Le carceri sono piene di piccoli spacciatori? Non basta, FdI chiede l’aumento della pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2023 Arriva l’ennesima proposta di legge volta ad inasprire le pene. Questa volta è per la detenzione o spaccio nei casi di “lieve entità”. Secondo la deputata Augusta Montaruli di Fratelli D’Italia, prima firmataria, è importante perché attualmente, la pena prevista va da sei mesi a quattro anni, e la multa da euro 1.032 a euro 10.329, renderebbe impossibile applicare la misura cautelare in carcere. Eppure, dai recenti studi di Forum droghe, emerge l’esatto contrario: spesso capita che a queste persone, portate in carcere, quando viene loro riconosciuta la lieve entità del reato, non possono ottenere una custodia fuori dal carcere. Sono persone ai margini che hanno difficoltà ad avere un domicilio adeguato e una volta entrati nel sistema carcerario hanno difficoltà a uscirne. Quindi ancora una volta, la parola d’ordine è “più carcere”. Eppure, e questo va dato atto, c’è Andrea Delmastro di Fratelli D’Italia che ha riconosciuto il grave sovraffollamento dovuto da causa di un’alta percentuale di tossicodipendenti che in carcere non ci dovrebbero proprio stare. Ma la proposta di legge della deputata del suo stesso partito, è volta invece a far riempire le patrie galere, mirando ad alzare fino a 5 anni la pena massima per chi è responsabile di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope se il fatto è, appunto, di “lieve entità”. Come se l’attuale testo unico sulle droghe fosse “lassista”. Nei fatti, il problema è l’opposto: in Italia il 32 per cento delle persone nelle nostre carceri è lì per aver violato la legge sulle droghe, mentre la media europea è del 18 per cento. La nostra è una normativa già produttrice di carcere e in particolar modo repressiva. Abbiamo già pene significativamente alte. La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso in carcere - Ci viene in aiuto il libro bianco sulle droghe promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno, Giornata mondiale sulle Droghe, nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione “Support! don’t Punish” che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche. Si apprende, dati in mano, che la legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono quindi decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: come dimostrato in questi anni la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. I 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Non è vero quindi che “gli spacciatori non vanno in carcere”: sono invece il 28,3% degli ingressi totali molti dei quali vi restano, come dimostrano i dati seguenti. Sono lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Sostanzialmente stabile la percentuale dei presenti per droghe è il 34,88% del totale (nel 2021 era il 35,04%). È una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,65%) e che supera anche quella della Russia (28,6%). Sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe) 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028. I detenuti tossicodipendenti sono il 35,85 per cento - Si confermano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/ 12/ 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini- Giovanardi (27,57% nel 2007), alimentato dall’aumento degli ingressi in carcere di persone che usano sostanze. E poi c’è il problema dei tribunali ingolfati. Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte, probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia. In sostanza, bastano solo i dati sulle carceri per comprendere che la vera emergenza è l’elevato numero di persone detenute nelle carceri italiane per una legge molto punitiva e che invece dovrebbero essere curate nel circuito dei servizi di cura. Viene colpito il consumatore, mentre i rappresentanti della criminalità organizzata rappresentano una minoranza. In carcere ci finiscono i piccoli spacciatori e la proposta di legge avanzata dalla deputata di Fratelli D’Italia non fa che aumentare il problema. La proposta di legge di Riccardo Magi di +Europa puntava a depenalizzare - Dal 2020, invece, è rimasta nel cassetto la proposta di legge avanzata da Riccardo Magi, deputato di Più Europa, la quale punta a depenalizzare il possesso di droghe leggere. Ridurre le pene e rafforzare l’attenuante della lieve entità, che diventerebbe una fattispecie autonoma. A ciò aggiunge la decriminalizzazione di coltivazione ed uso personale. Cosa che sta avvenendo in Germania con la riforma che apre la strada alla legalizzazione basata sull’autoproduzione, allargata alla forma associata sul modello dei “Cannabis Social Club”, peraltro già presenti in forma più o meno legale in vari stati europei, a partire dalla Spagna e poi integrati nella legge approvata dall’Uruguay di Mujica nel 2013. Nei “Cannabis Social Club”, con massimo 500 membri, sarà possibile “acquistare” la propria quota di coltivazione (massimo 25 grammi, 50 in un mese). “Vogliamo combattere il mercato nero e ridurre i crimini legati alla droga” ha detto il ministro della Salute del governo rosso verde tedesco Karl Lauterbach, con un progetto che prevede la “distribuzione controllata di cannabis agli adulti entro limiti chiari”. In una prima fase, sarà introdotto il provvedimento per decriminalizzare il possesso e la coltivazione per suo personale fino a 3 piante di cannabis e la possibilità di apertura dei cosiddetti “Cannabis Social Club”, ovvero associazioni senza scopo di lucro in cui potere acquistare la cannabis coltivata in forma associata. Poi in autunno verrà presentato un ulteriore progetto di legge che prevedrà la sperimentazione di un sistema di licenze commerciali, volto a testare in specifici territori una forma di legalizzazione più ampia che preveda anche una regolamentazione legale di produzione, distribuzione e vendita a scopo di lucro. Da noi, invece, si pensa all’inasprimento della pena. Carcere, sempre e solo carcere. Stretta del governo sulle droghe, parla Della Vedova: “Misura manettara che riempie le carceri” di Luca Balestri Il Tirreno, 19 aprile 2023 La proposta dell’esponente di Fdi Montaruli punta ad aumentare le pene. Il deputato di +Europa: Basta con il “più galera per tutti”. Per Benedetto Della Vedova, deputato di +Europa, la proposta di legge Montaruli è una misura “manettara, di cui non si capisce il senso né l’utilità”. La misura punta ad alzare fino a 5 anni la pena massima per chi è responsabile di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope se il fatto è di lieve entità. Onorevole Della Vedova, come giudica il ddl presentato dalla deputata Montaruli? “È una proposta di legge inutile, di propaganda, presentata da chi vuol fare la faccia feroce. Questa maggioranza ha come risposta a tutte le questioni “più galera per tutti”. Non ne capisco il senso. Sono d’accordo al cento per cento con il mio collega di partito Riccardo Magi che ha definito la proposta di legge “demenziale”. Con il proibizionismo e la galera la situazione rischia di peggiorare? E in che modo? “Per quanto riguarda la cannabis c’è un mercato libero criminale. Per altre droghe, invece, abbiamo visto di recente le cronache intorno a Catania. Il mercato criminale libero foraggia la criminalità organizzata”. La nuova disposizione di legge implicherebbe un ritorno alla legge proibizionista Fini-Giovanardi? “A forza di inasprire le pene, i pericoli sono che si vada anche oltre la Fini-Giovanardi. È concreto il pericolo che si vadano a colpire anche i consumatori, attraverso le norme di piccolo spaccio”. L’Italia ha il doppio dei detenuti per droga rispetto agli altri paesi europei. Cosa comporterebbe per le carceri l’innalzamento della pena? “Di questi carcerati per droga, c’è una parte preponderante di persone detenute per reati legati alla cannabis. È evidente che il rischio sia quello di portare più gente in galera. È una proposta di legge fatta per disinteressarsi dei problemi reali del Paese, che sono altri”. Un esempio di come la legge porterebbe più persone nelle carceri? “Con l’inasprimento della pena da quattro a cinque anni si può disporre della custodia cautelare, e con questa misura le carceri si riempirebbero. Questa è una misura manettara, che ci pone indietro rispetto a paesi quali Stati Uniti, Canada, Germania”. Eppure il ministro della Giustizia Nordio ha più volte ribadito la necessità di svuotare i penitenziari sovraffollati... “Il ministro Nordio ormai è un desaparecido. A parole è garantista, ma fa parte del governo più manettaro di sempre, che non fa altro che introdurre nuovi reati, come si è visto dal decreto rave in avanti”. Secondo lei la società è più avanti rispetto alla maggioranza parlamentare sul tema cannabis? “Assolutamente sì. Se si legalizzasse la cannabis si creerebbe un’economia legale, si avrebbero delle risorse per lo Stato sottratte alla mafia, un’occupazione regolare, più controlli sugli immigrati, più possibilità di fare campagne di sensibilizzazione”. Cospito, la Consulta apre allo sconto di pena: “Incostituzionale non riconoscere le attenuanti” di Elena Del Mastro Il Riformista, 19 aprile 2023 La Corte Costituzionale apre la via per uno sconto di pena per Alfredo Cospito, facendo cadere la norma che avrebbe vincolato la Corte d’assise d’appello di Torino a condannarlo necessariamente all’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano. La Corte, come scrive nel suo comunicato dopo la camera di consiglio, ha preso una decisione “in continuità con i suoi numerosi e conformi precedenti” e quindi ha bocciato come “costituzionalmente illegittimo” l’articolo del codice “nella parte in cui vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. Secondo la Corte, “il carattere fisso della pena dell’ergastolo esige che il giudice possa operare l’ordinario bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dai primi tre commi dello stesso art. 69. Conseguentemente, il giudice dovrà valutare, caso per caso, se applicare la pena dell’ergastolo oppure, laddove reputi prevalenti le attenuanti, una diversa pena detentiva”. Dopo i tanti “no” incassati in questi mesi dalla magistratura (e anche dal ministro Nordio) sulla revoca del 41 bis e sulle richieste di differimento della pena e dei domiciliari, Alfredo Cospito torna a sperare. Si apre ora la possibilità anche di scontare una pena meno severa, tra i 20 e i 24 anni, all’ anarchico, da 6 mesi in sciopero della fame. “Apprendiamo finalmente una notizia incoraggiante per tutti e tutte coloro che quotidianamente sono chiamati ad applicare il diritto o a subirne l’applicazione. La decisione di quest’oggi della Corte costituzionale restituisce finalmente dignità alle questioni giuridiche sottese alle vicende umane, non ultima quella di Alfredo Cospito”. Lo afferma il difensore dell’anarchico Flavio Rossi Albertini. “Rifuggendo dai tentativi di politicizzare le singole vicende giudiziarie il giudice delle leggi ha riconosciuto l’incostituzionalità dell’art. 69 comma IV nella parte in cui non prevede la possibilità della prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata per i reati per i quali è prevista la pena fissa dell’ergastolo - prosegue il penalista -. Come avevamo sempre affermato fin dall’udienza del 5 dicembre scorso e ribadito quest’oggi la pena fissa dell’ergastolo è ex se indiziata di incostituzionalità e il divieto di bilanciamento acuisce questo giudizio, impedendo al giudice della cognizione di individualizzare la pena per il fatto commesso dall’imputato. La Corte ha condiviso il ragionamento della difesa. Un grande successo per il diritto e per la vicenda giudiziaria involgente Alfredo Cospito”. “Non si alimenta con pasta, pesce e carne, da 180 giorni. Non avremmo mai pensato che sarebbe giunto vivo al 18 aprile - aveva detto in mattinata l’avvocato - Ma ha perso la capacità di deambulare, non muove più un piede e ha perso 50 chili di peso”. Mentre Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sottolinea: “Con la sentenza di oggi la Consulta stabilisce definitivamente che la pena deve corrispondere alla gravità del reato. Non è possibile trattare allo stesso modo casi in cui ci sono morti e casi in cui, invece, non ci sono stati neanche feriti. Passo passo la legge ex Cirielli, che era un obbrobrio giuridico in evidente conflitto con l’articolo 27, è stata demolita. Ci auguriamo che la rideterminazione della pena, a questo punto conseguente, porti anche il ministro della Giustizia Nordio ad una rivalutazione relativa al regime 41-bis in cui Cospito è attualmente detenuto”. Cospito, la Consulta cambia tutto: ora lo sconto di pena è possibile di Valentina Stella Il Dubbio, 19 aprile 2023 Per i giudici è “costituzionalmente illegittima” la norma che vieta di considerare eventuali attenuanti, e che avrebbe vincolato la Corte d’Assise d’appello di Torino a condannare all’ergastolo l’anarchico in sciopero della fame. La Corte costituzionale apre la via per uno sconto di pena a Alfredo Cospito, facendo cadere la norma che avrebbe vincolato la Corte d’assise d’appello di Torino a condannarlo necessariamente all’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano. Il 2 giugno 2006 Alfredo Cospito e Anna Beniamino piazzarono due ordigni nei pressi dell’ingresso della Scuola. Le esplosioni avvennero in orario notturno, e come sottolineato dalla difesa “non fu utilizzato materiale esplosivo ad alto potenziale” e il gesto “non solo non ha causato alcun morto, ma neppure alcun ferito”. La Consulta, in continuità con i suoi numerosi e conformi precedenti sulla disposizione censurata, ha dichiarato illegittimo il quarto comma dell’articolo 69 del codice penale “nella parte in cui - si legge in una nota ufficiale - vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. Secondo la Corte, “il carattere fisso della pena dell’ergastolo esige che il giudice possa operare l’ordinario bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dai primi tre commi dello stesso art. 69”. Conseguentemente, “il giudice dovrà valutare, caso per caso, se applicare la pena dell’ergastolo oppure, laddove reputi prevalenti le attenuanti, una diversa pena detentiva”. Dunque i giudici hanno dato ragione alla difesa di Alfredo Cospito, rappresentata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini che, durante l’udienza pubblica, aveva sottolineato come in passato “la pena fissa è stata dichiarata indiziata di incostituzionalità perché non consente di parametrare la pena all’offesa”. Cospito sta già scontando i 20 anni di reclusione che gli sono stati inflitti per quella vicenda, ma la pena deve essere rideterminata dalla Corte d’assise d’appello di Torino dopo che la Cassazione ha riqualificato il reato contestato, aggravandolo, come strage politica. Sono stati proprio i giudici di Torino, sollecitati dalla difesa dell’anarchico, a investire la Consulta chiamata a decidere se fosse conforme ai principi della Costituzione l’articolo 69 del codice penale che, per il reato di strage politica, impedisce sconti di pena nei casi, come quello di Cospito, di recidiva aggravata. Dunque dopo le decisioni avverse ricevute dal Ministro Nordio e dalla Cassazione, arriva finalmente per Cospito una sentenza a suo favore. Questa mattina nessun anarchico ha presidiato Piazza del Quirinale, da dove si accede pure alla Corte Costituzionale impegnata alle 9:30 proprio sul suo caso. Con un parere contrario si era espressa l’Avvocatura dello Stato: “Il riconoscimento di attenuanti per lieve entità del fatto in relazione al reato di strage per fini politici come contestato ad Alfredo Cospito porterebbe a un vulnus perché potrebbe aprire la strada al riconoscimento della lieve entità anche per altri reati di pericolo astratto, come l’associazione mafiosa”, ha affermato l’avvocato dello Stato, Paola Zerman, che con il collega Ettore Figliolia ha rappresentato la presidenza del Consiglio dei Ministri all’udienza. Inoltre “c’è un equivoco di fondo da parte della Corte di Torino: l’affermazione che laddove non ci sono morti la strage è di lieve entità. È come dire che la strage per fini politici deve richiedere un pericolo concreto e quindi la morte delle persone. Ma così siamo fuori dalla norma”, ha osservato Zerman. Non solo: “al di là di questo è proprio la natura del reato contestato a Cospito, strage politica, a impedire per l’avvocatura dello Stato l’applicazione dell’attenuante. Fa parte dei ‘reati più gravi’ e non punisce la condotta di un pazzo, ma di chi vuole attentare alla sicurezza dello Stato. E l’anarchico è colui che non agisce mai isolato, dietro c’è un’ideologia, basata sull’idea che la violenza possa vincere”. La Corte non ha accolto questa lettura. Il suo avvocato vedrà domani Cospito, che è nel reparto ospedaliero del carcere di Opera: le sue condizioni di salute restano critiche. “Non si alimenta con pasta, pesce e carne, da 180 giorni. Non avremmo mai pensato che sarebbe giunto vivo al 18 aprile - ha dichiarato il legale - Ma ha perso la capacità di deambulare, non muove più un piede e ha perso 50 chili di peso”. Cospito, la Consulta gli dà ragione. Ora può evitare l’ergastolo di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 aprile 2023 Alfredo Cospito può ritenersi finalmente soddisfatto: la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’automatismo con cui l’articolo 69 quarto comma del Codice penale vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti - dovute per esempio alla tenuità del danno, come nel suo caso - come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva. I giudici costituzionalisti aprono così di fatto la strada ad una pena più lieve - tra i 20 e i 24 anni di carcere, anziché l’ergastolo - per l’anarchico, detenuto per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano e che è ancora ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano per le conseguenze dello sciopero della fame intrapreso il 20 ottobre scorso contro il 41bis cui è sottoposto dal maggio 2022. Dunque, la Corte d’assise d’appello di Torino - davanti alla quale si sta svolgendo il processo all’ideologo del Fai e alla sua compagna Anna Beniamino, accusati di aver piazzato nel 2006 davanti alla caserma in via Centallo le due bombe scoppiate a distanza di breve tempo senza però provocare vittime né feriti - non è più vincolata a condannare Cospito all’ergastolo perché secondo la Consulta “il giudice dovrà valutare, caso per caso, se applicare la pena dell’ergastolo oppure, laddove reputi prevalenti le attenuanti, una diversa pena detentiva”. La questione non si pone per Beniamino perché per lei il Procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, ha chiesto 27 anni di reclusione. In attesa del deposito della sentenza, il comunicato emanato dall’ufficio stampa della Consulta, a conclusione della camera di consiglio durata alcune ore, spiega che la norma sulla quale nel corso del processo a Cospito la Corte d’assise d’appello di Torino aveva sollevato dubbi di costituzionalità (l’articolo 69, quarto comma, c.p.) è in effetti “costituzionalmente illegittima nella parte in cui vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. In sostanza, aggiunge la Corte costituzionale, “il carattere fisso della pena dell’ergastolo esige che il giudice possa operare l’ordinario bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dai primi tre commi dello stesso art. 69”. Nessun automatismo, però: anche in questo caso, come spesso avviene, i giudici costituzionalisti considerano coerente con la nostra Carta la valutazione “caso per caso” da parte del Tribunale competente. Cospito può finalmente riprendere a mangiare a pieno regime (aveva già ricominciato ad assumere alcuni alimenti proprio in attesa di questa sentenza), dopo i tanti no ricevuti da più Corti e anche dal ministro Nordio. La decisione della Consulta non inciderà però sul regime penitenziario 41 bis cui Cospito è sottoposto, perché il cosiddetto “carcere duro” può essere applicato anche a reclusi con pene più brevi di quella che rischiano i due detenuti appartenenti alla Federazione anarchica informale. Durante l’udienza pubblica che si è svolta ieri mattina in Consulta (relatore, il giudice Amoroso), l’avvocatura dello Stato aveva sostenuto che il riconoscimento dell’illegittimità costituzionale della norma in questione avrebbe potuto portare “un vulnus nel sistema”, perché “potrebbe aprire la strada al riconoscimento della lieve entità anche per altri reati di pericolo astratto, come l’associazione mafiosa”. La Corte non ha accolto la tesi, dando invece ragione all’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini. Il quale oggi vedrà il suo assistito: “Ha perso la capacità di deambulare e 50 chili di peso - riferisce - vedremo come procedere adesso”. Secondo l’associazione Antigone, la decisione della Consulta “stabilisce definitivamente che la pena deve corrispondere alla gravità del reato. Non è possibile trattare allo stesso modo casi in cui ci sono morti e casi in cui, invece, non ci sono stati neanche feriti”, ha dichiarato il presidente Patrizio Gonnella. Che aggiunge: “Passo passo la legge ex Cirielli, che era obbrobrio giuridico in evidente conflitto con l’art. 27, è stata demolita. Ci auguriamo che la rideterminazione della pena, a questo punto conseguente, porti anche il ministro della Giustizia Nordio ad una rivalutazione relativa al regime 41-bis in cui Cospito è attualmente detenuto”. L’avvocato di Cospito: “La Consulta ci ha dato ragione, ma il 41 bis non cambia se non interviene Nordio” di Viola Giannoli La Repubblica, 19 aprile 2023 L’intervista al legale Flavio Rossi Albertini: “Finalmente una buona notizia, dopo sei mesi di battaglia. Sono estremamente soddisfatto per il risultato conseguito”. E sull’anarchico: “Ha perso 50 chilogrammi”. “Finalmente una buona notizia, dopo sei mesi di battaglia. Sono estremamente soddisfatto per il risultato conseguito”. Flavio Rossi Albertini, il penalista che difende l’anarchico Alfredo Cospito, esulta a caldo dopo la decisione della Corte Costituzionale. La Consulta vi ha dato ragione... “Sì, la Corte ha condiviso il ragionamento della difesa. Come avevamo sempre affermato fin dall’udienza del 5 dicembre scorso, e ribadito quest’oggi, la pena fissa dell’ergastolo è ex se indiziata di incostituzionalità e il divieto di bilanciamento acuisce questo giudizio, impedendo al giudice della cognizione di individualizzare la pena per il fatto commesso dall’imputato. È un grande successo e una decisione incoraggiante per tutti e tutte coloro che quotidianamente sono chiamati ad applicare il diritto o a subirne l’applicazione che restituisce dignità e coerenza costituzionale alle questioni giuridiche sottese alle vicende umane, non ultima quella di Cospito”. Se voi ne uscite vincitori allora gli sconfitti sono l’Avvocatura dello Stato ma anche la corte di Cassazione e il ministro Nordio? “Gli sconfitti sono coloro che applicano e perorano un approccio autoritario del diritto penale, coloro che ritengono la volontà legis espressa dal legislatore fascista come intangibile e non modificabile nonostante i 93 anni dalla sua introduzione. E il cambiamento del contesto storico politico e l’avvento di un sistema democratico, pluralista e liberale”. La decisione della Corte apre ora la strada ai giudici di Torino per la riduzione della pena. Cambia qualcosa sul 41 bis? “La pena potrà ora essere mitigata con il riconoscimento della prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata. La decisione della Corte però non si riverbera sul regime detentivo. I due terzi dei detenuti al 41 bis stanno infatti espiando pene detentive temporanee, e Cospito sarà uno di loro. Dopo la decisione del tribunale del Riesame di Perugia che ha rifiutato il differimento della pena e i domiciliari per Cospito e il verdetto della Consulta, chiederò di nuovo a Nordio di rivedere il 41 bis”. Come sta e cosa farà ora Cospito? “Lo vedrò domani, il 19, anche per capire quali saranno ora le sue intenzioni. Non si alimenta con pasta, pesce e carne, da 180 giorni. Non avremmo mai pensato che sarebbe giunto vivo al 18 aprile. Ma ha perso la capacità di deambulare, non muove più un piede e ha perso 50 chili di peso”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Sarebbe tornato libero a dicembre: si è suicidato in cella di Matteo Trione ilfattovesuviano.it, 19 aprile 2023 Un uomo di 48 anni, originario di Napoli, Gaetano L., si è suicidato la notte tra il 16 e il 17 aprile nell’istituto di pena di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove era giunto da un mese a seguito di un trasferimento dal carcere di Terni. L’uomo, in stato di detenzione per l’espiazione di un residuo pena, sarebbe tornato in libertà il prossimo dicembre. “Questo - commenta il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello - è il primo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, il quindicesimo in Italia. Il bilancio del 2022 è stato allarmante: 8 suicidi nella nostra regione, che fanno il paio con gli 84 avvenuti nel resto del Paese. Davanti a numeri di questo tipo non si può rimanere inermi: di carcere e per il carcere non si può continuare a morire. Dietro la morte di ognuno di loro c’è una storia di disagio, di solitudine, di abbandono. Se è vero che il suicidio è un gesto estremo imprevedibile, è altrettanto vero che ci sono dei segnali “sentinella” che dovrebbero indurre tutti noi a prestare attenzione e aiuto a queste persone. Molti di loro vivono la detenzione da soli, senza la vicinanza degli affetti e questo rende il loro percorso di espiazione della pena molto più complesso e difficile. Non a caso, il folle gesto avviene prevalentemente all’ingresso in carcere o a pochi mesi dalla loro scarcerazione”. Cagliari. Ex detenuto morì in miseria: risarcito da defunto cagliaripad.it, 19 aprile 2023 Oltre 15mila euro dal Tribunale di Cagliari per “trattamento inumano e degradante”. L’uomo però deceduto più di un anno e mezzo fa. Un risarcimento di 15.348 euro dal Tribunale di Cagliari per “trattamento inumano e degradante” nei confronti dell’ex detenuto Stefano Marini. Il debito con la giustizia l’aveva pagato scontando oltre 5 anni nel carcere cagliaritano di Buoncammino (attualmente dismesso), in celle affollate oltre la capienza consentita, fra topi, blatte e scarafaggi. Ora il Tribunale civile di Cagliari ha riconosciuto a Stefano Marini un risarcimento di 15.348 euro per “trattamento inumano e degradante” ma l’ex detenuto è morto ormai da oltre un anno e mezzo. Per il giudice si è trattato di una violazione della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Marini è stato trovato privo di vita il 26 ottobre 2021 nel giardino di un’abitazione in via Riva di Ponente. Aveva 57 anni. Uscito dal carcere era diventato un senza fissa dimora, domiciliato alla Caritas. A trovare il cadavere era stato il proprietario dell’immobile che concedeva l’accesso a quella casa all’uomo per ripararsi dal freddo. Una volta scontata la pena, l’uomo - assistito dall’avvocato Pier Andrea Setzu - aveva fatto causa al Ministero della Giustizia per quel periodo di reclusione, trascorso in condizioni non umane dal 6 giugno 2009 al 17 marzo 2015. La decisione del Tribunale civile di Cagliari è arrivata nei giorni scorsi, a firma del giudice Riccardo Ariu. “All’esito dell’istruttoria - si legge nelle motivazioni - si deve ritenere che su 2110 giorni di reclusione, Stefano Marini aveva trascorso la maggior parte del tempo in celle nelle quali, per la presenza di arredi fissi da scomputare dalla superficie complessiva, non gli era stato garantito lo spazio minimo di tre metri quadrati”. Nel corso delle udienze l’ex detenuto aveva segnalato al giudice “la presenza di topi, blatte e scarafaggi nei locali della Casa circondariale, ma anche l’insufficienza di acqua calda nelle docce comuni”. Alla fine il giudice ha chiarito che all’ex detenuto solo per 139 giorni era stato assicurato lo spazio minimo pro capite, oltre ai 65 giorni di permesso ricevuto e tolti dal conteggio. Torino. Se il carcere (già al collasso) perde anche la sua guida di Davide Ferrario Corriere di Torino, 19 aprile 2023 Cosima Buccoliero se ne andrà a fine mese per lasciare il posto non già a un nuovo direttore, ma a una reggente condivisa con Alessandria. Nemmeno un mese fa era uscito il rapporto della commissione della Ue che nel 2022 aveva visitato, insieme ad altri istituti, il Lorusso e Cotugno. Le valutazioni erano state molto dure nei confronti del carcere torinese, e se ne era parlato anche sui giornali. Leggendone, mi era venuto in mente un episodio personale. Era il 2008 e stavamo girando proprio lì “Tutta colpa di Giuda”, un film che, a parte pochi attori professionisti, era interpretato da detenuti e agenti dell’istituto. Stavamo girando una delle scene più strane e importanti: un’”ultima cena” impostata come quella di Leonardo, secondo lo stile insieme realista e sopra le righe di tutto il film. La direttrice di allora venne ad avvertirci che la stessa commissione della UE di cui sopra era in visita e voleva vedere quello che stavamo facendo. Non ho mai letto le loro conclusioni nel rapporto, ma dalle facce meravigliate che avevano sono abbastanza convinto che siano rimasti favorevolmente colpiti dal fatto che in un carcere italiano fosse in corso un simile esperimento artistico che coinvolgeva detenuti, guardie carcerarie e volontari esterni. Un esperimento che non era nato episodicamente, ma dopo un lavoro di dieci anni all’interno del carcere con la collaborazione di tutti. Quella immagine un po’ folle, ma vera e concreta, appartiene al passato. In questi 15 anni tutto il sistema penitenziario italiano è collassato su sé stesso. Le Vallette, probabilmente, più di tutti gli altri. Da carcere modello, quello in cui si poteva girare un film come “Giuda”, è diventato uno degli istituti più problematici del Paese. Cause e ragioni sono molte e ciascuna degna di discussione, ma la sostanza è che il Lorusso e Cotugno è oggi lo scenario di una guerra quotidiana di tutti contro tutti (non dimentichiamo il tragico fatto dell’omicidio-suicidio di due agenti nel 2013). La notizia che Cosima Buccoliero, la direttrice, se ne andrà a fine mese per lasciare il posto non già a un nuovo direttore, ma a una reggente condivisa con Alessandria, è la fotografia di una crisi sempre peggiore. Il carcere di Torino è una nave nella tempesta con un comandante a mezzo servizio. La cosa più terribile, e parlo per esperienza, è vedere come in questo modo vengano gettate al vento tante energie e capacità personali e professionali a causa della volontà politica (peraltro condivisa da molta opinione pubblica) di considerare il carcere una semplice discarica sociale. Dove, come mi diceva proprio la direttrice nel 2008, non si fa nemmeno la raccolta differenziata. Mantova. Tutela dei diritti dei detenuti: “A breve avremo il Garante” di Gloria De Vincenzi Gazzetta di Mantova, 19 aprile 2023 L’assessore al welfare Andrea Caprini: “Questione di settimane, per Mantova sarà la prima esperienza”. La scrittrice: “Il carcere di via Poma? È tra le strutture più brutte che ho visitato”. “Per Mantova sarà la prima esperienza, abbiamo ultimato i passaggi amministrativi e ora siamo pronti: nelle prossime settimane finalizziamo il percorso che porterà all’individuazione del garante dei diritti delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale”. L’annuncio dell’istituzione, a breve, dell’organismo di controllo e vigilanza sui diritti dei detenuti è dell’assessore al welfare Andrea Caprini. Ne ha parlato il 18 aprile all’incontro promosso nella Sala degli Stemmi con l’associazione Centro solidarietà carcere. Un incontro per presentare, con gli autori, due libri sui temi della complessità della carcerazione e dei suoi limiti. “Questo appuntamento - ha sottolineato Caprini - offre la possibilità di puntare i riflettori sul carcere e su ciò che significa per la città, in un concetto più ampio di giustizia, anche riparativa, che è il paradigma entro cui muoverci. La nostra è una struttura piccola, il tessuto urbano che la accoglie dovrà essere sempre permeabile a questa presenza e la figura del Garante può aiutare a realizzare meglio queste connessioni. Non è un punto di arrivo ma di partenza”. Tra i relatori, coordinati da Marzia Benazzi, vice presidente dell’associazione, Silvia Beccari dell’Ufficio esecuzione penale esterna la quale, ricordando che a Mantova, a fronte di 120 detenuti nel carcere di via Poma, il suo servizio ha in carico 757 persone, ha chiamato in causa la città: “L’illegalità non è un destino inesorabile, chi commette un reato può tornare a essere cittadino della comunità, ma vanno favorite le politiche di gestione sociale della giustizia che deve diventare ricostruttiva”. “L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche dal carcere in Italia” è il libro di Valeria Verdolini, referente lombarda di Antigone, che ha improntato il suo intervento nel solco del rapporto carcere-società, ricordando che i disagi che portano le persone in carcere sono specchio della nostra società. Nel suo ruolo, l’autrice ha visitato molte delle 190 strutture di reclusione italiane e conosce bene anche quella di Mantova: “Offre una vista sulla città, sulla bella cupola di Santa Barbara e questo è positivo, ma nelle carceri come la vostra la posizione centrale si paga con la fatiscenza: è una delle strutture più brutte che abbia visitato”. Positivi gli sforzi che la casa circondariale di Mantova compie - ricorda il Centro solidarietà carcere - attivando percorsi educativi che anche i volontari contribuiscono a realizzare. Ma il mondo dentro l’istituzione carceraria è un puzzle di fragilità: non c’è investimento sulla possibilità di presa in carico, quando escono i detenuti sono persone ancora più fragili, senza aver incontrato percorsi migliorativi”. Dalla complessità dell’universo carcere al suo superamento. “Perché abolire il carcere: le ragioni di No Prison”, il titolo del testo di Giuseppe Mosconi, sociologo del diritto, una conoscenza pluridecennale della questione: “Sono sempre più orientato verso una prospettiva abolizionista: non è una posizione di principio, è una necessità. Le riforme restano inefficaci, la cultura del castigo non funziona: le recidive sono al 70%”. Fermo. “Tante attività all’interno del carcere, ma gli spazi per i 57 detenuti sono ridotti” di Alessio Carassai Il Resto del Carlino, 19 aprile 2023 Una delegazione dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) della sezione di Fermo, visita il carcere di Fermo per valutare i programmi e i trattamenti che vengono rivolti ai detenuti. Un progetto nazionale che mira a far condividere agli avvocati l’esperienza di vita dei detenuti all’interno delle strutture, anche per valutare pene che possano consentire una funzione di reintegro sociale. Al termine della visita gli avvocati Elisa Ercoli, Valeria Leoni, Jlenia Basso, Irene Illuminati e il coordinatore regionale Michele Cardenà hanno redatto una relazione. “L’istituto gode della presenza di due psicologhe, una criminologa, due educatrici fisse più una di supporto - scrivono nella relazione - mentre il personale di polizia penitenziaria conta 46 unità, leggermente sottodimensionato rispetto alle 49 unità che dovrebbero essere garantite in rapporto alla popolazione ivi ristretta. Le varie progettualità in corso a Fermo funzionano: i detenuti partecipano attivamente alle iniziative proposte. C’è grande interesse per le attività lavorative interne ed esterne al carcere, ad esempio: il servizio cucina-mensa, lavanderia e piccola manutenzione, in ottica spesso di spirito contributivo per le esigenze familiari. Esiste particolare attenzione e cura all’affettività dei detenuti attraverso i colloqui, consentiti anche al pomeriggio e giorni festivi, per incontrare anche figli minori e animali”. Fra le attività segnalate con successo dagli avvocati: l’organizzazione della festa del papà con clown terapia. Durante la pandemia il personale si è prodigato per garantire colloqui con i familiari attraverso supporti digitali. “Non sono stati segnalati fenomeni di particolare aggressività tra i detenuti, anche in presenza di diversità culturali e religiose - continuano i relatori -, ma sono stati registrati sporadici episodi di autolesionismo, per lo più appartenenti a specifici gruppi etnici. Per quanto obsoleta la Casa circondariale di Fermo (ex monastero di fine ‘800), presenta uno stato di manutenzione buono. L’ambiente è comunque molto complesso e umanamente degradato, le problematiche più evidenti gli spazi ridotti per 57 detenuti e molte delle attività di supporto vengono garantire solo attraverso associazioni del territorio”. Arezzo. Il paradosso del carcere: “Porte strette dopo i lavori” di Gaia Papi La Nazione, 19 aprile 2023 Le critiche dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” in visita al penitenziario. “Intervento sbagliato: ora servono altri lavori molto lunghi e complessi”. “Una struttura vecchia, dove ormai da più di dieci anni sono in corso lavori di ristrutturazione. Arezzo è la metafora dell’instabilità del ruolo delle carceri italiane. Un luogo di contenimento, ma non rieducativo”. È un quadro preoccupante quello tratteggiato da Elisabetta Zamparutti, dirigente di “Nessuno tocchi Caino”, l’organizzazione in visita nelle carceri toscane. “Non solo per un’opera di misericordia, ma per ascoltare i detenuti, verificare le loro condizioni di vita e raccontarle” spiegano. Ieri, l’iniziativa “Il Viaggio della speranza” è partita da Arezzo, in collaborazione con le Camere Penali, presente anche la presidente di Nessuno Tocchi Caino, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini. “Nel tempo sono stati effettuati lavori di impiantistica, di rifinitura, ma nessuno si era reso conto che molte delle porte delle celle erano strette. È incredibile” commenta Zamparotti al termine della visita a San Benedetto. “È chiaro che adesso i lavori per rimetterle a norma richiederanno tempi molto lunghi, anche perché si tratta di modificare muri portanti”. Il carcere di San Benedetto è stato completato nel 1926, periodo che di certo non teneva conto delle regole attuali, modificate nel tempo, e neanche delle misure che sarebbero state via via imposte. “Le condizioni di detenzione sono inadeguate. In alcune celle della sezione di prima accoglienza i bagni non sono completamente separati dalla zona in cui dormono i detenuti. Sono celle di sette metri quadrati con un letto a castello per due persone e, alle spalle dello stesso, un water; immaginatevi la privacy” continua Zamparotti. E ancora, “Non c’è sufficiente luce naturale. Per poter leggere un libro è necessario accendere quella artificiale. E che dire della sezione Chimera dove i detenuti, di media sicurezza, dormono in stanzoni con quattro posti letto, caratterizzati da varie criticità. Motivo per il quale la socialità tra i carcerati avviene nei corridoi”. Problemi a cui però fa da contraltare una buona relazione tra detenuti e polizia penitenziaria. “Il carcere era stato realizzato per 104 detenuti, sono invece circa una trentina quelli presenti per le difficoltà strutturali, a fronte di 40 agenti penitenziari, un educatore e uno psicologo. Niente da dire sulla comunità che si è creata all’interno del San Benedetto” spiega la dirigente. Reggio Emilia. “Detenuto picchiato dagli agenti”, la denuncia in Procura Il Resto del Carlino, 19 aprile 2023 L’episodio si sarebbe verificato prima di Pasqua. L’uomo, dopo aver a sua volta aggredito le guardie, racconta di essere stato pestato davanti alle telecamere. Un uomo detenuto nel carcere della Pulce ha denunciato di aver subìto un pestaggio da parte di un gruppo di agenti della polizia penitenziaria. È quanto trapela su un presunto episodio risalente al weekend prima della Pasqua, avvenuto nella struttura di via Settembrini e ancora avvolto dal riserbo. Da quanto trapela, l’uomo detenuto, di origine straniera, sostiene di essere stato aggredito da una ventina di guardie: dopo averlo messo a terra, gli avrebbero coperto il volto con un oggetto avvolgente - forse di tessuto - e poi lo avrebbero picchiato. Nei giorni successivi l’uomo è stato portato all’ospedale Santa Maria Nuova: non ha riportato ferite gravi. Risulta che l’episodio, portato all’attenzione della direzione del carcere reggiano, sia stato segnalato anche in Procura, perché valuti se siano ipotizzabili profili di reato, ed e stato avvisato anche il Garante regionale dei detenuti, organismo autonomo che concorre a garantire il rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale, favorendone il recupero e il reinserimento nella società. Stando a quanto emerge in prima battuta, l’episodio segnalato dal detenuto sarebbe stato preceduto da un suo comportamento aggressivo verso gli stessi agenti: a seguito di alcune sue richieste avanzate al comandante, avrebbe iniziato a dare in escandescenze, con calci e sputi. Poi l’antefatto sarebbe culminato nel presunto pestaggio ai suoi danni, finito al centro della segnalazione alle autorità. Per lui è intanto scattata una denuncia per le condotte aggressive che avrebbe tenuto nei confronti dei pubblici ufficiali. Da quanto si apprende, la presunta aggressione subita dal detenuto sarebbe stata immortalata dalle telecamere interne al penitenziario, i cui filmati passeranno al vaglio degli inquirenti per ricostruire quanto accaduto. È di pochi giorni fa la notizia della proposta di legge, depositata alla Camera da Fratelli d’Italia, per abrogare il reato di tortura, a tutela del lavoro dei poliziotti; proposta contro la quale si è scagliata la senatrice di Sinistra Italiana-Alleanza Verde Ilaria Cucchi che proprio il 21 di questo mese sarà presente in città per una tavola rotonda alle 16 ai Chiostri di San Pietro. Questa fattispecie, introdotta in Italia nel 2017, punisce chi con condotte violente causa acute sofferenze o un trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, o anche chi si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte o comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità. Sarà compito degli inquirenti valutare se questa fattispecie di reato sia eventualmente configurabile a seguito dell’episodio denunciato dal detenuto. Milano. Alberi e frutti, nasce un’agroforesta in carcere a Bollate di Roberta Rampini Il Giorno, 19 aprile 2023 La piantumazione affidata ai carcerati, il dono della famiglia del giurista: i due lasciti alla Casa di reclusione. È un carcere che dialoga e include la città, quello di Bollate. È qui che sabato prossimo in occasione della Giornata Mondiale della Terra, verrà messo a dimora un modello di sistema agroforestale multistrato progettato per generare frutti eduli e fornire importanti servizi ecosistemici alla casa di reclusione, come lo stoccaggio di carbonio, la mitigazione delle temperature e la rigenerazione del suolo. L’iniziativa, proposta e realizzata da Soulfood Forestfarms Hub Italia con il sostegno economico dell’organizzazione internazionale OneTreePlanted e la collaborazione del vivaio Cascina Bollate, si inserisce nelle attività del “Progetto Carcere” promosse dall’Università degli Studi di Milano. Sabato pomeriggio la piantumazione sarà affidata ad alcuni detenuti e agli studenti del corso di laurea in Scienze Umane dell’Ambiente, Territorio e Paesaggio. L’agroforesta servirà per migliorare l’aspetto estetico dell’area e al benessere psico-fisico di chi se ne prenderà cura, “restando così lascito e patrimonio del carcere e di chi lo abita”, spiegano gli organizzatori. Saranno presenti l’assessora all’Ambiente e Verde del Comune di Milano, Elena Grandi e Ilda Vagge, garante del verde, del suolo e degli alberi del Comune di Milano. Un altro lascito importante è quello che farà la famiglia di Valerio Onida, morto a 86 anni nel maggio 2022. L’ex presidente della Corte Costituzionale per molti anni ha prestato volontariamente la sua attività di consulenza giuridica nei confronti dei detenuti, collaborando nel 2002 alla nascita dello Sportello Giuridico all’interno del carcere di Bollate. “Onida veniva ogni sabato, con i mezzi pubblici, fino al carcere. Fondammo insieme “lo sportello giuridico” una squadra di giuristi e detenuti che fornivano consulenze all’utenza”, così lo ricorda l’ex direttrice del carcere Lucia Castellano. Per sancire il forte legame tra la famiglia Onida e il carcere di Bollate, il figlio Marco donerà la biblioteca del padre che sarà riposta nel V reparto. “Ringrazio a nome della direzione di Bollate e di tutta la comunità penitenziaria il professor Onida”, ha spiegato Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate. Roma. “Lavoro fondamentale per la rieducazione dei detenuti”. Il viceministro Bellucci in visita a Rebibbia di Francesca Galici Il Giornale, 19 aprile 2023 Il viceministro Maria Teresa Bellucci ha visitato il carcere di Rebibbia per verificare personalmente i percorsi di formazione lavorativa. Quest’oggi, il viceministro del Lavoro e delle politiche sociali, nonché deputato Fdi, Maria Teresa Bellucci è stata in visita presso il carcere di Rebibbia a Roma, dove ha fatto visita al reparto G8, ossia quello nel quale sono reclusi i detenuti chiamati a lunghi sconti di pena. Questi individui, come ha spiegato l’esponente del governo Meloni, sono impegnati percorsi socio-lavorativi e la sua visita presso la struttura detentiva “deriva dalla volontà di toccare con mano i luoghi dove si può concretizzare appieno il profilo rieducativo della pena”. Questi percorsi, come ha sottolineato Bellucci, hanno “un alto valore ai fini della prospettiva di un efficace reinserimento. Imparare una professione significa investire in un percorso di crescita personale e poter ambire a una svolta di vita capace di archiviare il passato criminale”. La professionalizzazione è centrale in questo percorso di rieducazione, che mette le sue radici nel regime detentivo ma, al tempo stesso, tenta la strada del reinserimento dell’individuo, preparandolo ad affrontare il mondo secondo i principi di legalità una volta che avrà scontato la sua pena. Nel reparto visitato dal viceministro, come da lei stessa sottolineato, sono organizzati laboratori di falegnameria, pasticceria e giornalismo. Ma non solo perché qui operano anche cooperative che sono impegnate nella gestione dei call center, dove vengono coinvolti gli stessi detenuti. “La centralità data alla formazione delle persone detenute si poggia su una reale esigenza già da tempo manifestata: quella di eliminare la distanza tra carcere e mondo libero”, spiega Bellucci, che ci tiene a mettere in evidenza l’impegno che viene profuso da tutti gli operatori che, a ogni livello, sono coinvolti nei progetti formativi per i detenuti. Il viceministro sottolinea che grazie a questi percorsi, “il benessere che si crea va a beneficio di tutti i protagonisti della sperimentazione e quindi di tutto l’ambiente carcerario”. Non è semplice, è un lavoro complesso che è stato ulteriormente reso difficile dall’emergenza Covid, ma quanto ottenuto in passato “ha dimostrato quanto siano fondamentali gli strumenti di umanizzazione della pena contro l’aumento dei suicidi e per il rispetto dei diritti fondamentali della persona e della qualità della vita”. Nel ringraziare la direttrice del penitenziario di Rebibbia, Rosella Santoro, e il comandante della casa circondariale “Rebibbia Nuovo Complesso”, Claudio Ronci, il viceministro ha rivolto il suo saluto e ringraziamento anche a tutti i volontari e gli operatori delle tante associazioni del terzo settore impegnate all’interno del penitenziario. Udine. L’arte in carcere regala una speranza. Il Premio nazionale “Maurizio Battistutta” di Alessandro Cesare Messaggero Veneto, 19 aprile 2023 “Solo l’arte e la cultura possono salvare il carcere”. È la sintesi del pensiero del garante delle persone private della libertà personale, Franco Corleone, che ieri è stato protagonista, insieme alla presidente dell’associazione Icaro, Roberta Casco, del Premio nazionale “Maurizio Battistutta”. Un’iniziativa riservata ai detenuti di tutta Italia, che per questa terza edizione ha visto la partecipazione di 180 persone sul tema “Immaginare giardini in un mondo in frantumi”. “Una rappresentazione del fatto che nelle patrie galere - ha sottolineato Corleone - c’è un’umanità pronta a mettersi in gioco con la poesia, la prosa e la grafica”. Le premiazioni si sono svolte a palazzo D’Aronco, in una sala Ajace gremita, con il prezioso intervento di Nicoletta Oscuro e Matteo Sgobino, incaricati di leggere e musicare le opere selezionate (molti detenuti erano collegati via web). Ad arricchire l’opuscolo con i contributi premiati, ci sono le tavole grafiche dei ragazzi dell’Enaip Fvg, e del corso di operatore grafico in particolare curato dalla docente Sarolta Szulyovszky. Un legame, quello tra Einaip e premio, nato grazie a Maurizio Battistutta, scomparso nel 2017, che oltre a essere stato anima dell’associazione Icaro, ha ricoperto gli incarichi di garante per i detenuti e di professore proprio all’Enaip. Per la sezione prosa sono stati premiati Lucia Letizia Finetti del carcere di San Vittore a Milano, Samuele Anfuso del Don Bosco di Pisa, Shulliani Zef del Sollicciano di Firenze. Per la poesia, a essere selezionati sono stati i lavori di Domenico Iommelli del carcere di Opera a Milano, di Luca Michelangeli del carcere di Teramo, Nicola Nardin del Santa Maria Maggiore di Venezia, Wilson Giannaccaro, Aimen Fetati, Ali Kaisim, Zyharanu Argjiend e Simone Sorini del Mari di Trieste, Maria Cacciola del carcere di Lecce. Per la grafica scelti gli elaborati di Elisandro dos Anjos Costa del carcere di Piacenza, Giuseppe Casciola di Spoleto, Ilario Conoscitore di Lecce, Aracic Franjo di Udine, Gogh di Viterbo, Andrea Buffi di Genova, Salvatore Maniscalco di Palermo. Tradizionalmente, l’occasione del premio diventa un momento per affrontare nodi irrisolti per la riforma civile del carcere. “Quest’anno - ha chiarito Corleone - è toccato al professor Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, presentare una relazione su un tema scottante come “La sessualità negata in carcere come problema di legalità costituzionale”. Una cerimonia anticipata dalla messa a dimora di quattro meli nel carcere di via Spalato. Castrovillari. Laboratorio di scrittura creativa in carcere promosso dall’associazione Liberamente di Isabella Roccamo tenonline.tv, 19 aprile 2023 “Un’attività che ci fa sentire bene. Il nostro dolore di madri lontano dalla famiglia ha trovato senso nella scrittura”. Così una detenuta racconta del laboratorio di scrittura creativa che ha visto coinvolte 12 allieve nella casa circondariale di Castrovillari. L’iniziativa promossa dall’associazione Liberamente, accolta dalla Casa Circondariale della città del Pollino, è inserita nell’ambito del progetto “Liberare le storie” sostenuta da Fondazione per il Sud. Dieci incontri - l’ultimo previsto venerdì 21 aprile- in cui le partecipanti hanno potuto apprendere le tecniche basilari del racconto e cimentarsi con la stesura di testi brevi. Il laboratorio tenuto dalla dott.ssa Rosalba Baldino, giornalista e scrittrice è stato coadiuvato dalle volontarie Caterina Luci e Anna Palermo. “Da anni abbiamo deciso di puntare sulla scrittura - dice Francesco Cosentini presidente dell’associazione Liberamente- una sperimentazione che ci ha consentito di verificare sul campo il coinvolgimento dei detenuti, che in numero crescente hanno chiesto di prendere parte alle attività. Abbiamo constatato inoltre - prosegue Cosentini- i risultati in termini di produzione dei lavori sia sul fronte della scrittura creativa che autobiografica. Racconti che saranno pubblicati all’interno di un volume edito dalla casa editrice Pellegrini. Dopo l’esperienza nelle carceri maschili di Cosenza, Paola, Rossano e Catanzaro, è la prima volta - conclude - in una sezione femminile che in Calabria si trovano solo nelle case circondariali di Castrovillari e Reggio Calabria”. Livorno. Il Maestro Grasso e la lezione col coro dei detenuti: “Ecco cosa facciamo alle Sughere” di Claudio Marmugi Il Tirreno, 19 aprile 2023 Cristiano Grasso e il nuovo incarico in alta sicurezza: “Sono lì per scelta. Bella classe, il canto come pratica di recupero”. L’avventura, giovedì scorso, è diventata realtà con una prima lezione di fatto, concreta, in presenza. Una grande soddisfazione. Il Maestro Cristiano Grasso, docente di formazione audio-percettiva presso il Conservatorio Mascagni nonché direttore di due cori tra i più famosi della città, lo “Springtime” e le “Monday Girls”, è diventato direttore del coro delle “Sughere”, la Casa Circondariale di Livorno, con un progetto sperimentale che lo impegnerà per sei mesi insieme a venti detenuti volontari della sezione di “alta sicurezza”. Un percorso che rientra negli interventi educativi in ambito penitenziario, da un’idea della coordinatrice dell’Area Trattamentale della Casa Circondariale, la dottoressa Marcella Gori e di tutto il suo staff di educatrici. Un’ora e mezzo alla settimana (lo stesso tempo delle lezioni “fuori” con gli altri cori), nel primo pomeriggio del giovedì, fino all’autunno 2023; corso che terminerà con un’esibizione (presumibilmente all’interno del carcere, visto il regime di detenzione al quale sono sottoposti i membri di quella sezione). Il nome che Grasso ha scelto per il gruppo è bellissimo e già la dice lunga sugli intenti pedagogici d’insieme: sarà il coro “UnAnime”. Maestro, come è andata la prima lezione? “Al di là di ogni più rosea previsione, ma non avevo dubbi. Io ho giocato a carte scoperte, ho detto alla classe “Io sono qui per scelta, perché voglio essere qui”. E l’hanno capito. L’hanno sentito. Hanno risposto tutti in maniera estremamente positiva. Si è creato subito un feeling. Dopo venti minuti di lavoro mi sembrava di essere alle prove di un coro mio qualsiasi, uno di quelli con cui lavoro da sempre”. Come è nata l’idea di questa avventura? “Nella vita non mi occupo solo di musica. Dal 2009 lavoro come docente all’Istituto Comprensivo Bartolena, da alcuni anni sono il referente della disabilità. Per formazione (e deformazione) sono attento a qualsiasi realtà mi circondi, ai bisogni speciali di ognuno. All’inizio dell’anno, mi hanno contattato loro, mi hanno chiesto se fossi stato interessato ad una collaborazione con le “Sughere”. Non li ho fatti neppure terminare la frase che avevo già risposto “s씓. Che tipo di lavoro cercherà di realizzare? “Voglio mettere al centro di tutto, attraverso la musica, per mezzo del coro e del cantare insieme, la possibilità di esercitare (e far esercitare) una pratica sociale all’interno di una comunità che le relazioni - per un insieme di motivi che non sta a noi giudicare - le ha perse. E’ un percorso di recupero che fa capo all’Educativa e io lo sento perfettamente calzante alle cose che faccio”. Sono stati bravi i suoi alunni? “Sono rimasti per un’ora e mezzo a cantare senza risparmiarsi. Hanno partecipato con slancio, lasciandosi andare anche ad affermazioni non scontante all’interno di luogo così delicato e complesso. Sono trapelate molte emozioni nel nostro incontro. Mi ha colpito molto la loro determinatezza, si sono lasciati correggere senza subire la frustrazione dell’errore, un atteggiamento molto costruttivo”. Ci può dire com’è composta la classe? “Sono tutti italiani, a parte un paio. Mi aspettavo persone più in su con l’età, invece ci sono diversi giovani”. Cosa avete cantato? “C’è un murale nell’ala del carcere dove proviamo. Lo avevo visto durante il mio primo sopralluogo. In questo affresco domina una frase del “Mio canto libero” di Battisti. Sapete, “in un mondo che non ci vuole più… Il mio canto libero…” quello che “Vola sulle accuse della gente”. Mi è sembrato un ottimo attacco per una grande esperienza”. Crotone. La Casa circondariale apre al teatro: i detenuti porteranno in scena un testo di Nisticò ildispaccio.it, 19 aprile 2023 L’associazione Universo Minori, presieduta da Rita Tulelli, assume e organizza una nuova iniziativa, cui attribuisce la massima rilevanza morale e sociale. Ha, infatti, per obiettivo un intervento presso la Casa circondariale di Crotone, con finalità culturali ed educative, e con la certezza - si legge in un comunicato stampa - di ottenere risultati di proficuo inserimento, nella vita della comunità, delle persone interessate. È stato scelto il mezzo del teatro, con un testo di Ulderico Nisticò, che sarà messo in scena dall’esperta regia di Lucio Falvo; e un argomento che affronta, in maniera originale e in un certo senso paradossale e di metateatro, la questione del Covid. La decisione di utilizzare il metodo del teatro nasce da una riflessione, del resto antica, del palcoscenico come terapia di educazione e rieducazione, che consente di porre gli attori dilettanti di fronte all’impegno di interpretare un testo, e di esso una parte specifica, e saperla rendere al pubblico, ma in ultima analisi ciascuno a se stesso. È in questo senso che la Casa circondariale ha accettato con interesse la proposta, inserendola nella sua programmazione educativa. Universo minori ringrazia dunque la direttrice della struttura carceraria e si dichiara disponibile ad altre attività della stessa valenza. L’intollerabile ingiustizia contro gli studenti “nati qui” e che non riconosciamo come italiani di Luigi Manconi La Repubblica, 19 aprile 2023 Le storie che arrivano dai quartieri cosiddetti multietnici e i dati sulla scuola italiana raccontano una necessità urgente: l’inclusione. C’è una storia che ha circolato per qualche giorno sulle pagine dei giornali che parla di una classe di una scuola elementare bolognese composta da 21 alunni. Tra questi, uno solo è italiano. Si tratta dell’istituto Federzoni, nella zona Bolognina, storico quartiere multietnico della città emiliana. A questa vicenda associo due dati che sono emersi nelle ultime settimane e che restituiscono un quadro particolare dell’istituzione scolastica italiana. Il primo riguarda gli studenti stranieri iscritti nelle scuole. Questi ultimi, secondo i dati pubblicati dal ministero dell’Istruzione, relativi all’anno scolastico 2021/2022, sono quasi 890 mila. Sebbene siano 22.700 in più rispetto all’anno precedente, la cifra registra un calo della crescita degli alunni stranieri. Crescita che dagli anni ottanta è restata sempre costante. Complice di tale riduzione è, ancora secondo il ministero, la pandemia: a causa del fatto che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria, sembra che molti genitori stranieri abbiano deciso di non farla frequentare dai propri figli per cercare di ridurre le possibilità di contagio. Inoltre, la distribuzione degli studenti di altre nazionalità sul territorio italiano risulta piuttosto eterogenea: al Nord, la concentrazione di stranieri nelle scuole è significativamente più alta. Ma c’è un altro dato altrettanto interessante: il numero degli studenti con cittadinanza non italiana, eppure nati nel nostro Paese, è di oltre 577 mila. Dunque, la quota di studenti di “seconda generazione”, rispetto al numero complessivo degli alunni stranieri, è del 66,7 per cento. In generale, un ulteriore dato riguarda il tasso di abbandono scolastico. Qualche giorno fa è stato pubblicato il rapporto dell’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (Svimez), che vede l’Italia al terzo posto in Europa con il 12,7 per cento di giovani che abbandonano la scuola prima di aver completato il ciclo di studi. Anche in questo caso, la differenza tra il Nord e il Sud dell’Italia è molto evidente: nelle regioni del Centro e del Settentrione il tasso di abbandono è del 10,4 per cento; nel Mezzogiorno, è del 16,6 per cento. Ecco, mi viene da dire che questi dati restituiscono un’immagine della scuola italiana piuttosto complessa. Se da una parte la quota di studenti stranieri (di cui molti nati in Italia) cresce costantemente, anche se a ritmo più blando, diminuisce, d’altra parte, quella degli studenti italiani. A questo punto, sarebbe assai utile una ricerca che rilevasse la percentuale di abbandono che si registra tra gli studenti stranieri e ne indagasse le cause. Sullo sfondo si trovano due questioni di grandissima rilevanza, ancorché di differente natura: la crisi demografica e la legge sulla cittadinanza. Il calo del numero dei figli di coppie italiane valorizza, va da sè, la crescita del numero di bambini stranieri; e, probabilmente, un corrispondente incremento del tasso di abbandono scolastico tra questi ultimi. Inoltre, il fatto che gli studenti nati qui, che della nostra organizzazione sociale riconoscono e condividono la lingua e gli stili di vita, le consuetudini e i valori, siano privi di un riconoscimento giuridico che li renda cittadini a pieno titolo, viene vissuto sempre più come una intollerabile ingiustizia. La legislazione in materia di cittadinanza risale al 1992 e, finché non vi sarà una radicale riforma, la contraddizione tra una integrazione de facto di tanti ragazzi e il mancato riconoscimento giuridico saranno solo fonte di disagio e sofferenza. Dal quartiere Torpignattara a Roma al Cavone a Napoli, da Via Padova a Milano al rione Libertà a Bari, dalla zona di San Salvario a Torino alla Bolognina: gli studenti dei cosiddetti “quartieri multietnici” esprimono una domanda urgente di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza. L’emergenza senza emergenza. Sui migranti il governo reinterpreta le leggi di Vitalba Azzollini Il Domani, 19 aprile 2023 La dichiarazione dello stato di emergenza per i migranti solleva molti dubbi. Il rischio è che tale stato possa oggi essere strumentalizzato, come lo è stato in alcune fasi della pandemia. Alcune decisioni - dall’esclusione dei richiedenti asilo dal sistema di accoglienza alla restrizione della protezione speciale - così come l’eventuale riduzione dei tempi per il riconoscimento dei richiedenti asilo, rischiano di incidere sui loro diritti. Di recente l’Italia è stata condannata per violazioni avvenute nell’hotspot di Lampedusa nel 2017. Il ministro dell’Interno ha affermato che non c’è un’emergenza migranti e che tale stato è solo una “formula tecnica”. Ma se non c’è emergenza, manca la base di fatto che giustifica lo stato eccezionale di diritto. L’affermazione del ministro appare molto grave. Lo scorso 11 aprile il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza, della durata di sei mesi, “in relazione al forte incremento dei flussi migratori verso l’Italia”, al “sovraffollamento nei centri di prima accoglienza e, in particolare, presso l’hotspot di Lampedusa, e alle previsioni di un ulteriore incremento delle partenze nei prossimi mesi”. Lo stato di emergenza più noto agli italiani è quello deliberato all’inizio del 2020, con l’insorgere della pandemia da Covid-19. Ma sul sito della protezione civile c’è l’elenco di tutti i casi in cui vi si è fatto ricorso. Tale stato, disciplinato dal Codice della protezione civile (d. lgs. n. 1/2018), dovrebbe consentire l’”insieme, integrato e coordinato, delle misure e degli interventi” necessari a un’efficace gestione delle criticità, con procedure in deroga alle norme ordinarie, attraverso l’esercizio di poteri di ordinanza. Considerata la strumentalizzazione dello stato di emergenza avvenuta in epoca Covid, è necessario esaminare i risvolti della recente deliberazione. Una scelta politica - Innanzitutto: è “vera” emergenza? Come abbiamo scritto su queste pagine, a marzo sono sbarcate circa 13mila persone, che è lo stesso numero di luglio 2022 (13.802), inferiore a quello di agosto (16.822), analogo a quello di settembre (13.533) e di ottobre (13.493). Inoltre, come spiegato da Amnesty International, “dal 2014 al 2017 sono sbarcate 623mila persone, sono state presentate 400mila domande d’asilo e sono state registrate nel sistema d’accoglienza 528mila presenze”, ospitando “più di 190mila persone senza che sia stata dichiarata alcuna emergenza”. Va pure considerato che i molti sbarchi non si sono tradotti finora in più stranieri sul territorio nazionale. Il numero di questi ultimi in Italia - cinque milioni e mezzo di persone - negli ultimi dieci anni è restato pressoché costante. A ciò si aggiunga che l’Italia è il quarto paese dell’Unione europea per richieste d’asilo, nonostante sia il primo per numero di sbarchi. Nel 2022 sono state 77.195, a fronte delle 116.140 presentate in Spagna, 137.505 in Francia e 217.735 in Germania. La dichiarazione dello stato di emergenza richiede la sussistenza di presupposti giuridici, ma i numeri rendono palese che la valutazione è una scelta politica. Lo stato di emergenza - L’attuale maggioranza ha preparato la strada a questo stato di emergenza già prima di arrivare al governo, alimentando una narrazione basata su elementi propagandistici, tra promesse di blocco navale e di ripristino dei decreti sicurezza con la chiusura dei porti. La narrazione emergenziale è proseguita dopo l’insediamento a Palazzo Chigi. Il decreto legge sulle navi delle organizzazioni non governative (Ong) - uno dei primi atti del nuovo esecutivo, che ostacola le attività di salvataggio, tra divieto di soccorsi multipli e fermi amministrativi - è stato fondato sulla “emergenza” di fermare le Ong al fine di arrestare l’arrivo di migranti. Allo stesso scopo, e contestualmente, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha cominciato ad assegnare alle navi delle Ong porti sempre più lontani, riducendo così la loro presenza nelle zone critiche. Questi interventi sono stati fondati sul presupposto fallace che le Ong rappresentino un “pull factor”, cioè un fattore di attrazione per i migranti: ciò è stato smentito più volte in base a dati concreti. Lo stesso Viminale attesta che i salvataggi delle Ong rappresentano mediamente solo il 12 per cento degli sbarchi. La realtà ha reso palese che quella spacciata come un’urgenza - fermare le Ong - era solo un pretesto: nonostante il depotenziamento delle navi di soccorso, gli arrivi sono aumentati. E così, a fronte di una gestione normativa e amministrativa di tipo emergenziale rivelatasi un fallimento, al governo non è restato che puntare più in alto, e sbandierare la vera e propria dichiarazione dello stato di emergenza. I rischi - L’affermazione secondo cui lo stato di emergenza serve a “realizzare nuove strutture” per i migranti in deroga al Codice degli appalti - peraltro appena riformato per sfrondarlo da molti adempimenti - forse non considera che il Codice stesso (art. 140) prevede “procedure in caso di somma urgenza”, che consentono “l’immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 500mila euro”, senza necessità di uno stato di emergenza. Insomma, esistono procedure ordinarie anche per situazioni straordinarie. In secondo luogo, si dubita che una gestione emergenziale del fenomeno immigrazione possa gettare le basi per soluzioni strutturali, con lo sviluppo di politiche di medio e lungo termine, dall’accoglienza ai progetti di integrazione. Anche il decreto flussi, molto vantato dal governo, ma finora usato soprattutto per regolarizzare chi è già in Italia, anziché come canale di nuovi ingressi regolari, si sta dimostrando insufficiente. Né lo stato d’emergenza garantisce maggiore fluidità nei rimpatri: senza accordi con i paesi di origine i rimpatri non si fanno, e per stringere tali accordi - come già avvenuto con diversi paesi negli scorsi anni - non serve lo stato di emergenza. Il rischio è che la situazione di emergenza, ora sancita con apposita delibera, possa essere strumentalizzata oggi, come in alcune fasi della pandemia, per giustificare la limitazione dei diritti dei migranti. Basti pensare alla forte restrizione delle ipotesi di protezione speciale - vale a dire la protezione complementare all’asilo politico e alla protezione sussidiaria - con l’alibi che essa sarebbe un pull factor: ciò è smentito dai numeri delle richieste di asilo, sopra citati, che in Italia sono inferiori rispetto ad altri paesi. Tale restrizione lascia inattuata una parte dell’articolo 10 della Costituzione, che assicura l’asilo a chi nel proprio paese non siano garantite libertà previste dalla Costituzione italiana, e soprattutto aumenterà il numero degli stranieri irregolari presenti in Italia, vale a dire coloro i quali resteranno privi del permesso di soggiorno consentito dalla protezione speciale, concorrendo ad alimentare quell’emergenza che si vorrebbe arginare. Ancora, la necessità di “dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi”, cui è preordinato lo stato di emergenza, non potrà “legittimare” una compressione dei tempi delle procedure di riconoscimento per i richiedenti asilo, anche ai fini dell’eventuale rimpatrio, al punto da comprimere pure i loro diritti. L’Italia è già stata condannata per tale tipo di violazione lo scorso 31 marzo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per fatti avvenuti nel 2017 (caso di J.A. e altri c. Italia, n. 21329/18). La Corte ha rilevato, tra l’altro, che le condizioni nell’hotspot di Lampedusa erano inadeguate, in contrasto con il divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui alla Convenzione sui diritti umani; ai ricorrenti - cittadini tunisini - non era stato dato tempo per comprendere la portata dei provvedimenti adottati nei loro confronti e presentare eventuali ricorsi; soprattutto il loro status non era stato valutato individualmente prima di disporne il respingimento, e ciò equivaleva a un’espulsione collettiva, vietata dalla citata Convenzione. L’affermazione di Piantedosi - A confermare i dubbi sollevati è intervenuta da ultimo un’affermazione del ministro dell’Interno, secondo cui non c’è un’emergenza migranti, e la dichiarazione di tale stato è solo una “formula tecnica”. Ma, se non c’è emergenza, manca la base di fatto che giustifica lo stato eccezionale di diritto. In altre parole, pur non essendoci alcuna emergenza, si è dichiarato il relativo stato solo per poter agire in deroga a norme ordinarie. In epoca Covid avevamo preconizzato che ciò sarebbe potuto accadere. E così è stato. L’affermazione di Piantedosi appare molto grave, e conferma la ricostruzione che abbiamo fatto circa la strada - propagandistica e strumentale - attraverso cui il consiglio dei ministri è arrivato alla delibera dell’11 aprile. Basterebbe tale affermazione per inficiare provvedimenti adottati nel presupposto giuridico che vi sia un’emergenza reale. Chissà se il ministro è consapevole delle implicazioni delle sue parole: considerate alcune di quelle che ha usato in passato, se ne può dubitare. Migranti. Dl Cutro, la spunta Salvini verso il via libera al Senato di Leo Lancari Il Manifesto, 19 aprile 2023 Alla fine sul decreto Cutro Fratelli d’Italia e Lega hanno trovato l’accordo. Questa mattina il provvedimento varato dal governo dopo la strage di Cutro sarà discusso dall’aula del Senato ma ieri sera, dopo un pomeriggio di trattative intense tra i capigruppo di maggioranza portate avanti con l’ordine perentorio di Palazzo Chigi di mostrare coesione, i tre partiti che sostengono il governo si sono trovati d’accordo nel presentare un numero limitato di emendamenti di bandiera e per di più firmati da tutti. Cinque quelli della Lega, tra i quali il prolungamento dei tempi di detenzione nei Centri per il rimpatrio (Cpr) fino a 90 giorni prorogabili di altri 45 e il taglio della protezione per i rifugiati che fanno rientro nel paese di origine. Riguarda i Cpr anche una delle quattro proposte di FdI che però prevede la detenzione possibile fino a 90 giorni prorogabili di 30 giorni più altri 30. Da parte sua il governo ha invece riproposto i due emendamenti già presentati in commissione Affari costituzionali e che prevedono una stretta sulla rimpatri e la gestione del centro di accoglienza di Lampedusa, con una novità che riguarda l’apertura di una unità del 118 sull’isola siciliana. Un terzo emendamento, sempre del governo, prevede invece una procedura accelerata per lo “smaltimento” dei ricorsi contro il diniego delle domande di protezione internazionale. Proposte di modifica che vanno ad aggiungersi a quello comune già presentato da FdI, Lega e Forza Italia e che rappresenta la vera stretta sulla protezione speciale, con la cancellazione della convertibilità dei permessi di soggiorno in permessi di lavoro per una serie di categorie e limita il divieto di espulsione per persone affette da gravi patologie solo se queste non sono curabili nel paese di origine. Dopo settimane di scontri sotterranei con il partito della premier, durante i quali ha cercato di riportare in vita i decreti sicurezza di Salvini, adesso la Lega può cantare vittoria avendo praticamente ottenuto molto di ciò che voleva. Lo si vedrà anche questa mattina, quando i senatori cominceranno la marcia a tappe forzate che porterà a via libera del provvedimento, con i banchi del centrodestra che si muoveranno in amnera compatta. Una corsa contro il tempo, visto che l’arrivo nell’aula di Montecitorio è stato fissato per la prima settimana di maggio (il decreto scade il 9 maggio). Si comincerà con le questioni pregiudiziali e poi con il voto emendamento per emendamento. Tempi contingentati e nessun voto di fiducia, per evitare l’accusa di aver impedito il dibattito parlamentare. Come si è visto n commissione Affari costituzionali, le opposizioni promettono battaglia. Sono 98 gli emendamenti presentati dal Partito democratico al testo base, di questi 39 sono gli stessi presentati durante l’esame in Commissione e 59 sono nuovi. Per i dem quelle contenute nel decreto sono “misure scellerate”. “Abolire la protezione speciale significa aumentare il numero degli regolari e mettere in seria difficoltà il sistema di accoglienza nei territori”, commentava in serata la senatrice Simona Malpezzi. Migranti. Cpr in Toscana, il governo ci prova ma non sfonda di Riccardo Chiari Il Manifesto, 19 aprile 2023 Il governatore dem Giani boccia l’ipotesi. Anche il sindaco leghista di Pisa Conti non lo vuole a Coltano. Più possibilista il civico Giurlani a Pescia, ma contestato sia dal candidato del centrosinistra Franchi che dalla candidata di sinistra Lazzerini. Di un centro per il rimpatrio in Toscana si parla da più di 20 anni, da quando la legge Bossi-Fini istituì i Cie, Centri di identificazione ed espulsione dei migranti con documenti scaduti o non in regola. All’epoca ogni tentativo del secondo governo Berlusconi fu vano, ora ci riprova l’esecutivo Meloni. Trovando più o meno le stesse difficoltà, sintetizzate dal governatore Giani che, in una intervista al Quotidiano Nazionale, boccia l’ipotesi e risponde così alle aperture fatte già nello scorso dicembre dal sindaco fiorentino Nardella e da quello pratese Biffoni: “Individuino loro dove realizzarlo e vediamo come va a finire”. A riprova dell’osservazione di Giani è bastato che sui media iniziasse a circolare di nuovo l’ipotesi di un Cpr a Coltano, alle porte di Pisa, oppure a Pescia, comune di 20mila abitanti in provincia di Pistoia, per assistere al fuggi fuggi del sindaco leghista di Pisa, Michele Conti, che già in passato aveva detto di essere favorevole ai Cpr ma non lì. Ora, in cerca di un bis il mese prossimo e dato per favorito nei sondaggi, ha bocciato l’ipotesi. Anche per schivare gli attacchi degli avversari: Martinelli del centrosinistra e Auletta della sinistra. A Pescia invece il sindaco Oreste Giurlani, ex dem piuttosto popolare in città che ha lanciato per le comunali di maggio il delfino Vittoriano Brizzi, appare più possibilista: “La prefettura di Firenze e alcuni tecnici del ministero hanno visitato l’ex carcere di Veneri, mai utilizzato e ora di proprietà comunale. Una parte è stata recuperata ed è adibita a magazzino. Noi non abbiamo detto no a priori al Cpr ma, essendo i proprietari, ci aspettiamo che prima di prendere qualsiasi decisione se ne possa discutere”. L’ex carcere non può essere utilizzato subito e con ogni probabilità l’attendismo di Giurlani è legato ai finanziamenti governativi che potrebbero arrivare in città. Per certo comunque l’ipotesi del Cpr è stata bocciata sia dal candidato sindaco del centrosinistra, Riccardo Franchi, che da Sabrina Lazzerini di Pescia a Sinistra. “La nostra posizione è chiara - ha detto il primo - non accetteremo che la città sia sede di un centro che rappresenta una modalità di gestione dell’immigrazione fallimentare e inefficace”. Ancora più tranchant Lazzerini: “È una cosa vergognosa, non sono possibili mediazioni, quel centro non s’ha da fare né qui né altrove. E gli altri devono essere chiusi. Colpisce anche l’atteggiamento di Giurlani, tra pilatesco e furbesco, che dichiara che nulla può fare l’amministrazione. È una falsità, perché il comune può e deve costruire opposizione formale, istituzionale e sociale”. Contrario anche il segretario regionale del Pd Emiliano Fossi: “Il governo prenda atto che i toscani non vogliono un centro del genere, né a Coltano né a Pescia: mai, in nessun luogo”. Il cuore nero dell’esecutivo: “No alla sostituzione etnica” di Andrea Colombo Il Manifesto, 19 aprile 2023 Lollobrigida: “Incentivare le nascite”. Schlein: “Parole disgustose”. Il ministro insiste: “La nostra etnia va difesa”. “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica”: chissà se il ministro Francesco Lollobrigida, pronunciando queste parole dal congresso della Cisal, si rendeva conto di quanto deflagranti fossero. Il testa a testa tra destra leghista e destra tricolore per la palma dei più rigidi e feroci contro l’immigrazione fa brutti scherzi, specialmente se coniugato con la tendenza degli esponenti di maggioranza a riflettere poco prima di parlare. L’affermazione di Lollobrigida, ministro e altissimo ufficiale di FdI oltre che cognato della premier, è una bomba che giustifica in pieno le reazioni corali e sdegnate dell’intera opposizione, a partire dalla segretaria del Pd Schlein: “Parole disgustose e inaccettabili che hanno il sapore del suprematismo bianco. Mi auguro che Giorgia Meloni e il governo prendano le distanze”. È probabile che alla premier la formula poco assennata adoperata dal suo fedelissimo nelle vesti di ministro non sia effettivamente piaciuta, a palazzo Chigi rispondono che “a Lollobrigida è un po’ sfuggita la frizione”. Ma nella sostanza Meloni concorda. Anche lei, del resto, è impegnata nel poco nobile testa a testa con Salvini e con la Lega e in passato a sua volta si è scagliata spesso e molto volentieri contro la “sostituzione etnica”. La sua formula, dal Salone del Mobile a Rho, è più accorta di quella di Lollobrigida ma altrettanto fuori dalla realtà: “Il problema della carenza di personale il governo non vuole risolverlo coi migranti ma con quella grande riserva inutilizzata che è il lavoro femminile. Credo che prima di arrivare all’immigrazione si debba lavorare sulla possibilità di coinvolgere più donne nel mercato del lavoro. Poi c’è anche il tema della natalità”, sostiene Meloni. Proprio quel “tema” è la molla che scatena Lollobrigida: “Le nascite si intensificano costruendo un welfare che permetta di lavorare e avere una famiglia. Non possiamo arrenderci all’idea che gli italiani fanno meno figli e quindi li sostituiamo con gli immigrati”. Da tutti gli spalti dell’opposizione fioccano dichiarazioni indignate. Molti riscontrano la sinistra analogia tra gli spettri che turbano il ministro e la leggenda, assai diffusa nella destra estremissima, ma a cui dava fiato fino a poco tempo fa anche l’attuale premier, del “Piano Kalergi”, versione aggiornata dei Protocolli dei Savi di Sion secondo cui sarebbe in atto una gigantesca manovra per sostituire la popolazione europea con africani e asiatici, orchestrata, va da sé, dal finanziere ebreo Soros. L’insostituibile ministro, su pressione di Meloni, alla fine replica con un video su facebook nel quale, dopo aver accusato la sinistra di “sollevare polveroni che non hanno senso”, s’imbarca in una confusa dissertazione sul concetto di etnia che è “quella appartenenza, quella attività culturale e linguistica che esiste all’interno di una comunità, di tante comunità nel mondo tutte degne di rispetto. Compresa la nostra che intendiamo difendere”. Il problema di Lollobrigida, di Giorgia Meloni e di tutta la destra è il dover fare i conti con una realtà imperiosa che rifiuta di piegarsi alle esigenze rozze della propaganda. Dunque con le aziende che reclamano forza lavoro e non la trovano, comunque non ai prezzi ben poco esosi che sono disposte a sborsare. Con le previsioni dei demografi che assegnano agli immigrati il compito di pagare lo Stato sociale di un paio di generazioni di italiani. Con le tabelle squadernate dallo stesso governo, secondo le quali un calo drastico dell’immigrazione avrebbe conseguenze apocalittiche sul debito. Chiuso tra la pressione spregiudicata della Lega e questa dura realtà, lo stato maggiore di Giorgia Meloni, generalessa inclusa, balbetta, formula strategie insensate come quella secondo cui dovrebbero essere le donne a occuparsi dei lavori pesanti sgratificanti e malpagati che oggi svolgono gli immigrati, lancia proclami sbilenchi a favore della natalità come quello di Lollobrigida. Ma sullo sfondo campeggia davvero un’idea di etnia fondata su vincoli fortemente identitari, sospettosa e ostile nei confronti di ogni differenza, minacciosa e molto temibile. “Sostituzione etnica”: il fantasma di una teoria infondata e proteiforme di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 19 aprile 2023 Il caso. Storia di un’idea usata dal ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia) diffusa nelle destre razziste e xenofobe. Resa popolare dallo scrittore Renaud Camus ha avuto una lunga gestazione. La teoria del complotto ha ispirato anche le stragi dei suprematisti negli ultimi anni. Il 17 febbraio 2015 per Matteo Salvini è stato uno dei giorni spesi per fare emergere anche in Italia la narrazione di una “sostituzione etnica”. Tale “sostituzione” sarebbe stata “coordinata dall’Europa” “attraverso i migranti”. Salvini avrebbe difeso i “padani discriminati, vittime di pulizia etnica, di sostituzione di popoli”. Il 6 ottobre 2016 è stato il turno di Giorgia Meloni. Allora accusò un governo Renzi-Alfano di “prove generali di sostituzione etnica in Italia”. È la stessa persona che oggi siede a palazzo Chigi ma non ha letto cosa è scritto sul sito della presidenza del Consiglio. Alla voce “pregiudizi antisemiti” si cita una variante della “sostituzione etnica”, il cosiddetto e infondato “Piano Kalergi” secondo il quale esisterebbe “un piano d’incentivazione dell’immigrazione africana e asiatica verso l’Europa al fine di rimpiazzarne le popolazioni. La teoria trova credito soprattutto in ambienti di estrema destra (nazionalisti, sovranisti e separatisti)”. Proprio quelli che oggi sono al governo. È a questi discorsi che ha fatto riferimento ieri Francesco Lollobrigida, ministro dell’agricoltura, quando ha ribadito che “non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro”. Quella di Lollobrigida, è una metafora che non risponde al “vecchio” razzismo biologista basato sulla “lotta delle razze”. L’oggetto della paura ontologica della “sostituzione” è il cambiamento dell’identità collettiva nazionale, pensata sia in termini biologici che culturali, messa a rischio da “non persone”, “invasori” o “clandestini” in uno “scontro di civiltà”. L’idea è stata interiorizzata dalle classi dominanti, e non solo dagli eredi del fascismo storico, dal 1996 dopo la pubblicazione del libro omonimo di Samuel Huntington. Il fantasma della “sostituzione etnica” è di solito accompagnato da congetture considerate “oggettive”, quelle sui dati della demografia e gli andamenti delle nascite. Lollobrigida ieri ha prospettato un Welfare nazionalistico riservato ai cittadini “bianchi”. “Un welfare - ha detto - che permetta di lavorare ed avere una famiglia, il modo è sostenere le giovani coppie a trovare un’occupazione”. Nella cornice di uno stato sociale neo-corporativo si inserisce oggi l’attacco al “reddito di cittadinanza”. “Le nascite - ha detto Lollobrigida - non si incentivano convincendo le persone a passare più tempo a casa”. Queste idee sono state importate dalla Lega e da Fratelli d’Italia dall’estrema destra razzista e xenofoba globale. Alludono anche a un anti-capitalismo secondo il quale le “élite dominanti capitaliste” dette “globaliste” favorirebbero un’”immigrazione di massa” per costruire un “uomo” libero da ogni specificità nazionale, etnica e culturale”, “scambiabile” e “ricollocabile” in un’economia globalizzata. Sono insinuazioni rese popolari dal saggista francese Renaud Camus, già militante della causa omosessuale, passato prima ai socialisti più conservatori e poi all’identitarismo, in un saggio omonimo pubblicato nel 2011. Camus ha sviluppato un topos mitologico più ampio che anima un movimento culturale in cui si mescolano una visione paranoica con una cospirativa a difesa di una ideale purezza etnic,a mescolata con un discorso capitalista e un altro su legge e ordine. Lo storico Emmanuel Debono ha sostenuto che in questo discorso coesistono il razzismo differenzialista, cioè una separazione delle razze in nome di “un diritto allo spazio vitale” che rivendica l’”anti-imperalismo” e una “decolonizzazione”, con un razzismo che impegna i “bianchi” in una lotta “mortale” per la “sopravvivenza” in un mondo che li vede soggiogati e “sostituiti” da chi ritengono di dominare, anche dal punto di vista culturale. Lo storico Nicola Lebourg ha ricordato un’altra declinazione di questo racconto. Si è diffusa in ambienti neonazisti dopo la Seconda guerra mondiale. Allora si invitavano i veterani americani, dell’Armata rossa e della resistenza europea a combattere insieme contro l’invasione dell’Europa da parte dei “negri” e dei “mongoli”. Un’altra versione è quella contro la libertà delle donne e contro la depenalizzazione dell’aborto. In nome della “famiglia naturale”, e del dominio maschile, si sarebbe dovuto combattere contro il “genocidio dei piccoli bambini bianchi”. In Estrema destra. Chi sono oggi i nuovi fascisti? (Newton Compton, 2013) lo storico e giornalista de Il Manifesto Guido Caldiron ha individuato la linea invisibile che, in alcuni casi, è stata varcata facendo passare dalle parole ai fatti. è stato il caso del “manifesto” di 74 pagine inviato al governo neozelandese da Breton Tarrant Harrison dieci minuti prima di attaccare due moschee di Christchurch. Il testo era intitolato “The great replacement”, la “grande sostituzione”. A questa idea si sono ispirati anche i terroristi suprematisti responsabili dei massacri di Utoya, Pittsburgh, Buffalo o San Diego. Tutto parte da una narrazione apocalittica. Se “la razza bianca” è in pericolo, allora “tutti i mezzi sono leciti”. “Le stragi di migranti? Un crimine contro l’umanità” di Flore Murard-Yovanovitch Il Manifesto, 19 aprile 2023 Un convegno a Roma. Il crimine in corso contro le persone migranti a livello globale è ancora orfano di definizione. Occorre trovare le parole per identificare, a livello giuridico, il crimine contro l’umanità che viene quotidianamente commesso contro le persone migranti e cercare nel diritto esistente, a livello sia nazionale che internazionale, la normativa che possa inchiodare alle loro responsabilità penali i governi e le classi politiche che si succedono al governo, sia in Italia che in Europa e nel resto del mondo occidentale. Cercare all’interno del diritto penale esistente costruzioni giuridiche che rispecchino gli irrinunciabili valori di protezione della vita. Ecco l’intento del convegno “Migranticidio: un crimine contro l’umanità - Diritto di migrare, diritti dei migranti”, promosso da Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia, Giuristi Democratici e Mani Rosse Antirazziste che, nell’ambito della mostra Roma Periurbana, si terrà sabato 22 aprile presso lo Spazio espositivo Macro (ex Mattatoio), piazza Orazio Giustiniani, 4, dalle 11 alle 18. Abbiamo intervistato Fabio Marcelli, Dirigente di ricerca di diritto internazionale e fino a due settimane fa direttore dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e coordinatore del convegno. Fabio Marcelli, che s’intende con il concetto, nuovo, di Migranticidio? E’ un neologismo, frutto del lavoro di un gruppo di giuristi e di persone impegnate sul tema, che evoca il tragico fenomeno di una strage di migranti compiuti con la complicità, e il dolo specifico e generico degli Stati, per limitare gli arrivi delle persone migranti sui loro territori. Questo fenomeno globale riguarda ovviamente varie frontiere nel mondo, come quella tra Usa e Messico, mentre il Mediterraneo ci riguarda più da vicino, dato che vi si è verificata una strage, con 26.000 morti stimati sulle rotte marittime dal 2014 ad oggi. Il migranticidio è una definizione giuridica e se si, con quale conseguenza? Il migrantidicio non è ancora contenuto in nessuna Convezione internazionale o nel diritto penale internazionale. È, per il momento, il frutto della “creatività” di giuristi e personalità che vogliono reagire a questo crimine. Noi speriamo che vi siano convenzioni relative a questa nuova definizione che si aggancia all’articolo 7 dello Statuto di Roma sui crimini contro l’umanità. In questo tentativo di identificare al livello giuridico il crimine in atto, fate riferimento ai Crimini contro l’umanità previsti ai sensi dello Statuto di Roma: come possono estesi ai migranti? I migranti possono essere considerati alla stregua della popolazione civile che subisce un attacco da parte di uno Stati consapevoli dell’attacco stesso. Quindi noi sosteniamo che dietro le morti di migranti, esistano precise scelte politiche deliberate, come l’omissione di soccorso o gli ostacoli ai salvataggi compiuti dalle Ong o altri attori civili, per ostacolare in ogni modo i soccorsi in mare. Il migranticidio rientrerebbe quindi in questo modo tra i crimini contro l’umanità. Prima dell’Assemblea, la mattinata sarà dedicata agli strumenti giuridici disponibili su questo tema, ci si cercherà di identificare chi sono i fautori di questo crimine: le responsabilità sono secondo voi più italiane o europee? Il concorso di responsabilità tra Italia e Europa è un tema che spetta ai giudici delle giurisdizioni nazionali e internazionali approfondire. È chiaro che la scelta di interrompere l’operazione Mare Nostrum che salvò migliaia di persone nel 2014, fu una precisa responsabilità europea. Perché secondo lei rimane oggi un’impunità così evidente mentre il crimine viene commesso da più di 20 anni? Si è accettata la violenza a livello collettivo? C’è una rimozione del problema da parte dei governi italiani; occorre oggi tornare ad una politica dell’accoglienza. Sul piano giuridico invece occorrerà tempo per venire a capo del problema, ma è un fatto importante che oggi una parte della cultura giuridica si stia interrogando sulle possibili definizioni del crimine in atto. Siria. L’Fbi lavora ad accusare funzionari di Assad per i crimini commessi nelle carceri La Repubblica, 19 aprile 2023 Al centro dell’indagine il caso dell’americana Layla Shweikani sottoposta a violenze per estorcerle una confessione e poi condannata a morte nel 2016. L’Fbi sta lavorando a un’inchiesta che potrebbe tradursi in accuse di crimini di guerra per alcuni funzionari del governo siriano di Bashar al Assad ritenuti gli architetti del sistema di detenzione e torture nel paese, inclusa quelle inflitte all’americana Layla Shweikani nel 2016. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali le autorità federali hanno convocato un gran giurì che sta esaminando le prove e che dovrà decidere se, a suo avviso, il caso può procedere o meno. Il quotidiano newyorchese racconta come a lungo le autorità americane siano state accusate di aver mostrato poca attenzione al caso di Shweikani, torturata in carcere e costretta a confessare crimini che non aveva commesso e poi condannata a morte. E invece “per cinque anni, il Dipartimento di Giustizia ha indagato silenziosamente sull’omicidio Shweikani, guidato dal procuratore degli Stati Uniti a Chicago”. “L’inchiesta, di cui non è stata data notizia in precedenza, mira a portare alla luce alti funzionari siriani considerati artefici chiave di uno spietato sistema di detenzione e tortura fiorito sotto il presidente Bashar al-Assad: Jamil Hassan, capo della direzione dell’intelligence dell’aeronautica quando la signora Shweikani scomparve, e Ali Mamlouk, allora capo del servizio di intelligence dell’Ufficio per la sicurezza nazionale siriano”. Si tratterebbe della prima volta in cui gli Stati Uniti accusano penalmente alti funzionari siriani. Iran. Condannata a sette anni di carcere la scrittrice Golrokh Ebrahimi Iraee di Gabriella Colarusso La Repubblica, 19 aprile 2023 È stata accusata di “assembramento e collusione contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro il sistema” per aver partecipato alle proteste antigovernative innescate dalla morte. La storia d’amore di Golrokh Ebrahimi Iraee e Arash Sadeghi è incisa sulle pareti delle prigioni iraniane, Evin, Amol, Gharchak, le carceri dove hanno passato la maggior parte dei loro ultimi dieci anni di vita. Scrittrice lei, ricercatore lui, marito e moglie, innamorati e disobbedienti, Golrokh Ebrahimi Iraee e Arash Sadeghi sono due dei più noti attivisti per i diritti umani e civili in Iran. Due giorni fa Iraee, è stata condannata a 7 anni per “assembramento e collusione contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro il sistema” per essere scesa in piazza insieme a migliaia di giovani e donne iraniane dopo la morte di Masha Amini, lo scorso settembre. Era stata arrestata il 4 ottobre, ieri si è saputo della sentenza. Più di 20mila persone sono finite in prigione durante 4 mesi di manifestazioni e sono numeri ancora parziali. A febbraio, la guida suprema Khamenei aveva concesso la grazia a migliaia di prigionieri in cambio della penitenza, di una ammissione di colpevolezza e di una promessa a non tornare più in piazza, ma Iraee si è rifiutata: nessun rammarico, nessuna richiesta di amnistia. La prima volta era stata arrestata nel 2016: sei anni di carcere per un libro mai pubblicato. L’avevano trovato, scritto a penna sui suoi block-notes, durante una perquisizione nella casa che condivideva con Sadeghi. Era la storia - così scrisse allora Amnesty International nel suo rapporto sull’arresto - della “reazione emotiva che una ragazza ha davanti al film La lapidazione di Soraya M - basato su un fatto accaduto realmente, la lapidazione di una giovane donna per adulterio: si infuria a tal punto da bruciare una copia del Corano”. “Insulto al testo sacro” e “propaganda contro lo Stato”, le accuse mosse a Iraee: sono seguiti sei anni di carcere, scioperi della fame, denunce di abusi e maltrattamenti. Sadeghi, arrestato più volte fin dai tempi del movimento di proteste dell’Onda verde, nel 2009, fu condannato a 19 anni di carcere con l’accusa di aver organizzato proteste antigovernative e di aver complottato “contro la sicurezza nazionale”. Ma rimase in sciopero della fame per 68 giorni dopo l’arresto di Golrokh, nacque una campagna globale per il suo rilascio, in sua difesa si sono schierati negli anni il Parlamento europeo, le Nazioni Unite, le più grandi organizzazioni internazionali per i diritti umani, scrittori, attivisti, intellettuali. Nel 2018 gli è stato diagnosticato un cancro, ma ha continuato a scontare la sua pena e solo a gennaio le autorità l’hanno rilasciato su cauzione perché aveva bisogno di cure mediche. Pochi giorni fa è stato riconvocato dalla polizia. Nuove accuse. Un nuovo processo. Il rischio di una nuova condanna, come è successo alla sua Golrokh.