Ancora un suicidio: solitudine, isolamento, sovraffollamento. Ma la politica è assente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2023 Il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, è stato teatro di un nuovo tragico evento. Un detenuto con disagi psichici si è impiccato nella sua cella. Nonostante i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari, il detenuto non ha potuto essere salvato. A dare la notizia è il Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, il quale ha sottolineato che si tratta del 15esimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno, ricordando che nel 2022 si sono già registrati 84 suicidi in carcere. Un tragico record. De Fazio ha definito la situazione una “vera e propria carneficina”, che fa pensare a una “pena di morte” di fatto. Secondo De Fazio, il sovraffollamento detentivo, le inefficienze organizzative, le strumentazioni e le tecnologie inadeguate, e gli organici carenti per tutte le figure professionali, stanno mettendo a repentaglio la sicurezza di reclusi e operatori. Solo alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità. Tutto ciò impedisce il perseguimento degli obiettivi indicati dall’articolo 27 della Carta costituzionale e richiede interventi urgenti. De Fazio ha quindi chiesto l’introduzione di misure emergenziali e parallele riforme strutturali che reingegnerizzino l’architettura dell’esecuzione penale e, in particolare, quella carceraria. L’introduzione dei medici del Corpo di polizia penitenziaria, appena approvata dal governo con il decreto PA, è un passo in avanti positivo, ma ora bisogna concretizzarlo e accelerare su tutto il resto. Questo è l’auspicio del segretario, che conclude ricordando anche le parole del sottosegretario al ministero della Giustizia, con delega al Dap, Andrea Delmastro delle Vedove, che ha annunciato interventi per concretizzare gli interventi promessi. Si aggiunge anche il Sappe chiedendo urgenti provvedimenti. Nel frattempo, la carneficina continua. C’è chi obietta che anche nel mondo libero le persone si suicidano. Vero, e i motivi sono diversi, così come anche in carcere non è possibile ridurre la questione a una sola causa. Ma la costrizione, l’isolamento, porta inevitabilmente ad aumentare la voglia di farla finita. Lo abbiamo registrato durante il lockdown, quando c’è stata una impennata di suicidi nel “mondo libero”. Secondo i dati dell’Osservatorio suicidi della Fondazione BRF- Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze, da gennaio ad agosto 2022 sono state 351 le persone che si sono tolte la vita nel nostro Paese e 391 quelle che ci hanno provato. E sono numeri al ribasso, perché in particolare per i tentati suicidi c’è un sommerso di cui non si parla. In carcere, la questione è inevitabilmente amplificata. Le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo. Oppure, peggio ancora, il tempo vuoto carcerario non ti distoglie da tutti i tuoi pensieri rivolti su quelle persone, quell’ambiente in cui vivevi, che ti provava sofferenza, alienazione, frustrazione. Così come ci si suicida per fuggire da una situazione percepita come insopportabile, oppure per espiare una colpa vera o immaginaria. Oppure per la vergogna, per la paura, per il fine pena mai, ma anche quando arriva lo stesso fine pena e prevale il timore di non sapere più cosa fare e dove andare in mancanza di affetti, di lavoro, punti di riferimento. Che fare? Ci sono richieste e battaglie che provengono dall’interno, e per ora non recepite dalla politica. L’aumento dell’affettività che richiede più colloqui, più telefonate e valorizzazione della tecnologia come le videochiamate. Durante l’emergenza pandemica si è avuto un ampliamento di tutto ciò. Finita l’emergenza, si è ritornati indietro. Importante, soprattutto per affrontare la solitudine, sono i volontari e tutto il mondo del terzo settore. Valorizzarli e dare più spazio possibile. E poi c’è la questione del sovraffollamento. Da tempo c’è il Partito Radicale, le associazioni come Antigone o “Nessuno Tocchi Caino”, ma anche nuove realtà come “Sbarre di Zucchero”, che chiedono di ampliare le misure alternative. Senza contare l’ennesima osservazione da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il quale chiede una strategia coerente più ampia, che copra sia l’ammissione in carcere sia il rilascio, per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. È rimasto ancora nel cassetto la proposta di legge avanzata dal deputato Roberto Giacchetti di Italia Viva, sulla liberazione anticipata speciale. Proposta che Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino” ha rilanciato nel tempo, anche attraverso lunghi scioperi della fame. Quest’ultima, già varata a suo tempo nel 2013 dopo la sentenza Torreggiani che condannò l’Italia per il sovraffollamento, si tratta di una detrazione di 75 giorni (anziché 45) per ogni singolo semestre di pena scontata interamente in carcere. La liberazione anticipata speciale ha avuto effetti solamente dal primo gennaio 2010 al 23 dicembre 2015, periodo di tempo durante il quale il detenuto che ha mostrato di mantenere una buona condotta ha appunto potuto ottenere uno sconto di 75 giorni ogni semestre, anziché 45 giorni. E poi c’è la questione dell’isolamento. Una pratica che può comportare gesti estremi del detenuto, come l’automutilazione o addirittura al comportamento suicidario. Qualunque sia la ragione alla base dell’isolamento, gli effetti che questo comporta sono gravi, a volte gravissimi. Per questo è necessario che le amministrazioni penitenziarie percorrano prima delle strade alternative. Come ha scritto ripetutamente l’associazione Antigone nei suoi rapporti, per chi è in isolamento, sia esso de jure o de facto, si dovrebbero prevedere che alcune ore al giorno, siano trascorse col resto della popolazione detenuta. La letteratura scientifica è concorde nel sostenere che l’assenza di interazioni con altri esseri umani tipica dell’isolamento penitenziario provoca danni gravissimi. Non tutte le persone reagiscono allo stesso modo. Alcune sperimentano forme di panico poche ore dopo essere state isolate, altre sono insensibili alla mancanza di contatti umani per periodi più lunghi. “Il limite di 15 giorni stabilito dalle Mandela Rules e molte norme nazionali è un limite arbitrario: alcuni crollano prima, altri dopo. Quel che è certo però è che a lungo termine l’isolamento porta alla morte sociale. Una volta usciti dall’isolamento, spesso i detenuti si comportano come se fossero ancora isolati. Soffrono di sociofobia, perdono la capacità di interagire con altri esseri umani. Questo risultato è l’esatto opposto di ciò che i sistemi penitenziari ufficialmente perseguono, ovvero la risocializzazione del reo”, affermano in un capitolo del rapporto, Claudio Paterniti Martell e Federica Brioschi di Antigone. 41 bis, tormento di Stato di Francesco Bianchi* garantedetenutilazio.it, 18 aprile 2023 La rivista della Camera penale di Roma, “Centoundici”, ha dedicato l’ultimo numero interamente al tema del 41 bis. In tale contesto compare l’intervista al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, che qui di seguito riproponiamo. Lei denuncia da sempre la disumanità e le disfunzioni del cosiddetto carcere duro previsto dall’art. 41 bis, ma secondo Lei il problema sta nel come è applicata la norma o nella sua stessa esistenza, almeno nell’attuale formulazione? L’idea del possibile vulnus all’articolo 27 della Costituzione, sia nel senso della configurazione di un trattamento contrario al senso di umanità, sia in quello del pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, era ben chiaro al legislatore che ha istituito questo regime detentivo speciale nel 1992: non a caso se ne prevedeva non solo una temporaneità di applicazione ai singoli destinatari, ma anche una provvisorietà della stessa norma di legge, che era destinata a decadere passata l’emergenza del tempo, data dalla manifestazione della massima violenza della mafia stragista. Oggi quando parliamo della disumanità del regime speciale evidentemente facciamo riferimento innanzitutto alle sue modalità applicative, sia quanto alla sua reiterazione nel tempo, per decenni e spesso fino alla morte del detenuto, sia quanto ad assurde prescrizioni contenute nella legge e nella circolare applicativa, prima che nei decreti ministeriali. Ciò detto, se la legge consente abusi ed eccessi, è innanzitutto lì che bisogna intervenire, per esempio circoscrivendone i possibili destinatari ai capi di organizzazioni criminali ancora attive sul territorio, restituendo pluralità al controllo giurisdizionale dei decreti ministeriali, prevedendone la inapplicabilità nella fase terminale della pena detentiva. Ritiene che l’interesse mediatico sul 41 bis scatenato dal caso Cospito possa essere un’occasione per porre i riflettori dell’opinione pubblica e della politica su carcere duro ai fini di una revisione della norma, oppure c’è il rischio che si consolidi l’idea che vada bene per alcuni (i mafiosi) e non per altri? Obiettivamente la norma è stata pensata come parte della legislazione antimafia ed è quella la sua naturale applicazione, ma le questioni poste da Cospito (non quelle relative alla sua salute, evidentemente, ma quelle che erano nella motivazione originaria della sua protesta) sono questioni che riguardano tutte le persone assegnate al regime speciale e, se c’è disumanità o contrasto con la finalità rieducativa della pena, la violazione della Costituzione vale per tutti, anche per gli appartenenti alle organizzazioni criminali di tipo mafioso. Io credo che il dibattito suscitato dalla protesta di Cospito abbia fatto crescere nell’opinione pubblica la consapevolezza dei rischi nell’applicazione del regime del 41bis, e questo è un bene. Purtroppo, mi pare, da parte politica ci si è fermati sulla questione contingente della gestione del “caso Cospito” e delle sue condizioni di salute, senza il coraggio di affrontare le motivazioni della sua protesta. Responsabilità delle istituzioni è invece ascoltare e confrontarsi anche con le forme di protesta più estreme, per capirne le ragioni e ricondurle su un terreno di dialogo nell’interesse della comunità. Per questo, come Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà abbiamo proposto alle Commissione giustizia di Camera e Senato di avviare almeno una indagine conoscitiva sull’applicazione concreta del 41bis, per verificare la consistenza delle critiche che gli vengono mosse e, se del caso, intervenire con i poteri legislativi che competono al Parlamento. Esiste, secondo Lei, un modo per bilanciare la pretesa esigenza di contrastare il possibile collegamento fra detenuti e organizzazioni criminali e il rispetto dei diritti umani? L’unico modo per bilanciare le necessità di prevenzione del 41bis con il rispetto dei diritti umani è di limitarlo nelle applicazioni, nelle prescrizioni e nella durata. Il 41bis non può essere il “carcere duro” di cui si parla sui giornali, una pena di specie diversa per condannati di specie diversa: il nostro ordinamento costituzionale non ammette pene più dure della mera privazione della libertà. Se sono necessarie straordinarie misure di prevenzione da sommarsi allo status detentivo, esse devono essere limitate nel tempo e strettamente necessarie allo scopo di prevenire comunicazioni da parte dei capi agli affiliati delle organizzazioni criminali. Come scriveva Beccaria, “tutto il di più è abuso, e non giustizia: è fatto, non già diritto”. In questo momento storico, secondo Lei ci sono i presupposti per continuare una battaglia per il superamento del 41 bis? La storia ci insegna che il sistema penitenziario non riesce a vivere senza un principio di eccezione, senza la possibilità di deroghe al disegno ordinario del suo funzionamento, previste per ogni dove nella legge penitenziaria, anche per i detenuti comuni. Solo per sei anni - tra la legge Gozzini del 1986 che abolì le carceri speciali e il decreto Scotti-Martelli che ha disciplinato l’articolo 41bis, secondo comma, nel 1992 - il nostro sistema penitenziario non ha avuto un regime speciale per detenuti speciali. Anche se ora le organizzazioni criminali di tipo mafioso agiscono in modo molto diverso da quelle del 1992, è difficile scommettere su un superamento del 41bis. Il tema resta tabù e l’uso populista del diritto e della giustizia penale che segna il nostro tempo storico impedisce ogni discussione razionale sul tema. Mi accontenterei di una sua revisione che lo riporti ai limiti fissati dalla giurisprudenza costituzionale ed europea e dai rapporti del Comitato europeo contro la tortura e del Garante nazionale dei diritti dei detenuti. E per ripensare il sistema carcerario? Anche qui, il contesto non aiuta (ormai discutiamo addirittura se debba prevalere la prevenzione di un borseggio rispetto alla detenzione di un bambino …), ma la diversificazione degli strumenti sanzionatori delineata dalla riforma Cartabia può aiutarci ad andare verso il carcere della extrema ratio, l’unico carcere in cui sia possibile assicurare umanità e offerta di opportunità di reinserimento. Anche qui, bisognerebbe partire da un paio di principi cardine per limitare l’abuso del carcere. Innanzitutto, bisognerebbe riconoscere la natura intrinsecamente violenta della privazione della libertà in carcere, e quindi escluderla tassativamente in tutti i casi di reati non violenti, in cui la reazione dello Stato può risultare sproporzionata rispetto all’offesa arrecata. Poi, bisognerebbe valutare con attenzione la capacità del nostro sistema penitenziario (in termini di spazi, personale e offerta di servizi di assistenza e per il reinserimento) e fissarne un limite di capienza, istituto per istituto, oltre il quale le pene restano sospese, salvo che siano individuati dalla magistratura i detenuti che possano essere ammessi da subito ad alternative alla detenzione. Potranno sembrare proposte irrealistiche, ma sono molto più facili da adottare ed efficaci nell’applicazione delle stanche litanie sulla costruzione di nuove carceri, sul rimpatrio dei detenuti stranieri e sulle terapie coattive per i tossicodipendenti. *Intervista pubblicata nella rivista della Camera penale di Roma,”Centoundici”, aprile-maggio 2023 I signori del mattone a ogni costo e il piano carceri che non c’è di Domenico Alessandro De Rossi* L’Opinione, 18 aprile 2023 A fronte del degrado delle carceri e dei “signori del mattone ad ogni costo”, un prudente dubbio potrebbe insinuarsi tra i vari dossier aperti per il presidente Giorgia Meloni e il ministro Carlo Nordio, verso coloro che in ogni occasione propongono di cancellare, con sospetta insistenza, la realtà di istituti malmessi per farne dei nuovi, nell’inutile tentativo di rimuovere la memoria di decine di anni di malgoverno e di discutibile programmazione. Questa a cui oggi assistiamo è la situazione del malato-carcere nonostante il solito “trust” di cervelli, di Commissioni speciali e di consulenze esterne, tutti chiamati al capezzale dell’Istituzione penitenziaria agitando, strumentalmente, l’articolo 27 della Costituzione nella speranza di essere più convincenti. La sentenza della Cedu, che ha sanzionato l’Italia per non avere rispettato i diritti umani dei detenuti costringendoli in carceri invivibili, aggiungeva senza mezzi termini che negli ultimi anni, in molti istituti, è stato violato ogni principio di proporzioni tra cubature detentive e spazi aperti. Nonostante i ripetuti tavoli tecnici, sempre a ricalco delle stesse Commissioni, oltre ai più reclamizzati “Stati generali dell’esecuzione penale”, operazione di mera propaganda voluti dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, emerge evidente una preoccupante carenza di valutazione e di merito rispetto all’intero patrimonio edilizio penitenziario. Laddove tuttora si registrano le inefficienze in termini di qualità del servizio riguardanti lo stato delle carceri, si presenta con tutta chiarezza, l’assenza di un benché minimo programma “applicativo” basato su una prassi tecnica riguardante la manutenzione ordinaria dell’intero patrimonio edilizio. Purtroppo, mancando un approccio sistemico soprattutto in termini contestuali e di “visione” si è giunti ormai al collasso delle strutture sia in termini di efficienza strutturale che di indice di affollamento. Nelle varie occasioni sostenute non solo dal Ministero e le recenti proposte “marziane” di costosissimi penitenziari (vedasi il progetto per il nuovo mega carcere di Nola), emerge il sospetto che tali riunioni siano servite più a vantaggio dell’autoreferenzialità che per risolvere i reali problemi di chi è detenuto e in carcere si ammazza. Durante il lungo tempo inutilmente trascorso dagli Stati generali del 2015 ad oggi (quasi otto anni!) si sarebbe dovuto attivare uno studio sullo stato delle carceri in Italia per promuovere le azioni necessarie per rimodulare l’efficienza dei singoli istituti. Deciso il programma si doveva recuperare quanto già meritoriamente fu elaborato dal Ministero della Giustizia già nel lontano 1997 (!) con lo studio Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario in Italia. Tale studio costituisce tuttora la migliore piattaforma per redigere una sistematica puntuale su quanto occorreva risolvere, separando e ordinando le diverse tematiche in base al tempo, alle risorse disponibili e alla nuova prospettiva di un futuro Piano carceri, così come ampiamente già illustrato nel testo curato dal sottoscritto “Non solo carcere, norme storia e architettura dei modelli penitenziari” (Autori vari, Mursia 2016). È di queste recenti settimane la conclusione del Convegno organizzato da Massimo Barra della Fondazione Villa Maraini, dove è chiaramente emersa la doppia soluzione al problema della tossicodipendenza nelle carceri e del sovraffollamento. Chi ha immediatamente condiviso l’idea è stato il sottosegretario di Stato Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha rilanciato la necessità di indirizzare ad altre istituzioni la competenza del recupero e cura di coloro che sono afflitti dalla dipendenza da sostanze, liberando al contempo un gran numero di posti all’interno delle carceri dove circa il 30 per cento degli individui reclusi è tossicodipendente. Prossimamente si terrà nuovamente a Roma dal 3 al 5 maggio un convegno a carattere internazionale “Rome Consensus - Abbattere barriere, costruire ponti” organizzato dalla Fondazione Villa Maraini Croce Rossa Italiana dove si dibatterà la vasta problematica relativa alle diverse questioni riguardanti questa gravissima realtà che affligge gran parte delle nazioni nel mondo. *Vicepresidente del Cesp, Centro europeo studi penitenziari Cospito, alla Consulta la norma che impedisce lo sconto di pena di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2023 L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che impedisce nei delitti aggravati di strage di far prevalere l’attenuante, porterebbe alla trasformazione dell’ergastolo in una pena dai 21 ai 24 anni. I giudici dovranno decidere sulla legittimità costituzionale della legge ex Cirielli che vieta di far prevalere le attenuanti sulla recidiva reiterata. Un responso di non scarso rilevo per l’anarchico detenuto al 41 bis e da settimane ricoverato nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo di Milano, dopo sei mesi di sciopero della fame ora attenuato con l’assunzione di alcuni alimenti. La decisione riguarda, infatti, un procedimento penale per il delitto di strage che vede coinvolto Cospito con l’accusa, punita con l’ergastolo, di aver collocato degli ordigni presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano per attentare alla sicurezza dello Stato. Lo sconto di pena - A chiamare in causa la Consulta è stata la Corte d’Assise d’Appello di Torino investita del giudizio. Il giudice remittente chiede se sia in linea con la Carta l’articolo 69 comma 4 del Codice penale, introdotto con la ex Cirielli, per la parte in cui, nel caso di un delitto come quello contestato a Cospito, esclude la possibilità di far prevalere la circostanza attenuante (articolo 311 del Codice penale) sull’aggravante in caso di recidiva. L’attenuante in questione consente di ridurre le pene inflitte per i delitti di strage “quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. Ed è proprio il semaforo rosso sul trattamento di favore a pesare sul destino giudiziario di Alfredo Cospito, già giudicato recidivo. Se i giudici delle leggi affermassero l’illegittimità della norma, aprirebbero la strada all’applicazione dell’attenuante. E il reato più grave del quale è accusato l’anarchico non sarebbe più punito con l’ergastolo, ma con una pena compresa fra i ventuno ed i ventiquattro anni di reclusione. Cospito sta già scontando i 20 anni che gli sono stati inflitti per la vicenda oggetto del procedimento penale davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, che dovrà ora rideterminare la pena dopo che la Cassazione ha riqualificato il reato contestato, aggravandolo, come strage politica.?Chiara dunque l’importanza del verdetto della Corte costituzionale per l’ideologo del Fronte anarchico informale. Per Cospito l’ultima chance della Consulta, ma il pronostico è incerto di Liana Milella La Repubblica, 18 aprile 2023 Oggi l’udienza e la decisione della Corte sull’eccezione di incostituzionalità sollevata dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino sulla possibilità di applicargli le attenuanti per cui la sua pena potrebbe passare dall’ergastolo a 24 anni. E di conseguenza rimetterebbe in discussione il 41 bis. Fiato sospeso per Alfredo Cospito e per il suo battagliero avvocato Flavio Rossi Albertini. Perché oggi la Consulta - in udienza pubblica di prima mattina e quasi certamente in camera di consiglio nel pomeriggio - affronta un caso giuridico complesso sollevato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino, sottoposto alle toghe dallo stesso Rossi Albertini. La Corte costituzionale dovrà scegliere tra tre opzioni possibili, l’inammissibilità della richiesta, oppure il sì a Torino, che comporta il no alla Cassazione, o all’opposto la bocciatura di Torino. Il delicato nodo giuridico gira intorno al reato di “devastazione, saccheggio e strage”, il 285 del codice penale, imposto dalla Cassazione a luglio 2022, rispetto al 422, sempre “strage”, ma senza l’obiettivo di “attentare alla sicurezza dello Stato”. Reato contestato a Cospito in primo grado e in Appello per le due bombe del 2006 nella caserma dei carabinieri di Fossano dove però non ci furono vittime. La Cassazione ha imposto il reato più grave e ha chiesto ai giudici di Torino di applicarlo. La Corte d’Assise d’Appello ha ascoltato il legale di Cospito, ha accolto i suoi dubbi di costituzionalità, e si è rivolta alla Consulta con l’obiettivo di prevedere la “tenuità del fatto” per Cospito e per la sua compagna Anna Beniamino, visto che le due bombe non hanno fatto vittime. La Consulta oggi dovrà dirimere e decidere su una questione assai complessa in punto di diritto - lo snodo delle circostanze attenuanti rispetto comunque al reato di strage - che però, all’esito della scelta, avrà un riflesso immediato sulla situazione carceraria di Alfredo Cospito, in sciopero della fame contro il 41 bis dal 20 ottobre, cioè da sei mesi, pari ormai a 180 giorni, leggermente attenuato nelle ultime settimane con l’assunzione di bustine di parmigiano, latte e integratori. Se la Consulta dovesse accettare la tesi giuridica di Torino per Cospito si aprirebbe la possibilità di passare dall’attuale ergastolo, peraltro imposto dalla Cassazione, a una pena minore, 24 anni. Che di conseguenza rimetterebbe in discussione anche il regime del 41 bis. Ma, appunto, la questione giuridica è spinosa. A seguirla come relatore è il giudice Giovanni Amoroso, ex presidente di sezione della Cassazione, entrato alla Corte nel novembre del 2017. Il verdetto, almeno a ieri sera, non era prevedibile. E si materializzerà solo oggi nella camera di consiglio. Dove il regime del 41bis, la netta contrarietà della stessa Cassazione a farlo cadere, nonché il no a revocarlo del Guardasigilli Carlo Nordio, saranno altrettanto convitati di pietra. Ma conviene aver presenti i due reati del codice penale - 285 e 422 - per comprendere la distanza dell’uno dall’altro. Il reato di “devastazione, saccheggio e strage” imposto dalla Cassazione recita così: “Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con la pena dell’ergastolo”. Fino al 1944 la pena era quella della “morte”. Il 422 invece si rivela più blando. Punisce sempre la strage, ma suona così: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 285, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l’ergastolo. Se è cagionata la morte di una sola persona, si applica l’ergastolo. In ogni altro caso si applica la reclusione non inferiore a quindici anni”. Il punto è se, con il 422, è possibile applicare le circostanze attenuanti. E l’articolo 311 del codice penale, sotto questo titolo “Circostanza diminuente: lieve entità del fatto” prevede che “le pene comminate sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. Detto in soldoni, le due bombe di Cospito, esplosa una a distanza dell’altra, con l’obiettivo che la prima richiamasse i militari e la seconda esplodesse alla loro presenza, possono rientrare nel concetto giuridico di tenuità del fatto? Per la Cassazione assolutamente no, tant’è che boccia il 422 come reato applicabile e chiede il 285. Per i giudici di Torino è il contrario. Sul tavolo della Consulta ci sono tre ipotesi. A partire da quella più anodina, decidere che la richiesta di Torino è inammissibile per “difetto di motivazione”. Nelle nove pagine i giudici scrivono che la decisione della Cassazione - no alla strage semplice che consente anche le attenuanti, sì a alla strage “politica” che obbliga all’ergastolo - va contro tre articoli della Costituzione, il 3 (i cittadini sono uguali davanti alla legge), il 25 (si può essere puniti solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso), e il 27 (la pena rieduca il condannato). E poi si soffermano a lungo sul meccanismo delle circostanze attenuanti, inapplicabili se il reato è quello più “duro”. La Consulta può accogliere la richiesta di Torino, che infatti cita precedenti sentenze proprio sulle attenuanti, ammettendo che anche per la strage politica il giudice deve valutare le circostanze di fatto, verificare l’esistenza della “lieve entità”, e bocciare come incostituzionali le norme attuali che negano la possibilità di far prevalere le circostanze attenuanti su quelle aggravanti. A quel punto per Cospito si aprirebbe la via d’uscita dall’ergastolo. Ma questa sarebbe una decisione giuridica di grande impatto “politico” rispetto al legislatore. In linea però con quanto la Consulta stessa è venuta affermando sulla logica della pena come “non solo carcere”. L’obiettivo sarebbe quello di “ammorbidire” e bilanciare un reato estremamente severo come quello previsto dal 285 del codice penale con le attenuanti. E infine la Corte può bocciare il quesito come del tutto inammissibile. A quel punto i giudici di Torino, sconfitti, dovrebbero adeguarsi al dettato della Cassazione e prevedere definitivamente per Cospito la pena dell’ergastolo per via del reato di strage. E qui resterebbe anche il 41bis. Con tutte le conseguenze immaginabili sullo sciopero della fame di Cospito stesso. Alfredo Cospito, stop all’ergastolo: la Consulta decide di Valentina Stella Il Dubbio, 18 aprile 2023 Il 2 giugno 2006 l’anarchico e Anna Beniamino piazzarono due ordigni nei pressi dell’ingresso della Scuola allievi carabinieri di Fossano. La prima udienza pubblica di questa mattina in Corte costituzionale sarà dedicata al caso Cospito. I giudici (relatore Amoroso) affronteranno la questione di legittimità costituzionale riguardante “l’articolo 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’articolo 285 del codice penale, “Devastazione, saccheggio e strage”, non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’articolo 311 cod. pen. “circostanza diminuente: particolare tenuità del danno o del pericolo” prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen”. Detto più semplicemente: il 2 giugno 2006 Alfredo Cospito e Anna Beniamino piazzarono due ordigni nei pressi dell’ingresso della Scuola allievi carabinieri di Fossano. Le esplosioni avvennero in orario notturno, e come sottolineato dalla difesa “non fu utilizzato materiale esplosivo ad alto potenziale” e il gesto “non solo non ha causato alcun morto, ma neppure alcun ferito”. Cospito e Beniamino, in primo e secondo grado, furono condannati rispettivamente a 20 e 16 anni e sei mesi per strage “comune”, sanzionata ex articolo 422 del codice penale. A proporre ricorso per Cassazione fu il procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino, e la Suprema Corte, con sentenza del 6 luglio 2022, accolse le ragioni del ricorrente, riqualificando il reato quale strage “politica” ex art. 285 del codice penale. Piazza Cavour inviò dunque gli atti alla Corte d’assise d’appello per la determinazione della pena. Il pg aveva chiesto rispettivamente l’ergastolo ostativo e 27 anni di carcere per strage politica. Piccola parentesi: alle cosiddette stragi di mafia degli anni 90 non fu applicato il 285. Tornando a noi, le difese degli imputati hanno invocato l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 codice penale. La circostanza attenuante si può applicare in relazione al delitto previsto dall’art. 285 cp. Secondo la Corte d’appello di Torino, “avuto riguardo alle modalità con cui si è realizzato il reato ed alle conseguenze che da questo sono in concreto derivate, da valutarsi in rapporto all’entità della lesione arrecata ai beni interessi tutelati dalla norma incriminatrice violata”, la condotta degli imputati “appare soddisfare i criteri indicati dall’art. 311 codice penale”. Tuttavia Cospito è un recidivo reiterato con valutazione ormai coperta da giudicato, per cui non si può applicare il 311 cp. Tale divieto è sancito in termini generali dall’art. 69, comma 4 codice penale. Da qui la richiesta della difesa, accolta dalla Corte di Appello, di sollevare dubbio di legittimità costituzionale su tale divieto. “Se venisse affermata l’illegittimità costituzionale della norma censurata, il reato più grave fra quelli di cui l’odierno imputato è stato ritenuto responsabile non sarebbe più punito con l’ergastolo, bensì con una pena di durata compresa fra i venti ed i ventiquattro anni di reclusione”. Al momento l’anarchico sta mettendo in atto iniziative cautelative per evitare la morte, assumendo ad esempio integratori. “Giustizia, il governo intervenga”. Avvocati per tre giorni in sciopero di Rashad Jaber Corriere del Veneto, 18 aprile 2023 Riforma Cartabia e mancata modifica, duro il documento approvato dai penalisti. Da domani e per i prossimi due giorni le toghe si asterranno dalle udienze e dalle altre incombenze. “Vogliamo richiamare il governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene al rispetto degli impegni di riforma della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario inequivocabilmente annunciati prima in campagna elettorale e poi in Parlamento, nonché il ministro guardasigilli Nordio a dare immediato seguito all’impegno più volte assunto di apertura di un tavolo tra avvocatura, magistratura ed esecutivo”. Con queste parole la giunta dell’Unione delle camere penali annuncia a livello nazionale i tre giorni di astensione dalle udienze e da ogni altra attività giudiziaria, a partire da domani e fino a venerdì 21. Un atto dovuto - si legge nella nota firmata dal segretario Eriberto Rosso e dal presidente Gian Domenico Caiazza - per rendere evidente anche all’opinione pubblica l’improvviso immobilismo del governo Meloni sui nervi ancora scoperti dopo l’ultima riforma Cartabia. Secondo i penalisti, dei tanto annunciati interventi - necessari soprattutto per quanto riguarda i decreti attuativi della legge - non sono rimasti che i proclami della campagna elettorale e dei discorsi di insediamento, senza che da ormai sei mesi a questa parte l’esecutivo abbia effettivamente dimostrato di voler fare dei passi avanti rispetto alle falle sottolineate da avvocati e giuristi. “La politica della giustizia in questi primi mesi si è puntualmente connotata, con prontezza e rapidità di azione degna di miglior causa, per la spasmodica sua attenzione alle parole d’ordine del peggiore giustizialismo populista - afferma sempre l’unione delle camere penali nella delibera del 27 marzo - carcere, intercettazioni, addirittura codice antimafia contro il grottesco spauracchio dei rave party, abortita sul nascere la riforma costituzionale per la separazione delle carriere in magistratura, ulteriore aggravamento del regime penitenziario del 41 bis e del regime delle ostatività, illusorie e propagandistiche moltiplicazioni delle pene per imprendibili trafficanti, indiscriminati accanimenti carcerari nei confronti di poche decine di detenute madri o in gravidanza”. Gli addetti ai lavori del diritto lamentano in altre parole un vero e proprio immobilismo da parte di quello stesso ministro della giustizia Carlo Nordio e del partito di Giorgia Meloni sui temi caldi lasciati irrisolti dalle elezioni politiche, vere e proprie pietre angolari di quella che sarà l’ordinaria amministrazione penale dei prossimi cinque o dieci anni, ragion per cui viene considerato urgente anche il coinvolgimento dell’opinione pubblica, anche e soprattutto al di fuori dei tribunali. “I penalisti italiani ribadiscono senza riserve il proprio apprezzamento, la propria condivisione ed il proprio sostegno verso le idee riformiste del Ministro Carlo Nordio, ed alla figura di giurista ed intellettuale liberale quale egli certamente è, ma non possono più oltre ignorare come quelle idee e quei propositi riformisti appaiano osteggiati ed interdetti dalla stessa maggioranza che dovrebbe sostenerli”. Pene sostitutive, la sfiducia del pm di Torino: “C’è il rischio si blocchi tutto” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 18 aprile 2023 “Il sistema sarà bloccato, gli avvocati si lamenteranno, noi faremo una lettera al ministero e si dirà che la riforma non ha funzionato”, riassume il procuratore aggiunto Cesare Parodi, parlando del ruolo degli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) chiamati a un super lavoro dalla “Cartabia” per le pene sostitutive al carcere. “Uffici che avranno un ruolo fondamentale e che già sono in crisi. Pensate di moltiplicare per 4 il loro impegno: come faranno? Poi è chiaro che è un problema di risorse”. Se ne è parlato all’incontro organizzato da Dumsé da fe”, il movimento coordinato da Piero Gola che si confronta su temi e problemi della collettività. Morale: “È una buona riforma? No. Parte da principi condivisibili, ma non ci si è posto il problema dell’impatto effettivo sul sistema”. Perché poi “sempre ci si dimentica dell’articolo 97 della Costituzione”, su efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione. Di più: “Se Antolisei (storico giurista, fosse vivo, sarebbe disgustato”. I punti della riforma erano stati riassunti dall’avvocato Carlo Cavallo, membro del consiglio dell’ordine, che aveva pure ricordato dati scabrosi, sulla durata media del processo penale in Appello, in Italia (1.167 giorni) e nella media europea (121 giorni). Logica domanda della collega Giulia Facchini, che ha invece illustrato gli interventi sul civile: “Quando metteremo un manager nel settore giustizia?” Fino a 5 anni di carcere per lo spaccio di “lieve entità”: la proposta di Montaruli (FdI) di Carmine Di Niro Il Riformista, 18 aprile 2023 Più manette, più carcere. La scelta della premier Giorgia Meloni di nominare come ministro della Giustizia Carlo Nordio, un profilo di storico garantismo, viene quotidianamente smentita dai provvedimenti e dalle proposte della maggioranza e dello stesso partito della presidente del Consiglio. Dopo la “grande emergenza” dei rave e degli ecologisti che imbrattano i muri, Fratelli d’Italia punta ora ad un nuovo giro di vite: questa volta obiettivo è la droga, spaccio ma soprattutto possesso, mentre nel resto d’Europa il trend è quello della liberalizzazione. Una proposta di legge depositata alla Camera dalla deputata Augusta Montaruli, vicepresidente nella commissione di Vigilanza Rai e dimessasi a febbraio da sottosegretaria all’Università dopo la condanna definitiva per peculato nell’inchiesta “rimborsopoli” piemontese, innalza a cinque anni la pena massima per chi è responsabile di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope se il fatto è di “lieve entità”. Il testo è stato presentato a Montecitorio da Montaruli e introduce delle modifiche agli articoli 73 e 85 bis del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 in materia di stupefacenti. Attualmente la legge in vigore prevede, nel caso in cui il fatto contestato sia di “lieve entità”, una reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da 1.032 a 10.329 euro. Per la Montaruli però si tratta di pene troppo leggere, così infatti la cornice normativa attuale “rende al momento impossibile applicare la misura cautelare in carcere”, “essa si rende tuttavia necessaria allorquando la condotta tipica del reato per le modalità dell’azione determini, nonostante la lieve entità, un fenomeno criminoso comunque grave con il ritorno dello spacciatore - impropriamente comunemente chiamato piccolo spacciatore - sulla strada”, viene spiegato nella relazione che accompagna la proposta di legge. La proposta quindi è quella di alzare la pena massima, così da buttare in cella più persone. Per l’ex sottosegretaria all’Università è “indispensabile conferire alla magistratura giudicante questo ulteriore strumento per arginare la reiterazione del delitto quando gli elementi de facto a seguito di una puntuale e attenta valutazione siano tali da richiederne l’applicazione”. Il secondo articolo del provvedimento allarga la possibilità di confiscare gli stupefacenti anche ai casi di lieve entità. “La norma attuale - si legge sempre nel testo - risulta infatti irragionevole dal momento che la lieve entità seppur caratterizzata da una minore circolazione del denaro non considera che esso deriva comunque da una condotta criminosa che non può che assumere contorni sempre più gravi quando non viene sottratto all’agente il fine ultimo del delitto ovvero una forma di guadagno proveniente da reato”. “Carcere fino a 5 anni”. La stretta del centrodestra sulla cannabis di Lorenzo Grossi Il Giornale, 18 aprile 2023 La proposta di legge è firmata da Augusta Montaruli (FdI): ecco cosa cambia per lo spaccio e la detenzione anche per i casi di “lieve entità”. Punire pesantemente gli spacciatori di droga: non solo per quanto riguarda i grandi quantitativi, ma anche per le piccole dosi. È questo che l’obiettivo che la maggioranza che sostiene il governo Meloni ha intenzione di perseguire, nonostante una retorica che riecheggia dalle parti della sinistra ormai da anni a favore della liberalizzazione della cannabis. In Parlamento, infatti, arriva una legge firmata da Fratelli d’Italia che è molto chiara da questo punto di vista: inasprire le sanzioni e alzare fino a 5 anni la pena massima per chi è responsabile di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope se il fatto è, per l’appunto, di “lieve entità”. Con tanti saluti alla “linea” Saviano. La proposta di legge nasce da un testo firmato da Augusta Montaruli, ex sottosegretaria all’Università e attuale vicepresidente della commissione di Vigilanza Rai. La deputa di FdI punta a modificare gli articoli 73 e 85 bis del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 in materia di stupefacenti, per dare “alla magistratura giudicante questo ulteriore strumento per arginare la reiterazione del delitto quando gli elementi de facto a seguito di una puntuale e attenta valutazione siano tali da richiederne l’applicazione”. Il centrodestra è fortemente intenzionato a superare l’attuale legge in vigore, che adesso sanziona i “piccoli” spacciatori con una pena che va da sei mesi a quattro anni e con una multa da euro 1.032 a euro 10.329. Una previsione che secondo Montaruli “rende al momento impossibile applicare la misura cautelare in carcere. La norma attuale - si legge nella relazione - risulta infatti irragionevole dal momento che la lieve entità, seppur caratterizzata da una minore circolazione del denaro, non considera che esso deriva comunque da una condotta criminosa che non può che assumere contorni sempre più gravi quando non viene sottratto all’agente il fine ultimo del delitto ovvero una forma di guadagno proveniente da reato”. Insomma: sarebbe l’addio alla legalizzazione della cannabis tanto cara alla sinistra. Soltanto poche settimane fa la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, aveva dichiarato nel programma tv di Alessandro Cattelan che la liberalizzazione delle cosiddette droghe “leggere” sarebbe “un buon modo per contrastare le mafie, la criminalità organizzata” e che avrebbe avuto come conseguenza un “uso più consapevole, che non è un incentivo all’utilizzo soprattutto per la fascia pre-adolescenziale”. E pazienza se, come più volte dichiarato dal procuratore Nicola Gratteri (che non è esattamente un simpatizzante di centrodestra), la quota di affari legati alle droghe leggere è risibile rispetto al totale operato dalle mafie. Senza contare anche come l’associazione Gruppo Tossicologi Forensi Italiani (Gtfi) abbia espresso preoccupazione sulla “banalizzazione della percezione dei rischi” derivanti dall’uso della cannabis, per via degli effetti negativi in particolare sul sistema nervoso centrale, con compromissione delle capacità funzionali e cognitive a lungo termine. Strage di Erba, Tarfusser: “Un caso da riaprire. Ho scritto ogni pagina con onestà intellettuale” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 18 aprile 2023 Il sostituto procuratore generale di Milano che chiede la revisione del processo: “Il circo mediatico non conta”. La voce di Cuno Tarfusser arriva da Amsterdam, dove sta passando qualche giorno di vacanza. “Trovo a dir poco spiacevole che l’atto sia uscito”, dice, “guarda caso proprio quando io non ero in Italia. E comunque: tutto quello che ho da dire l’ho scritto lì dentro. Ho scritto ogni pagina con la massima onestà intellettuale di cui sono capace e con tutta la passione per il mestiere che ho sempre avuto. Direi che il mio compito finisce qui, sta ad altri prendere ulteriori decisioni. E ora vorrei che di me non si parlasse, perché io non voglio niente, non cerco niente. A me importa il merito, non il circo mediatico”. L’atto di cui parla il sostituto procuratore generale di Milano Tarfusser è la richiesta di revisione del processo sulla strage di Erba. Si è convinto che Olindo Romano e Rosa Bazzi siano innocenti e ha scritto 58 pagine di “arringa” da mandare alla Corte d’Appello di Brescia a cui spetterebbe decidere se riaprire il caso oppure no. Ha depositato tutto in segreteria e ne ha mandato copia alla procuratrice generale Francesca Nanni e all’avvocata generale Lucilla Tontodonati. Che non devono aver gradito molto la sua iniziativa e hanno bloccato la trasmissione a Brescia. Tocca a loro - hanno deciso seguendo il “documento organizzativo” interno - occuparsi di qualsivoglia richiesta di revisione e saranno loro a valutare quella scritta dal collega. Entro un mese, hanno fatto sapere ieri. Chi è - Tarfusser, nel frattempo, invoca silenzio e rimane alla finestra a guardare. E chi lo conosce non esclude per niente che, nel caso si decidesse di non inoltrare il documento a Brescia, sia poi lui a farlo lo stesso, autonomamente. Il sostituto procuratore non è uomo arrendevole e, soprattutto, non è mai stato troppo diplomatico davanti a quelle che ritiene ingiustizie. L’anno scorso, per esempio: il Csm gli impedì di diventare garante del codice etico per il Comune di Bolzano (dove cominciò la sua carriera da magistrato) e lui convocò una conferenza stampa per spiegare che “la mia colpa è non essere parte del sistema e ne sono orgoglioso”. Fuori sistema anche nell’autocritica, personale e di categoria. Qualche mese fa andò alla prima della presentazione del docufilm “Peso morto”, la storia di un errore giudiziario che costò 21 anni di carcere ad Angelo Massaro, innocente. Alla fine della proiezione Tarfusser chiese la parola visibilmente scosso. “Io chiedo scusa a nome delle istituzioni”, disse a quell’uomo e al pubblico. “Angosciante” è il suo aggettivo quando definisce casi di errori giudiziari. E lo fu anche per l’arresto sbagliato che lui stesso chiese tanti anni fa per Luca Nobile, ingiustamente detenuto per alcuni giorni come “mostro di Merano” e poi scagionato. A fine carriera (68 anni e pensione l’anno prossimo), Tarfusser è sostituto procuratore generale dal 2019, quando rientrò in Italia dopo 11 anni da giudice e da vicepresidente alla Corte Penale Internazionale all’Aja (Paesi Bassi). Sua (fra le altre) la firma per il mandato di cattura del presidente del Sudan al Bashir per genocidio; suo il mandato di cattura per Muhammar Gheddafi per crimini contro l’umanità. Ma è sua anche la decisione di assolvere per mancanza di prove il presidente della Costa d’Avorio accusato di crimini contro l’umanità. E ancora: fu lui - da procuratore a Bolzano - a inventare, diciamo così, le best practices nei palazzi di giustizia del nostro Paese. Informatica, riorganizzazione degli uffici, dei servizi, rapporti con gli utenti... e nell’arco di pochi mesi Bolzano diventò un esempio per il resto d’Italia. Quel tempo sembra lontano anni luce dal suo interesse per la strage di Erba, nato per caso da un incontro con gli avvocati di Olindo e Rosa. “È per me insopportabile il pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo” scrive nella richiesta di revisione. Una premessa che non prevede la resa, nemmeno se fosse bocciata la trasmissione dell’atto a Brescia. “Nuovo processo per la strage di Erba”. Il caso dei mostri della porta accanto di Giuliano Santoro Il Manifesto, 18 aprile 2023 Il sostituto procuratore Tarfusser chiede la revisione. Così farà anche la difesa di Bazzi e Romano, condannati all’ergastolo. Non sappiamo come andrà a finire la vicenda della riapertura del processo a Olindo Romano e Rosa Bazzi per l’omicidio di Raffaella Castagna col figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Ma non ci stupisce che la narrazione mediatica attorno alla strage di Erba, con corredo di divisioni tra colpevoli e innocentisti, è pronta a ripartire. Ciò avviene perché quella tragedia ha toccato nervi che sono ancora scoperti. Come ogni reboot che si rispetti, anche questa edizione della storia, con le parole che vengono scelte per raccontarla e gli accenti che su di esse vengono posti, interagisce col conteso sociale cui si rivolge. Il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser, che ha chiesto la revisione del processo, è magistrato esperto e sensibile agli errori giudiziari. Si vedrà, dunque, se davvero Romano e Bazzi sono finiti in un gioco più grande di loro, persone incapaci di difendersi dentro una macchina alla ricerca di un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. Ma vale la pena di sottolineare che i due coniugi non erano, all’epoca, esattamente i capri espiatori più comodi. Si era nel dicembre del 2006, in mezzo alle polemiche che avevano seguito l’approvazione dell’indulto del luglio precedente. Clemente Mastella era ministro della giustizia del governo Prodi e una maggioranza trasversale aveva accettato di rispondere agli appelli alla clemenza del Papa. La destra del centrodestra, quella che oggi costituisce il baricentro del governo, era passata al contrattacco già a poche ore dalla strage, quando tutti avevano puntato il dito contro Azouz Marzouk, marito tunisino di Raffaella Castagna. “Chi ha votato l’indulto ha contribuito a questo eccidio”, aveva dettato alle agenzie Maurizio Gasparri, allora deputato di Alleanza nazionale. Il leghista Mario Borghezio aveva dato la colpa alla “facile accoglienza, all’ottusa tolleranza e adesso anche all’indulto”. “Per sgozzare un bambino devi essere un animale, quindi non può essere uno di noi”, aveva sentenziato l’assessore regionale in quota An Piergianni Prosperini, che qualche tempo dopo avrebbe chiuso la sua carriera politica per una storia di mazzette e che sarebbe sotto inchiesta anche per traffico d’armi con l’Eritrea. La risonanza del caso di Erba deriva dall’assunto espresso in sei parole da Prosperini: “Non può essere uno di noi”. Di fronte a un eccidio efferato, a colpi di coltello e spranga e fiamme appiccate all’appartamento delle vittime, si cercò il mostro venuto da altrove ma ci si ritrovò come colpevoli i vicini di casa. Le rappresentazioni della vicenda giudiziaria e della possibile revisione del processo vertono ancora attorno a questo dibattito: a detta degli avvocati della difesa, una delle testimonianze chiave riguarderebbe una guerra tra bande di stranieri per il controllo delle piazze di spaccio. Olindo e Rosa rappresentavano la violenza della piccola comunità e dei suoi rancori, come scrisse Pino Corrias in un libro tempestivo ma approfondito sulla vicenda. Le loro vite qualsiasi, e le condanne all’ergastolo, erano l’emblema di quello che i dati raccontano: la maggior parte delle violenze avviene tra le mura domestiche, davanti al feticcio del focolare elemento della triade riproposta dalla destra al governo (Dio! Patria! Famiglia!). Erba da punto di innesco dell’ennesima “emergenza sicurezza” divenne una spia dell’orrore delle guerre di pianerottolo. Chiunque abbia fatto esperienza di una riunione di condominio avrà osservato come la contesa degli spazi che si frappongono tra una proprietà privata e un’altra, tra le sacre mura domestiche e il bene comune, scateni gli istinti più bassi. È in mezzo ai vicini di casa, tra un punto e l’altro dell’ordine del giorno, che quasi viene voglia di abbandonare qualsiasi speranza nella forza emancipativa della specie umana. Osservando la controversa confessione di Olindo e Rosa, gli italiani in qualche modo riconobbero che la violenza di questa gente semplice e all’apparenza innocua ricordava loro in forma iperbolica le faide spietate e sotterranee che si consumano all’interno dei caseggiati. Nei consessi di condominio, spazi di confronto tra individui proprietari la cui missione è far valere ogni maledetto millesimo, la tensione rischia di esplodere. Non bisogna aver letto i romanzi urbani di Ballard, storie di fantascienza che non scoprono altri mondi ma indagano le forme più estreme delle nostre società, per cogliere l’essenza perturbante della strage. E per capire come la destra vorrebbe trasformare le nostre città in giganteschi condomini: contenitori di proprietà private da blindare invece che spazi comuni da attraversare. Toscana. “I Cpr sono campi di concentramento simili a quelli dove deportavano gli ebrei” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 18 aprile 2023 L’assessore regionale Ciuoffo al convegno contro i centri di permanenza e rimpatrio. “I Cpr sono campi di concentramento e nella nostra regione non li vogliamo”. L’assessore all’immigrazione Stefano Ciuoffo usa parole pesanti per definire i centri per il rimpatrio che il Governo vorrebbe costruire in ogni regione, Toscana compresa. L’occasione è stata l’affollato convegno di ieri dal titolo inequivocabile “No al Cpr”, promosso da Arci, Asgi e Accoglienza non governativa, a cui ha partecipato lo stesso Ciuoffo, secondo cui i Cpr sono luoghi assimilabili “a quelli in cui venivano deportati gli ebrei” e la cui finalità “è inutile perché di fatto le espulsioni avvengono in minima parte e quindi questi luoghi generano ulteriore illegalità”. Parole di contrarietà anche dall’assessora regionale al sociale Serena Spinelli: “Il Cpr è uno strumento che riteniamo non adeguato a gestire un fenomeno migratorio che non è emergenziale ma è invece strutturale, chiediamo al Governo che si metta a disposizione per riflettere sul modello di accoglienza diffusa sui cui la Toscana ha scritto pagine di tutto rispetto, i Cpr sono luoghi che non rispettano la dignità delle persone”. E se qualcuno solleva il problema di dover trovare un luogo per gli immigrati che delinquono, come nei giorni scorsi i sindaci di Firenze e Prato Nardella e Biffoni, Spinelli è chiara: “In uno stato di diritto come il nostro, chi delinque deve essere giudicato per il reato che ha commesso e avere le punizioni che sono previste per tutti i cittadini, in questo senso ci sono altri strumenti per i quali rispondere al reato commesso e questo deve valere per tutti quelli che vistrutture vono nel nostro territorio”. Al convegno, a cui era presente anche l’assessore comunale all’ambiente Andrea Giorgio, ha partecipato il segretario regionale del Pd Emiliano Fossi: “I Cpr si trasformano in luoghi di detenzione dove vengono negati i diritti basilari delle persone, dove ci sono violenza e soprusi. Per gli immigrati che delinquono ci sono i luoghi preposti”. Parole contrarie al Cpr anche da Mauro Palma, garante nazionale dei delle persone detenute o private della libertà personale: “Questi luoghi sono inutili e sono di sofferenza. Gli immigrati che delinquono? Ho discusso con Nardella dell’ipotesi di strutture territoriali, carceri oppure comunità chiuse”. E poi il segretario di +Europa Riccardo Magi, che nella sua esperienza politica ha visitato vari Cpr: “Sono luoghi di violazione dei diritti fondamentali, peggiori di un carcere. E sono inutili, più della metà delle persone non vengono rimpatriate”. Quanto agli immigrati che delinquono, “sono i numeri che parlano, queste persone stanno in carcere, quelle che stanno nei Cpr sono persone che hanno finito di scontare la pena e poi sottoposti a detenzione amministrativa oppure persone che non hanno commesso reati e sottoposti a detenzione amministrativa”. Toscana. Carceri toscane, il “viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino La Nazione, 18 aprile 2023 Il giro riparte martedì 18 da Arezzo, poi sarà a Pisa, Livorno, Massa, Lucca, Porto Azzurro, Pistoia, Prato, Siena e Grosseto. Dopo la visita al carcere fiorentino di Sollicciano, riprende martedì 18 aprile con la visita al carcere di Arezzo il “Viaggio della speranza” nei luoghi di pena organizzato da Nessuno tocchi Caino (presenti i dirigenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti) in collaborazione con le Camere Penali. Il giro in Toscana prevede tappe negli istituti di Pisa, Livorno, Massa, Lucca, Porto Azzurro, Pistoia, Prato, Siena e Grosseto. “Nelle intenzioni degli organizzatori - si legge in una nota - il “visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, ha lo scopo anche di ascoltarli, verificare le loro condizioni di vita materiale e raccontarle, ma soprattutto infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che anche in questo anno aumenta giorno dopo giorno. Dopo le visite in carcere si svolgeranno conferenze nel corso delle quali verranno presentati i risultati e le proposte di superamento di una realtà, quella carceraria, che sempre più appare fuori controllo, fuori legge, fuori dal tempo e fuori dal mondo”. Questo è il calendario delle visite in carcere e delle iniziative programmate: AREZZO Martedì 18 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 13 - Conferenza “Individualizzazione del trattamento e reinserimento sociale” Palazzo della Provincia - Sala Fanfani PISA Martedì 18 aprile Ore 19 - Aperitivo di beneficenza c/o Associazione L’Alba, via del Cuore 1 Mercoledì 19 aprile Ore 11 - Visita al Carcere LIVORNO Giovedì 20 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 16:30 - Conferenza “Carcere: luogo di privazione non solo della libertà” c/o Circolo Arci Norfini Via di Salviano 51 MASSA Venerdì 21 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 16 - Conferenza “Carcere: un garante per l’altra città” Palazzo Ducale - Sala della Resistenza LUCCA Sabato 22 aprile Ore 11 - Visita al Carcere PORTO AZZURRO Lunedì 24 aprile Ore 11 - Visita al Carcere PISTOIA Martedì 25 aprile Ore 11 - Visita al Carcere PRATO Mercoledì 26 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 16:30 - Conferenza “Il diritto alla speranza nelle pene” c/o To Wine in Piazzetta - Piazza Buonamici SIENA Giovedì 27 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 15:30 - Conferenza “Bisogna aver visto: analisi comparata della situazione carceraria italiana e tedesca” Auditorium Unistrasi Via dei Pispini 1 GROSSETO Venerdì 28 aprile Ore 11 - Visita al Carcere Ore 13 - Conferenza stampa c/o Libreria Palomar P.za Dante 18. Il Viaggio della speranza in Toscana è organizzato da Nessuno tocchi Caino in collaborazione con la Fondazione Enzo Tortora, l’Osservatorio Carcere dell’UCPI e le Camere Penali di Firenze, Arezzo, Pisa, Livorno, Massa, Lucca, Pistoia, Prato, Siena e Grosseto. Reggio Emilia. Situazione critica nel carcere: “Serve subito un Garante per i detenuti” Gazzetta di Reggio, 18 aprile 2023 Appello della commissione regionale Parità all’amministrazione comunale. “La situazione del carcere di Reggio Emilia è sempre molto critica e l’istituzione del Garante dei detenuti non si può più rimandare”. È l’appello lanciato all’amministrazione comunale dal reggiano Federico Amico, presidente della Commissione Parità e Diritti della Regione, e dal Garante regionale Roberto Cavalieri, alla vigilia della presentazione in Commissione della relazione annuale sulle carceri emiliano-romagnole, in programma il giovedì alla presenza dell’Associazione Antigone, osservatorio indipendente sullo stato delle carceri italiane. “Nel 2022, all’interno delle mura di via Settembrini, sono stati registrati un suicidio e 249 atti di autolesionismo - segnala il presidente Amico - In generale, i dati che saranno illustrati dal Garante riportano una situazione strutturalmente critica di sovraffollamento per le carceri regionali. A Reggio si contano 352 detenuti su 293 posti regolamentari, un dato che supera il 120 per cento della capienza. A questo si assomma la carenza di organico: il personale previsto è di 240 unità, ma quello effettivamente presente raggiunge quota 194, pari al 19% in meno del dovuto”. “Arrivare al più presto all’istituzione di una figura indipendente di garanzia per le persone private della libertà personale, dopo l’approvazione lo scorso ottobre del regolamento da parte del Consiglio comunale, è per Reggio Emilia un passaggio fondamentale - commenta il Garante regionale Cavalieri - che può essere di vero supporto alla dignità dei detenuti e aiutare l’amministrazione comunale nello svolgere quelle attività necessarie a far sì che il “dentro” e il “fuori” dialoghino meglio e rendano attuabile l’articolo 27 della Costituzione per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A Reggio Emilia l’iter per l’istituzione del Garante è iniziato a giugno 2021 con una mozione promossa da Reggio è in Consiglio comunale e sottoscritta dagli altri gruppi di maggioranza. A luglio dell’anno successivo è stata presentata la proposta di Regolamento per l’istituzione di una figura di garanzia “in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà al fine di individuare eventuali criticità contrarie alla dignità delle persone e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle”, a cui è seguita l’approvazione del regolamento a ottobre 2022. “Ora è cruciale far uscire subito il bando per la selezione del Garante comunale - spiega Amico, che da oltre due anni si batte perché venga istituito - È fondamentale per colmare una mancanza che esiste da troppo tempo, anche alla luce della complessità e varietà di situazioni che si trovano nel carcere di Reggio, dalla detenzione femminile alla sezione trans, dall’articolazione di salute mentale alla casa circondariale. La nuova figura di garanzia potrà supportare il già intenso dialogo tra il Comune e il penitenziario, e favorire percorsi di recupero attraverso il lavoro e la cultura, con la collaborazione delle associazioni e delle cooperative che già oggi operano in carcere, a conferma che il carcere è tra le priorità delle politiche sociali del municipio reggiano”. A oggi la presenza dei Garanti comunali dei detenuti si rileva nei territori di Piacenza, Parma, Bologna e Rimini. “I comuni di Reggio Emilia e Modena hanno concluso l’iter amministrativo per l’adozione dei necessari atti per il riconoscimento di questa figura. Infine, i comuni di Castelfranco Emilia, Forlì e Ravenna non hanno intrapreso atti relativi al riconoscimento, rendendo così assai complessa l’istituzione di una vera e propria rete”. A partire dal 2015 nel carcere di Reggio Emilia è stata avviata una riorganizzazione dei circuiti interni, con la previsione - oltre alla ricollocazione della locale articolazione di salute mentale, destinata a ospitare anche detenuti minorati psichici e con sopravvenuta infermità mentale - di istituire una sezione di reclusione (ora raddoppiata) e una sezione per detenuti transessuali. Nell’istituto è presente, inoltre, il circuito Zeta donne (congiunte di collaboratori). Le sezioni per detenuti transessuali e quella per donne congiunte di collaboratori (circuito Zeta) sono state riallocate con una parziale riduzione di capienza, al fine di dare spazio a una nuova sezione circondariale femminile. Tale scelta è stata assunta, inizialmente, al fine di gestire le criticità conseguenti alla chiusura temporanea della sezione femminile presso la casa circondariale di Modena, di cui è stata confermata la riapertura in ragione del persistente sovraffollamento di tale circuito nel distretto. Lecce. Il Garante dei detenuti: ruolo chiave per spalancare una finestra sul carcere di Gabriele De Giorgi lecceprima.it, 18 aprile 2023 Nel 2018 il Comune di Lecce si è dotato di questa figura: Maria Mancarella è stata la prima. Giovedì a Borgo San Nicola la presentazione del report di fine mandato. Dopo cinque anni di attività si è concluso il mandato di Maria Mancarella quale garante dei diritti delle persone private della libertà personale. È stata nominata nell’aprile del 2018 dal sindaco di Lecce Carlo Salvemini, dopo che il Consiglio comunale, nel novembre del 2017, aveva istituito la figura del garante e approvato il relativo regolamento. Laureata in Filosofia e anche in Psicologia, ha a lungo insegnato Sociologia nell’ateneo salentino e ha maturato una vasta esperienza professionale nell’ambito della giustizia minorile, della mediazione familiare, della metodologia della ricerca. Si è occupata diffusamente di minori e di povertà. In questi giorni la garante sta esponendo il suo resoconto ai consiglieri comunali e giovedì il report sarà presentato nel carcere di Borgo San Nicola. Per le detenute e i detenuti è stata un punto di riferimento, che prima non c’era, e la sua attività è stata fondamentale anche per alleggerire i disagi nel periodo dell’emergenza sanitaria, quando il mondo penitenziario si è trovato davanti all’urgenza di regolare in maniera diversa i rapporti al suo interno, ma anche quelli con l’esterno. D’altra parte il suo lavoro ha imposto anche alle istituzioni locali e ai cittadini il dovere di mettersi in relazione con ciò che avviene all’interno delle mura del carcere, dove ci sono individui portatori di diritti che non possono essere ignorati. Una figura chiave, insomma, se è vero come è vero che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le sue carceri (Voltaire). La relazione è ovviamente preceduta dai dati di contesto. All’inizio di gennaio del 2023 nel carcere di Lecce risultavano detenute 1.113 persone di cui 82 donne e 175 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 798 posti. In regime di alta sicurezza sono detenuti circa 200 uomini e 35 donne. Rispetto al dato precedente (1° gennaio 2022), quando i detenuti effettivi erano 1.141, la condizione di sovraffollamento - eterna zavorra del sistema carcerario italiano - ha registrato un leggero miglioramento, ma il tema resta in cima alle priorità da affrontare. Il nodo ha molto a che fare con la carcerazione preventiva: al 24 marzo di quest’anno sono 178 i detenuti in attesa di giudizio (di cui 11 donne). Sono in 333 a lavorare per l’amministrazione penitenziaria di cui 8 per la manutenzione ordinaria e 7 in falegnameria (attività per la quale è in allestimento un ambizioso progetto per la produzione di arredi per i penitenziari italiani e per il quale sono stati già selezionati 110 detenuti). Le risorse a disposizione sono però insufficienti e così si attua un principio di rotazione che consente a tutti di avere una qualche retribuzione che per i detenuti è importante perché costituisce una sorta di legame con la propria famiglia, alla quale si garantisce così un sopporto seppur dalla condizione di detenzione. In carcere si conducono poi attività gestite da ditte esterne (forno, pasticceria, orto, produzione di articoli “Made in carcere”, riparazione modem di Linkem): in questo caso gli occupati sono 37, mentre coloro che lavorano fuori dall’istituto sono 24. In totale la percentuale dei detenuti a vario titolo occupati è del 38,5 percento. Quello dell’alfabetizzazione e dell’istruzione è un altro campo molto delicato, come dimostra il tasso di abbandono dei corsi (afferenti all’indirizzo tecnico economico curati dall’Ites Olivetti) per l’anno scolastico 2020/2021: dei 43 iscritti al secondo biennio, che abilita all’ultimo anno per il conseguimento del diploma, sono stati ammessi in 13. Questo trend è dovuto a diversi motivi, il principale dei quali è la coincidenza, spesso, tra orari di lezione e attività lavorative: molti detenuti preferiscono le seconde perché generano una qualche forma di reddito, come si diceva sopra. Sono invece 13 gli iscritti a corsi universitari e la recente attivazione del polo universitario in carcere ha alimentato molte speranze. Nell’ultimo anno però, racconta la garante, i malumori sono stati molti tanto che delle 20 preiscrizioni per l’anno accademico 2022/2023 non se ne è concretizzata nessuno, anche a causa dei trasferimenti intanto decisi da un penitenziario all’altro. Molti fattori hanno generato, infatti, una certa disillusione: la carenza di luoghi adatti allo studio, di figure di tutoraggio che possano facilitare il disbrigo delle pratiche e le informazioni di cui lo studente ha bisogno, l’estrema farraginosità delle procedure obbligatorie per ottenere l’assenso all’uso di strumenti telematici (anche una semplice chiavetta Usb con le dispense dei corsi). Insomma, moltissimo resta ancora da fare, nonostante lo sforzo encomiabile e generoso del personale docente, dei volontari e il contributo della stessa organizzazione penitenziaria alle prese, come noto, con carenze di organico che si ripercuotono innanzitutto sulla continuità delle attività di formazione e di abilitazione professionale. Nel report di Maria Mancarella uno spazio significativo è assegnato poi alla salute mentale in carcere: a Borgo San Nicola, infatti, è presente una Sezione intramuraria psichiatrica, diretta emanazione del Dipartimento di salute mentale di Asl. La struttura, unica in Puglia, è destinata al trattamento sanitario di imputati e condannati che durante la detenzione sviluppino patologie psichiatriche, di condannati a pene diminuite per vizio parziale di mente, di detenuti e internati la cui condizione debba essere posta sotto osservazione. Al momento, per carenza assoluta di personale medico specializzato, la struttura, nata con 20 posti letto, accoglie solo due pazienti. “Paradossalmente il carcere di Lecce - è scritto nella relazione finale della garante -, proprio per il suo essere un carcere da tempo attrezzato e attento ai problemi della psichiatria penitenziaria, ha finito per scontare le carenze di un sistema più ampio che finisce per scaricare le sue inadempienze su chi è già impegnato nell’affrontare i tanti problemi legati alla salute mentale in carcere”. Nel corso del suo mandato, ovviamente, Maria Mancarella ha raccolto le istanze dei detenuti nel corso di centinaia di colloqui diretti: le lamentele principali riguardano l’inadeguatezza degli ambienti di detenzione, spesso umidi o soggetti a infiltrazione, e della fornitura dei beni di prima necessità, ma anche le attese troppo lunghe per ricevere farmaci acquistati o per effettuare visite specialistiche ed esami diagnostici. Sul fronte della comunicazione in ambiente carcerario, i detenuti palesano difficoltà nel parlare con la direzione, con i magistrati di sorveglianza, con la polizia penitenziaria. Il report si conclude con l’indicazione di cosa si dovrebbe fare per migliorare la condizione carceraria: ci sono indicazioni di breve, medio e lungo periodo. Tra le prime c’è quella di aumentare gli investimenti in formazione e istruzione, di ampliare la possibilità di attività culturali e sportive, di agevolare e non contrastare l’uso della tecnologia con la quale molti ostacoli possono essere superati. Tra gli interventi di medio lungo termine, invece, prioritari restano la riqualificazione degli ambienti, spesso degradati e il rafforzamento della pianta organica, non solo della polizia penitenziaria, ma soprattutto di medici, psicologi e operatori pedagogici. Torino. “Nella riqualificazione del Ferrante Aporti precedenza ai ragazzi” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 18 aprile 2023 L’assessore Caucino e il garante Mellano in visita all’Ipm. “Si è aperta una finestra per il coinvolgimento del territorio”. È soddisfatto Bruno Mellano, garante regionale delle persone private della libertà, dopo l’incontro con Antonio Pappalardo, dirigente del centro di giustizia minorile di Piemonte, Liguria, Valle d’aosta e Massa Carrara. Al centro della discussione, a cui ha partecipato anche l’assessora regionale Chiara Caucino, titolare delle deleghe a Infanzia, Genitorialità e Ruolo della famiglia, c’erano i 25 milioni stanziati nell’ambito del Pnrr per la riqualificazione dell’istituto penitenziario minorile Ferrante Aporti. Il più grande investimento di questo tipo a livello nazionale, ma a preoccupare Mellano e Caucino è la destinazione delle risorse e la mancanza di chiarezza sulle tempistiche dei lavori. Le opere dovrebbero essere completate entro il 2026 e puntano alla riqualificazione energetica degli edifici, all’adeguamento antisismico e al miglioramento della qualità degli ambienti. L’idea è di realizzare un edificio carcerario contemporaneo, pensato non come una fortezza circondata da muri. Il rischio è che la ristrutturazione trascuri le aree detentive, in condizioni di estremo degrado. Una situazione che la visita effettuata da Mellano e Caucino ieri pomeriggio non ha potuto che confermare. Un pallone bucato in mezzo al giardinetto nel centro di prima accoglienza Radaelli, ragazzi sdraiati sul letto nelle stanze al Ferrante e, in generale, poca pulizia. Non proprio il miglior biglietto da visita nel giorno di un’ispezione programmata da tempo. Senza contare che ieri erano presenti 43 ragazzi (di cui uno in isolamento) a fronte di una capienza di 42 posti. “Ci dovrebbe essere un ordine di interventi e azioni sistematiche e non “a spot”- ha commentato Caucino -. I giovani detenuti devono essere rieducati e indirizzati verso l’autonomia, ma servono stimoli precisi. Se ai ragazzi viene affidato l’incarico di provvedere alle pulizie devono farlo. Urge un intervento di ristrutturazione di questi luoghi per il decoro e la dignità di chi ci vive. Non possiamo pensare a un’azione rieducativa se poi lasciamo i giovani in queste condizioni. Cercheremo di trovare risorse aggiuntive, ma l’occasione del Pnrr deve essere sfruttata al meglio. Bene la risistemazione delle parti amministrative, ma diamo la priorità ai ragazzi”. Sulla stessa linea anche Mellano che, dopo l’incontro con Pappalardo, è ottimista: “Non può essere un burocrate ministeriale a decidere le priorità. Noi Occorre una maggiore attenzione agli spazi detentivi, migliorando la qualità degli ambienti: qui abbiamo scoperto che ci sono operatori che non sanno cosa sta per accadere e soprattutto quando. Sentire il parere delle persone che vivono e lavorano qui dentro, a cominciare dalla polizia penitenziaria, è indispensabile prima di vincolare queste risorse straordinarie. L’assessora ha chiesto che la Regione venga coinvolta nella fase progettuale per una maggiore attenzione agli spazi detentivi e il dirigente si è dichiarato disponibile. Questa è un’occasione da non perdere”. Varese. Lavoro dei detenuti: la funzione rieducativa abbatte la recidiva informazioneonline.it, 18 aprile 2023 Una riunione in Provincia di Varese, coordinata dal Prefetto Salvatore Pasquariello, mette allo stesso tavolo istituzioni politiche, mondo dell’impresa, enti di formazione professionale, associazioni di categoria e sindacati, al fine di potenziare le opportunità lavorative per i detenuti dentro e fuori dal carcere. Si è tenuta nel corso della mattinata odierna, presso la Sala Consiliare della Provincia di Varese, una riunione presieduta dal Prefetto Salvatore Pasquariello avente ad oggetto la tematica del lavoro dei detenuti all’interno e all’esterno dei luoghi di detenzione. Presenti i parlamentari Alessandro Alfieri, Stefano Candiani e Andrea Pellicini, i consiglieri regionali Giacomo Cosentino, Giuseppe Licata e Luigi Zocchi, il Garante regionale dei detenuti Gianalberico Devecchi, il Sindaco di Varese Davide Galimberti, rappresentanti della Provincia di Varese e delle Forze dell’Ordine, i Direttori delle Case Circondariali di Varese e Busto Arsizio con i Comandanti delle rispettive Polizie Penitenziarie, rappresentanti della magistratura di sorveglianza e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Varese, il Presidente e il Segretario generale della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Varese ed esponenti di organizzazioni sindacali, associazioni di categoria a livello locale nonché di enti di formazione ed enti del terzo settore. Nel corso dell’incontro è emersa l’importanza di offrire ai detenuti la possibilità di lavorare all’interno o all’esterno del carcere, per permettere loro un reinserimento sociale reale come previsto dall’art. 27 della Costituzione. Secondo le statistiche, infatti, quando manca tale possibilità il tasso di recidiva è molto alto (intorno al 70%), mentre si abbatte drasticamente in caso contrario (intorno al 2%). Sono state richiamate altresì le opportunità offerte dalla cosiddetta legge Smuraglia, che prevede sgravi contributivi e fiscali per le aziende che assumono detenuti o ex detenuti. La riunione, pertanto, ha rappresentato un’occasione importante per iniziare a costruire una rete tra istituzioni politiche, mondo dell’impresa, enti di formazione professionale, associazioni di categoria e sindacati, al fine di potenziare le opportunità lavorative per i detenuti dentro e fuori dal carcere. Sono stati evidenziati anche gli esempi di eccellenza in tal senso che già si registrano nelle carceri di Busto e Varese e i progetti di collaborazione con vari Enti, come per esempio quelli con l’Enaip. L’incontro ha rappresentato, infine, l’occasione per discutere dell’organizzazione di un convegno sull’argomento, che si terrà probabilmente il 29 maggio prossimo. Milano. I detenuti di San Vittore tirano fuori l’anima di design degli oggetti riciclati di Simona Buscaglia wired.it, 18 aprile 2023 Nel laboratorio di economia circolare della Casa circondariale milanese nascono poltrone, sedie, chaise longue, stoviglie e paratie. Tutto realizzato con oggetti riciclati dentro il carcere grazie anche all’aiuto dell’Università Iuav di Venezia. Nel carcere di San Vittore a Milano per raggiungere lo snodo principale dei diversi raggi si superano alcune porte e si attraversa un lungo corridoio. Arrivati in questo spazio più ampio viene istintivo alzare gli occhi al cielo, per cercare la luce filtrata da quelle ampie vetrate poste sopra le entrate delle diverse sezioni. Su uno dei cartelli che indica IV Raggio ora appare la scritta “Senza Invito”, creata intagliando delle cassette della frutta. È il nome di un progetto speciale di rinascita, che parla di economia circolare ma anche, e forse soprattutto, dei percorsi di chi, dentro quelle mura, cerca un ponte con l’esterno per il futuro. In occasione della Milano Design Week 2023 proprio nella casa circondariale milanese verranno esposte le opere di design realizzate dai detenuti durante le ore del laboratorio pensato e portato avanti da Ilaria Scauri. La mostra, ideata da Davide Crippa, docente dell’Università Iuav di Venezia, e promossa dal distretto Repubblica del Design, porterà i visitatori in un mondo di oggetti colorati partoriti dalla creatività dei partecipanti al corso. Bottiglie, cassette di frutta, giornali, flaconi di detersivi, tappi di plastica diventano vassoi, paratie, tazze, divani e sedie. Una volta terminata l’esposizione verranno utilizzati all’interno del carcere: le paratie con le bottiglie di plastica verranno usate nella sala delle telefonate per avere un po’ di privacy durante i colloqui, le sedie saranno smistate nelle diverse aree, così come una speciale Chaise longue, assemblata con giornali pressati dentro delle bottiglie di plastica e poi unita a una struttura di taniche e tappetini da ginnastica. “La realizzazione ha richiesto la collaborazione degli operatori della manutenzione che hanno diviso i vari tubi realizzati con il flessibile” spiega orgoglioso Paolo, mostrando il risultato del suo lavoro. Lui qui viene chiamato “il Maestro” per la sua manualità, visto che prima faceva il carpentiere e a questo laboratorio è molto legato: “Ci teniamo occupati e possiamo liberare un po’ la testa dai pensieri” racconta mentre mostra una struttura piramidale di sua invenzione, creata coi tappi di plastica che al suo interno nasconde, proprio come i celebri monumenti in Egitto, una piccola mummia: “L’ho realizzata con la farina e le scaglie di sapone, per colorarla ho usato il caffè”. Durante il Fuorisalone circa 40 persone al giorno potranno visitare le opere, che verranno esposte nel giardino condiviso interno al carcere: “L’evento è andato già sold out - afferma Scauri - e vedere l’allestimento realizzato ripaga di tutto il lavoro svolto. Dobbiamo molto al gruppo che si è creato, senza il quale sarebbe stato impossibile portare a termine il progetto”. Lo spirito di gruppo si può intravedere negli scatti che accompagnano l’allestimento di design, realizzate da Marco Merati. “Non è stato semplice entrare in sintonia. All’inizio mi guardavano un po’ con sospetto chiedendomi se stessi facendo loro delle ‘foto segnaletiche’ - spiega Merati - poi invece è scattato qualcosa: qui in carcere non possono realizzare foto. Dal voltarsi dall’altra parte sono piano piano diventati invece complici, coinvolgendomi nei loro momenti di svago dentro al laboratorio. L’obbiettivo del resto era scattare immagini che non sembrassero fatte dentro un carcere”. Il progetto speciale per la Design Week milanese è uno dei collegamenti culturali che il direttore Giacinto Siciliano sta cercando di costruire tra il mondo “dentro” e quello fuori San Vittore: “Questo è un pezzo di città e la sfida è mantenere sempre alta l’asticella, mostrare alla gente il potenziale, le risorse che possono esserci qui e la voglia di rinascita che le persone poi potranno spendere fuori”. Le ore passate nel laboratorio a creare le installazioni sono un bagaglio che i detenuti si porteranno dietro: “Stare sempre e solo in cella non fa bene, qui invece mettiamo in pratica la socialità, impariamo qualcosa - racconta Emiliano, uno dei partecipanti -. Appena uscirò voglio insegnare ai miei figli quello che ho studiato in queste ore, così potrò giocare con loro. Tutti insieme qui abbiamo creato una magia”. Uscendo dal carcere ci si porta a casa un po’ di quello spirito giocoso che non si pensa di poter trovare in una casa circondariale, e, forse, già questa è una piccola magia. Milano. Un’agroforesta nel carcere di Bollate per la Giornata mondiale della terra primamilanoovest.it, 18 aprile 2023 L’iniziativa si inserisce nelle attività del “Progetto Carcere” portate avanti dall’Università degli Studi di Milano. In occasione della Giornata mondiale della terra il prossimo 22 aprile nel carcere di Bollate verrà messo a dimora un modello di sistema agroforestale. Nel carcere di Bollate un sistema agroforestale - In occasione della Giornata Mondiale della Terra, che si celebra il 22 aprile, all’interno della Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate verrà messo a dimora un modello di sistema agroforestale multistrato progettato per generare frutti eduli e fornire importanti servizi ecosistemici all’ambiente carcerario come lo stoccaggio di carbonio, la mitigazione delle temperature e la rigenerazione del suolo. Esso svolgerà inoltre funzioni legate al miglioramento estetico dell’area ove avverrà la messa a dimora e al benessere psico-fisico di chi se ne prenderà cura, restando così lascito e patrimonio del Carcere e di chi lo abita, potente messaggio di rinascita sociale e ambientale, primo progetto di questo genere a Milano. Un’iniziativa di progetto carcere - L’iniziativa, proposta e realizzata da Soulfood Forestfarms Hub Italia con il sostegno economico dell’organizzazione internazionale OneTreePlanted e il supporto tecnico-logistico del vivaio Cascina Bollate, si inserisce nelle attività del “Progetto Carcere” portate avanti dall’Università degli Studi di Milano e prevede il coinvolgimento attivo, durante la piantumazione, di alcuni detenuti e degli studenti e delle studentesse del Corso di Laurea in Scienze Umane dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio. L’inaugurazione è prevista alle ore 14. Saranno presenti l’Assessora all’Ambiente e Verde del Comune di Milano, Elena Grandi e Ilda Vagge, Garante del verde, del suolo e degli alberi del Comune di Milano. Per partecipare è necessario accreditarsi inviando una mail a carceredibollate.ufficiostampa@gmail.com. Libri. Gli anni Settanta, nodi e contraddizioni di Marco Grispigni Il Manifesto, 18 aprile 2023 “L’affaire 7 aprile”, di Roberto Colozza per Einaudi. L’autore non nasconde le forzature, dalla pratica della sostituzione dei mandati di cattura al prolungamento della carcerazione preventiva, ma “difende” le tesi di Calogero. “La Corte d’Appello di Roma ha demolito il castello accusatorio del 7 aprile attraverso il quale Stato, partiti e poteri si liberarono nel 1979 dell’Autonomia operaia… Qualcuno ci ha detto ieri: è anche una vostra vittoria. Magra vittoria vedere restituita, a otto anni di distanza, una più presentabile immagine della giustizia. Perché la pena era già stata inflitta, è stata scontata prima del processo, una vendetta è stata eseguita. Quella di ieri è una tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile”. Con queste amare parole Rossana Rossanda commentava sul manifesto del 9 giugno 1987 la sentenza della Corte d’Appello, che sarà confermata l’anno successivo dalla Cassazione. Una sentenza che, come spesso accade nel nostro paese, ribaltava l’esito del processo di primo grado e sostanzialmente demoliva il famigerato “teorema Calogero”. Su questo passaggio importante della storia degli anni Settanta italiani, è da poco uscito un corposo volume di Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile (Einaudi, pp. 370, euro 32). Con questo libro la casa editrice Einaudi sembra confermare l’interesse ad affrontare il nodo degli anni Settanta da un punto di vista storiografico e non, come troppo spesso ancora avviene, con il racconto di un “testimone” o le riflessioni di un giornalista. Lodevole intenzione, anche se finora con risultati quantomeno contraddittori che vanno dal bel lavoro di Monica Galfré su Marco Donat Cattin all’assai discutibile libro di Miguel Gotor, Generazione Settanta. L’inchiesta di Pietro Calogero, anche per l’enorme rilievo e sostegno che la grande stampa e il mondo politico diedero alle tesi del magistrato, è forse uno dei casi più emblematici delle gravi violazioni dello stato di diritto legati alla logica emergenziale con la quale la magistratura affrontò gli anni drammatici segnati dal terrorismo di sinistra e dalla violenza diffusa nel conflitto sociale. Quelle violazioni che, pur se spesso negate nelle memorie di magistrati e politici dell’epoca, hanno un peso notevole quando la magistratura di altri paesi si trova a giudicare le richieste di estradizione per ormai anziani “condannati” per le vicende legate alla lotta armata degli anni Settanta. Il libro di Colozza non nasconde le forzature più gravi dell’affaire, dalla pratica giudiziaria della sostituzione dei mandati di cattura, al prolungamento della carcerazione preventiva, ma sostanzialmente “difende” le tesi di Calogero scaricando su Roma, e in particolar modo su Achille Gallucci il pubblico ministero del “troncone” romano del processo, la colpa di aver condotto le intuizioni di Calogero nel vicolo cieco di un teorema indimostrabile. “Certo anche l’ipotesi iniziale di Calogero risultò schematica, ma in realtà era pionieristica e documentata. È soprattutto nella capitale, invece, che s’annidano le fragilità del “7 aprile” e che trovano forza le ragioni di coloro che lo denunciarono contro-accusando”. In realtà entrambi i processi in cui si articolò l’inchiesta, quello romano e quello padovano, avevano in comune l’ipotesi accusatoria formulata da Pietro Calogero e sostenuta, con poche eccezioni, anche a livello di riflessione storico-politica, dal Pci. Come in una matrioska, una dentro l’altra, c’erano le Brigate rosse, l’Autonomia operaia e Potere operaio. La magistratura e la politica, dopo il duro scacco subito con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, offrivano al paese una lettura del fenomeno terroristico, della sua matrice e della sua strategia: così il processo 7 aprile fin dall’inizio “si configurò come una resa dei conti per le sorti della Repubblica”. Proprio questo carattere di “resa dei conti” è un po’ il filo conduttore della narrazione del libro che fa trasparire nelle pagine la convinzione che alla fine di tutto, pur se le tesi di Calogero non reggeranno da un punto di vista giuridico (e aggiungerei storico), il risultato politico, necessario, era stata raggiunto: spazzare via un’intera area della sovversione, “prosciugare l’acqua nella quale nuotavano i terroristi”. La stessa sentenza della Corte d’Appello viene “ridimensionata” dall’autore come una sorta di adattamento “al mutato clima politico” (sono gli anni della “dissociazione” e delle dichiarazioni sulla fine della lotta armata) che non avrebbe messo in discussione “né metodo né contenuti d’istruttoria e primo grado”. Quindi nelle pagine del libro, che spaziano ben oltre le sole vicende giudiziarie dei processi, si respira questa forma di “giustificazionismo” del teorema Calogero. Certo, non pochi furono gli imputati che passarono numerosi anni in carcere, comprese quelle speciali, per essere alla fine assolti. Certo, alcuni di loro negli anni successivi alla ingiusta carcerazione, si ammalarono e morirono prematuramente (Ferrari Bravo, Finzi, Bianchini, Tommei, Vesce, Serafini, Raiteri, Pozzi, Baietta, Liverani, Dalmaviva per ricordarne i nomi). “Danni collaterali”, forse. Musica. Lucariello: “I ragazzi del carcere minorile mi hanno dato tanto, così nasce Innocente” di Antonio Musella e Francesco Raiola fanpage.it, 18 aprile 2023 Si chiama Innocente l’utlimo album di Lucariello, rapper che negli ultimi anni lavora con i ragazzi del carcere minorile. Innocente è l’album che segna il ritorno discografico del rapper napoletano Lucariello che torna assieme al produttore Drew Trax e ai testi e al flow che da sempre lo caratterizzano come uno degli artisti di riferimento per la scena italiana, aggiunge produzioni che spaziano ma che hanno nella drill un filo comune. Storie personali in ogni senso quelle che racconta il rapper che mette l’esperienza personale, anche difficile di questi ultimi anni accanto al suo lavoro negli istituti e nelle carceri minorili dove da anni Lucariello tiene corsi e con i ragazzi ha costruito uno studio di registrazione con cui registra la loro musica. E proprio in uno di questi laboratori ha incontrato Francesco Pio Valda, il ragazzo accusato di aver ucciso Francesco Pio Maimone. Oltre alla musica, quindi abbiamo chiesto a Lucariello - protagonista anche della colonna sonora di Gomorra - grazie alla sua esperienza, di raccontarci quello che è il lavoro che fa, il rapporto con i ragazzi del carcere minorile, della realtà oltre Gomorra e Mare Fuori e del suo incontro con Valda. Francesco Pio Maimone è stato ucciso da un coetaneo per futili motivi. Rispetto a questa storia hai un’esperienza diretta, ce la racconti? Francesco Pio Valda, il ragazzo accusato dell’omicidio, ha frequentato i laboratori di rap che facciamo nel centro diurno polifunzionale a Santa Maria Capua Vetere, abbiamo anche costruito insieme uno studio di registrazione, in quello che è un ex carcere e adesso è un luogo in cui si incontrano e fanno attività i ragazzi delle varie comunità. Valda è un ragazzo tranquillo, ci ha dato una mano a montare lo studio di registrazione, a montare i pannelli, era sempre disponibile. Non ho visto una persona aggressiva per quello che potevo vedere in un laboratorio. La sensazione che ho avuto quando ho avuto la notizia è stata di totale meraviglia, anche rivedendo il suo storico: col padre che aveva accoltellato la madre quando era incinta di lui, tutto un percorso di vita che spesso ritrovo anche nei ragazzi dell’IPM, quando ti rendi conto che le possibilità di scelta che hai, rispetto a certe cose, sono sempre minori. E in questo caso mettere nelle mani di un ragazzo una pistola, è come mettere fuoco e benzina vicini. Che ne pensi delle rappresentazioni che la tv fa del carcere minorile, tipo Mare Fuori? Da un lato mi fa piacere che se ne parli, dall’altro lato mi rendo conto che per esigenze narrative, del tutto giustificabili, lo scenario è diverso: lì ci sono relazioni tra ragazzi e ragazze che negli IPM non esistono. Relazioni che si intessono, tra l’altro, tra ragazzi di età molto diverse, perché tu puoi entrare a 15 anni e puoi restarci fino a 25, quindi magari a 15 anni ti trovi, appena entrato, fresco, a fianco a un ragazzo che ha 24 anni, è già strutturato e per te diventa un modello negativo per quella che dovrebbe essere la rieducazione. Ecco, quello che forse non esce tanto, dalla realtà di questi istituti, è che c’è tanto dolore. Quanto, queste rappresentazioni, hanno ricadute reali sui ragazzi? Penso che, in generale, il mondo dell’intrattenimento, le fiction, le serie, abbiano delle influenze ma sono sempre legate all’estetica del comportamento, non al concreto. Quello, invece, dipende dal passato e dalle storie familiari: in 10 anni in IPM non ho mai visto un ragazzo che ha premuto un grilletto perché l’ha visto nella serie. In che modo l’esperienza che hai vissuto nell’Istituto ha influenzato la tua musica? Negli ultimi anni tantissimo, infatti ho scelto di titolare il disco Innocente, un po’ come provocazione, ma non tanto, perché quando hai poche scelte anche il giudizio nei tuoi confronti cambia. L’influenza che mi hanno dato i ragazzi è stata tantissimo, soprattutto di scambio: io ho portato il mio bagaglio tecnico, l’esperienza artistica, mentre loro mi hanno dato la freschezza e una serie di idee. In “Retata” dici che le carceri minorili sono tutti piene… Sono sempre più pieni: nel discorso generale del brano è come se stessimo facendo parlare uno dei miei ragazzi, poi all’interno ci sono riflessioni che faccio io, come questa. Da una parte c’è la grande fascinazione di mettersi un passamontagna e portarsi a casa i soldi in cinque minuti, dall’altro lato c’è il fatto che queste azioni ti portano più lontano dalla cosa che più vuoi, ovvero farti quattro, cinque anni di carcere. Sono questi i discorsi che cerchiamo di fare, se non altro per cercare di far capire che certe cose per i ragazzi sono autolesioniste. La scelta di lavorare su basi molto drill nasce anche dalla tua volontà di avvicinarsi a un mondo più vicino al loro? Ho cominciato ad ascoltare la drill e ci ho ritrovato quelle emozioni, quell’energia, quella forza, che sentivo anni fa qualche quando ascoltavo le prime cose di boom bap. Ho trovato, dal punto di vista tecnico, dei veri e propri rapper, quello che fanno è veramente rap, non quella roba canticchiata con l’autotune, ma tosta, con dei bassi che si muovevano ed erano costruiti in un certo modo e devo dire la verità anche noi siamo riusciti a costruire insieme un suono tra il rap e la base che in Italia ancora non c’è. Sostegno ai deboli, spinta a chi ha stoffa di Dacia Maraini Corriere della Sera, 18 aprile 2023 Sappiamo che il mondo va avanti solo per le novità, le scoperte che identificano coloro che sono dotati di speciali attitudini. Si tratta di trovare un equilibrio, non facile per la verità, fra la protezione dei deboli e degli esclusi, con il sostegno a chi ha stoffa e indole. Si discute molto in questi giorni a radio 3, durante la bella trasmissione Prima pagina, della competizione. C’è chi dice che la scuola stia imponendo un metodo di competizione che crea ansia e malessere nei ragazzi. Da qui la fuga dall’apprendimento. C’è chi sostiene che un poco di competizione sia necessaria per districarsi nella vita e che non a caso i più bravi se ne vanno all’estero dove la competizione è più praticata e procura rispetto e considerazione, nonché maggiori guadagni. Io però cambierei parola. Invece di competizione che in effetti suona come una forzatura a volte crudele, parlerei di meritocrazia, che è ben altra cosa. Mentre si può dire che la competizione imposta crea panico e disagio, dobbiamo riconoscere che la meritocrazia è un valore di cui non si può fare a meno per la crescita di un Paese. E dobbiamo convenire che il merito crea entusiasmo ed emulazione, salvo naturalmente qualche malignità da invidia a cui non bisogna dare troppa importanza. Offrire uguale possibilità di accesso agli studi e all’apprendimento è fondamentale. Ma incoraggiare chi ha un talento speciale non è una ingiustizia. Anche se molti sostengono che chi viene favorito nelle sue predisposizioni finisce per ottenere un potere psicologico e culturale che comporta privilegi e potere. E qui si apre una voragine di domande: il talento viene dalla natura o è una costruzione sociale e culturale? Si nasce con capacità superiori alla massa o si è privilegiati per condizioni sociali che permettono di esprimere le capacità che tutti hanno ma non possono manifestare? Quando si va alla pratica però si scopre che la società nel suo insieme ha profondamente bisogno dei talenti: che sia per la matematica, per la filosofia, per la musica, per l’insegnamento, per l’economia, per la cucina, per la moda. Insomma c’è chi ha la mente e la mano felice e chi non ce l’ha. È ingiusto dare spazio e sostegno a chi possiede queste inclinazioni? Rousseau direbbe di no. Anche i grandi movimenti rivoluzionari partono di solito da una uguaglianza al ribasso in nome della libertà e della giustizia. Ma pure sappiamo che il mondo va avanti solo per le novità, le scoperte che identificano coloro che sono dotati di speciali attitudini. Si tratta di trovare un equilibrio, non facile per la verità, fra la protezione dei deboli e degli esclusi, con il sostegno a chi ha stoffa e indole. Migranti. Mattarella da Varsavia: “L’Ue superi norme preistoriche. Serve una nuova politica d’asilo” di Concetto Vecchio La Repubblica, 18 aprile 2023 Il presidente della Repubblica italiano con il presidente polacco Andrezej Duda: “Inorriditi da comportamenti russi, aiuti a Kiev finché necessario”. “Allarmante” la manovra destabilizzante della Wagner in Sudan, e “in tanti Paesi africani”. In una Varsavia nervosa, in allerta per la guerra, pattugliamenti di polizia ovunque, Sergio Mattarella chiede di cambiare il regolamento di Dublino sui migranti. “Serve una nuova politica d’asilo dentro l’Unione superando vecchie regole che sono ormai preistoria”, dice con accanto a sé il presidente della Repubblica, l’ultraconservatore Andrezej Duda. Un suggerimento formulato proprio qui in Polonia, in casa di un governo amico di Giorgia Meloni, una delle nazioni sovraniste indisponibili ad una revisione delle regole, perché tanto si demandava al Paese di primo approdo l’onere della domanda di protezione. Tutto però è cambiato in Europa. Il conflitto in corso, e i nuovi inarrestabili flussi migratori, ora interpellano potentemente anche l’est. Mattarella si è detto ammirato per come la Polonia ha accolto un milione e mezzo di profughi ucraini, il quaranta per cento ha deciso che vi resterà anche dopo la fine della guerra e una piccola minoranza facoltosa si fa notare a bordo di sgargianti Ferrari, ma intanto ai confini con la Bielorussia è stato eretto un muro per impedire l’ingresso agli altri migranti: quelli indesiderati. Come interpretare l’uscita di Mattarella? Si entra in Europa, non in Italia, questo il ragionamento espresso dopo il lungo colloquio con Duda. Perciò ecco l’invito ad un’assunzione di responsabilità europea: “Un’azione coordinata”, perché nessuno “da solo può affrontare una questione così epocale”. Cambiare Dublino, partorito a fine anni Ottanta, rivedere le norme generali, ormai è un patrimonio assodato a destra come a sinistra, anche se qui, nella delegazione del Quirinale, c’è il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli (Fratelli d’Italia), che ricorda che la priorità del suo partito resta quella di impedire le partenze. Nuove tensioni si annunciano già. Il capo dello Stato ha giudicato “allarmanti” le manovre destabilizzanti dei mercenari russi della brigata Wagner nel golpe in Sudan. Non potranno che avere una ripercussione in Europa, ciò impone “un’azione della Ue attiva, protagonista, e della Nato”. Ancora una volta, all’estero, Mattarella difende l’Italia. Il suo appello arriva proprio mentre in Parlamento a Roma si discute della decisione della destra di abolire la protezione speciale per i migranti, creando un esercito potenziale di diecimila irregolari: un pericolo su cui il Quirinale, sensibile ai temi dei diriti umani, aveva esercitato una moral suasion nelle scorse settimane. La Lega si convincerà ad ammorbidire le sue posizioni? Dal Colle vigilano, ma allo stesso tempo non intendono farsi trascinare nello scontro sotterraneo che persiste tra Salvini e Meloni proprio sull’immigrazione. L’altro grande tema è la guerra, che qui è molto vicina. Mattarella è stato nettissimo, ancor più che in passato. Le sanzioni contro la Russia “sono indispensabili”; il sostegno sotto il profilo “militare, finanziario, umanitario” va garantito “finché è necessario”. È un messaggio nemmeno troppo implicito a chi, in Italia - nella Lega e a sinistra - vorrebbe ridiscutere il nostro aiuto a Kiev. La pace “dev’essere giusta. Se l’Ucraina fosse lasciata sola, altre aggressioni seguirebbero. Ha diritto alla solidarietà e noi la garantiremo in pieno”, ha ribadito. “Anche perché siamo inorriditi da alcuni comportamenti russi”. Il riferimento è ai soldati ucraini decapitati e ai bambini uccisi dalla Wagner. Resta, a sussumere tutto, l’impegno per un’Europa solidale. Ma anche qui le differenze sono grandi. Questa mattina vedrà il premier Mateusz Morawiecki, il fautore dell’Europa delle piccole patrie: è proprio l’idea di Meloni. Sono due visioni agli antipodi con il Quirinale, il che renderà l’incontro interessante. L’Europa, ha ricordato il nostro presidente, respinge “ogni impulso imperialista frutto di esasperazioni nazionalistiche”. Il sovranismo non può essere una strada. E con questa convinzione morale nel pomeriggio andrà ad Auschwitz, e con diecimila giovani da tutto il mondo, tra cui tre scolaresche italiane, parteciperà alla Marcia dei vivi. “Ripeteremo: mai più”, ha promesso. Perché l’approccio da bulli sui migranti è destinato ad aggravare i problemi dell’Italia di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 aprile 2023 Che differenza c’è tra gli slogan e la realtà? Protezione umanitaria e molto altro. Numeri per smascherare le balle. È il bull factor, bellezza. La battaglia parlamentare relativa alla revisione al ribasso della protezione speciale per gli immigrati portata avanti dalla maggioranza di governo ci dice qualcosa di interessante rispetto all’approccio miope scelto dall’esecutivo per gestire le politiche sull’immigrazione. Lo definiamo un approccio “miope” perché il problema della norma che punta ad abolire un particolare permesso di soggiorno riconosciuto ad alcuni richiedenti asilo che arrivano in Italia, la così detta protezione speciale, che non è una norma che esiste solo in Italia (una misura simile esiste in vari paesi europei, compresi Germania, Spagna e Paesi Bassi) e che tra l’altro è una norma introdotta nel 2018 dal governo guidato anche da Salvini (attraverso il primo decreto “Sicurezza”, che aveva eliminato la protezione umanitaria), è un tema che andrebbe affrontato più con la lente di ingrandimento dell’utilità che con quella della disumanità. E se si sceglie di concentrarsi su questo punto, si capirà facilmente perché il centrodestra, quando parla di immigrazione, non solo tende a offrire soluzioni destinate a peggiorare i problemi dell’Italia ma tende anche a rivolgersi agli elettori con la postura tipica di chi prova a prendere in giro un intero paese. Non ci vuole molto a comprendere come una politica migratoria finalizzata unicamente a trasformare in irregolare una parte dei migranti regolari già presenti in Italia sia destinata ad avere come unico effetto non quello di disincentivare le partenze ma quello di far aumentare il numero di irregolari (Salvini ci provò anche nel 2018, da vicepremier e ministro dell’Interno del governo Conte, quando elaborò un famoso decreto “Sicurezza” finalizzato a trasformare in irregolari i richiedenti asilo, il cui risultato, se quel decreto non fosse stato spazzato via dalla Corte costituzionale, sarebbe stato quello di portare il numero degli irregolari da 500 mila a 620 mila: dati Ispi). Non ci vuole molto a comprendere quanto l’idea che i richiedenti asilo siano l’emergenza numero uno del nostro paese sia un modo come un altro per sfuggire dalla realtà e tuffarsi nella propaganda (nel 2022 in Italia sono state presentate 77.195 richieste di protezione internazionale, a fronte delle 217.735 presentate in Germania, delle 137.505 registrate in Francia e delle 116.140 in Spagna). Non ci vuole molto a comprendere quanto l’idea che il governo voglia “uniformarsi” sui grandi temi al resto d’Europa sia un concetto a metà tra il ridicolo e lo stravagante (concetto invero affascinante considerando le battaglie quotidiane combattute dalla destra nazionalista per non essere schiava dei “diktat” dell’Europa; vedi il Mes). Non ci vuole molto poi a capire che governare l’immigrazione concentrandosi quasi esclusivamente sul pull factor, sui fattori cioè che spingerebbero i migranti a partire dalle loro terre, significa non rendersi conto che seguendo il ragionamento di Salvini e Meloni si potrebbe dire che l’aumento degli sbarchi in Italia negli ultimi mesi è coinciso con l’arrivo del governo Meloni e Salvini (non c’entra nulla, ovviamente, ma se al governo oggi non ci fossero Salvini e Meloni, entrambi i leader starebbero imputando al governo di turno di aver “spinto”, “invogliato”, “incentivato” i migranti a partire). Trasferire l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi percepiti e non su quelli reali è il modo migliore per dimostrare al pubblico di aver risolto i grandi problemi di un paese ma significa inevitabilmente non interessarsi delle vere partite che dovrebbero attirare un governo desideroso di occuparsi di immigrazione rinunciando agli slogan e alla propaganda. Per esempio, come creare nuovi flussi regolari, essendo quelli di oggi insufficienti per la nostra economia. Per esempio, come rafforzare la politica dei rimpatri, dipendendo questa da accordi tutti da costruire in Europa. Per esempio, come modificare il trattato di Dublino, essendo questo immodificabile senza l’aiuto dei paesi alleati di Meloni in Europa, che però desiderano fortissimamente che sia il paese d’approdo quello obbligato a farsi carico delle richieste di asilo. Per esempio, come rispolverare una recente idea di Meloni, che aveva suggerito di presidiare il Mediterraneo a livello europeo rimettendo in piedi l’operazione Sophia, che guarda caso però da quando sono aumentati gli sbarchi Meloni non cita più, forse perché qualcuno, come ha scritto Luca Gambardella sulle nostre pagine, deve aver spiegato alla premier che se schieri navi militari nel Mediterraneo queste saranno obbligate a portare i migranti in difficoltà nel porto sicuro più vicino, che spesso coincide con il porto italiano). Continuare a seguire questo approccio, continuare a fare i bulli trasferendo l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi percepiti e non su quelli reali, può aiutare dunque a offrire qualche biscottino al proprio elettorato ma alla lunga è anche il modo migliore per ricordare una verità difficile da non mettere a fuoco quando si misura la distanza che vi è tra la propaganda e la realtà. E la verità è questa: la vera emergenza, per l’Italia, è avere un governo deciso a gestire l’immigrazione non come un tema da risolvere con provvedimenti strutturali, ma come un’emergenza da risolvere con provvedimenti spot. Sull’immigrazione si impone la Lega ma vuole di più: i vecchi decreti Salvini di Paolo Delgado Il Dubbio, 18 aprile 2023 Meloni cede alle pressioni dell’alleato ma vorrebbe evitare ulteriori forzature per scongiurare il rischio di uno scontro con il Colle, come quello avvenuto nel 2018. Da una parte l’ostruzionismo dell’opposizione, dall’altra la determinazione del governo che tira diritto pronto se necessario, e quasi certamente lo sarà, ad arrivare in aula senza il voto della commissione: fa comodo a entrambe le parti giocare la partita dello scontro frontale sul tema dell’immigrazione. Per il governo come per l’opposizione la sostanziale uniformità di vedute sui conti pubblici è imbarazzante, l’immigrazione permette invece un fronteggiamento non solo politico ma etico, tale quindi da rappresentare il massimo richiamo per i rispettivi elettorati. La vittoria politica, al momento, è della Lega. La versione originale del dl Cutro, nonostante il roboante annuncio di voler inseguire i trafficanti “in tutto l’orbe terracqueo”, era in realtà quasi insignificante. I “trafficanti” a cui si può dare la caccia, in concreto gli scafisti, non sono certo i vertici delle organizzazioni bensì i penultimi e a volte gli ultimissimi, quelli che accettano di pilotare i barconi perché non hanno neppure i soldi per il viaggio. Il Carroccio si è impuntato per una stretta reale e con l’azzeramento della protezione speciale la ha avuta vinta. Anche in questo caso si tratta in buona misura di propaganda. Le protezioni speciali che il nostro Paese concede sono in linea con quelle degli altri grandi Paesi europei e comunque un terzo di quelle tedesche nel 2022 e la metà di quelle spagnole. L’esito della fine della “protezione speciale” rischia di risolversi solo in un’impennata del numero dei clandestini e la protesta dei sindaci e dei governatori di centrosinistra si spiega solo in parte con ovvie ragioni di schieramento politico: il decreto, soprattutto nelle grandi città, può fare danno davvero. Resta da vedere se la Lega si accontenterà di aver conquistato l’obiettivo principale e ritirerà tutti gli emendamenti o proverà a forzare ancora ritirando solo quelli assorbiti dagli emendamenti del governo e lasciando gli altri: diminuzione dei permessi di soggiorno e facilitazione della loro revoca, modifica delle norme sulla permanenza nei Cpr, creazione di una “struttura di missione” di fatto gestita dal Viminale, cioè da un ministro che la Lega considera di pieno affidamento come Piantedosi. Per ora la Lega non sembra intenzionata a ritirare gli emendamenti non assorbiti dagli interventi del governo e la cosa indispettisce FdI e irrita la premier. Il problema non riguarda solo la competizione per la conquista delle fasce elettorali più ostili all’immigrazione, che pure esiste e spiega la scelta leghista di tenere duro su tutto il pacchetto di irrigidimenti richiesti. Meloni però è preoccupata soprattutto per le reazioni del Colle. Nessuno a Chigi ha dimenticato le critiche formali mosse dal capo dello Stato ai decreti Salvini, ai tempi del governo Conte 1, e tutti, in compenso, sono pienamente consapevoli di quanto negativo anche sul piano dell’immagine in Europa sarebbe un nuovo intervento critico del Colle dopo quello sulle concessioni balneari. Il presidente, probabilmente, non apprezza affatto un decreto che considera inutilmente feroce e privo di spirito solidaristico e che contrasta con la sua intera politica. Ma al momento è fermo nella decisione di evitare frizioni con un governo democraticamente eletto. La linea non oltrepassabile è la costituzionalità dei provvedimenti, ma quello è un verdetto che spetta soprattutto alla Corte costituzionale. Anche nell’intervento di ieri da Varsavia Mattarella è stato in realtà molto attento a evitare conflitti con il governo, prendendo invece di mira, del resto a ragion veduta, l’Europa le sue leggi “preistoriche” in materia d’immigrazione. Una posizione che certo non dispiace all’inquilina di palazzo Chigi. Al momento tutto lascia pensare che Mattarella firmerà il dl senza intervenire formalmente. È probabile che dirà qualcosa, appena capiterà l’occasione ma senza mettersi di mezzo. Potrebbe però irrigidirsi se, alla già sgraditissima stretta sulla protezione, si aggiungessero anche le altre restrizioni che invoca la Lega. “Togliere la protezione speciale non risolve i problemi, ma li crea” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 aprile 2023 Fulvio Vassallo Paleologo: “La chiusura delle possibilità di legalizzazione verso il riconoscimento della protezione speciale produrrà un incremento delle persone prive di documenti di soggiorno, pur avendone pieno titolo. La protezione speciale, come la protezione umanitaria, è una applicazione diretta dell’articolo 10 della Costituzione” La protezione speciale è una delle tre ipotesi di protezione internazionale - le altre due sono l’asilo politico e la protezione sussidiaria - offerta dallo Stato italiano al cittadino di straniero che ha lasciato il paese d’origine non perché rischia la persecuzione o un danno grave, ma perché presenta seri motivi umanitari per restare in Italia. L’eliminazione della protezione speciale ipotizzata dalla maggioranza di centrodestra sta creando un forte contrasto con l’opposizione. “È bene che il governo o chi lo sostiene - dice l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, già docente di diritto di asilo nell’Università di Palermo - non si illuda che sia in arrivo una soluzione. Come già successo per l’abolizione della protezione umanitaria, la nuova normativa non potrà avere carattere retroattivo. Lo ha riconosciuto per la protezione umanitaria la Corte di Cassazione un paio di anni fa, tanto che ancora oggi la Suprema Corte si pronuncia su ricorsi in tema di protezione umanitaria”. Secondo Vassallo Paleologo, si pensa di affrontare la questione migratoria con formule semplicistiche. “Per alcuni anni - aggiunge - avremo ancora la protezione speciale con riferimento alle persone che hanno fatto richiesta di protezione prima dell’entrata in vigore del decreto legge Cutro. Il principio di non retroattività della norma è fondamentale in un paese democratico. Non è pensabile che il ministero dell’Interno, come già fatto una volta nel 2018, ritorni di nuovo a riproporre la tesi della retroattività della normativa per colpire il maggior numero di richiedenti asilo”. Avvocato Vassallo, la protezione speciale ha acceso lo scontro tra gli schieramenti politici. Quali rischi comporta l’eliminazione di questo istituto? La chiusura delle possibilità di legalizzazione verso il riconoscimento della protezione speciale produrrà un incremento delle persone prive di documenti di soggiorno, pur avendone pieno titolo in base alle norme costituzionali. Ricordiamo che la protezione speciale, come la protezione umanitaria, è una applicazione diretta dell’articolo 10 della Costituzione. Il provvedimento del governo finirà ben presto all’esame della Corte Costituzionale. Diverse migliaia di persone resteranno senza documenti di soggiorno. Ma a ciò si aggiunge un altro tema. Quale? Si sta facendo una grande propaganda, quando lo scorso anno sono stati concessi poco più di 10mila permessi di soggiorno per protezione speciale. Tutta questa bagarre che si è scatenata ha una chiara portata elettorale. Nei fatti, rispetto agli arrivi previsti, a quelli già avuti, al numero di domande di asilo e al numero di persone che vanno negli altri paesi europei per chiedere protezione, la protezione speciale è un istituto residuale. Riguarda, su 50mila domande di asilo, circa 10 mila persone all’anno che ottengono questo status. La campagna mediatica scatenata contro la protezione speciale ha un chiaro carattere propagandistico e non porta alla risoluzione di nessun problema. Anzi, determina dei problemi dato che si accompagnano allo smantellamento del sistema di accoglienza con la previsione che i richiedenti asilo non potranno essere più ospitati nei centri di prima accoglienza. Altra considerazione riguarda le nuove regole: produrranno la proliferazione di strutture informali di detenzione amministrativa, che sono contro la Costituzione. Alcuni sindaci del centrosinistra paventano, in caso di scardinamento della protezione speciale, la nascita di tendopoli nelle città. Esagerano? No, non esagerano. È bene, però, fare alcune precisazioni. La protezione speciale viene abolita, ma è una parte di un provvedimento. Vi sono altre parti dello stesso provvedimento, su cui vale la pena soffermarsi. Mi riferisco al decreto Cutro e alla dichiarazione dello stato di emergenza, già in Gazzetta ufficiale e operativa con la nomina di un commissario straordinario. Tali provvedimenti, sommati, determineranno l’utilizzazione di strutture informali, anche tensostrutture, per misure limitative della libertà personale. L’orientamento del governo è quello di limitare a tempo indeterminato la libertà personale di coloro che sbarcano. Una misura in contrasto con l’attuale normativa? Certo. In contrasto, inoltre, con buona parte della normativa europea che non prevede certe forme di limitazione amministrativa, senza convalida giurisdizionale, e con la Costituzione, per la precisione con l’articolo 13. Si tende a estendere un modello di emergenza già sperimentato a Lampedusa e condannato recentemente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un modello che porta ad un trattenimento amministrativo informale di persone, che avrebbero il diritto di accedere al sistema di asilo e di accoglienza e che verranno, invece, bloccate a tempo indeterminato, senza potersi avvalere di una difesa legale. Il rischio che queste persone finiscano in una zona d’ombra, senza diritti e garanzie, è dunque reale? Le persone interessate finiranno in un limbo caratterizzato dalla privazione della libertà personale. L’esperienza del passato, tra l’altro, ci ha dato degli insegnamenti. Si pensi a Chinisia, vicino Trapani, a Borgo Mezzanone e a Palazzo San Gervasio. Accanto all’abolizione della protezione speciale troviamo previsioni restrittive e repressive, che cancellano diritti fondamentali riconosciuti da Convenzioni internazionali, da norme europee e dalla nostra Costituzione. Tunisia. Arrestato Ghannouchi, leader del partito di opposizione La Stampa, 18 aprile 2023 Il presidente e leader storico del partito islamico tunisino Ennahdha, Rached Ghannouchi, è stato arrestato in serata su ordine della procura antiterrorismo e si trova attualmente in stato di fermo alla caserma della polizia di Aouina per essere interrogato. La notizia, confermata dal suo stesso partito, è di quelle da prima pagina, anche se in Tunisia molti sapevano che il suo arresto sarebbe stato solo una questione di tempo. Ghannouchi, 82 anni, infatti era da tempo nel mirino del presidente Kais Saied. Fin da quando, il 25 luglio 2021, Saied decise di sospendere i lavori di quel parlamento di cui Ghannouchi era il presidente. Una decisione, quella dell’arresto di un leader dell’islam politico del calibro di Ghannouchi, che rende ancora più marcata la svolta accentratrice e iper presidenzialista di Saied sancita dalla nuova Costituzione approvata con un referendum nel luglio scorso che ha cancellato la legge fondamentale approvata nel 2014, dopo la Rivoluzione dei Gelsomini. E che annulla del tutto qualsiasi forma di opposizione rendendo ancora più instabile un Paese chiave per l’emergenza migranti. È dalle coste tunisine che partono la maggior parte dei profughi sulla rotta del Mediterraneo centrale che ha l’Italia come punto di arrivo, e che rischiano di aumentare enormemente se la situazione politica del Paese dovesse degenerare. A complicare il quadro, la delicata trattativa in corso con l’Fmi per 1,9 miliardi di dollari di aiuti esacerbata dai toni dello stesso Saied che ha parlato di “diktat dall’estero” chiudendo alle riforme richieste come condizione per ottenere il prestito del fondo. Secondo la radio locale Mosaique Fm, Ghannouchi sarà interrogato sul contenuto di un video diffuso in rete alcuni giorni fa, mentre insieme ad alcuni membri del Fronte di Salvezza nazionale, principale coalizione di opposizione al presidente Saied, affermava che “la Tunisia senza islam politico è un progetto di guerra civile”. Più precisamente “ogni tentativo di eliminare una delle componenti politiche non può che portare alla guerra civile”. Parole che avevano scatenato dure reazioni contrarie sui media e tra i sostenitori di Saied e che evidentemente hanno convinto gli inquirenti ad agire in fretta, anche in base alla legge antiterrorismo. In Tunisia vige lo stato di emergenza oltre a una legge antifake news che prevede il carcere fino a 5 anni per chi diffonde notizie false al fine di “minare i diritti degli altri, l’ordine pubblico, la difesa nazionale o seminare il panico tra la popolazione”. Intanto Ennahdha ha chiesto la liberazione immediata del suo leader e “la fine degli attacchi contro gli attivisti politici dell’opposizione”. Ghannouchi, figura carismatica dell’islam politico tunisino, rientrato in Tunisia nel 2011 dopo un esilio durato una ventina d’anni, era oggetto di diverse indagini da parte della procura antiterrorismo, inchieste partite dopo la presa di potere di Kais Saied, da Ghannouchi definita da subito “colpo di stato”. nterrogato più volte in questi ultimi due anni per sospetti di finanziamento illecito a Ennahda e per aver facilitato in passato l’invio di jihadisti tunisini in Siria, Libia e Iraq per sostenere i militanti dello Stato islamico, Ghannouchi pero’ era sempre riuscito a tornare a casa da uomo libero. Impresa che invece non è riuscita a molti suoi compagni di partito, primo tra tutti il numero due del partito islamico e ex premier Ali Laarayed, ancora in carcere da dicembre 2022. Ma come Laarayed una decina di alti gradi di Ennhadha sono in carcere o indagati. Il Fronte di Salvezza Nazionale da tempo denuncia un uso strumentale della magistratura, pure “riformata” da Saied lo scorso anno e invoca l’intervento delle organizzazioni umanitarie internazionali per la liberazione di una ventina di esponenti politici, giornalisti, sindacalisti incarcerati su ordine del presidente. L’arresto di Ghannouchi certamente dà un colpo fatale alla debole opposizione al presidente. Generali contro in Sudan, 100 morti e ospedali al collasso di Matteo Giusti Il Manifesto, 18 aprile 2023 Terzo giorno di scontri in Sudan e situazione che resta molto confusa. I morti sfiorano il centinaio e i feriti superano il migliaio. Situazione critica a Khartum, ma gli scontri fra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan e i paramilitari guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”, infuriano anche in Darfur, Kordofan e nelle altre principali città del paese, da Kassala a Port Sudan. A Khartum è in atto una vera e propria guerra urbana e per il momento resta complicato capire quale delle due fazioni delle forze armate stia prevalendo. Esplosioni, tank per le strade e aerei che bombardano siti militari strategici stanno mettendo in ginocchio il fragile equilibrio del Sudan. Violata anche la tregua mediata dalle Nazioni unite per ottenere dei corridori umanitari in soccorso alla popolazione civile. Il World Food Programme ha sospeso il suo intervento nel paese dopo l’uccisione di tre suoi dipendenti mettendo a rischio fame una parte della popolazione. I bombardamenti non hanno risparmiato nemmeno gli ospedali della capitale situati in zone strategiche della città, nei pressi del comando generale dell’esercito da sabato al centro degli scontri più duri. Il sindacato dei medici sudanesi ha dichiarato che la situazione nei due più grandi ospedali di Khartum è estremamente difficile e che i combattimenti impediscono sia al personale che alle forniture mediche di raggiungere i feriti, colpiti anche da schegge di granata. Insieme a una grave crisi sanitaria Khartum deve fare i conti con una crisi idrica perché è stata interrotta la fornitura d’acqua nelle case e gli abitanti sono costretti ad avventurarsi per le strade alla ricerca di acqua potabile. Domenica erano state sospese le trasmissioni della televisione di stato e solo ieri si è saputo che l’edificio era caduto nelle mani delle Forze di supporto rapido di Hemeti. Ieri mattina i regolari hanno ripreso il controllo di tv e radio nazionali e dopo molte ore di silenzio sono riprese le trasmissioni, a base di inni e canzoni a favore dell’esercito, mentre in sovrimpressione campeggia la scritta “le forze armate sudanesi sono riuscite a riprendere il controllo dell’emittente nazionale dopo i ripetuti tentativi delle milizie di distruggere le sue infrastrutture”. In questi giorni anche la comunicazione si sta rivelando un’arma preziosa: Hemeti durante il primo giorno di scontri non si era risparmiato, rilasciando diverse interviste in cui affermava che le sue milizie avevano il controllo del 90% dei siti militari e che il generale al- Burhan si nascondeva “sottoterra terrorizzato”. Con il passare delle ore il comandante delle Forze di supporto rapido è scomparso da media e social e sono cominciate a circolare notizie di tenore completamente diverso. Ora è l’esercito che afferma di avere il controllo di tutte le basi militari, compreso il Quartier generale di Khartum, dove gli scontri sono stati particolarmente duri. E al-Burhan ha ordinato il “dissolvimento” delle milizie comandate da Hemeti. Secondo il Sudan Tribune la controffensiva dell’esercito ha ripreso il controllo della parte orientale del paese e di Port Sudan, mentre in Kordofan e in Darfur, dove le milizie del generale “Hemeti” sono particolarmente radicate, la situazione resta in bilico. Dopo molte ore di silenzio il Hemeti è tornato a far sentire la sua voce sui social media per dire che i suoi uomini stanno combattendo contro gli islamisti radicali che vogliono tenere il Sudan isolato e lontano dalla democrazia, ma si tratta di un espediente che non sposta le forze in campo. Mentre sul terreno si combatte duramente i grandi player internazionali continuano a muoversi. Sia l’Unione africana che la Lega Araba, spinta da Egitto e Arabia saudita, hanno tenuto due riunioni di emergenza per chiedere il cessate il fuoco. Anche gli Stati uniti stanno cercando di mediare. E la Russia ha ufficialmente chiesto la fine dello scontro in atto. Visti i rapporti soprattutto economici di Mosca con i due generali e il fatto che sul terreno il vero centro di potere è da tempo il Wagner Group di Evgeny Prigozyn, che fa affari d’oro con le miniere sudanesi, potrebbe avere un peso anche maggiore.