colore della pelle è un errore e chi non capisce la differenza tra etnia e razza è un folle. Io rispetto la musica o i piatti etnici a prescindere dal colore della pelle di chi suona o cucina”. Condivide o no le parole di Orbán, quando dice agli ungheresi “non mescoliamoci con altre razze”? “Non ho grande confidenza con Orbán e se condividessimo tutte le sue idee sarebbe con noi nel gruppo dei Conservatori Ue. Sono contrario all’uso politico della parola razza e ritengo che stoni nella nostra Costituzione. Si sta cercando di fare un caos sul tema serissimo della denatalità e sul tentativo di mantenere il nostro modello”. Per Elly Schlein lei ha scandito “parole disgustose da suprematista bianco”… “L’ultima volta che ho sentito parlare di suprematismo bianco stavo guardando i Blues Brothers, uno dei miei film preferiti. E non ero dalla parte dei nazisti dell’Illinois”. Sdrammatizza? “Non voglio nemmeno commentare insulti e aggressioni verbali. Ma ho dato mandato ai miei legali di querelare chi mi ha rivolto offese gravi, dandomi dell’hitleriano o paragonandomi a criminali nazisti”. Per Centinaio lei ha usato “parole brutte”. La Lega attacca lei per logorare Giorgia Meloni? “Né Salvini, né altri esponenti di rilievo della Lega hanno detto cose simili”. Mattarella ad Auschwitz, nel giorno in cui lei parlava di sostituzione etnica, ha detto che i fascisti hanno aiutato i nazisti a sterminare i loro popoli. Sottoscrive? “Ho apprezzato le parole del presidente. Con Giorgia Meloni qualche anno fa siamo andati il 25 aprile ad Auschwitz, un luogo che è l’esempio di cosa può produrre la follia umana se non arginata da valori democratici”. La premier l’ha bacchettata per la sua loquacità? “L’aver preso distanza da qualsiasi forma di razzismo ci permette di affrontare con serenità polemiche strumentali di avversari che ricorrono alla macchina del fango per coprire gli errori compiuti nei loro anni di governo”. Va in Giappone per non essere in Italia il 25 aprile? “No, vado al G7 e non è una scusa. Spero di tornare in tempo, perché ci tengo a partecipare alle celebrazioni”. Il pericolo di chi non ha consapevolezza della storia di Gianni Cuperlo* Il Domani, 20 aprile 2023 Le tante e sacrosante critiche che gli sono piovute addosso per quella sua formula impronunciabile - “sostituzione etnica” - al fondo dietro uno scudo di falso pragmatismo, contrastare la denatalità, celano un moto d’odio verso quanti si considerano estranei da noi, diversi da noi, nostri nemici per nascita, lingua, religione o colore della pelle. Chissà se il ministro Lollobrigida ha mai incrociato le parole di Predrag Matvejevi?, “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”. E chissà se leggendole potrebbe venirgli a mente la domanda più semplice: ci si può odiare nell’intimità? Perché le tante e sacrosante critiche che gli sono piovute addosso per quella sua formula impronunciabile - “sostituzione etnica” - al fondo dietro uno scudo di falso pragmatismo, contrastare la denatalità, celano un moto d’odio verso quanti si considerano estranei da noi, diversi da noi, nostri nemici per nascita, lingua, religione o colore della pelle. Questo, non altro, è il messaggio reazionario di un uomo di governo che il 22 ottobre dell’anno passato è salito una mattina al Quirinale per giurare “di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Ora, basterebbe dire che l’uscita dell’altro ieri tradisce apertamente quel giuramento, il punto è che lo ha fatto mescolando una rara infelicità verbale a un’evidente inconsapevolezza storica. Quest’ultima per altro confortata negli anni da innumerevoli esternazioni dell’attuale premier, Giorgia Meloni, su presunti disegni di “sostituzione etnica” finanziati alle spalle dell’Europa dall’immancabile George Soros. Ma lasciamo un istante da parte la genesi di quella formula detestabile e comunque per chi voglia approfondire il tema valga il rimando a Renaud Camus e al suo “Le grand remplacement” (edizioni Reinharc, Neuilly sur Seine, 2011). Lì si paventava la sorte dell’uomo bianco europeo destinato a essere sostituito da asiatici, africani e islamici in una deriva che avrebbe condotto a sopprimere la “sua” (dell’uomo bianco) religione, cultura e civiltà. Il tutto a configurare un complotto ordito dal capitale finanziario, burocrazie europee, ebrei e altre follie della mente. Bene, anzi malissimo. Ma a voler incalzare il ministro si dovrebbe ricordargli qualche pagina del passato assai più prossima a lui e, ahimè a tutti noi. Inconsapevolezza storica - Si tratta della parabola vissuta dal nostro confine orientale, il più tragico, quello dove le code dell’ultimo conflitto mondiale si sono allungate oltre ogni logica. Perché in quel lembo di terra, e d’Europa, prima, durante e dopo la guerra non si sono consumate deportazioni, espulsioni o forme di pulizia etnica, atroce sintesi quest’ultima generata da tragedie successive a quella pagina di storia. Lì, a cavallo di quel confine è più giusto parlare di veri e propri “fenomeni di sostituzione nazionale”, formula tutt’altro che meno inquietante e drammatica delle altre e che allude precisamente alla strategia applicata in parti diverse del continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali diverse in un unico stato. Nel caso nostro ha significato per il fascismo allontanare migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane. Poi, dopo gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Ma perché riandare a fatti così distanti e in apparenza slegati dalle reazioni di queste ore all’uscita scomposta di un ministro in carica? Perché, come ha spiegato Raul Pupo, storico che a quelle vicende ha dedicato saggi preziosi, “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”. Il nazionalismo finisce con l’essere il migliore concime per spargere odi destinati prima o poi a esplodere. Nella lunga storia che abbiamo alle spalle è puntualmente avvenuto, ma sta precisamente qui la gravità delle frasi di un esponente del governo in carica. L’avere parlato senza cognizione alcuna dell’immoralità delle sue parole e delle tragedie che hanno originato ben prima che lui nascesse. È vero che di per sé l’ignoranza non è una colpa, ma farne mostra da un pulpito del potere, quello sì. O meglio, più che una colpa è un pericolo e i pericoli è sempre bene scorgerli e denunciarli per tempo. *Dirigente Pd Quelle parole usate come pietre di Karima Moual La Stampa, 20 aprile 2023 Attenzione a minimizzare o a fare prove di contestualizzazione alle chiarissime e inequivocabili parole del ministro Lollobrigida riguardo alla “sostituzione etnica”, che non è certo uno scivolone ma uno dei pilastri fondanti dell’ideologia di questa destra al governo. Lo ha detto davvero, con voce chiara e soprattutto da ministro, uomo di governo e di potere con i riflettori e i microfoni ben puntati, e una platea ad ascoltare: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica, gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro, non è quella la strada”. La minaccia della sostituzione etnica - come un piano ben strutturato di una specie di spectre - a casa delle destre estreme e di quella di Fratelli d’Italia l’hanno da sempre evocata contro l’immigrazione via mare degli africani ma anche per quanto riguarda la presenza islamica in Europa, da limitare il più possibile in favore di quella bianca cattolica. Turchia fuori dall’Ue è anche questo, ma c’è anche il comportamento che si riserva ai rifugiati. Massima libertà, sensibilità e apertura ai rifugiati ucraini, chiusura, fobie, conflitti per quelli provenienti da Africa e Medio Oriente. Sulla sostituzione etnica si è costruita con modernità una narrativa precisa ed efficiente con azioni politiche anch’esse meticolose come la negazione della cittadinanza italiana ai figli dei migranti, mettendosi contro ogni riforma che riconosca e faciliti il riconoscimento dell’identità che si acquisisce. È una politica volta a rendere la via dell’integrazione e dell’inserimento un inferno per coloro che non solo nella percezione, ma anche nel sentimento culturale che costruisce un’ideologia conservatrice, non si vuole accogliere integralmente. Bene immigrati ben integrati con il lavoro e il rispetto delle regole certo, ma che non si pensassero italiani di sangue. Perché poi si tirano fuori radici, tradizioni, culture, fede e sagre di paese. L’immigrato che diventa italiano per la destra e non solo di Fratelli d’Italia è una forzatura, una minaccia che si esprime per l’appunto in una morte sicura attraverso la sostituzione etnica. Di genti poi, - africani e musulmani, diciamolo onestamente perché sono queste due componenti il nocciolo della questione, l’insostenibile affronto - che si ritengono inferiori. Una brutta contaminazione da evitare a tutti i costi. Aiutiamoli a casa loro è anche un po’ questo. Il rafforzamento della parola patria è ancora più netto è chiaro. Sostituzione etnica. Paura eh? Mentre la parola si ripete nella mia testa con sempre più forza, incrocio in ascensore il signore indiano che da almeno 4 anni vedo salire al piano superiore, perché è l’unico che assiste il vicino anziano che è ormai impossibilitato anche a uscire di casa. Per strada incrocio il fruttivendolo egiziano, 100 metri più in là quello dell’autolavaggio, marocchino, poi un’altra signora anziana a braccetto con una donna sicuramente filippina, poi un’altra forse senegalese, il fioraio è arabo ma l’accento è egiziano, al banco del mio bar preferito insieme ad altri camerieri un ragazzo nero, non so da che angolo dell’Africa provenga e sino a oggi non me l’ero mai chiesto. Davanti all’ingresso della chiesa un altro uomo, ancora più nero e con lineamenti diversi dal cameriere di prima. Sarà subsahariano. Con una scopa pulisce la strada e una mano chiede l’elemosina. Sostituzione etnica. In un numero: sono 5 milioni gli stranieri presenti in Italia, futuri italiani (da tenere il più lontano possibile dall’acquisizione) su 60 milioni di abitanti. Mi sono resa conto, per la prima volta, che stavo perdendo sensibilità e meccanicamente stavo iniziando a osservare solo i volti che richiamavano Paesi stranieri, mentre quelli italiani, che sono la maggioranza scompaiono. Ancora una volta una mutilazione. C’è chi non vuole riconoscere la nostra italianità, la nostra storia ma ci liquida come una cosa spaventosa, quasi una calamità. Figli non desiderati. Questa volta, la parola “sostituzione etnica”, mi arriva più violenta, volgare e precisa perché ci sono anche io, italiana di origini marocchine, all’uscita dalla scuola dei miei figli. Italiani con nomi arabi e cognome italiano del papà. Sono nati in questo Paese per amore senza la pretesa di sostituire nessuno, come i tanti figli di immigrati o immigrati stessi che vivono e soffrono le sorti di questo Paese insieme ai 60 milioni di italiani per sangue. L’abominevole idea della sostituzione etnica è nei libri di storia che basterebbe rileggersi, ma quel che è più grave è che si sia rinvigorita in questi anni: se il nostro Lollobrigida la evoca come spauracchio per mettere in guardia gli italiani dalla fantomatica invasione africano-musulmana che non c’è, c’è chi - e questo è il paradosso - come in Nord Africa il presidente tunisino Kais Saied, che è diventato il portavoce istituzionale, la evoca contro i subsahariani al contrario e cioè la sostituzione in questo caso è degli africani neri con i musulmani. Ma come dimenticare invece i vari conservatori islamici sparsi qua e là, contro la sostituzione culturale occidentale di depravati infedeli. Ecco, c’è sempre un suprematista più bianco dell’altro. Tutto si mette insieme, perché la radice è sempre la stessa. Qui la vera minaccia è all’umanità. Se ancora qualcuno ne conosce il significato. Nuova deterrenza, pericoli maggiori di Danilo Taino Corriere della Sera, 20 aprile 2023 Al gennaio 2022, le testate nucleari nel mondo erano quasi diecimila, secondo il centro di studi di Stoccolma Sipri: 3.708 degli Stati Uniti, 4.777 della Russia, 350 della Cina, 290 francesi, 180 del Regno Unito, 165 del Pakistan, 160 indiane, 90 di Israele, 20 della Corea del Nord. Dalla fine della Guerra Fredda, gli arsenali si erano ridotti ma - dicono gli analisti di Sipri - la tendenza si è ora rovesciata. Nel mondo, le testate nucleari tendono ad aumentare. Soprattutto, l’invasione russa dell’Ucraina ha creato il rischio che altri Paesi, oltre ai nove che già le hanno, si dotino della “bomba”. In questione c’è la deterrenza, la quale sta cambiando di genere con l’uso che ne fa Vladimir Putin. Per i decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, soprattutto durante la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la deterrenza nucleare, fondata sulla certezza della mutua distruzione, ha frenato gli Stati dall’utilizzare gli arsenali di ordigni atomici. Congelati dalle paure reciproche. Ora, però, succede che Mosca di tanto in tanto minacci di usare l’arma nucleare per sostenere la sua aggressione all’Ucraina: per spaventare i sostenitori di Kiev e scoraggiarli dall’inviare armamenti potenti e sofisticati (non nucleari) che gli ucraini chiedono fin dall’inizio della guerra. La lentezza con la quale l’Occidente ha fornito queste armi a Volodymyr Zelensky si spiega in gran parte con il timore delle capitali europee e di Washington dell’escalation nucleare. La deterrenza che sta usando Putin è insomma questa: se date caccia da combattimento agli ucraini, dovrò usare qualche bomba nucleare. In sé, la minaccia è poco credibile, anche se niente può essere escluso con certezza. Finora, l’Occidente l’ha però presa per buona. È un problema per l’esercito di Kiev. Ma lo è anche in termini generali. Se avere un arsenale nucleare significa che puoi minacciare e ricattare chi vuoi, anch’io ne voglio uno, possono pensare alcuni Paesi bellicosi. Se il criterio della mutua distruzione viene meno perché uno dei contendenti alza le mani prima, il pericolo che altri Paesi accedano alla bomba nucleare per avanzare i loro obiettivi cresce: la deterrenza cambia di genere. Al gennaio 2022, le testate nucleari nel mondo erano quasi diecimila, secondo il centro di studi di Stoccolma Sipri: 3.708 degli Stati Uniti, 4.777 della Russia, 350 della Cina, 290 francesi, 180 del Regno Unito, 165 del Pakistan, 160 indiane, 90 di Israele, 20 della Corea del Nord. Dalla fine della Guerra Fredda, gli arsenali si erano ridotti ma - dicono gli analisti di Sipri - la tendenza si è ora rovesciata e anche la retorica nucleare cresce. Se la “nuova deterrenza” alla Putin continuerà a funzionare, la proliferazione nucleare potrebbe attrarre nuovi attori. Inquietante. Algeria. Il presidente Tebboune concede la grazia a 9 mila detenuti in occasione dell’Eid al Fitr agenzianova.com, 20 aprile 2023 Il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha firmato un decreto presidenziale che concede la grazia a 8.985 detenuti in occasione dell’Eid al Fitr, la festa della fine del mese sacro del Ramadan. Lo ha riferito un comunicato della presidenza diffuso dall’agenzia di stampa algerina “Aps”. Il provvedimento riguarda i detenuti condannati in via definitiva la cui pena è pari o inferiore ai 12 mesi, nonché coloro di età superiore ai 65 anni, i minori, le donne in gravidanza e le madri di bambini sotto i tre anni, che devono scontare fino a 18 mesi di detenzione. Non sono stati inclusi nel decreto presidenziale i detenuti coinvolti in reati come terrorismo, tradimento, spionaggio, omicidio, associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, corruzione, appropriazione indebita, furto e distruzione intenzionale di fondi pubblici, riciclaggio di denaro, lesioni personali intenzionali con conseguente morte o inabilità permanente, rapimento e stupro. Dal decreto sono escluse anche le persone detenute per il reato di ingiuria e diffamazione sui social network, nonché coloro che hanno commesso reati connessi a discriminazione e incitamento all’odio, reati di aggressione e associazione a delinquere contro l’autorità dello Stato, delle sue istituzioni, dei suoi dipendenti, della sicurezza e dell’unità del territorio nazionale. Tra i detenuti esclusi dalla grazia figurano anche coloro che sono accusati di istigazione alla violenza, aggressione nei confronti di istituzioni sanitarie e dei loro utenti, frode nella vendita di beni e falsificazione di prodotti alimentari e sanitari, la dichiarazione del falso in atti pubblici o ufficiali, incendio doloso, violazione di sistemi informatici legati alla difesa dello Stato o alle sue istituzioni.