I bimbi restano in carcere: la maggioranza si assume la responsabilità di negare l’infanzia di Vanna Iori huffingtonpost.it, 1 aprile 2023 C’è una ferocia e una disumanità nella rivendicazione di questa decisione che lascia sgomenti: come possiamo dimenticare l’attenzione e la responsabilità verso la crescita di questi bambini? Niente più bambini in carcere con le loro madri: un principio di civiltà che dovrebbe essere uno dei fondamenti dello Stato di diritto. Era questo l’obiettivo della proposta di legge del Partito Democratico per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in discussione nei giorni scorsi alla commissione Giustizia. Ma l’8 marzo il testo è stato bloccato da una serie di emendamenti avanzati dalla maggioranza di Fratelli d’Italia che miravano a stravolgere il testo. Per questo il gruppo parlamentare del Pd ha deciso di ritirare la proposta per impedire che fosse usata per fini assolutamente non condivisibili. La colpa di questi bambini? Una madre detenuta, spesso giovane e straniera e una legge che li costringe a sperimentare, in molti casi fin dai primi mesi di vita, una crescita dietro le sbarre, anziché nella esperienza educativa che sarebbe loro diritto vivere nei luoghi dell’infanzia. Come possiamo dimenticare l’attenzione e la responsabilità verso la crescita di questi bambini? Risulta molto grave la scelta della maggioranza di governo che si assume la responsabilità di non cancellare la vergogna dei bambini costretti a nascere e a trascorrere la loro prima infanzia in carcere. C’è una ferocia e una disumanità nella rivendicazione di questa decisione che lascia sgomenti: evidentemente non hanno mai visto i bambini che piangono perché vorrebbero andare fuori alla luce, giocare con altri bambini e non possono andare; non hanno mai parlato con i medici che raccontano il rapporto malato dei minori con lo spazio ristretto da cui avranno per sempre memoria; non conoscono i problemi di vista di molti dei minori cresciuti in carcere, abituati alla sola luce al neon. Va detto chiaramente che la condizione detentiva non è compatibile con l’educazione, con un equilibrato sviluppo e con la salute dei minori che crescono sì con la presenza quotidiana della madre, ma in un contesto che è la negazione stessa dell’infanzia: la detenzione, dato che non si può uscire, ci sono le sbarre alle finestre. E di notte ridiventano celle. Le pene per le madri andrebbero scontate in case famiglia protette, luoghi inseriti nel tessuto urbano seppur controllate. Ne esistono due: una a Milano e una a Roma, dal nome di Leda Colombini, partigiana che si è occupata per una vita dei bambini in carcere. Il modello delle Icam (Istituti a custodia attenuata per madri detenute) costituirebbe sicuramente un primo passo di una prospettiva educativa e rieducativa. Devono essere previsti anche i rapporti con strutture educative esterne che consentono di giocare e apprendere nei luoghi condivisi con i coetanei. Le forze politiche che hanno determinato l’affossamento dell’intera proposta di legge si sono assunte la responsabilità di aver arrestato un percorso di civiltà che mirava unicamente a superare il problema dell’incarcerazione dell’infanzia e ad affermare la tutela della salute psicofisica dei bambini su ogni altra ragione o interesse pubblico e politico. Il diritto fondamentale all’educazione dovrebbe essere un obiettivo prioritario per una politica seria: lavorare per istituire case famiglia in modo che sul territorio ci siano luoghi sicuri e accoglienti in grado di rispondere al benessere del minore, alla tutela della relazione genitoriale e all’esigenza di giustizia. Ecco perché “Cospito è pericoloso”, le motivazioni della Cassazione di Frank Cimini Il Riformista, 1 aprile 2023 Alfredo Cospito è pericoloso, non si è dissociato, ci sono dati certi e fattuali sui collegamenti con la Federazione anarchica informale, nei suoi scritti continua a propugnare la lotta armata. Questi sono i motivi per cui il 24 febbraio scorso la prima sezione penale della Cassazione ha confermato l’applicazione dell’articolo 41bis carcere duro con tutte le limitazioni possibili persino sui libri da leggere all’anarchico in sciopero della fame dal 20 ottobre del 2022 al quale il Tribunale di sorveglianza ha negato anche il differimento pena per ragioni di salute. “Cospito potrebbe continuare a essere in termini autorevoli per gli accoliti in libertà se sottoposto a un regime ordinario punto di riferimento e fonte di indicazione delle linee programmatiche criminose e degli obiettivi da colpire - scrivono i giudici - Le forti espressioni contenute in alcuni scritti reiterate e rinforzate attraverso modalità diffusive di conoscenza dimostrano la pericolosità del loro autore”. “Cospito esalta l’anarchismo diverso da quello classico e connotato da azioni che mettono in pericolo la vita di uomini e donne del potere soprattutto se rivendicate con sigle costanti nel tempo o ancora inneggiando ad attentati come quello si danni della stazione dei carabinieri di Roma-San Giovanni o dell’amministratore delegato dell’Ansaldo e ribadendo l’affermazione di non essersi pentito dell’azione personalmente commessa che aveva portato al ferimento dell’ingegner Adinolfi”, affermano i giudici. Per la Cassazione ci sono dati certi e fattuali dei collegamenti di Cospito con l’associazione di provenienza per cui era corretta la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma di confermare il carcere duro. La mancata dissociazione è la ragione principale dell’applicazione del 41bis, un articolo del regolamento penitenziario nato per evitare i collegamenti dei mafiosi con le associazioni fuori dalle prigioni. La Federazione anarchica informale non è una struttura gerarchizzata e costante ma fatta di persone che agiscono individualmente senza dare o prendere ordini. Ma si tratta di osservazioni che i giudici non hanno preso in considerazione. Ormai esauriti i ricorsi possibili il difensore di Cospito Flavio Rossi Albertini - mentre l’anarchico continua il digiuno rischiando danni non reversibili e la vita - coltiverà le denunce in sede internazionale all’Onu e alla Cedu sperando in una pressione sull’autorità politica affinché sostituisca il regime del 41bis con uno meno afflittivo tipo l’alta sicurezza come aveva suggerito una parte della magistratura inquirente. Giustizia più veloce? La soluzione del ministro Nordio era “una forte depenalizzazione” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2023 Ma il governo continua a inventare nuovi reati. Come si fa ad accelerare i tempi dei processi? Se ne fanno di meno, eliminando tutti quelli minori, celebrati per accertare reati che sarebbero punibili anche con una semplice multa in via amministrativa. Così diceva di pensarla Carlo Nordio, subito dopo essersi seduto sulla poltrona più alta del ministero di via Arenula. “La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”, spiegava scendendo i gradini del Quirinale, dopo aver giurato da guardasigilli nelle mani di Sergio Mattarella. La linea del ministro - Un tema delicato quello delle depenalizzazioni, che Nordio spingeva nel sempre infuocato dibattito sui temi della giustizia. D’altra parte l’ipotesi di una riduzione dei reati non era stata battuta in campagna elettorale né da Fratelli d’Italia - il partito che ha portato l’ex magistrato veneto in Parlamento - e neanche dagli altri partiti del centrodestra. Ecco perché nelle prime settimane successive all’insediamento del governo di Giorgia Meloni c’era curiosità per quelle dichiarazione dell’ex pm Nordio: che tipo di reati intendeva depenalizzare il nuovo guardasigilli? Quelli piccoli, i cosiddetti bagatellari che allungano le pagine del codice e ingolfano le aule dei tribunali? O quelli amministrativi dei colletti bianchi e dei pubblici amministratori, a cominciare dal tanto vituperato abuso d’ufficio? Quella dell’esecutivo - Cinque mesi dopo si può dire che, nella migliore delle ipotesi, Nordio parlava a titolo personale. Nella peggiore, invece, che la linea del ministro della Giustizia conti davvero molto poco all’interno del nuovo governo. Fino ad oggi, infatti, in tutte le anticipazioni sulle poderose riforme che il guardasigilli intende varare, mai si è discusso di un’organica depenalizzazione dei reati. Certo, più volte si è ipotizzata l’eliminazione dell’abuso d’ufficio, ma difficilmente il reato più odiato dai sindaci verrà cancellato tout court. Così come il reato di tortura, che una deputata di Fdi (Imma Vietri) vorrebbe abrogare e che Nordio ha invece assicurato di voler mantenere. Al contrario il governo Meloni si è fatto segnalare per una tendenza completamente opposta agli annunci del suo guardasigilli: quella di moltiplicare i reati, inventandone di nuovi. Siamo già a due nuove fattispecie inserite nel codice, ma la lista delle proposte che potrebbero presto diventare legge è lunga. I reati inventati dal governo - Già pochi giorni dopo l’insediamento l’esecutivo aveva varato il dl Rave, che aveva l’obiettivo di punire gli organizzatori dei raduni musicali abusivi. All’inizio nel decreto legge era stato introdotto l’articolo 434-bis, all’interno della rubrica che disciplina “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”. La nuova norma puniva “chiunque organizza o promuove l’invasione con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000”. Il 434bis, però, era durato meno di sei mesi. In sede di conversione del decreto legge, infatti, il nuovo reato era stato spostato all’articolo 633 bis per punire gli organizzatori dei rave con una condanna tra i tre e i sei anni di carcere. Insomma: l’esordio del governo Meloni nella sua funzione legislativa era stato un mezzo pasticcio. Più lineare, fino a questo momento, la nascita del decreto Cutro, battezzato come la città calabrese dell’ultima strage di migranti. Per combattere gli scafisti, l’esecutivo ha inventato la fattispecie di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” con pene comprese tra i 10 e i 30 anni di carcere. La norma è attualmente in discussione al Senato. Chi vuole punire l’anoressia - Solo annunciata, fino a questo momento, è la nuova legge contro chi istiga all’anoressia. A proporla è Fratelli d’Italia, lo stesso partito del ministro Nordio, che vorrebbe aggiungere un altro articolo al codice penale: il 580-bis, per punire con multe da ventimila a sessantamila euro e carcere fino a due anni chi incoraggia e agevola l’anoressia, la bulimia, il binge eating e gli altri disturbi del comportamento alimentare. “Ogni problema lo risolvono con il codice penale. È facile. Basta scrivere due righe ed una pena che faccia rumore per un bel titolo sui giornali”, ha protestato Enrico Costa di Azione su twitter. Il deputato del sedicente Terzo polo deve aver digitato di fretta il suo post, dimenticando che nel 2008 era stato lui stesso tra i firmatari di una proposta praticamente identica. Ma d’altra parte un reato per punire l’anoressia vorrebbe introdurlo anche la Lega, che con Arianna Lazzarini ha depositato analoga proposta di legge alla Camera. E lo stesso avevano fatto negli anni scorsi alcuni parlamentari del Pd. L’invenzione dell’omicidio nautico - Il partito maggiormente attivo nella creazione di nuovi reati, però, è quello di Meloni e Nordio. Pagella politica ha messo in fila tutte le proposte già depositate in Parlamento da esponenti del centrodestra, che puntano all’inserimento di nuove fattispecie nel codice. Alberto Balboni, senatore di Fdi e primo firmatario della proposta di legge contro l’istigazione dell’anoressia, ha proposto la craezione di altri due reati: l’omicidio nautico e le lesioni personali nautiche. Un disegno di legge già approvato dal Senato a febbraio che prevede di estendere le pene previste per l’omicidio stradale a chi causa la morte di un’altra persona mentre è alla guida di un’imbarcazione. Sempre Balboni vorrebbe inserire all’articolo 633-ter del codice penale il reato di “occupazione abusiva di privato domicilio o dimora”, con pene fino a cinque anni. I telefonini in carcere, le truffe agli anziani e la merce contraffatta - Altri due senatori di Fdi, Guido Liris e Roberto Menia, vorrebbero far nascere l’articolo 391-quater per punire i detenuti trovati con un telefonino. Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri ed esponente del principale partito di governo, ha proposto di introdurre un nuovo comma all’articolo 640-bis nel codice penale, che disciplina la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. L’obiettivo di Cirielli è punire chi truffa i soggetti minori o gli anziani con una condanna tra i due e i sei anni di carcere. Si ferma a un anno la pena che Claudio Borghi vorrebbe fosse inserita nel codice per punire chi imbratta i vetri dei quadri nei musei. Altre due leghiste, Silvana Comaroli e Vanessa Cattoi, vorrebbero l’arresto per un mese e una multa da mille euro per chi compra merce contraffatta. Pugno duro per i venditori: tre anni di condanna e cinquemila euro di ammenda per ogni pezzo venduto. Sono inoltre ben sei le proposte di legge per mettere fuorilegge la maternità surrogata all’estero: due a testa sono state depositate da esponenti di Lega e Fdi, uno da Forza Italia e un altro persino da Noi Moderati. Ovviamente non è detto che tutte queste proposte riescano alla fine a diventare legge. È un fatto, però, che se fosse per gli esponenti della maggioranza il codice penale italiano sarebbe anche più lungo dell’elenco telefonico di New York. E in ogni caso il governo ha già introdotto due nuovi reati, che presto diventeranno tre, quando l’omicidio nautico sarà approvato pure alla Camera. Nel frattempo delle depenalizzazioni annunciate da Nordio non si ha notizia alcuna. Santalucia (Anm): “Quando Nordio presenterà una riforma la valuteremo” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 aprile 2023 Dopo giorni di scontri a distanza a suon di comunicati, sembra che sia tornato il sereno tra l’Anm e il ministro Nordio. Ne parliamo con il presidente Giuseppe Santalucia. Pace fatta col ministro o la toppa è peggio del buco? Difficile credere che “era già intendimento del ministero proseguire il confronto anche con la Anm su eventuali modifiche della recente riforma del processo penale”... Questo è quanto mi è stato riferito dal Capo di Gabinetto. Certo è strano questo modo di fare. Comunque, è stata istituita qualche giorno fa e non ha svolto ancora alcuna riunione. Noi ci saremo sin da subito: il dettaglio importante è questo. Il 4 aprile comunque ci sarà un altro tavolo con Ucpi e Cnf. Che istanze porterete all’attenzione del ministro Nordio? Da quello che ho capito io non si tratta di un tavolo di consultazione, si tratta di una riunione su un tema specifico sollevato dall’Ucpi sull’elezione di domicilio. Noi ci stiamo consultando internamente quindi ancora non posso dirle qual è la posizione dell’Anm. Quello che posso dire io da operatore della giustizia è che quella norma risponde a una finalità di efficienza del sistema. Se c’è l’elezione di domicilio sappiamo subito dove fare le notifiche, non perdiamo tempo. E se si tratta soprattutto di un imputato assente non corriamo il rischio di duplicare i processi. Nell’incontro con l’Unione Camere Penali Nordio ha tracciato una road map. Tra le cose da fare c’è il ripristino della prescrizione nel suo regime sostanziale. Lei sarebbe d’accordo? Al di là del merito, noi abbiamo dichiarato più volte la nostra contrarietà all’istituto dell’improcedibilità. Il sistema attuale non ci piace e passato il regime transitorio sarà foriero di gravi danni per l’amministrazione della giustizia. Però quello che vorrei sottolineare è che non si possono fare una riforma e una controriforma nell’arco di un anno. Il sistema ha le sue necessità di stabilizzare le regole, le discipline. Detto questo, quando il ministro ci porrà dinanzi a un progetto di riforma valuteremo anche quello. Una proposta di Nordio è quella di prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale. Secondo lei è fattibile? No, non è fattibile. Il ministro prima di fare una cosa del genere dovrebbe rivedere le circoscrizioni giudiziarie, eliminare almeno gli uffici di piccole dimensioni altrimenti li paralizza. Fonti parlamentari parlano di un freno sulla separazione delle carriere in quanto Giorgia Meloni non vorrebbe strappi con la magistratura. Lei percepisce questo sentimento da parte del governo? Non lo percepisco, non abbiamo elementi per dire quale sia l’atteggiamento del governo. Noi come sempre abbiamo detto che ci confrontiamo su tutto. Ma su questo tema occorre dire che essere contrari non significa fare un favore alla magistratura. La questione non riguarda gli interessi dei magistrati ma quelli della collettività. Sarebbe una riforma costituzionale che porrebbe in serio pericolo l’autonomia e l’indipendenza del pm e di conseguenza anche quella del giudice. Il presidente dell’Ucpi Caiazza nell’annunciare una tre giorni di astensione ha detto: “sono evidentissimi e convergenti i segnali di una politica della giustizia di nuovo prona ai diktat e ai desiderata della magistratura”... Questo è un modo di porre le questioni lontano dalla realtà. Non siamo inclini a fare lobbismo. Le nostre posizioni le rappresentiamo pubblicamente: vorrei ricordare che siamo una delle poche associazioni che manda in diretta su Radio Radicale le riunioni del proprio organo deliberante. Siamo alieni dall’impostare in quel modo i rapporti con potere politico. A supporto di questa tesi sia l’Ucpi che l’onorevole Costa di Azione sostengono che verrà rinviata l’approvazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario che l’Anm aveva molto contestato. Suggerisco loro un’altra chiave di lettura per comprendere quale sia la ragione del rinvio. Con ogni probabilità, al momento di dare attuazione, con i decreti legislativi, a una legge mal fatta, i nodi vengono al pettine. In un colloquio con il Foglio il ministro Nordio ha detto: “è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso? Il Nordio editorialista: sono più i proclami che i progetti concreti di riforma. E di certo i pochi interventi visti non sono assolutamente rappresentativi di un Nordio liberale, basti pensare al decreto anti-rave party. Un altro traguardo che vuole raggiungere il governo è quello dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione... Anche la Commissione Lattanzi aveva riflettuto su questa previsione. Questo tipo di riforma va innestata in una più ampia revisione del sistema delle impugnazioni. Non ha senso pensare solo a quel tipo di intervento, che poi in termini di efficienza produrrebbe assai poco in quanto le impugnazioni del pubblico ministero sono circa il 4 per cento. Bisogna rivedere il tema delle impugnazioni. “Un Paese di guitti senza dignità” di Stefano Cappellini La Repubblica, 1 aprile 2023 La persecuzione di Tortora, cavia del giustizialismo nazionale. Per spiegare a un ragazzo o una ragazza di oggi quale fu l’impatto della notizia dell’arresto di Enzo Tortora nel 1983 si potrebbe dire: immaginate se arrestassero oggi Fiorello o Amadeus con l’accusa di essere camorristi e grandi trafficanti di droga. Dovrebbe rendere l’idea, sebbene forse Tortora, all’epoca, fosse persino più popolare di Fiorello e Amadeus. Giornalista, conduttore televisivo, Tortora era amato e seguito da italiani di ogni età, anche i bambini, perché nel suo programma Portobello il momento più atteso dai piccoli era quando i concorrenti cercavano di far parlare un pappagallo che, alla fine, restava quasi sempre muto sul suo trespolo. Parlava molto, invece, un piccolo malfattore e assassino, si chiamava Giovanni Pandico, il quale improvvisamente per assurdi deliri personali raccontò agli inquirenti che Tortora era uno spacciatore di droga legato al clan di Raffaele Cutolo, il ras della camorra. Insieme a lui, fiutando l’occasione di trarne grossi vantaggi, accusarono Tortora anche Pasquale Barra, detto ‘o animale, e successivamente Gianni Melluso, detto Gianni il bello. In teoria, Barra e Melluso erano “pentiti”. Grazie a una legge approvata l’anno prima dell’arresto di Tortora soprattutto per contrastare il terrorismo politico, la legge Cossiga, potevano ora godere di una serie di benefici stabiliti dal codice. Sulla base delle prime dichiarazioni di Pandico, il 17 giugno 1983 Tortora viene prelevato in manette dall’Hotel Plaza di Roma, a favore di reporter, fotografi e operatori tv provvidenzialmente avvisati del blitz, e condotto al carcere di Regina Coeli. Da lì comincia la sua via crucis, se non il più grave caso di malagiustizia della storia repubblicana, certo il più clamoroso, raccontato ora anche dal libro della figlia Gaia (Testa alta, e avanti, editore Mondadori), che al racconto pubblico aggiunge ovviamente il bernoccolo di dolore personale che da allora si porta addosso. La notorietà del conduttore crea l’innesco di un processo mediatico, secondo una prassi che negli anni si sarebbe fatta consuetudine. I giornali cavalcano le tesi dell’accusa, chiamiamole così per decenza, senza dubbi né esitazioni. Anzi, si mette in moto un meccanismo, anche questo destinato a fortuna, di proliferazione degli addebiti. A un certo punto, mentre Tortora e il suo fisico vengono provati da sette ingiustificabili mesi di carcerazione preventiva, sul Corriere della sera compare un pezzo in cui il conduttore viene accusato di aver rubato anche soldi destinati ai terremotati dell’Irpinia. La fonte? Una lettera anonima. Siamo in un pozzo di melma dentro al quale, però, nessuno ha voglia di guardare bene. Per molti, anzi, è acqua di fonte, alla quale attingere ogni giorno per linciare Tortora. Nelle mani dei pm non c’è niente, a parte le deliranti invenzioni degli scannagole, anche se sui media sembrerebbe il contrario: inesistenti numeri su agendine telefoniche, fantomatici incontri mai avvenuti, racconti privi di qualsiasi attendibilità e verosimiglianza vengono spacciati per prove, prima sui giornali e poi al processo. La condizione di Tortora è una vergogna per un Paese civile: essendo innocente, non sa nulla di cosa gli contestano, non conosce i suoi accusatori. Lui stesso racconterà di aver appreso solo indirettamente notizie di loro: “Un collega, Giuseppe Marrazzo, inviato a Napoli per il Tg2, riferì che Pasquale Barra, il pentito della camorra che mi aveva denunciato, procedeva in una caserma dei carabinieri ai riconoscimenti dei presunti membri della nuova camorra organizzata scrutando coloro che gli venivano via via presentati e sorseggiando coppe di champagne. Il telecronista spiegò che Barra indicava questo o quello, sottolineò che il riconoscimento avveniva in un clima di grande tensione, e annunciò che alcune persone in attesa del verdetto venivano colte da malore. Pensai a Barra che diceva: chiste sì, chille no, chiste sì, chille no…”. Tra i pochi che coraggiosamente si smarcano dal clima c’è Giorgio Bocca che su Repubblica prova a usare la logica contro la barbarie dell’accusa e delle ragioni usate per tenere Tortora in galera contro ogni criterio di legge: “Allora fateci capire - scrive Bocca rivolgendosi ai pm - o queste prove ci sono e allora contestategliele o si torna sempre, e soltanto, a Pandico e a ‘O animale, e allora c’è poco da inquinare, lì siamo nella fogna più nera, nel Marat-Sade, fra gente che apriva il petto del nemico e gli mangiava il cuore”. Ma Bocca è un’eccezione. Sulla maggior parte dei giornali e delle tv - all’epoca, per fortuna, almeno non c’era Internet, sarebbe stato peggio - prevale e passa solo la tesi dell’accusa e cioè “Tortora cinico mercante di morte”. Tortora non è solo un formidabile conduttore. È un uomo molto intelligente, colto e sensibile. Capisce subito che il suo caso è solo il più evidente, ma che la giustizia italiana è zeppa di vicende come la sua, però toccate in sorte a poveri e ignoti disgraziati, e che la legislazione approvata negli anni dell’emergenza terroristica ha aumentato a dismisura la possibilità di errori e persecuzioni giudiziarie di tipo medievale. Lui, che è un liberale convinto e che ha fatto parte della nazionale del Pli, fa autocritica per aver appoggiato alcune delle misure che ora vede nel loro carattere autentico: attacchi allo Stato di diritto, strumenti che privano i cittadini, innocenti o colpevoli che siano, di ogni diritto costituzionale. Per questo Tortora comincia a combattere due guerre in una, quella per proclamare la sua innocenza ma anche quella per aiutare altri nella sua situazione e per denunciare l’inciviltà delle carceri italiane. Marco Pannella gli offre la candidatura nella lista del Partito radicale alle europee del 1984 e Tortora, che fa campagna elettorale dai domiciliari, viene eletto a Strasburgo con più di 400 mila preferenze. Uno dei pm che lo accusa dirà poi che a votarlo sono stati “mezzo milione di camorristi”. Un anno e mezzo dopo la sua elezione, nel settembre del 1985, Tortora viene condannato in primo grado a dieci anni di carcere. Uno scempio senza eguali. Lui che è un galantuomo senza macchie, un uomo in mezzo a tragiche macchiette in toga o senza toga, per risposta si dimette da europarlamentare perché nessuno possa accusarlo di cercare scudi o scappatoie. Un anno dopo la condanna in primo grado viene assolto in appello, sentenza confermata dalla Cassazione il 13 giugno 1987, esattamente quattro anni dopo il suo spettacolare arresto. Torna anche a condurre in Rai ma presto il suo fisico presenta il conto delle sofferenze subite: muore nel maggio del 1988, a 59 anni. La sua vicenda sembra inizialmente avere un effetto virtuoso sul sistema: si modificano i termini della carcerazione preventiva, nel 1987 si celebra un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che, pur vinto, non avrà alcun effetto concreto. Al contrario alcuni dei metodi sperimentati su di lui diventeranno strutturali anche grazie al lato oscuro di Tangentopoli, che spesso si oppose alla dilagante corruzione della politica con la corruzione dello Stato di diritto, come già era avvenuto nel corso delle altre emergenze nazionali, cioè terrorismo e mafia: abuso della custodia cautelare, cambio in corsa dei capi di imputazione, inversione dell’onere della prova, restrizione dei diritti di difesa. Pratiche che non sono meno gravi se applicate ai colpevoli, oltre che agli innocenti. Il pentitismo produce ordinanze che colpiscono centinaia di persone in un colpo solo rendendo in sostanza vano uno dei capisaldi del diritto: l’accertamento della responsabilità penale è sempre personale. Come discernere se gli imputati di un processo sono 600 o 700? Dall’arresto di Tortora, 40 anni fa, la giustizia spettacolo è aumentata, non diminuita. Ricordarlo significa quasi sempre essere assimilati ad amici dei corrotti, complici, collusi, prezzolati. Come funzioni il dibattito pubblico di questo disgraziato Paese lo ha raccontato meglio di tutti proprio Tortora, un uomo che non ci mancherà mai abbastanza, raccontando in un libro cosa accadde quando si sforzò di presentarsi in ordine al processo contro di lui: “Volevo presentarmi ai giudici in ordine, comparirei ben vestito anche davanti al boia. Fui trasportato in barella sino in un atrio. Scesi, e mi appoggiai a un bastone che avevo con me, salii per uno scalone e vidi venirmi incontro un colonnello dei carabinieri. Chiesi dove potevo cambiarmi d’abito. Mi accompagnarono in uno stanzino. Mi tolsi l’accappatoio, infilai la camicia e i pantaloni, mi annodai la cravatta, mi misi la giacca, uscii e ritrovai il colonnello. Ci fu persino chi ironizzò sulla mia decisione di presentarmi ben vestito davanti ai giudici e insinuò che, se mi ero cambiato d’abito, non stavo poi tanto male. Ebbi così la sconsolante sensazione che, se fossi comparso trasandato, sarei stato più credibile e pensai con rassegnata tristezza che il nostro è un Paese in cui si apprezzano i guitti ma non si sa dove stia di casa la dignità”. I giudici francesi hanno dato una lezione di diritto agli ultrà delle manette di Paolo Persichetti Il Riformista, 1 aprile 2023 Per l’ex procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di “arrogante intolleranza”, figlio della irresistibile tentazione francese di “insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo”. I contenuti giuridici della decisione - sempre secondo l’ex pm - oscillerebbero tra “il paradossale e l’incredibile”. In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò - a detta dell’ex procuratore - non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria italiana ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi a una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione. Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la “punizione infinita”, per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni. Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato. A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente richiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione. Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni. Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi. Il peccato originale è nei processi fatti in contumacia di Roberto Cota Il Riformista, 1 aprile 2023 La Cassazione francese ha definitivamente negato l’estradizione per dieci ex terroristi tra i quali Giorgio Pietrostefani e le ex Br Marina Petrella e Roberta Cappelli. La decisione è arrivata nonostante la posizione favorevole all’estradizione assunta dal presidente Macron. Le motivazioni della Corte di Cassazione non sono note ma, trattandosi di ultima istanza, richiameranno quelle della sentenza della Corte di Appello di Parigi che l’anno scorso aveva appunto negato la consegna degli ex terroristi. In quella sede si era sostenuto: a) La violazione dell’art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo con riferimento al fatto che gli imputati erano stati processati in contumacia; b) Il notevole tempo trascorso rispetto ai fatti a fronte della lunga inerzia dello Stato italiano e del consolidarsi di una vita familiare in Francia da parte degli imputati. Da un punto di vista di giustizia sostanziale, sono assolutamente comprensibili le reazioni sdegnate delle famiglie delle vittime. Non stiamo parlando di reati fiscali o di vicende controverse, ma di omicidi e di attentati. Da un punto di vista strettamente giuridico, però, il nostro sistema ha dei problemi e questo è innegabile. Uno di questi problemi riguarda (riguardava) la struttura del processo in absentia o in contumacia. Del resto, questo aspetto è stato affrontato anche dalla riforma Cartabia che ha messo mano alla disciplina introducendo una serie di garanzie circa l’effettiva partecipazione dell’imputato al processo. Certo, spesso si tratta di fare uno slalom rispetto ai principi espressi dalla giurisprudenza Cedu, però, il tema della partecipazione dell’imputato al processo esiste davvero e anche la Corte Penale Internazionale non celebra i processi in contumacia. La verità è che persone accusate di reati così gravi andrebbero catturate con mandato di arresto internazionale o e poi processate in contraddittorio assicurando il pieno diritto di difesa. Una volta in carcere in territorio italiano, la mancata partecipazione al processo sarebbe frutto di un’espressa rinuncia. Anche la lunga inerzia dello Stato italiano, che sapeva benissimo che gli ex terroristi erano riparati all’estero, è un tema giuridicamente rilevante perché la pretesa punitiva non è stata effettivamente esercitata a tempo debito. Dare addosso ai giudici francesi è un po’ semplicistico, molte delle responsabilità in questa triste vicenda sono della politica: italiana (che per anni è rimasta inerte sapendo che in Francia vi erano terroristi in libertà), francese (che in passato ha garantito una protezione politica a questi terroristi). La vedova Calabresi: “Pietrostefani è un altro, Dio è andato da lui” di Piero Colaprico La Repubblica, 1 aprile 2023 “La Francia dice: non estradiamo i terroristi perché hanno famiglia. La nostra non conta?”. I mistici dicevano, più o meno: “Se non sai dove andare, prendi una strada che non conosci”. E così sembra aver fatto nella sua latitanza a Parigi Giorgio Pietrostefani, l’ex capo del servizio d’ordine di Lotta Continua. Lo ha raccontato ieri Gemma Calabresi Milite, la vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso in un agguato a Milano il 17 maggio 1972, per ordine - così dicono le sentenze - di Pietrostefani e Adriano Sofri, entrambi condannati a 22 anni di carcere. L’estradizione e la fede in Dio - Mezzo secolo dopo quell’omicidio, i cosiddetti “Anni di piombo” restano per molti cronaca dolente e divisiva: ma “Pietrostefani - ha detto ieri la signora Gemma in un incontro con gli studenti dell’Arcivescovile di Trento - non è più quello di cinquant’anni fa”. C’è una spiegazione: “Quando si parlava di estradizione, mio figlio maggiore Mario è andato a incontrarlo a Parigi. Non posso dirvi cosa si sono detti, perché ha chiesto che quel colloquio fosse riservato. Però posso dirvi una cosa che vi aiuta a capire: anche lui ha incontrato Dio. Dio è andato anche da lui e non è più la persona di 50 anni fa”. La fede religiosa non è argomento da “opinioni”, o esiste o non esiste. E va detto che tra gli ex terroristi c’è davvero di tutto. Non pochi venivano già allora da esperienze cristiane (uno dei primi infiltrati del generale Carlo Alberto dalla Chiesa era non a caso un religioso, detto “frate mitra”). Dalle rapine al volontariato - Ancora oggi, c’è chi fa volontariato, chi si occupa di detenuti, chi va spesso a raccogliersi in preghiera. Ma c’è anche qualcuno che è tornato a fare rapine - pochissimi - o a rivendicare un ruolo non soltanto criminale del terrorismo. Del percorso religioso di Pietrostefani, che mai ha accettato la condanna al processo, nulla si sapeva: il prossimo novembre compirà 80 anni, sta dentro e fuori dagli ospedali dopo un trapianto di fegato e, diventato manager di importanti aziende, aveva rinnegato la stagione della violenza ben prima dell’arresto, che risale al 1988. E cioè a quando Leonardo Marino, che guidava l’auto dell’attentato compiuto materialmente da Ovidio Bompressi, confessò il delitto ai carabinieri (anche lui alla fine di un percorso religioso). La morte di Pinelli - Calabresi era ritenuto il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe (Pino) Pinelli, avvenuta in questura durante un interrogatorio nel dicembre 1969, nei giorni della strage fascista di piazza Fontana. E fu il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a chiedere a Gemma e a Licia Pinelli di incontrarsi (maggio 2009), anche per favorire una riconciliazione generale. Le vedove in qualche modo si trovarono e si abbracciarono. Ma non sono cambiate le diverse letture di quel periodo insanguinato. “Oggi - è la visione della vedova del commissario - prego perché i responsabili della morte di mio marito abbiano pace nel cuore”. Il perdono per chi ha ucciso può dunque esserci, ma poi? La Cassazione francese - La Corte di cassazione francese ha infatti riaperto la ferita: la sentenza “dice che è assurdo mettere in carcere delle persone perché oggi loro si sono rifatte una vita e hanno una famiglia. Questo - sostiene la signora Gemma - ci offende, perché le nostre famiglie contano di meno. Doveva forse essere diversa la motivazione, con più rispetto per chi ha sofferto”. Già nel 2021, quando per qualche giorno Pietrostefani, così come gli altri terroristi che vivono in Francia, finì in cella, lei aveva pensato che non avesse senso “far entrare in carcere Pietrostefani, in quanto anziano e ammalato”. La crepa e la luce - Sulla storia familiare, sociale e politica ha scritto un libro - La crepa e la luce, Mondadori - che nella fede ha la chiave d’interpretazione delle scelte di vita. E agli studenti ha aggiunto un consiglio: “Quando siete in gruppo, non diventate gregge, mantenete un pensiero libero. Prima di condannare una persona informatevi. In quegli anni tanti gridavano, ma pochissimi pensavano”. Terni. Aveva ucciso la moglie a coltellate, morto suicida in carcere di Susanna Picone fanpage.it, 1 aprile 2023 Si sarebbe impiccato nel carcere di Terni l’uomo di 62 anni fermato per avere ucciso la moglie giovedì colpendola con più coltellate al termine di una lite. Lo ha appreso l’ANSA da fonti sindacali e investigative. Xhafer Uruci, l’uomo di 62 anni che giovedì era stato fermato con l’accusa di aver ucciso la moglie Zenepe a Terni, si è suicidato in carcere. Lo ha appreso l’Ansa da fonti sindacali e investigative. L’uomo, secondo le prime informazioni, si sarebbe impiccato. Nella notte tra giovedì e venerdì era stato fermato dalla polizia con l’accusa di omicidio volontario. Lo avevano bloccato subito dopo il delitto nella stessa abitazione dove viveva la coppia. Xhafer Uruci era in carcere in attesa dell’interrogatorio di garanzia. Zenepe Uruci, secondo quanto emerso, aveva provato a chiedere aiuto al figlio prima di essere colpita a morte dal marito Xhafer. Il 62enne ha colpito la moglie diverse volte con un coltello nella loro casa di Borgo Rivo. Il primo ad accorrere sul luogo del massacro è stato il figlio della coppia che al telefono ha sentito le urla della madre che veniva aggredita. Zenepe, 56 anni, di origini albanesi come il marito, aveva inviato al figlio un messaggio vocale: “Papà mi sta facendo del male”, gli avrebbe detto, mettendo in allarme il giovane. Nuoro. La Commissione Giustizia della Camera a Badu ‘e Carros: subito nuovo personale di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 1 aprile 2023 La carenza di ispettori e agenti, la precaria situazione dell’assistenza sanitaria si ripercuotono sulla sicurezza del penitenziario. C’è un’attenzione trasversale che riguarda la situazione delle carceri in generale, e in particolare Badu ‘e Carros, da parte delle forze politiche. Lo ha chiarito il deputato Pietro Pittalis (FI) che ha guidato la Commissione Giustizia della Camera nella visita conoscitiva nel penitenziario nuorese, dal quale il 24 febbraio scorso è evaso il boss della criminalità organizzata garganica Marco Raduano. I commissari, e con loro anche gli altri deputati isolani Alessandra Todde, Francesca Ghirra e Emiliano Fenu, hanno incontrato anche i sindacati, la garante dei detenuti, e, al pomeriggio in prefettura, i vertici delle forze dell’ordine e il prefetto Dionisi. La Commissione ha potuto constatare la carenza di personale che condiziona fortemente il livello di sicurezza del penitenziario: a fronte di un organico teorico di 206 tra ispettori e agenti, sono in servizio 145. Difficile quindi garantire le misure per il controllo di detenuti, posto che a Badu ‘e Carros ci sono diversi reclusi in regime di alta sicurezza e alcuni al 41 bis. C’è quindi un tema sanitario piuttosto importante: i commissari hanno rimarcato la necessità di avviare una interlocuzione stretta con la Regione per garantire che vengano applicate le norme sull’assistenza sanitaria, in particolare per quella ai detenuti psichiatrici, che è fortemente carente non solo a Badu ‘e Carros, ma in tutta l’isola. Alcune risposte potranno aversi con l’invio di personale grazie all’espletamento del concorso per oltre un migliaio di posti e con lo scorrimento delle graduatorie, ma è di tutta evidenza che non sarà sufficiente per ripristinare condizioni di serenità di lavoro da parte del personale, rieducazione dei detenuti, e garanzie di sicurezza della struttura, che comunque necessita di importanti interventi anche funzionali. Un altro degli aspetti emersi dalla visita è la necessità che si trovino direttori per gli istituti penitenziari: la stessa direttrice di Badu ‘e Carros, Patrizia Incollu, si è trovata a gestire contemporaneamente tutti i 10 istituti di reclusione dell’isola. Firenze. Lunedì presentazione del progetto Kutub Hurra nel carcere di Sollicciano Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2023 Il progetto Kutub Hurra è rivolto ai detenuti arabofoni ed è promosso a Firenze dal carcere di Sollicciano e dal Garante dei detenuti, in stretto rapporto con l’associazione Un ponte per, che si occupa di programmi di cooperazione e solidarietà internazionale, e l’Association Lina Ben Mhenni, con sede in Tunisia, che rifornirà gratuitamente la biblioteca del Carcere di Sollicciano di libri in lingua araba. La presentazione ufficiale dell’iniziativa, con la consegna dei primi 50 libri di letteratura laica in lingua araba, si terrà lunedì 3 aprile 2023, ore 11:00 Giardino degli Incontri della Casa Circondariale di Sollicciano-Firenze Alla presentazione seguirà la lettura di brevi brani estratti dai libri consegnati. I brani saranno letti dai detenuti in lingua araba e tradotti da una mediatrice culturale del Cesdi in lingua italiana. Per il Comune di Firenze sarà presente il Garante dei detenuti Eros Cruccolini. NB: per partecipare è necessario accreditarsi con nome e testata di appartenenza entro venerdì 31 marzo tramite e-mail a cc.firenze.sollicciano@giustizia.it Il Cpt denuncia: “Torture alle frontiere per respingere migranti e rifugiati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2023 Le autorità europee fanno ricorso a pratiche qualificate come tortura nei confronti di migranti e rifugiati che tentano di attraversare le frontiere. Un diffuso ricorso alla violenza, alle intimidazioni e alla detenzione e si identifica un “chiaro schema di maltrattamenti fisici”. Questo è ciò che si afferma nel rapporto annuale diffuso giovedì scorso dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa. Parliamo di veri e propri maltrattamenti fisici durante le operazioni di respingimento, insieme al costante diniego delle garanzie basilari e del diritto d’accesso all’asilo. “Questo sconvolgente rapporto si aggiunge al sempre più grande cumulo di prove di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità europee alle loro frontiere - ha dichiarato Eva Geddie, direttrice dell’Ufficio europeo di Amnesty International -. È la conferma delle testimonianze di migliaia di persone che hanno subito violenza alle frontiere marittime e terresti dell’Europa”. Il rapporto del Cpt identifica una tendenza generale alle frontiere europee, senza fare cenno a specifici Stati. Cita casi in cui agenti di polizia, guardie di frontiera e altri funzionari hanno preso persone a manganellate, hanno esploso colpi di pistola sopra le loro teste, le hanno spinte - spesso ammanettate - nei fiumi, le hanno costrette a camminare a piedi nudi e in mutande e, in alcuni casi, ad attraversare le frontiere completamente nude e le hanno minacciate o aggredite con cani privi di museruola. “Queste prassi brutali e illegali, spesso eseguite nel contesto di ritorni illegali o di respingimenti, sono usate dalle autorità per impedire alle persone in cerca di protezione di raggiungere i loro confini - afferma Amnesty International -. Le conclusioni del Cpt circa la loro natura sistemica sono corroborate dalle ricerche svolte da Amnesty International lungo le frontiere europee, tra cui quelle recenti in Spagna, Croazia, Polonia, Lituania e Lettonia”. Continua sempre Amnesty International: “Il rapporto è stato reso noto proprio mentre il parlamento lituano sta esaminando una proposta di legge che intende rendere legali i respingimenti. Se venisse approvata, priverebbe le persone entrate irregolarmente in Lituania di ogni possibilità di chiedere protezione internazionale e causerebbe il ritorno forzato di molte di esse in luoghi dove rischierebbero di subire torture”. L’organizzazione prosegue sottolineando che “dall’estate del 2021 Lituania, Polonia e Lettonia hanno utilizzato lo stato d’emergenza per legalizzare i ripetuti respingimenti alle frontiere con la Bielorussia, esponendo molte persone alla violenza fisica, ai ritorni sommari e ad agghiaccianti condizioni di detenzione”. Da allora almeno 37 persone hanno perso la vita alla frontiera polacca e molte altre sono morte lungo quelle della Lettonia e della Lituania. Confermando anche in questo caso le prove raccolte da Amnesty International, il rapporto del Cpt afferma che generalmente le autorità non indagano sulle denunce di torture, maltrattamenti e altre violenze avvenute nel contesto delle operazioni alle frontiere. “Il drammatico elenco di violenze e intimidazioni contenuto nel rapporto è purtroppo abbondantemente familiare. La mancanza di provvedimenti per le gravi violazioni dei diritti umani alimenta un ciclo di violenza incontrastata e rivela un profondo disprezzo degli stati europei per la vita delle persone in cerca di protezione - ha concluso Geddie -. C’è urgente bisogno che vengano avviate indagini immediate e indipendenti, che i responsabili siano chiamati a risponderne e che siano istituiti forti meccanismi indipendenti di monitoraggio alle frontiere”. D’altronde la prevenzione dei maltrattamenti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti privati della libertà all’interno dell’area del Consiglio d’Europa rimane una priorità per il Cpt. Nel suo 7° e 19° Rapporto Generale, il Comitato ha esposto il suo pensiero sui diritti dei cittadini stranieri in detenzione per immigrati. Dal 2009, il Cpt ha continuato a ricevere numerose accuse di maltrattamento di cittadini stranieri da parte di funzionari statali e a visitare i centri di detenzione per immigrati in condizioni spaventose. Inoltre, ha incontrato un numero crescente di persone che affermavano di essere state allontanate violentemente con la forza dal territorio di un paese del Consiglio d’Europa, alle frontiere terrestri o marittime, senza tener conto delle loro circostanze individuali, vulnerabilità, esigenze di protezione o rischio di maltrattamenti al rientro (i cosiddetti “respingimenti”). Il crescente ricorso a respingimenti negli ultimi anni con responsabilità minima da parte degli attori statali ha portato il Cpt a esporre le proprie opinioni sulla necessità di mettere in atto adeguate strutture di controllo per porre fine a questo fenomeno. “Tutte le persone private della loro libertà dovrebbero essere trattate con dignità e in conformità con i principi dei diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale”, sottolinea il comitato nel rapporto. I numerosi casi segnalati di allontanamento sommario e forzato di cittadini stranieri alle frontiere terrestri e marittime di diversi Stati membri del Consiglio d’Europa - caratterizzati , tra l’altro, da atti di maltrattamento fisico, inosservanza delle fondamentali garanzie legali e dell’accesso all’asilo, e cattive condizioni materiali di detenzione - sono state documentate da varie organizzazioni internazionali e della società civile, anche attraverso l’ uso della tecnologia di geolocalizzazione. Il diffuso fenomeno dei respingimenti - sia per portata che per estensione geografica - è stato denunciato, tra gli altri, dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo. Nell’esaminare il trattamento dei cittadini stranieri nel contesto delle operazioni di respingimento alle frontiere, il Cpt ci tiene a sottolineare che ha sempre rispettato il diritto inviolabile degli Stati di controllare i propri confini sovrani e ha riconosciuto le sfide sproporzionate affrontate da alcuni paesi che si trovano ad affrontare arrivi migratori, soprattutto in virtù della loro situazione geografica. Di conseguenza, il Comitato ha ripetutamente affermato nelle sue relazioni che rispondere a queste sfide richiede un approccio europeo concertato per affrontare i flussi migratori misti. Nel contempo, il Cpt è irremovibile nel riaffermare che queste sfide non possono assolvere gli Stati membri del Consiglio d’Europa dal rispetto dei loro obblighi in materia di diritti umani. “Non possono esservi deroghe a norme fondamentali del diritto internazionale come il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante delle persone private della libertà e il loro diritto a non essere rimandati in un paese in cui vi sono fondati motivi per ritenere che sarebbero corrono un rischio reale di essere sottoposti a tale trattamento”, chiosa il comitato europeo. Migranti. La Via Crucis di Alì davanti a Cutro: “In mare ho perso 16 famigliari su 21” di Giuseppe Legato La Stampa, 1 aprile 2023 Il racconto del giovane afghano: “Tutti i miei parenti erano su quella barca”. Sono le 16.45 del 6 marzo scorso quando nelle stanze della Questura di Crotone, un ragazzo afghano di 23 anni racconta a due ispettori della polizia la più drammatica e incredibile storia di morte del naufragio di Steccato di Cutro, 92 vittime nel mare d’inverno, finita agli atti dell’inchiesta dei pm calabresi. “Tutta la mia famiglia era su quella barca. Siamo partiti in 21, sedici sono morti tra le onde”. Bisognerebbe essere stati lì, in quel momento, negli uffici della squadra Mobile, per guardare negli occhi Namzai Alì, 23 anni il prossimo 27 agosto che racconta di come ha perso tutto e tutti sul caicco Summer Love partito dalle spiagge di Izmir, Smirne il 22 febbraio e finito in mille pezzi su una secca a poche decine di metri dalla spiaggia: generazioni sterminate affogate nelle fredde acque del mar Jonio quando ormai si sentivano arrivati a destinazione: “Quel trafficante - dice - mi ha distrutto la vita, i miei familiari sono quasi tutti morti, ho perso anche la mia fidanzata, è colpa sua e adesso chiede anche che sblocchiamo i soldi dei cinque rimasti in vita. Non devo pagare niente, è lui che deve scontare la sua pena in carcere”. Lo indica subito nel registro fotografico che gli mostrano i poliziotti: “È lui - dice - lo confermo senza alcun dubbio” dando riscontro un’istantanea che ritrae il trafficante comodamente seduto su una panchina della barca. Con l’indice racconta ai poliziotti l’identità degli altri quattro. Non tentenna, brama giustizia. “Tre mesi fa siamo partiti da Kabul, tutti insieme, in 21 verso la Turchia, appena arrivati abbiamo preso in affitto un appartamento nel quartiere Aksaray e 20 giorni prima della partenza verso l’Italia mio zio Mohammhed Anvar ha contattato un trafficante afghano a Istanbul: si chiama Said Reza, ho il contatto telefonico vi mostro l’intera chat. Con lui, zio ha contrattato l’intetra liquidazione per il viaggio clandestino di tutti noi: 118 mila euro per i quali sono stati impegnati i soldi della vendita di una casa e di un terreno del datore di lavoro di mio zio al quale li avremmo restituiti mano a mano lavorando in Europa. Lo zio però è morto nel naufragio quindi due giorni fa ho contattato io il trafficante specificando che 16 dei 21 membri della nostra famiglia sono morti su quella barca. Mi ha risposto che non toglierà il vincolo della somma”. Il racconto prosegue: “Pochi giorni prima di salpare verso l’Italia siamo stati contattati da Said Reza che ci comunicava di spostarci nel quartiere Zaytomburno di Istanbul. Lo abbiamo raggiunto a bordo di più taxi essendo 21 persone. Qui abbiamo incontrato due afghani che ci hanno sistemato in un appartamento al sesto piano insieme ad altre 80 persone, siamo rimasti lì una sola notte. Alle sei del mattino siamo stati caricati a bordo di diversi furgoni bianchi e siamo stati portati a circa lontani da Istanbul: in questo casolare siamo stati accolti da tre pakistani, due dei quali hanno poi fatto il viaggio insieme a noi fino alle coste italiane che ci hanno fatto infine spostare sue due camion. Giunti nei pressi di un bosco abbiamo ancora camminato per due ore fino a raggiungere la spiaggia dove c’erano già 100 persone pronte a imbarcarsi”. I trafficanti sequestrano i cellulari a tutti i passeggeri della nave, “ce lo restituiranno soltanto dopo aver superato le isole greche con l’ordine di non utilizzarlo fino all’arrivo”. La testimonianza arriva presto al momento più drammatico, quello del naufragio: “Abbiamo sentito un forte urto, ho cercato di afferrare la mia fidanzata, ma il resto della mia famiglia è rimasta sottocoperta dove l’acqua ormai entrava in quantità. A distanza di due minuti la barca si è spezzata, io e lei siamo stati investiti da un’onda e la sua mano mi è sfuggita. L’ho cercata, ma non l’ho più trovata, sono riuscito ad arrivare in spiaggia a nuoto e mi sono seduto da solo per cercare di riprendere le forze dopo aver vomitato perché avevo inghiottito acqua e carburante. Lì, ho trovato due miei cugini che erano ancora vivi e sono arrivati i primi soccorsi. Ma lei non l’ho più vista e sono rimasto solo sulla sabbia, senza più speranza”. Migranti, l’italiano che non si insegna di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 aprile 2023 Non c’è mai stata una vera politica nazionale per insegnare la lingua italiana agli immigrati, come avveniva ai nostri emigrati in America. E ipotizzando di eliminare del tutto i corsi si dimostra una smemorata brutalità. “La polizia li trascinò in carcere sottoponendoli a un trattamento abbastanza pesante”, scrisse il New York Times, “ma la principale accusa che si poteva muover loro era quella di non saper parlare inglese”. E finì con l’assalto d’una folla assatanata al carcere della Contea e il linciaggio di quei nostri undici nonni assolti dall’accusa d’aver ucciso un poliziotto. Era il 1891. “Costano così poco questi italiani che val la pena di impiccarli tutti”, disse l’allora Segretario di Stato Usa in una vignetta in cui porgeva una borsa di denaro risarcitorio al nostro ambasciatore a Washington. E quella fu solo una delle infinite e astiose accuse ai nostri emigrati, dalla Svizzera all’Australia, di rinserrarsi nelle Little Italy, spesso luoghi di disagio e violenza, per le difficoltà a imparare la lingua del posto. Uno stereotipo che pesò moltissimo sulla nostra emigrazione. Tutto rimosso. Per questo puzzano di smemorata brutalità certi emendamenti leghisti che mirano alla “riduzione dei servizi erogati” nei centri di raccolta degli immigrati e dei richiedenti asilo fino “all’eliminazione di corsi di lingua”. Altri Paesi europei più aperti e saggi del nostro, pur ospitando quote proporzionalmente maggiori di immigrat i, fanno scelte diverse. E studiano dossier e rapporti che dimostrano come proprio i corsi di lingua e di formazione possono portare perfino fra immigrati scelti a caso (vedi Intensive Coaching of New Immigrants, di Pernilla Andersson Joona e Lena Nekby) ad aumenti fino al 43% nella prima occupazione, con effetti positivi sull’economia, la convivenza, la pace sociale e la gestione della piccola criminalità. Noi no. Rischiamo anzi di lanciare un messaggio muscolare e securitario di questo tenore: non ci interessa che ci capiate o no, che vogliate inserirvi o no, ci basta parcheggiarvi per limitare i danni in grandi contenitori (di “carico residuale”, secondo la sventurata definizione del Viminale) in attesa di rispedirvi indietro o smistarvi altrove. Per dirla col vecchio assessore lombardo Piergianni Prosperini poi condannato per traffico d’armi con l’Eritrea, “Camèl, barchèta e te turnet a ca’”. Ma può essere questa, al di là di ogni umana pietas, in un Paese coi conti pensionistici in grave affanno (“Senza gli immigrati saremmo in una condizione da allarme rosso”, ammetteva già nel 2010 l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini) e in profonda crisi demografica (le nascite dal 2017 ad oggi sono precipitate dal già allarmante minimo storico di 464.000 a 392.598) la risposta all’ondata migratoria? E alla pressante richiesta degli imprenditori dei più diversi settori di un afflusso di almeno 200mila nuovi lavoratori l’anno? Ben vengano una nuova politica delle nascite, nuovi incentivi alle aspiranti madri, nuovi asili e nuove regole per i padri da coinvolgere... Ma, come ricorda Corrado Bonifazi, autore de L’immigrazione straniera in Italia, “un bambino che nasce oggi potrà dare il suo contributo, se va bene, fra vent’anni, ma intanto che facciamo, con questi tagli miopi e autolesionisti ai già risibili finanziamenti per la lingua e i corsi di formazione?”. Annaspiamo, risponde il demografo Gianpiero Dalla Zuanna: “L’anno scorso gli artigiani di Treviso hanno organizzato un corso per dieci saldatori cui era garantita l’assunzione a tempo indeterminato a 1.700 euro netti mensili a fine corso: si sono presentati in quattro, tutti stranieri, e han finito il corso in due”. Auguri. Oddio, non è che in passato andasse molto meglio. Come spiegava tre anni fa l’Osservatorio sulle Migrazioni del Centro Studi Luca d’Agliano e del Collegio Carlo Alberto, l’Italia ha sempre avuto una massa di immigrati tra i meno istruiti arrivati in Europa. Un po’ per il peso dei “vicini” immigrati africani (“I tassi d’alfabetizzazione degli adulti sono al di sotto del 50% ancora in 20 Paesi: Afghanistan, Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrale Africana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan”, ricorda un saggio di Elisabetta Balbo sui percorsi di alfabetizzazione per i rifugiati) ma soprattutto perché, spiega l’economista della Statale Tommaso Frattini, “qui non c’è mai stata una politica nazionale per insegnare l’italiano agli immigrati. Un errore gravissimo. Mi metto al posto loro: se mi trasferissi io nel Burkina Faso cosa farei? Che ne so del mercato del lavoro locale, della loro lingua e dei loro dialetti, dei meccanismi di reclutamento, di tutte quelle cose che ci consentono di inserirci? La lingua è essenziale per ogni emigrante. Non puoi neanche chiedere asilo, se non sai “come” chiederlo”. “Io sospetto infatti che questo sia il disegno”, sorride amara Alessandra Ballerini, l’avvocata che da anni si spende per i rifugiati, “Ignorantia legis non excusat, è vero. Ma qui ogni carta può rovinarti. Già l’immigrato, che magari ha pieno diritto all’asilo, fatica a capire una banale domanda in italiano, come può capire un testo di legge o un modulo burocratico? Sa quanti confondono la “dimora” con la “residenza”? Basta quella svista e sei denunciato per aver dichiarato il falso. Fine di ogni speranza”. Certo, nei capitolati d’appalto per i servizi d’accoglienza l’insegnamento della lingua ai richiedenti asilo c’è: 4 ore a settimana da spartire fino a 50 posti, 72 da spartire (fate voi i conti...) da 601 a 900. Sulla carta, però. Nella realtà il caos, anche per la sciatteria sparagnina nella gestione degli insegnanti, è totale. E quelle ore di lezione spesso in strutture lontane o disastrate con docenti che ci sono e non ci sono e trucchi e sotterfugi e sbracamenti vari finiscono per evaporare in una nuvola. Dove le sole presenze reali sono qua e là, Dio le benedica, quelle del volontariato. Per non dire dei corsi di formazione... Una scelta ottusa e controproducente, che impedisce anche ai più svegli, volenterosi e preparati, che a volte fanno la fortuna di altri Paesi, di tirar fuori ciò che hanno dentro. Di più: li umilia in un limbo degradato dove sono abbandonati a bighellonare e sopravvivere in una vita senza senso. Come tanti nostri avi che a Ellis Island, incapaci di rispondere in inglese su cose che non capivano, tipo i feroci Mental tests for immigrants, spinsero certi sedicenti studiosi razzisti come Arthur Sweeny a giudizi come questo pubblicato nel 1921 sulla North American Revue: “Non abbiamo spazio in questo paese per “l’uomo con la zappa”, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello”. Rendere “reato universale” la gravidanza per altri non proteggerà le persone di Roberto Saviano Corriere della Sera, 1 aprile 2023 “È l’amore che crea una famiglia”, recitavano le magliette dei manifestanti a Milano, lo scorso 18 marzo per difendere un diritto che è grottesco mettere in discussione, ovvero quello di registrare all’anagrafe i figli di coppie omogenitoriali. E come accade sempre, chiunque sia al governo, si parte da un segmento per allargare il discorso e consentire a chi nulla sa di orientare il dibattito pubblico ed esacerbare gli animi fino a ledere platealmente i diritti delle persone credendo di essere legittimati a farlo. È questa la post-verità, la verità delle viscere, quella che fa dire a chiunque: “Così deve essere, perché così la penso io”. Riusciamo a cogliere la gravità di questa prassi quando è la classe politica a esserne espressione? E che oggi sia, a mettere in scena questo teatro dell’assurdo, una politica sovranista, razzista e omofoba poco ci stupisce, ma se siamo giunti a questo punto, un bel grazie grillino, di quelli urlati in maiuscolo, va a tutti i governi precedenti, che non sono stati in grado di legiferare su questioni riguardanti i diritti fondamentali degli esseri umani. Ho scelto di mostrare le schiene di due bambini, ma qui non si parla solo di loro. Quando di mezzo ci sono i bambini, si accetta quasi supinamente che la razionalità possa fare un passo indietro. Si mette in discussione il diritto che i figli delle coppie omogenitoriali possano essere registrate all’anagrafe? Ebbene, parte il coro di chi inizia a parlare di gestazione per altri (GPA), di chi si indigna per questa pratica di cui nulla sa e nulla vuol sapere. Per inciso: i giornali sovranisti hanno fatto largo uso del web, zero inchieste, zero approfondimenti, solo becerume e inchiostro per occupare spazio. Qual era il terreno comune per accostare i due argomenti? Bambini e famiglie omogenitoriali, alle menti semplici che popolano il Parlamento, tanto è bastato per accostare due fatti diversissimi e fare la solita ammuina il cui unico obiettivo è fare in modo che a contrapporsi siano le viscere e mai le menti. Lo scopo è non spostarsi di un centimetro da dove siamo, in un Paese in cui non si è stati capaci di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole; in cui oggi, nelle stesse scuole, non esiste alcuna forma di educazione all’uso dei social, che pure ha molto a che fare con l’educazione sessuale: la politica pretende di entrare a gamba tesa in questioni di cui non sa occuparsi. A noi resta la consapevolezza che si voglia vietare non ciò che è pericoloso o lesivo di un qualche diritto, ma semplicemente ciò che non si conosce, ciò su cui non si vuol ragionare. La gestazione per altri non deve essere un tabù e, perché non sia sfruttamento, perché rispetti la dignità di tutte le persone coinvolte, deve essere regolamentata, anche in Italia. A oggi, quel che sappiamo è che a farne ricorso sono soprattutto coppie eterosessuali che, per i motivi più disparati, non possono avere figli. E qui prego chi mi sta leggendo di avere cautela nel dire: se la natura vieta non serve accanirsi, perché si diventa sterili anche in seguito a tumori... siamo davvero così convinti che chi soffre perché non può mettere al mondo dei figli, non possa ricorrere alle soluzioni che il progresso mette a disposizione? Ma poi cosa sono progresso e ricerca scientifica se non espressioni della natura? Non sono forse conseguenza della speculazione dell’essere umano? E l’essere umano appartiene o no al mondo naturale? Chissà se lorsignori, invece di setacciare il web alla ricerca di teorie che confermano le loro idee, capiranno l’assurdità di proporre una legge che renda la gravidanza per altri “reato universale”, quando in tutto il mondo nemmeno la pena di morte lo è, quando in Italia non riusciamo a rendere reato la tortura. Per questo governo bislacco e disumano (Nordio complice), e anche per quelli che lo hanno preceduto, il codice penale è solo uno strumento di rimozione dei problemi. Ma la politica non deve rimuovere problemi aggiungendo reati, ma risolverli legiferando. A Napoli, in queste settimane, quasi ogni esercente ha fatto stampare sulle buste della spesa questa frase “Me penzavo ca murevo e’ stu’ juorno nun o vedevo”, riferita al terzo scudetto del Napoli, che aspettiamo dal 1990. E se questo miracolo San Gennaro potrebbe farlo (da scaramantico, faccio corna), quello di vedere bandite le viscere dal Parlamento in qualità di organo legiferante, credo sarebbe solo utopia.