L’Anm a Nordio: “Dia risposte alla precarietà dei magistrati onorari” di Davide Varì Il Dubbio, 17 aprile 2023 Sciopero nazionale da oggi fino al 23 aprile. Il sindacato delle toghe chiama in causa il Guardasigilli. Le “istanze” e le “preoccupazioni” della magistratura onoraria siano “oggetto di tempestivo esame e di attenta considerazione da parte del Ministero della Giustizia nel quadro di un disegno normativo che ha inteso coniugare l’esigenza di dare risposta al bisogno di far cessare i disagi conseguenti alla consolidata condizione di precarietà, in cui da anni i magistrati onorari prestano il loro servizio, e la necessità di non trascurare lo statuto costituzionale di onorarietà del loro importante impegno”. È l’auspicio della Giunta esecutiva dell’Associazione Nazionale Magistrati in merito allo sciopero della magistratura onoraria proclamato da oggi per una settimana fino al 23 aprile. “Un’astensione dagli impegni giudiziari per una settimana intera - aggiunge l’Anm - motivata dalla mancanza di ascolto e di attenzione del Governo rispetto alle attese dei magistrati onorari in servizio da tempo di veder finalmente riconosciute, con la necessaria effettività, le tutele che il legislatore ha accordato con la cosiddetta stabilizzazione nelle funzioni onorarie contenuta nella legge di bilancio per l’anno 2022. Lo stato di agitazione dei magistrati onorari - conclude il sindacato delle toghe - è fattore di ulteriore disagio per gli uffici giudiziari”. Spataro: “Nordio non può sindacare le decisioni dei giudici, è incostituzionale” di Liana Milella La Repubblica, 17 aprile 2023 Intervista all’ex procuratore di Torino. L’anomalia è una sola: che una presidente del Consiglio, un ministro o vari parlamentari ritengano di poter sindacare il merito e le motivazioni delle decisioni di una Corte d’Appello”. L’ex procuratore di Torino Armando Spataro “rivede” il film del caso Uss e su quelle parole di Giorgia Meloni - “le anomalie” della vicenda - parte l’intervista con Repubblica perché “un conto è il legittimo diritto di critica, altro è ipotizzare colpe dei giudici, a rischio di scatenare il furor di popolo”. Nessun dubbio sui suoi colleghi? “L’episodio, piuttosto, dovrebbe far riflettere tutti sull’infondatezza della tesi secondo cui i giudici si conformerebbero sempre alla linea dei pm, sicché sarebbe necessario separarne le carriere. In questo caso, il Procuratore generale aveva chiesto il carcere, ma la Corte ha scelto gli arresti domiciliari con sorveglianza elettronica” Meloni li accusa proprio di questo, “domiciliari con motivazioni discutibili” con l’estradizione in corso e “il rischio di fuga”... “Chi lo afferma non ha letto il provvedimento, ben motivato e preciso sugli aspetti che contano, e probabilmente non ha considerato l’iter processuale previsto in casi analoghi. Dopo l’arresto del 17 ottobre e il primo periodo di detenzione in carcere, la Corte d’Appello, il 25 novembre, ha sostituito la misura con gli arresti domiciliari, smentendo alcuni fatti dati per certi: Artem Uss non stava affatto fuggendo quando è stato fermato a Malpensa, ma si apprestava a raggiungere il figlio minore a Mosca. Inoltre, aveva ormai stabile dimora a Basiglio con la famiglia, dopo aver concentrato nel nostro Paese i suoi interessi economici tra cui investimenti immobiliari”. Quindi il braccialetto era una misura sufficiente? “La Corte ha deliberato che gli fosse applicato, che non avesse contatti personali, telefonici o elettronici con altre persone e che della sorveglianza su tutti gli obblighi imposti fosse incaricata la stazione dei carabinieri di Basiglio. Provvedimento ineccepibile, tanto che il ministro Nordio, al pari del Pg, non lo ha impugnato come avrebbe potuto, ma anzi ha tranquillizzato gli americani sul fatto che la misura applicata garantiva la sicurezza detentiva. E sia ben chiaro che, al di là del fatto che Uss si era comportato in modo ineccepibile per oltre tre mesi, la Corte d’Appello, che ha concesso l’estradizione solo per due dei quattro reati contestatigli, non avrebbe potuto ordinare d’ufficio il ritorno in carcere senza una richiesta del ministro o della Procura Generale. Quanto ai controlli, se Uss era una spia, avrebbero potuto in parte occuparsene anche le Agenzie d’informazione. Ma ho letto che non sarebbero mai state al corrente della situazione, il che non depone per l’efficienza del nostro sistema di sicurezza”. Nordio ha promosso un’ispezione. Ma le scelte dei giudici possono essere contestate disciplinarmente e provocare una “punizione”? “Assolutamente no, se sono scelte che, pur discrezionali, rispettano la legge. Per essere più chiari, il codice disciplinare in vigore, nel prevedere i doveri dei magistrati e oltre 25 ipotesi di illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, come la grave violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile, afferma in modo insuperabile che “l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare”. Una scelta diversa sarebbe folle e darebbe luogo a violazioni costituzionali. Credo che anche avvocati e accademici scenderebbero in campo al fianco dei magistrati contro una simile eventualità”. Il presidente della Corte d’Appello Ondei sostiene che a Milano non è mai giunta la lettera degli Usa. Nordio dice di averla mandata. Un simile disguido è possibile? “È accertato che il ministro ha inizialmente inviato all’autorità giudiziaria solo la sua rassicurante risposta agli Usa e che solo su istanza del difensore di Uss, accolta dalla Corte, è stata inviata la lettera degli americani, mai accompagnata, però, da una richiesta di custodia in carcere da parte del ministro. Ma ciò non integra un disguido significativo, perché certo le mere aspettative americane, come di qualsiasi Paese, non potevano avere rilevanza ai fini della decisione. Credo comunque che nella lettera non si richiedesse il carcere, ma spiegazioni sugli arresti domiciliari”. Nordio, sollecitato dagli Usa, sarebbe potuto intervenire con una sorta di diktat, tecnico o politico che fosse, per imporre la detenzione in cella? “Per quanto negli Usa il rapporto tra giustizia e politica non è certo uguale al nostro che esalta l’indipendenza della magistratura, nessun diktat del genere sarebbe possibile, anche se ad alcuni cultori di abnormi riforme del nostro sistema piacerebbe una tale possibilità”. Una richiesta di Nordio avrebbe potuto riportare Uss in carcere solo grazie alla sua sola firma? “Assolutamente no. Il ministro non avrebbe potuto disporre lui il carcere, ma solo chiedere ai giudici di disporlo. Anche quando arresti in flagranza e fermi vengono effettuati dalla forze di polizia giudiziaria occorre sempre la convalida di un giudice che può anche disattendere le richieste dei pm”. Ammetterà però che dopo anni di ossessiva propaganda a favore del braccialetto questo caso ne rivela tutta l’effimera debolezza come misura coercitiva... “Quello che ho letto o sentito in questi giorni è frutto di equivoci e disinformazione. Gli Usa avrebbero lamentato che, prima del caso Uss, in altri sei casi vi sarebbero state in Italia simili fughe di estradandi. Sembra che il problema riguardi solo costoro. Gli arresti domiciliari, in realtà, costituiscono - braccialetto elettronico o meno - una misura detentiva meno sicura del carcere, ma è prevista dal nostro ordinamento in presenza di minori esigenze cautelari e di minore gravità dei reati per cui è disposta. E scelte politiche recenti ne hanno anche ampliato e auspicato l’estensione. Pericoli di fuga, però, non potranno essere mai evitati”. Per il caso Abu Omar lei è espertissimo di rapporti con gli Usa. I suoi sono stati difficili. Loro possono pretendere, dalla nostra giurisdizione, che un detenuto stia chiuso in carcere? “Le due vicende sembrano unite, quanto alla reazione politica italiana, da una comune caratteristica, quella di non deludere gli americani, i quali sono evidentemente ancora convinti del fondamento della teoria dell’Esecutivo unificato che tutto decide e dispone: era il pensiero di Dick Cheney, vice presidente Usa durante l’amministrazione di George W. Bush. Ma, purtroppo per chi la pensa diversamente, la nostra magistratura è un potere costituzionale e non riceve ordini dagli altri due”. Oggi gli Usa pretendono collaborazione, ma nel suo caso il loro comportamento fu opposto... “Per l’estradizione dei 26 americani - tra cui alcuni diplomatici - condannati in via definitiva per il sequestro dell’egiziano rapito, furono i vari governi Italiani, investiti dalla procura di Milano, a rifiutarsi di richiederla, pur se è evidente che mai tale richiesta sarebbe stata accolta. Del resto, le autorità Usa non hanno mai risposto alle richieste di cooperazione giudiziaria. Ma questa è tutta un’altra storia”. Olindo Romano e Rosa Bazzi, tutto il caso giudiziario: le prove, i protagonisti. E cosa è cambiato, oggi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 17 aprile 2023 La strage di Erba: tutti i processi e le prove, dalla macchia di sangue alle parole scritte da Olindo Romano in carcere (“Dio perdonaci, abbiamo tolto la vita a Youssef”). Dopo la confessione, lui e la moglie Rosa Bazzi hanno ritrattato. Perché, oggi, il sostituto procuratore generale di Milano chiede di riaprire il caso. Si dirà: un processo con un testimone oculare (per altro pure vittima, perché provarono a sgozzarlo) è un processo “blindato”. Nel senso che agli inquirenti capita raramente la fortuna, chiamiamola così, di avere come fonte di prova il racconto di chi c’era e può riferire. Se poi oltre al testimone oculare il processo parte con la confessione degli assassini - guarda caso uno dei due indicato proprio dal teste - allora è fatta. E se, ancora, una macchia di sangue completa il quadro aggiungendo anche l’elemento della prova scientifica, i più tenderanno a pensare che nulla potrà mai più smontare l’impalcatura dell’accusa. Nemmeno se nel frattempo i due rei confessi ritrattano tutto. E invece no. Invece succede che dopo primo grado, secondo grado e Cassazione, che condannano i due imputati all’ergastolo, un sostituto procuratore generale studi il caso per mesi da capo a piedi, si convinca della loro innocenza e scriva una richiesta di revisione del processo “in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo”. I fatti del 2006 - Stiamo parlando della strage di Erba, la sera dell’11 dicembre del 2006. Furono uccisi barbaramente Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, che aveva due anni, e sua madre Paola Galli. E fu uccisa anche Valeria Cherubini,che era invece la vicina di casa di Raffaella. Mario Frigerio, suo marito, fu sgozzato, appunto, ma non morì soltanto perché aveva una malformazione alla carotide. Tutto questo per mano di Olindo Romano e Rosa Bazzi, così ci hanno detto le sentenze scritte fin qui. Rosa e Olindo erano la coppia del piano terra in perenne lite con Raffaella e suo marito, il tunisino Azouz Marzouk. Liti sui rumori, insulti, minacce reciproche, una querela in corso per lesioni e ingiurie, un’udienza fissata davanti al giudice di pace da lì a pochi giorni... Insomma: un quadro che la coppia viveva con esasperazione, al punto da dormire a volte nella roulotte, in cortile, pur di sfuggire a voci e rumori del piano di sopra. La richiesta di revisione - La richiesta di revisione, dicevamo. È firmata dal sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser e non è stata presentata direttamente alla corte d’Appello di Brescia, titolata a esprimersi sulla questione, ma alla procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e all’avvocata generale Lucilla Tontodonati. Tocca a loro decidere se sconfessare il collega bocciando tutto oppure inviare l’atto a Brescia. E non è chiaro quali orizzonti possa aprire una eventuale bocciatura. In quel caso il sostituto procuratore deciderà di agire in autonomia e presentare lui direttamente la richiesta? La sola certezza, per ora, è che di sicuro a Brescia arriverà nei prossimi giorni una richiesta di revisione firmata dai legali di Olindo e Rosa, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, avvocati storici della coppia. Loro due e altri legali lavorano da anni - gratis e con dedizione - all’inchiesta post-condanna; hanno interpellato decine di consulenti, hanno studiato ogni passaggio e hanno messo a punto una ricostruzione che escluderebbe la responsabilità degli attuali ergastolani. Ma, come è noto e come sanno bene anche loro, le revisioni dei processi sono mosche bianche, e che una revisione venga presentata dai difensori è nell’ordine delle cose. Mentre è decisamente insolito, per non dire unico, che sia un sostituto procuratore generale a farlo. E certamente se la richiesta di Tarfusser arriva a Brescia la possibilità che la Corte d’Appello la accolga diventa più realistica. Non a caso l’iniziativa del sostituto procuratore prende spunto proprio dagli avvocati di Olindo e Rosa. L’incipit - “Nell’autunno del 2022 gli avvocati mi chiesero un appuntamento per sottopormi una questione riservata e delicata”, scrive Tarfusser nel suo documento. La questione delicata era il lavoro che stavano facendo sulla strage di Erba. “Mi chiesero se potevo immaginare di presentare un ricorso per revisione”, scrive ancora il magistrato. Risposta: “Se con lo studio degli atti e le “nuove prove” di cui mi dite mi convincerò che ci sono spazi per una richiesta, lo farò” è stata la risposta, “senza condizionamenti e in piena autonomia e indipendenza”. Quindi, mesi di studio delle sentenze, delle consulenze e delle “nuove prove” alla fine hanno convinto il sostituto procuratore delle tesi della difesa: Olindo e Rosa sono innocenti. Le “nuove prove” - La convinzione dell’innocenza ruota attorno a tre punti: la confessione dei due imputati, la testimonianza di Frigerio e la macchia di sangue di Valeria Cherubini sull’auto di Olindo. Dice in sostanza la difesa (a questo punto anche Tarfusser): il riconoscimento di Mario Frigerio fu una “falsa memoria”, indotta dalle domande su Olindo che il luogotenente dei carabinieri Gallorini gli fece mentre lui era ricoverato in gravissime condizioni; la confessione di Olindo e Rosa fu ottenuta con “errate tecniche di intervista investigativa” e ci sono dubbi sulla raccolta, sull’analisi e sulla provenienza della macchia di sangue sul battitacco dell’auto. Tre questioni tutt’altro che nuove, perché già affrontate in secondo grado. Ma “lo sono ontologicamente”, spiega il magistrato nella sua richiesta di revisione, “in quanto fondano su conoscenze scientifiche, metodologiche e tecnologiche sviluppare successivamente alla prima decade di questo secolo, ma ancora di più lo sono se considerate e valutate unitamente alle prove già valutate e ancora di più alle prove in atti e mai valutate”. La testimonianza di Frigerio - “Le nostre consulenze tirano in ballo moltissimi esperti”, dice l’avvocato Schembri, che “provano scientificamente che la testimonianza di Frigerio non fu genuina. Nessuno dice che lui mentì. Lui aveva una lesione cerebrale e aveva sviluppato quella che la scienza chiama una amnesia anterograda che rende impossibile recuperare i ricordi”. Niente di più falso, stando ai giudici che si sono occupati del caso fin qui. Dicono i giudici di Cassazione: “Pur ammesso il carattere suggestivo delle domande fatte dai carabinieri, il teste sia davanti ai pm che davanti ai giudici ha sempre detto di aver esitato a menzionare Olindo, sulle prime, perché voleva capire come fosse stato possibile che un normale condomino, con cui mai aveva avuto contrasti, si fosse accanito così brutalmente su di lui e su sua moglie”. Frigerio davanti ai giudici del primo grado che gli chiedevano se riconosceva gli assassini disse: “Li vedo in aula, sono loro, quei due delinquenti, li riconosco. Lui mi guardava con due occhi da assassino”. Mario Frigerio è morto anni fa. Sua moglie e lui finirono per caso sulla scena del delitto. Stavano uscendo per portare fuori il cane quando si sono imbattuti in Olindo che usciva da casa di Raffaella Castagna. Eliminati perché testimoni di quella mattanza, dicono le sentenze di condanne. Le confessioni poi ritrattate e la Bibbia - Scrive Tarfusser: quelle confessioni (come la testimonianza di Frigerio e la macchia di sangue sull’auto) sono prove maturate in “un contesto che definire “malato” è fare esercizio di eufemismo”. Prendi le confessioni, per esempio. Olindo e Rosa avrebbero ceduto alle pressioni degli inquirenti, secondo la ricostruzione della difesa alla quale il sostituto procuratore aderisce. Nella sentenza di Cassazione, alla quale era già stata sottoposto questo punto, si dice questo: “Se è vero che indubitabilmente sono stati sottoposti a una pressante, ma non vietata sollecitazione a dire quanto di loro conoscenza (...) non può essere ritenuto che si stata fatta pressione psicologica tale da limitare la libertà di autodeterminazione”. Non è stata accolta, in sostanza, la lettura della difesa secondo cui Olindo e Rosa sarebbero stati vittima di una vera e propria circonvenzione. E i giudici della Suprema Corte hanno elencato anche la “libera determinazione” dei due nel confessare e nel raccontare una storia plausibile, con dettagli che soltanto chi era stato quella sera in quella casa poteva conoscere. Per esempio: la posizione dei cadaveri; l’energia elettrica interrotta con distacco manuale del contatore; il fatto che quella sera Raffaella sia arrivata a casa con l’auto di famiglia e non la sua come al solito; il fatto che il fuoco si stato alimentato da una pira di libri, il punto da cui è partito, la posizione dei corpi, i cuscini vicino a Raffaella lasciati nel tentativo di soffocarla, la morte di Youssef avvenuta per mano di Rosa che era mancina (lui fu ucciso da mano mancina). Non ultimo: le famose frasi scritte da Olindo sulla bibbia in carcere, quando ancora lui e sua moglie non avevano ritrattato. “Perdonaci, non sapevamo cosa facevamo”, dice una di quelle frasi. “Dio perdona anche quelli come noi che su questa terra hanno vissuto l’inferno”. “Accogli nel tuo regno Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita”. Sempre sulla bibbia Olindo trascrisse le confidenze ricevute da Rosa sullo “spettro di Raffaella” comparsa di notte davanti alla branda “come quella sera col sangue che le scendeva sulla faccia”. E ancora: Olindo (sempre prima di ritrattare) scrisse una lettera al cappellano del carcere “in cui ammise - scrivono i giudici di Cassazione - che non si erano ancora resi conto di quel che avevano fatto e che il perdono e il pentimento si contrapponevano all’odio, alla rabbia, all’umiliazione subita negli anni, ritornando così sulla recriminazione ricorrente nel suo argomentare: che se qualcuno fosse intervenuto per tempo, il peggio sarebbe stato evitato”. La macchia di sangue - Tutto sbagliato, secondo la difesa, riguardo a quel reperto. A cominciare dal verbale che ne dà conto, firmato non dalla persona che lo ha repertato. Sbagliate le modalità tecniche per repertarle, sbagliato considerarla così limpidamente pura e non frutto di un “contaminazione”, cioè portata inavvertitamente sull’auto da qualcuno degli inquirenti che quella sera stava operando sulla scena del delitto. “La traccia era particolarmente nitida” scrive la Cassazione, “tanto da consentire di esaltare con puntualità il profilo genetico di Valeria Cherubini (...) Trattandosi di una traccia di alta qualità, si doveva escludere che potesse aver subito tanti passaggi e che fosse stata esposta a fattori degradanti”. In quanto al verbale firmato da carabinieri diversi da chi fece il prelievo, “per quanto discutibile come prassi la corte territoriale ritenne che tale modus operandi fosse comprensibile in ragione della concitazione del momento”. Le famiglie - In tutto questo scrivere, discutere e riaprire ferite, sembrano perdute nel nulla le vite delle famiglie che in quella strage del 2006 persero chi amavano. La famiglia Castagna e la famiglia Frigerio hanno mantenuto negli anni un profilo basso. Non hanno mai partecipato alle polemiche, anche quando sarebbe stato legittimo farsi sentire. Sui fratelli di Raffaella, Beppe e Pietro, qualcuno arrivò senza ritegno a ipotizzare perfino un coinvolgimento nel delitto. Oggi, giustamente, la loro parola d’ordine è: silenzio. “Non diremo nulla. Speravo fosse finita ma ci risiamo” scrive su Facebook Pietro. Ci risiamo. Dopo quasi 17 anni realizziamo che vale anche qui quel famoso “mai dire mai”. Strage di Erba, uno degli investigatori: “Frigerio parlò di Olindo” di Davide Varì Il Dubbio, 17 aprile 2023 Parla Luciano Gallorini: “Ho servito l’Arma 48 anni, si possono attaccare le indagini ma non le persone e la loro correttezza”. “Non ho suggerito o convinto nessuno”. Luciano Gallorini, 48 anni nell’Arma, difende se stesso e il suo operato dopo la richiesta di revisione firmata dal sostituto procuratore di Milano Cuno Tarfusser che parla di errore giudiziario nei confronti Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all’ergastolo per la strage di Erba. L’allora comandante della stazione dei carabinieri, oggi in pensione, è tra i primi ad arrivare in via Diaz la sera dell’11 settembre 2006 ed è protagonista delle indagini. In ospedale incontra l’unico sopravvissuto della mattanza, Mario Frigerio, ma la sua annotazione di servizio del 20 dicembre 2006 “è costellata di stranezze” si legge nell’istanza per provare a riaprire il caso. Non solo: viene indicato come “l’onnipresente” nell’interrogatorio ai coniugi Romano, reso dagli indagati nell’immediatezza del fermo. Parole a cui Gallorini, contattato dall’Adnkronos, risponde. “Come risulta agli atti, io ho sentito i coniugi Romano la notte stessa dell’evento, successivamente alla perquisizione. Noi facciamo la perquisizione e in quella occasione li abbiamo accompagnati in caserma e li abbiamo sentiti a spontanee dichiarazioni testimoniali su quello che avevano fatto. Quei verbali li abbiamo mandati in procura e quella è stata l’unica occasione in cui ho parlato con i coniugi Romano” precisa. L’incontro con Frigerio è legato a un’altra esigenza investigativa. “Nel pianerottolo dell’androne dove fu rinvenuto il corpo senza vita di Raffaella Castagna erano stati trovati alcuni oggetti, tra cui un ponte dentale e bisognava risalire al proprietario. Fui autorizzato dal pm a un colloquio investigativo: il colloquio è tutto registrato, anche se è difficilmente udibile perché Frigerio parlava male” a causa della ferita alla gola inferta dall’aggressore. “Nella registrazione dico che avrei ripetuto quello che Frigerio diceva per rendere chiaro il colloquio. Il colloquio durò un tempo sufficientemente lungo, è registrato, e rientrato in sede ho redatto un’annotazione con le modalità del colloquio e quello che Frigerio disse, cioè “poteva essere l’Olindo”. Nel momento in cui io ho udito questa cosa interruppi il colloquio, perché ritenni la cosa così importante che era necessario che il pm sapesse e valutasse” spiega Gallorini. “Ciascuno ha diritto di dire quello che ritiene opportuno, ma in tutta questa storia mi sorprende che vengano inseriti elementi di falsità. Si possono attaccare le indagini, ma non le persone e la loro correttezza: non ho suggerito o convinto nessuno. Io ho servito l’Arma per 48 anni e questo non si fa per cercare carriera, ma perché si ama il proprio lavoro, si cerca e si crede nella giustizia” conclude Luciano Gallorini. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto si toglie la vita, è il 15esimo in Italia da inizio anno Il Riformista, 17 aprile 2023 Detenuto trovato senza vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Stando alle prime risultanze, l’uomo, recluso nel reparto di alta sicurezza (quello riservato ai detenuti accusati di reati di associativo mafia, traffico di droga) si sarebbe tolto la vita nella notte tra domenica e lunedì legandosi alle inferriate della finestra della cella dove si trovava ristretto. A nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari. Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, “si tratta del 15esimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno (84 nel 2022), cui aggiungere un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che qualche settimana fa si è tolto la vita sempre in Campania, in quella che continua a presentarsi come una vera e propria carneficina tanto da far pensare a una ‘pena di morte’ di fatto”, aggiunge il segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. Per il sindacalista “sovraffollamento detentivo, deficienze organizzative, strumentazioni e tecnologie inadeguate e organici carenti per tutte le figure professionali, solo alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, non consentono oggettivamente neppure di mirare al perseguimento degli obiettivi indicati dall’articolo 27 della Carta costituzionale (Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato., ndr)) e, soprattutto, mettono a repentaglio la sicurezza di reclusi e operatori. Servono misure emergenziali e parallele riforme strutturali che reingegnerizzino l’architettura dell’esecuzione penale e, in particolare, quella carceraria. L’introduzione dei medici del Corpo di polizia penitenziaria appena approvata dal Governo con il decreto Pa è un ottimo passo in avanti”. Milano. Nella casa senza sbarre che accoglie i bambini con le mamme detenute di Brunella Giovara La Repubblica, 17 aprile 2023 L’associazione Ciao gestisce una delle due sole strutture del genere in Italia. Tre appartamenti per donne ai domiciliari o in attesa di giudizio e i loro figli. Dunque, esiste un posto dove bambini condannati alla galera possono vivere come veri bambini, e non è una galera. Ma solo un bambino con una madre detenuta capisce questa differenza. Il carcere, con la sua non evitabile durezza, e la casa famiglia protetta di via Magliocco, periferia sud di Milano. Non ce ne sono altre, a parte una a Roma che ha caratteristiche simili, ma questa è stata la prima in assoluto, voluta da una coppia tenace - Elisabetta Fontana e Andrea Tollis - che la manda avanti da anni con l’associazione Ciao, e in questa Casa non c’è neanche una sbarra, o un cancello blindato. Non è un carcere, eppure accoglie donne detenute con figli, ospitati in tre appartamenti, tra stendini per la biancheria, i giocattoli, la bicicletta nell’androne, la cucina comunitaria. Non sono tutte rose e fiori, come capisce anche un bambino - Poi, non sono tutte rose e fiori, come capisce anche un bambino. Le madri, ai domiciliari o colpite da una misura cautelare per reati anche gravi, come lo spaccio e l’omicidio. Un cartello, all’uscita, raccomanda loro di telefonare alla polizia o ai carabinieri per segnalare che si sta uscendo dalla struttura, così stabilisce la legge. Ogni spostamento all’esterno va sempre comunicato, e se è vero che ogni persona ai domiciliari ha comunque la possibilità di uscire di casa tra le 10 e le 12, poi ci sono gli altri permessi da chiedere alla magistratura, per accompagnare i figli a scuola o a fare sport, o per una visita medica. La priorità sono i bambini, “ a loro va garantita una vita normale”, spiega Fontana alla sottocommissione carceri del Comune di Milano, nei giorni scorsi in visita-sopralluogo, guidata dal vicepresidente Alessandro Giungi - un avvocato - che appena messo piede dentro spiega che “un bambino in carcere non ci dovrebbe proprio stare”, ma per fortuna esiste un posto così. Esistono fondi statali per sovvenzionare questi progetti - Ce ne potrebbero essere anche altri, oltre alle varie comunità che si fanno carico del problema, e nel rispetto della legge 62/2011, che prevede la possibilità di espiare anche un terzo della pena (e per le madri ergastolane, 15 anni di detenzione) in un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Poi, non si capisce perché in tanti anni siano nate solo due strutture come questa, in tutta Italia. E che quella milanese non abbia contributi pubblici, a parte l’intervento del Comune di Milano per la retta dei minori seguiti dai Servizi sociali. Esistono fondi statali per sovvenzionare questi progetti, ma la Regione Lombardia non li ha mai chiesti, e quindi non li ha mai ottenuti. Il Lazio ha ricevuto circa 900mila euro, la Lombardia per ora zero, bisogna vedere se li avrà nella prossima tornata di assegnazioni. La onlus Ciao campa grazie alle raccolte fondi - La onlus Ciao campa quindi grazie alle raccolte fondi, all’intervento di alcune fondazioni, a iniziative come la Milano Marathon (quasi 8mila euro), e così va avanti dalla fine degli anni Novanta, “già nel ‘ 95 accoglievamo detenuti, dal 2011 anche le madri con figli. Nel 2016 la prima convenzione ufficiale, poi sottoscritta dal tribunale ordinario, da quello di sorveglianza, dalla procura, dal tribunale per i minorenni”, spiega Andrea Tollis. “ Le donne ci vengono segnalate dal carcere di Bollate e dall’Icam”, e qui bisogna spiegare che l’Icam di Milano (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) venne creato in via sperimentale nel 2006 da Luigi Pagano, già direttore di San Vittore e poi provveditore delle carceri lombarde. Unica struttura italiana a non essere dentro il carcere, ma in una palazzina in tutt’altra zona di Milano, seppure con sbarre cancelli e polizia penitenziaria, anche se non in divisa. In tanti anni ci sono state solo tre evasioni - Qui non ci sono agenti, eppure in tanti anni ci sono state solo tre evasioni. Tre donne che hanno preso su i figli e se ne sono andate. Una, riarrestata, ha poi chiesto di tornare qui, “e noi l’abbiamo riaccolta”, dice Fontana. Chi sono, sono “ autrici di reati, e vittime di abusi e violenze. Arrivano da situazioni famigliari difficili, di emarginazione sociale. Spesso analfabete, spesso straniere”. Dire che sono “la parte svantaggiata della società, è un eufemismo”. Persone “da ricostruire”, con l’intervento delle educatrici, delle psicoterapeute - Persone “da ricostruire”, con l’intervento delle educatrici, delle psicoterapeute, fino al raggiungimento dell’autonomia (dalla famiglia, soprattutto), una volta scontata la pena. Imparano un lavoro vero, come sarte o pasticcere, poi provano una vita nuova assieme ai loro figli, che l’altra mattina erano tutti a scuola o all’asilo. Una sola donna presente, delle sei attualmente ospiti (con 7 bambini), divise nei tre appartamenti di cui hanno la responsabilità e la cura. Una ragazza di meno di trent’anni, ancora in vestaglia e ciabatte, capace di dire solo ciao e grazie (per la visita, per avere una casa, per la gentilezza), e di cui non diciamo la nazionalità, e nemmeno il nome. Roma. Si è insediato il tavolo di lavoro Dap e Cnop quotidianosanita.it, 17 aprile 2023 Obiettivi, valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nelle carceri, ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche per detenuti e personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti e migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn. Concretizzare le linee di lavoro e collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria e l’Ordine degli Psicologi. Questo il compito del tavolo di lavoro congiunto tra il Dap e il Cnop che si è insediato alla presenza del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo e del Presidente Cnop David Lazzari accompagnato da Donatella Fiaschi, Ilaria Garosi, Daniela Pajardi, e Giorgia Zara. L’obiettivo generale è quello di valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nel contesto carcerario, “sia nei ruoli esistenti che in nuovi ruoli” ed in particolare “ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche” per i detenuti ed il personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti ex art.80, migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn. Il capo dipartimento Dap Giovanni Russo ha evidenziato l’importanza di questo lavoro per le esigenze dell’amministrazione e la volontà di dare concretezza agli obiettivi concordati. “Le premesse sono importanti e chiare e devono segnare una svolta nella presenza e collaborazione tra la professione e mondo delle carceri” ha sottolineato nell’incontro il presidente Lazzari. Reggio Calabria. Dentro le carceri con la Garante: “I diritti dei detenuti sono la mia missione” di Federica Morabito tempostretto.it, 17 aprile 2023 Incontro con l’avvocata Giovanna Russo: “Lo scopo rieducativo della pena, in linea con la Costituzione, è la mia bussola”. Lo stato di detenzione e gli istituti penitenziari, un mondo che vive quasi parallelamente alla società civile. Un piccolo microcosmo dove la vita è scandita in modo diverso, nei tempi, nelle attività, nelle percezioni, nei diritti e nei doveri. Diritti, si, perché anche chi si è macchiato di colpe, chi ha trasgredito la legge, ha dei diritti sanciti dalla nostra costituzione e dal nostro ordinamento. Le storie che i detenuti vivono dietro le sbarre, storie di vite incrinate, talvolta dalla nascita, talvolta dagli eventi, sono storie che tolgono il fiato. Garante dei diritti - Ed esiste una figura, importantissima che è quella del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, che si fa carico di bisogni e necessità riconosciuti legislativamente e che diviene un vero e proprio tramite tra il detenuto, l’uomo, e i diritti a lui riconosciuti. A svolgere questo ruolo, a Reggio Calabria, è l’avvocata Giovanna Russo, una giovane donna, tenace, professionale, con una grande preparazione e di altissima sensibilità. Il rispetto delle regole passa dal rispetto dei diritti - E se alla base del nostro ordinamento, come sancito dalla Costituzione, vige il principio della funzione rieducativa della pena, da questi diritti, ancor di più, non si può e non si deve prescindere perché per insegnare rispetto delle regole è necessario passare attraverso il rispetto dei diritti. “Chi si trova in istituto - ha spiegato l’avvocato Russo - è perché ha violato una norma. C’è una destrutturazione di comportamento che ha portato al reato, c’è un’indagine rieducativa che va fatta sulla persona, e non possiamo parlare di senso della pena se noi, alla società, non restituiamo una persona ricostruita. Ciascuno di loro è persona. Legalità e reinserimento passano tutte dalla presa di coscienza del fatto compiuto. Ebbene, parliamo di giustizia riparativa, questa si può realizzare se c’è un’azione concreta mirante all’analisi critica di ciò che è stato commesso”. Parole importanti quelle del Garante che racchiudono il senso profondo dell’attività che svolge. Ma qual è la situazione sul territorio comunale reggino? A Reggio Calabria esistono due istituti penitenziari: il plesso di San Pietro e il plesso di Arghillà. Due diverse strutture con un’unica Direzione, che contano, rispettivamente, 240 e 377 detenuti, di cui 41 donne tutte recluse a San Pietro. Il carcere di Arghillà è istituto di media sicurezza, a san Pietro gli uomini sono tutti in regime di alta sicurezza, in più ad Argillà è istituita la sezione “sex offender” riservata a uomini che si sono macchiati di reati relativi alla dimensione sessuale e, per questo, protetti e separati dalle altre sezioni. È tra questi due istituti che opera, con grande dedizione, l’avvocato Russo. Reggio seconda in Calabria per popolazione carceraria - “Come numero di detenuti siamo secondi in Calabria, dopo Catanzaro, ma abbiamo la popolazione penitenziaria più problematica di tutte perché raccogliamo ogni tipologia di detenuto: tutte le strutture umane che si possono incontrare, dalla criminalità organizzata, all’immigrato, al disabile”. Allo scopo rieducativo della pena crede profondamente l’avvocato Russo: “Credo in quello che faccio e per me questa rappresenta una vera e propria missione. Se posso essere uno strumento voglio esserlo senza vessilli, noi passiamo le azioni devono rimanere per continuare sulle gambe degli altri”. Per il Garante servirebbero tavoli inter istituzionali di confronto divisi per settore. “Io avevo individuato 2 macro settori per focalizzare l’aspetto sanitario e quello trattamentale - culturale - scolastico, perché spesso i detenuti provengono da un tessuto sociale che, sin dall’infanzia li vede soggetti fragili; ecco la destrutturazione. È fondamentale, quando si parla di sistema penitenziario, che non esistano rivalità nell’ottenimento del risultato, ma la concomitanza e sinergia nella realizzazione”, sono le sue parole. “La partecipazione alle attività, il comportamento all’interno della stessa cella, sono tutti fattori che indicano l’attitudine del detenuto a riprendere in mano la sua vita”. Le donne e il regime carcerario - Un capitolo a parte merita l’argomento relativo alle donne in carcere. “Le donne in carcere hanno bisogno di grande sostegno per non far dimenticare loro la sacralità del ruolo stesso della donna - afferma Russo- che molto spesso viene legata al fatto di essere madri, ma va valorizzata indipendentemente da questo”. Donne prima che madri - “A Reggio è stato sottoscritto un protocollo interistituzionale, tra 30 soggetti, che riprende le regole di Bangkok, ratificate in Italia, a maggior tutela della donna detenuta, con tutte le azioni trattamenti esperibili in favore delle donne, non solo le madri. Io sono la prima Garante donna in Calabria e - prosegue - appena insediata, era il periodo della giornata dedicata alle donne, abbiamo fatto entrare in carcere delle mimose. Sembra una banalità vero? Non lo è. Per noi è normale ricevere un fiore per loro è un’attenzione alla dimensione femminile, indipendente dalla maternità”. Lavora, dunque, la garante, a tutela, anche della struttura della donna in quanto tale. Proprio quest’anno l’associazione “Grace”, insieme alle volontarie, ha lavorato con le donne all’interno del carcere, proprio sull’estetica, come ripensamento dell’”io” e del “se” stimolando dei momenti introspettivi. L’imbarazzo di una madre detenuta di fronte al figlio - “Immagina di non poter abbracciare ogni giorno tuo figlio - racconta Russo - immagina di mostrarti a lui, dopo tanto tempo trasandata e sofferente. E adesso immagina di poterti mostrare a lui, dopo tanto tempo, pettinata, bella. Non è una frivolezza, è una piccola attenzione che vale tanto. Questo è accaduto. Una detenuta con profondo imbarazzo mi ha confidato di vergognarsi di mostrarsi in quelle condizioni al figlio. Di fronte a questo…” Prima di tutto esseri umani - E le storie… le storie che vivono dietro le sbarre, storie di vite incrinate, talvolta dalla nascita, talvolta dagli eventi, sono storie che tolgono il fiato, che fanno riflettere, profondamente, sulla dimensione umana, sulla caducità della vita, della mente e dell’anima stessa. Su cosa si cela dietro un fatto, condannabile e condannato che, seppur non giustificabile, non deve annullare l’essere umano. “Il loro percorso deve essere pulito, limpido - spiega ancora Russo - i reati vanno puntiti, le regole rispettate e la certezza della pena mai vanificata, ma i diritti di noi tutti come esseri umani sono sacri”. Bimbi dietro le sbarre - E proprio in tema di umanità si lavora all’interno delle nostre carceri per rendere più dignitosi i momenti di “evasione” come quelli dell’incontro con i figli, vittime incolpevoli che portano sulle spalle, già da piccoli, tutto il peso di scelte e di errori. “Proprio nei giorni scorsi abbiamo effettuato dei sopralluoghi per migliorare il momento d’incontro tra le madri e propri figli - racconta il Garante -. Fare entrare dei bambini in salette colloqui cupe, grigie, fredde, causa tensione e non favorisce i rapporti. Per questo insieme alla direzione stiamo pensando alla riqualificazione delle aree verdi, seppur con grandi problemi strutturali in quanto si deve garantire, in primis, la sicurezza”. Firenze. Gli agenti si candidano e il carcere di Sollicciano va in affanno di Stefano Brogioni La Nazione, 17 aprile 2023 “Nessuno tocchi Caino” denuncia: “In 40 per un mese in permesso pagato”. Quaranta agenti della Polizia penitenziaria di Sollicciano, il dieci per cento del totale, si trovano da qualche giorno in permesso retribuito della durata di un mese perché sono candidati alle prossime elezioni amministrative di maggio in vari Comuni italiani. Il benefit, previsto dalla legge, riguarda tutti gli appartenenti alle forze di polizia. Ma Rita Bernardini, la presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, che venerdì scorso ha fatto una visita nel penitenziario fiorentino, è rimasta stupita dalla numerosità del dato e dall’alta incidenza sul totale della forza lavoro. Tanto da suggerire un’interrogazione in Parlamento che ha l’obiettivo di rivedere quello che considera “un privilegio rispetto ad altri dipendenti pubblici”. “Queste assenze - prosegue Bernardini - creano problemi agli agenti che rimangono in servizio, costringendoli a turni massacranti, e si ripercuotono sulla vita detentiva, ad esempio sulle visite di controllo esterne per i detenuti. Questa situazione si presenta laddove la carenza di organico è già preoccupante, con immissioni di nuovi agenti che non coprono mai i pensionamenti”. Il sopralluogo di “Nessuno tocchi Caino”, che ha interessato altri istituti di pena italiani, è stata l’occasione anche per fare il punto sulle condizioni di vita carceraria in una struttura che, com’è noto, non brilla. A Sollicciano ci sono 461 detenuti, di cui 49 donne nel reparto femminile. In questo momento ci sono tre sezioni interessate da lavori di ammodernamento e di efficientamento energetico e dunque chiuse. Questo intervento ha portato a dei trasferimenti di detenuti in altri penitenziari. Durante la visita, Bernardini ha appreso di un caso di scabbia e di un detenuto che si trova “ricoverato” in isolamento per una sbornia causata da un alcolico artigianale fatto in cella con la fermentazione di mele o pere e il pane usato come lievito. Attualmente, 180 detenuti sono in carico al Serd. Nel 2022, nel carcere fiorentino si sono registrati quattro suicidi (tre sono stati trovati morti nella struttura, uno è morto all’ospedale per le conseguenze delle ferite infertesi) e uno in questi primi mesi del 2023. Si registrano carenze di organiche anche nei reparti educativi: gli educatori sono otto, anche se ne sarebbero previsti undici, e c’è un solo mediatore culturale, a fronte della maggioranza di detenuti stranieri (su 461 persone, 171 sono italiane). La presidente di “Nessuno tocchi Caino” ha visitato anche il reparto femminile. In questo momento l’asilo nido è chiuso perché non ci sono detenute che hanno con sé figli. Per i lavori, è chiusa anche una parte del giardino e questo ha provocato il trasferimento temporaneo di tre asinelli che vi abitavano. Era una detenuta a prendersi cura di loro e per questo, la donna non vede loro che ritornino. Milano. La biblioteca di Valerio Onida donata al carcere di Bollate ansa.it, 17 aprile 2023 Il costituzionalista fu anche volontario nell’istituto milanese. Sabato prossimo nella casa circondariale di Bollate si terrà un momento di commemorazione per il professor Valerio Onida, morto nel maggio 2022, che fu presidente della Corte Costituzionale e che per molti anni ha prestato, volontariamente la sua attività di consulenza giuridica nei confronti dei detenuti, supportando - nel 2002 - la nascita dello Sportello Giuridico. Per sancire il forte legame tra la famiglia Onida e il carcere di Bollate, il figlio di Onida, Marco, in occasione della commemorazione donerà alla casa di reclusione di Milano la biblioteca del padre. La donazione avverrà alla presenza di una rappresentanza di detenuti nella biblioteca del V reparto dove sarà anche riposta la libreria personale del professor Onida, a lui intitolata. “Desidero rivolgere un sentito ringraziamento a nome della direzione di Bollate e di tutta la comunità penitenziaria al professor Onida per il lustro offerto a questa Amministrazione - spiega Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate - un impegno che si è contraddistinto per l’eccellenza del servizio svolto con l’umiltà che è propria delle grandi personalità”. Alla commemorazione saranno presenti, tra gli altri, Marta Cartabia, ex ministro della Giustizia; la presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra, la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa e altre autorità, oltre alla comunità di volontari che ha conosciuto Onida. Palermo. Le “Rigenerazioni” del capitale umano. Il profitto è la felicità di Jacopo Storni Corriere della Sera - Buone Notizie, 17 aprile 2023 La Cooperativa sociale di Palermo dà lavoro a 20 persone, di cui 16 detenuti o ex, rifugiati, disabili. Dal bistrot “Al fresco” alla pasticceria “Cotti in Fragranza” la regola è una: responsabilità condivisa. Ogni comparto ha autonomia gestionale e tutti si sentono valorizzati e liberi di esprimere la creatività. Progetti nel carcere minorile e mensa dei poveri. Materie prime a km zero e pannelli fotovoltaici. Nel periodo di maggiori incassi per il ristorante, hanno deciso di restare chiusi due volte a settimana. Quasi un suicidio professionale, che però ha i suoi vantaggi sul piano umano. E così, il bistrot “Al fresco” di Palermo, abbasserà le serrande lunedì e martedì. In piena estate. Così è stato deciso collegialmente, come da tradizione. Dal lavapiatti al manager, tutti si ritrovano attorno a un tavolo per capire come organizzare il lavoro. E se qualcuno solleva l’esigenza di avere più giorni di ferie, viene ascoltato e tutti insieme si trova una soluzione. Funziona così alla cooperativa Rigenerazioni. Tra i 20 dipendenti, i6 sono ragazzi detenuti, ex detenuti, rifugiati, giovani a rischio marginalità, disabili. Non c’è soltanto il ristorante, c’è anche la pasticceria “Cotti in Fragranza” all’interno del carcere minorile di Palermo, dove i pasticcieri sono i giovani dell’area penale. C’è la mensa per i poveri San Francesco all’interno di un ex convento seicentesco. Presto ci sarà anche un bed and breakfast. L’obiettivo non è soltanto il profitto, è soprattutto la felicità del capitale, quello umano. Non solo dei dipendenti, ma anche della comunità. Lo scorso Natale, per esempio, alla mensa San Francesco non c’erano abbastanza risorse per preparare il pranzo di pesce per i senzatetto, e così i dipendenti si sono autotassati (rinunciando ad una piccola percentuale dello stipendio) e quel pranzo è stato servito. “Qui - raccontano Lucia Lauro e Nadia Lodato, coordinatrici della cooperativa palermitana - non ci sono padroni. La nostra organizzazione non è verticale ma orizzontale, tutte le attività sono da sempre gestite e decise con responsabilità condivisa”. Una gerarchia orizzontale che lascia totale autonomia gestionale ai singoli comparti organizzativi. Ogni dipendente viene valorizzato per le proprie competenze e attitudini. Non c’è un direttore accentratore che svolge le mansioni principali e poi delega il resto del gruppo, ma ognuno ricopre un ruolo di responsabilità. Al ristorante, per esempio, ci sono un responsabile per le prenotazioni, uno per l’apertura e la chiusura del bistrot, un altro per il magazzino. Così tutti si sentono valorizzati e attraverso questi ruoli possono crescere e sprigionare la loro creatività. L’obiettivo non è solo quello della qualità ma anche della partecipazione attiva dei singoli dipendenti. Ogni lavoratore contribuisce attivamente alle scelte strategiche del proprio settore, attraverso riunioni mensili di revisione e programmazione. E sono proprio questi aspetti virtuosi che hanno portato Rigenerazioni ad aggiudicarsi il premio sul Bilancio di sostenibilità promosso dal Corriere della Sera e dall’inserto Buone Notizie in collaborazione con NeXt - Nuova economia X tutti. E il primo anno che la cooperativa Rigenerazioni realizza il bilancio di sostenibilità, “i cui punti di forza - sintetizza la motivazione - riguardano la capacità dimostrata nel proporre una sintesi efficace degli ambiti rilevanti per l’organizzazione, l’accessibilità del documento, il legame approfondito tra sostenibilità e attività portate in essere”. Continuità occupazionale - “Per noi è una scelta di grande importanza - raccontano Lauro e Lodato - Finora facevamo il bilancio sociale, ma era il classico bilancio sociale. Adesso con il bilancio di sostenibilità siamo voluti andare ad approfondire in modo scientifico il lavoro che facciamo, per capire quello che funziona e quello su cui siamo in ritardo, tutto questo anche perché il nostro obiettivo è espandere la nostra attività anche in altri territori e in altri penitenziari italiani, dove il problema del lavoro è centrale, dove soltanto un detenuto su tre riesce a lavorare e dove il grande tema è la continuità occupazionale dentro e fuori dal carcere”. E poi c’è l’aspetto ambientale. Rigenerazioni predilige l’uso di materie prime a km o, mentre Casa San Francesco ha avviato un processo di riconversione delle fonti energetiche dotando la struttura di pannelli fotovoltaici. La cooperativa ha inoltre deciso di avviare un processo di riconversione dei mezzi utilizzati per il trasporto locale, promuovendo l’utilizzo di bici e automobili elettriche. Pisa. “Galeotto fu l’aperitivo e chi lo bevve”, iniziativa benefica per i detenuti La Nazione, 17 aprile 2023 Organizzano per martedì Camera Penale di Pisa e Ordine degli Avvocati pisani. La Camera Penale di Pisa “Antonio Cristiani” ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Pisa hanno organizzato, per domani, martedì 18 aprile, un aperitivo di beneficienza, a favore dei detenuti del Casa di Reclusione “Don Bosco” di Pisa. L’evento, intelato “Galeotto fu l’aperitivo e chi lo bevve”, è in programma al ristorante “Quote” in via del Cuore, n. 1 a Pisa, e vedrà la partecipazione di Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”. Lo scopo dell’iniziativa è quello di raccogliere fondi per l’acquisto di complementi di arredo per i detenuti del carcere. Il costo di partecipazione all’aperitivo benefico, che sarà accompagnato da gustosi stuzzichini caldi, è di 20 euro a persona. Il giorno successivo, mercoledì 19 aprile, nell’ambito percorso “Viaggio della speranza” organizzato dall’Associazione Nessuno Tocchi Caino e dall’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, una delegazione della Camera Penale di Pisa si recherà, accompagnata da alcuni giudici del Tribunale di Pisa, ad una delegazione dell’osservatorio Carcere dell’UCPI ed al Garante delle persone private della libertà, presso la Casa Circondariale “Don Bosco” ove, al termine della visita, provvederà a consegnare i fondi raccolti durante l’iniziativa benefica. Liliana Segre: “Ricevo messaggi d’odio e minacce, vado avanti grazie alle tantissime parole di affetto e stima” di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 17 aprile 2023 Esce martedì 18 aprile per Solferino il volume “Uno strano destino”, curato dalla giornalista del “Corriere” Alessia Rastelli. Prefazione di Carlo Verdelli. Anticipiamo parti del colloquio con la curatrice in apertura di volume. “Ricevo messaggi d’odio e minacce, vivo con la scorta, ma mi arrivano anche, ogni giorno, tantissime attestazioni di stima e di affetto che mi sostengono, mi nutrono e mi spingono ad andare avanti”. Nata a Milano il 10 settembre 1930, sopravvissuta ad Auschwitz dove fu deportata tredicenne, dal 19 gennaio 2018 Liliana Segre è senatrice a vita. A nominarla è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’incarico apre, dopo la trentennale testimonianza in centinaia di scuole, davanti a migliaia di studenti, un’ulteriore fase nella vita di una donna che non si è mai risparmiata nel fare il proprio dovere: quello dell’impegno istituzionale. “Per uno strano destino”, dirà il 13 ottobre 2022, inaugurando a Palazzo Madama la nuova legislatura, la stessa bambina “che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco della scuola elementare, oggi si trova addirittura sul banco più prestigioso del Senato”. Che cosa ha provato il giorno in cui è stata nominata? “La notizia mi ha colto completamente di sorpresa. Non conoscevo il presidente Mattarella e mai mi aveva neppure sfiorato l’idea di poter ricevere un incarico così prestigioso. La prima telefonata del Quirinale mi raggiunse a Milano mentre stavo facendo acquisti in un negozio. Quando capii, dovetti chiedere una sedia per riprendermi dall’emozione. Qualche ora dopo il capo dello Stato mi chiamò personalmente per comunicarmi che aveva firmato il decreto di nomina e conversammo a lungo. Fu un colloquio indimenticabile. Mi resi conto che sapeva tutto della mia storia. Mi disse anche che aveva pensato a mio padre Alberto e a ciò che avevo raccontato sui giorni trascorsi con lui nel carcere di San Vittore, quando, ormai consapevole del destino che ci aspettava, era così disperato da battere la testa contro il muro e chiedermi perdono per avermi messo al mondo”. Particolarmente impegnativo fu l’autunno del 2019. m Il 30 ottobre, a Palazzo Madama, la sua mozione per istituire la Commissione contro l’istigazione all’odio ottenne il via libera, ma con l’astensione del centrodestra. Il 19 gennaio 2023, invece, nella nuova legislatura, il Senato, questa volta a maggioranza di centrodestra, ha votato all’unanimità per la ricostituzione della Commissione... “In quel giorno del 2019 fui molto dispiaciuta. Ma per fortuna il 22 giugno 2022, dopo tanto lavoro e quasi cento audizioni tra esperti, rappresentanti delle istituzioni italiane e di organismi internazionali, il documento finale della Commissione ha ricevuto l’approvazione trasversale da parte di tutti gli schieramenti. È stata una grandissima soddisfazione e lo considero un esempio virtuoso del modo in cui può agire la politica. Altrettanto soddisfatta sono stata lo scorso gennaio quando il Senato ha votato all’unanimità per ricostituire la Commissione”. L’autunno del 2019 fu anche il periodo in cui aumentarono le minacce nei suoi confronti. Dal 7 novembre di quell’anno lei ha la scorta... “I messaggi d’odio arrivavano soprattutto dai social network e io ne sapevo ben poco. Data la mia età, infatti, non ho un account, e i miei figli avevano deciso di risparmiarmi quelle sgradevolezze. Poi la questione divenne pubblica e ne ebbi piena coscienza. Ancora oggi gli insulti o gli auguri di morte che ricevo su Facebook, Instagram e Twitter possono essere fino a centinaia in un solo giorno: sono sufficienti pochi post che mi attaccano e, sotto a ciascuno, decine di commenti volgari degli odiatori. Poi magari per un po’ tutto tace, ma basta una mia dichiarazione e arriva una nuova ondata. Ad ogni modo, mai mi sarei sognata di avere una scorta né tantomeno di chiederla (...)”. Da dove nasce la forza di continuare a impegnarsi? “Non sono facilmente impressionabile e cerco di svolgere il mio ruolo con serietà, spinta da due imperativi. Il primo riguarda la Memoria: sento che ciò che ho fatto, che ancora faccio e che continuerò a fare finché avrò fiato sia un dovere nei confronti dei miei cari e di tutti gli altri morti innocenti per la sola colpa d’essere nati. Il secondo imperativo, che ispira la mia attività pubblica anche su altri temi, è il dovere civico di spendersi - ogniqualvolta se ne presenti la possibilità - per fare l’interesse generale del Paese, per diffondere i principi della Costituzione, per favorire la più ampia condivisione dei valori democratici e del rispetto dei diritti umani. Ho visto sulla mia pelle a che cosa portino l’indifferenza e il non fare la scelta. Ecco perché, finché riuscirò, continuerò a impegnarmi”. Va in questa direzione anche la decisione di denunciare gli odiatori? “Istintivamente reagirei con il silenzio. Ma so che quanto succede a me potrebbe capitare ad altre persone, magari sole o più fragili. E so anche quanto sia facile passare dalle parole ai fatti. Perciò, per quanto faticoso alla mia età, ho deciso di procedere per vie legali”. È stato molto apprezzato il suo discorso al Senato per l’apertura della XIX legislatura, un’inaugurazione caduta nel mese di ottobre, a un secolo dalla marcia su Roma. Alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, la formazione più votata è stata Fratelli d’Italia, che mantiene nel simbolo la fiamma tricolore dell’Msi, partito d’ispirazione neofascista. Che effetto le fa? Già prima delle urne, lei aveva suggerito alla leader e ora presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di togliere la fiamma... “L’Italia è una grande democrazia e le libere scelte degli elettori vanno rispettate. Uno dei pregi del sistema democratico è la sua capacità di educare e di integrare, con il tempo, anche i gruppi che partono da posizioni ideologiche molto lontane dai fondamenti di quello stesso sistema. Dunque, che gli eredi dell’estrema destra si siano “riconvertiti” come forza costituzionale è un fatto positivo. Però occorre coerenza. Non possono esserci ambiguità sul fascismo e l’antifascismo. Per questo mi attendo dall’attuale partito di maggioranza relativa segni tangibili, inequivocabili, di discontinuità”. Sul numero di “Oggi” del 17 febbraio 2022 ha inaugurato la sua “Stanza”. Perché questa scelta? “Anche quella di tenere una rubrica fissa su uno storico settimanale come “Oggi” è una delle tante sorprese che mi ha riservato la vita. L’idea è stata del direttore Carlo Verdelli. E io mi sono lasciata convincere perché la Stanza mi offre l’opportunità di stabilire un rapporto diretto e costante con un pubblico ampio: lettori che magari desiderano sapere di più sulla Shoah, oppure trattare anche argomenti diversi, dalla politica, alla cronaca, alla società (...). Come accadeva una volta con gli anziani, che parlando del più e del meno attorno alla tavola o davanti al focolare finivano per trasmettere ai più giovani, con naturalezza, senza enfasi, le loro esperienze, le memorie familiari e quelle della comunità”. Dal 19 gennaio 2018 Liliana Segre, testimone della Shoah, è senatrice a vita. Arrivano affetto e stima, ma anche minacce: serve la scorta. La senatrice comunque non si ferma e, a braccetto coi carabinieri, prosegue l’attività al servizio del Paese. Con analogo spirito civile, dal febbraio 2022 tiene una rubrica (“La Stanza”) sul settimanale “Oggi”. Proprio su questa fase della sua vita si concentra il volume di Liliana Segre “Uno strano destino”, in uscita martedì 18 aprile per Solferino. Il cuore del libro è rappresentato dalle “Stanze” di “Oggi”: un anno di dialogo diretto con i lettori che va dalla storia personale a temi come la guerra, le migrazioni, la pandemia, il clima, i diritti delle donne, fino all’amore per gli animali e la passione per il cinema e la lettura. ?Il volume contiene poi i discorsi pubblici più importanti, tra cui quello al Senato del 13 ottobre 2022. Due tipologie di testi, “Stanze” e discorsi, che tracciano anche un racconto in presa diretta dell’Italia. La prefazione è di Carlo Verdelli, direttore di “Oggi” da cui è nata l’idea della “Stanza” di Liliana Segre, e ricostruisce le “otto vite” della senatrice, da quando era bambina fino al presente. Segue un colloquio con la curatrice Alessia Rastelli, in cui Liliana Segre spiega come abbia vissuto questi ultimi anni e come stia vivendo l’oggi (alcune parti sono riportate qui sopra). La postfazione (“In viaggio con mamma”) è del figlio Luciano Belli Paci e offre uno scorcio ancora più intimo, privato, su come sia cambiata la vita della madre e sul privilegio di esserle accanto. La disuguaglianza inaccettabile del mercato del lavoro italiano di Maurizio Franzini e Michele Raitano Il Domani, 17 aprile 2023 Vale la pena chiedersi se ci sono fattori che rendono la disuguaglianza particolarmente inaccettabile: una stessa disuguaglianza in termini quantitativi può essere diversamente giustificabile in termini etici e avere conseguenze diverse, in primis sul processo di crescita economica. In Italia il coefficiente di Gini dei redditi annui lordi da lavoro dipendente nel settore privato tra i primi anni Ottanta e il 2020 è aumentato di circa il 25 per cento. Dal 1990 alla pandemia la quota di lavoratori a basso salario, con retribuzione lorda annua inferiore al 60 per cento della mediana, ha raggiunto quasi il 31 per cento. La redistribuzione finora passa soprattutto tramite le pensioni. Misurare livello e tendenza della disuguaglianza economica è complicato, sia perché i dati sui redditi non consentono di osservare con precisione ciò che accade nelle ‘code’ della distribuzione sia perché i redditi, come comunemente misurati, non colgono fattori cruciali per il benessere economico degli individui. Ciò invita a prendere con cautela il risultato che emerge dall’analisi dei dati italiani negli ultimi anni, e cioè di costanza della disuguaglianza. Ma vale la pena anche chiedersi se ci sono fattori che rendono la disuguaglianza particolarmente inaccettabile. Ci chiediamo, cioè, se i meccanismi che generano la disuguaglianza possano portare a contrastarla, anche indipendentemente dalla sua altezza e dalle sue tendenze. Appare infatti possibile che una stessa disuguaglianza in termini quantitativi sia diversamente giustificabile in termini etici e abbia conseguenze diverse, in primis sul processo di crescita economica. Per fare un esempio, si pensi a due paesi con analogo livello di disuguaglianza dovuta però, in uno di essi, principalmente alla remunerazione delle abilità e capacità individuali in un contesto concorrenziale e, nell’altro, al godimento da parte di alcuni di posizioni protette dalla concorrenza e, quindi, generatrici di rendite. La disuguaglianza salariale - Il tema è assai complesso e necessariamente ci limiteremo a poche considerazioni. La prima è che in Italia la costanza della disuguaglianza nei redditi disponibili si accompagna, almeno fino agli anni più recenti, a una disuguaglianza ben più alta e fortemente crescente nei redditi di mercato equivalenti, cioè nei redditi misurati prima del pagamento delle imposte dirette e del percepimento delle pensioni e degli altri trasferimenti monetari dallo stato. Sinteticamente, è accaduto che nel mercato i redditi di molti lavoratori hanno perso terreno, favorendo anche il fenomeno dei working poor soprattutto, ma non soltanto, a causa del diffondersi del lavoro atipico involontario. Di conseguenza, quote di reddito sono passate dal lavoro al capitale e, al tempo stesso, le disuguaglianze tra lavoratori sono cresciute. I dati al riguardo sono impressionanti, come mostra il XVIII rapporto annuale Inps. Il coefficiente di Gini dei redditi annui lordi da lavoro dipendente nel settore privato tra i primi anni Ottanta del XX secolo e il periodo precedente la pandemia è aumentato di circa il 25 per cento, da valori intorno a 0,340 a valori superiori a 0,420. Analogamente, fra il 1990 e il periodo pre-pandemico la quota di lavoratori a basso salario (con retribuzione lorda annua inferiore al 60 per cento della mediana) è cresciuta di oltre 5 punti percentuali (raggiungendo quasi il 31 per cento). E anche i redditi non da lavoro si sono distribuiti in modo più diseguale, a vantaggio delle rendite finanziarie e di quelle derivanti da posizioni di tipo monopolistico. Va sottolineato che le disuguaglianze di mercato sono cresciute anche nelle fasi in cui l’occupazione è cresciuta, che dovrebbero essere quelle più favorevoli alla riduzione della disuguaglianza. Una conseguenza di tutto ciò è che le famiglie meno abbienti sono state costrette a lavorare di più per contenere la caduta dei loro redditi con effetti probabilmente non positivi sul proprio benessere. Occorre anche sottolineare che le crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro solo in parte sono spiegate dal capitale umano, cioè dalle diverse capacità e abilità individuali, come abbiamo dimostrato in una nostra ricerca (pubblicata su Structural Change and Economic Dynamics, 2019). Infatti, l’intensa crescita della disuguaglianza dei salari in Italia è interamente dovuta alla maggiore dispersione delle retribuzioni fra persone con analoga istruzione. Ciò contrasta con la diffusa idea che la causa sia il premio maggiore riconosciuto a chi ha un’istruzione più elevata. Una quota rilevante delle disuguaglianze ‘a parità di istruzione’ dipende dal settore e dall’impresa in cui si lavora (aspetti che potrebbero essere del tutto scollegati a ‘meriti’ individuali), e da altre caratteristiche (ad esempio di tipo relazionale, legate in primis all’origine familiare) che mercati poco concorrenziali tendono a premiare. Tutto ciò appare sufficiente per interrogarsi sull’opportunità di predisporre politiche di contrasto alla disuguaglianza generata da questi meccanismi. Una riflessione merita anche l’apparente contraddizione tra crescente disuguaglianza dei redditi di mercato e sostanziale costanza, in base ai dati ufficiali, di quella dei redditi disponibili. La risposta, semplice, è che l’azione redistributiva dello stato è cresciuta di intensità. Ma ciò non è avvenuto per una maggiore progressività delle imposte, perché è ben noto che è accaduto l’opposto, con la continua erosione dalla base imponibile Irpef di fonti di reddito appannaggio dei più abbienti. Né è avvenuto per una attribuzione significativamente maggiore dei trasferimenti a chi sta in basso nella scala dei redditi, escludendo il breve periodo di erogazione del reddito di cittadinanza. Ridistribuzione tramite le pensioni - È avvenuto, invece, soprattutto per effetto delle pensioni. Infatti se, in Italia e non solo, la disuguaglianza nei redditi disponibili non riflette la disuguaglianza nei redditi di mercato lo si deve alle pensioni che affluiscono in misura relativamente maggiore alle famiglie che percepiscono redditi di mercato più bassi, pur essendo possibile che alcuni percettori di rilevanti redditi da capitale (quindi di mercato) ricevano anche pensioni elevate. Da tutto ciò possono trarsi le seguenti considerazioni. La prima è che non può non preoccupare il fatto che i mercati creino disuguaglianza crescente, e con le caratteristiche che abbiamo ricordato. La seconda è che le pensioni sono, sostanzialmente, reddito da lavoro posticipato e quindi non possono essere incluse tra le genuine attività redistributive dello stato. La terza è che, con le tendenze in atto nel mercato del lavoro e la quota crescente di giovani che non arriveranno a versare contributi sufficienti per accedere a una pensione decente - in presenza di un meccanismo di calcolo delle pensioni, come il contributivo, che esclude qualsiasi forma di redistribuzione non di tipo assistenziale -, la funzione compensatrice delle pensioni è destinata a svanire. Gli elementi su cui riflettere sono quindi numerosi. In prossimi articoli proveremo a avanzare qualche riflessione costruttiva, utile per individuare le policies più adatte per contrastare efficacemente fenomeni così complessi. Prigionieri dell’alcol: un italiano su 6 esagera, tra i giovani dilaga il “binge drinking” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 17 aprile 2023 Il picco degli abusi tra i 18 e i 24 anni: fino a 5-6 consumazioni per serata. In Italia sono quasi nove milioni - 8,7 per l’esattezza - le persone che hanno problemi con l’alcol. Secondo i dati dell’Istat relativi al biennio 2020-2021 (quelli che riguardano il 2022 saranno elaborati il prossimo anno insieme ai dati del 2023) il 15% degli adulti compresi tra i 18 e 69 anni consuma alcolici in modalità o quantità ritenute “a maggior rischio” per la salute. Con questa definizione si classifica l’utilizzo abituale elevato, cioè superiore a due unità alcoliche (UA, che corrisponde a 12 grammi di etanolo, quantità contenuta per esempio in una lattina di birra da 33 cl, in un calice di vino o in un bicchierino di liquore) giornaliere per gli uomini e una UA giornaliera per le donne. Il consumo “a maggior rischio” è più frequente fra i giovani e i giovanissimi (tra i 18-24 anni) con una quota che raggiunge il 30%. Tra gli uomini questa percentuale è del 19% mentre tra le donne del 12%. Sull’uso più o meno “responsabile” sembra non incidere la condizione socio-economica, anzi: il 17% delle persone socialmente avvantaggiate o con livello d’istruzione alto assume alcol in maniera pericolosa a fronte del 13% di quelle che hanno molte difficoltà economiche. Il costo dei prodotti alcolici, talvolta elevato, è dunque in minima parte un deterrente per le fasce sociali svantaggiate. Le aree del Paese in cui il “consumo a rischio” è più frequente sono le regioni del Nord - i trend prevedono un aumento nei prossimi anni - con picchi nella Provincia autonoma di Bolzano. Seguono la provincia autonoma di Trento, la Valle d’Aosta e il Friuli Venezia Giulia. Tra le regioni del Sud, è il Molise che registra la percentuale di consumatori di alcol a maggior rischio più alta. Un focus nello studio dei dati sull’alcolismo in Italia è certamente dedicato ai giovani, il cui uso di alcol ha mutato abitudini nel tempo. Nel 2020, il 46,9% dei ragazzi e il 42,5% delle ragazze tra gli 11 e i 24 anni aveva consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: rispetto al 2010 c’è stata una diminuzione della prevalenza maschile del 10% e un aumento tra le ragazze del 4,2%. Un ulteriore dato relativo al consumo giovanile a rischio riguarda il fenomeno del “binge drinking”: è chiamata così quella tendenza a consumare 5-6 drink nella stessa serata a intervalli molto ridotti. Il consumo “binge” viene osservato dal 2010: il risultato è stato un lento e progressivo aumento negli anni fino ad arrivare al 18,4% del 2021 tra i ragazzi compresi nella fascia 18-24 anni (ultimo dato disponibile). Nel 2020, sempre secondo l’Istat, riguardava il 16% dei giovani nella stessa fascia d’età, di questi il 22,1% maschi e il 14,3% femmine. Preoccupante, nel quadro complessivo nazionale, che tra gli intervistati, il 54% di pazienti con malattie del fegato, il 12% di donne in gravidanza e il 30% di quelle che allattano abbia consumato alcol nell’ultimo mese precedente all’indagine statistica. Nell’anno 2020, poi, circa 29.300 accessi in Pronto soccorso sono stati caratterizzati da una diagnosi principale o secondaria attribuibile all’alcol: il 66% di questi in codice verde e solo il 2% in codice rosso, cioè massimo regime d’urgenza. In prevalenza (il 71%) sono di sesso maschile a fronte del 29% di sesso femminile. Mentre i dati ricavati dalle dimissioni ospedaliere nel 2020 rilevano 43.445 dimissioni connesse a una patologia attribuibile all’alcol. Quanto ai dati relativi ai decessi (quelli più recenti sono del 2018) parlano di 1.224 morti per patologia attribuibili all’alcol di persone di età superiore a 15 anni: il 81,5% di questi erano uomini, il 18,5% donne. Migranti. La rivolta di sindaci e Regioni contro il “no” alla protezione speciale di Serena Riformato La Stampa, 17 aprile 2023 Cinque governatori non sottoscrivono lo stato di emergenza. Fronda anche dei sindaci Pd. Sarà Valerio Valenti, capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, il nuovo commissario per l’emergenza migranti. Ma i suoi poteri, ufficializzati ieri da un’ordinanza della Protezione civile, non potranno essere esercitati su tutto il territorio italiano. Le cinque regioni a guida centrosinistra - Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia e Valle d’Aosta - scelgono di non firmare l’intesa: nei loro confronti, in sintesi, “la struttura commissariale non potrà prendere decisioni unilaterali”, spiegano dallo staff del presidente toscano Eugenio Giani. Un esempio: così come avviene oggi, la decisione di costruire un hotspot o centro per i rimpatri dovrà comunque essere concordata con l’amministrazione interessata e passare da un’ordinanza controfirmata dal governatore. Passaggio che non sarà invece più necessario nelle altre regioni. Dagli ambienti del Viminale si fa notare che la decisione andrà a creare un doppio regime: chi ha riconosciuto l’emergenza beneficerà di procedure semplificate, i “dissidenti” continueranno con le procedure normali, e tutte le lentezze che possono comportare. “Le regioni di sinistra sono le uniche che si oppongono ad una cosa normale che ci chiede anche l’Europa e cioè di allontanare dal territorio chi entra irregolarmente” attacca il vice premier e leader della Lega Matteo Salvini, mentre i capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo parlano di scelta gravissima: “Fanno ideologia sulla pelle dei migranti” attaccano, mentre il vice segretario del Carroccio Andrea Crippa chiede provocatoriamente: “Le regioni di sinistra preferiscono il modello Soumahoro?”. Con i governatori, anche i sindaci Pd si confermano prima linea dell’opposizione. Dopo l’iniziativa delle scorse settimane in difesa delle famiglie arcobaleno, i primi cittadini di Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Firenze criticano nel merito le modifiche proposte dal governo e dalla maggioranza al decreto Cutro: “Non bisogna ragionare in ottica emergenziale”, scrivono. Due criticità nello specifico, secondo gli amministratori dem: “l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai”, l’accoglienza diffusa, e l’intenzione di cancellare la “protezione speciale, misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale”. Al contrario, rilanciano i sindaci, vanno invece ripensate le vie legali per l’integrazione a partire dalla “regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae”. In parlamento intanto le opposizioni tentano di ostacolare con 350 emendamenti l’esame sul decreto Cutro che riprenderà oggi in commissione Affari costituzionali al Senato. Quasi scontato che la partita decisiva - con il voto degli emendamenti di governo e maggioranza - si giochi in aula, dove il provvedimento è atteso fra martedì e mercoledì. Migranti. Il capo del Ppe Weber: “L’Italia va aiutata. Muri a difesa dell’Europa” di Francesca Basso Corriere della Sera, 17 aprile 2023 Il presidente del Partito popolare europeo: “Subito un intervento per la Tunisia. Senza altre soluzioni, pronti a costruire i muri ai confini della Ue”. “Sulla migrazione servono misure concrete di solidarietà verso l’Italia da parte degli altri Paesi Ue. Per questo il gruppo del Ppe ha chiesto questa settimana un dibattito speciale al Parlamento Ue per cercare solidarietà verso l’Italia”. Parla Manfred Weber, presidente e capogruppo al Parlamento Ue del Partito popolare europeo, che da mesi si sta spendendo in prima persona per l’alleanza guidata da Giorgia Meloni. Roma ha dichiarato lo stato di emergenza. L’Ue come può aiutare l’Italia? “Stiamo andando incontro a un’altra grande crisi migratoria in Europa. Ed è per questo che il Ppe sostiene pienamente il governo italiano nel dare priorità a questo tema a livello europeo. Abbiamo bisogno di azioni comuni e ci rammarichiamo molto del fatto che da parte della Commissione e degli Stati Ue non ci siano molta consapevolezza, né ascolto né molta azione verso un problema serio”. Pensa che il piano presentato da von der Leyen in febbraio non sia abbastanza? “Il piano è buono, ma siamo in ritardo nell’attuazione. La gestione congiunta del fenomeno con i Paesi del nord Africa non deve essere vista solo come uno sforzo italiano per fermare la partenza dei barconi. Servono subito accordi di riammissione chiari con i Paesi di origine. Per anni la Commissione li ha promessi, deve accelerare. Se un migrante non ha diritto alla protezione deve tornare a casa”. Roma è stata lasciata sola? “A livello Ue la solidarietà non funziona. Ringrazio il governo italiano per il modo in cui accoglie i migranti e cerca di salvarli e aiutarli. Quando abbiamo un numero così alto di arrivi e il governo italiano cerca di gestire le cose in modo serio, gli altri Paesi come la Germania e la Francia devono aiutare. Il governo tedesco e francese, ma anche gli altri, non possono stare a guardare, devono portare volontariamente i migranti con un diritto di asilo sul loro territorio”. Mercoledì il Ppe presenterà un emendamento al bilancio Ue 2024 per finanziare la costruzione di muri alle frontiere esterne dell’Ue. Perché? “I muri dovrebbero essere un’eccezione, l’ultima risposta, ma se non è possibile fermare in un altro modo l’immigrazione clandestina, allora bisogna anche essere pronti a costruire le recinzioni. Tutti i Paesi con un confine esterno ne stanno erigendo: la Grecia con la Turchia, la Polonia e la Lituania con la Bielorussia, la Finlandia con la Russia quando ancora il governo era socialista, la Spagna a Ceuta e Melilla. Il Ppe pensa che l’Ue debba finanziare queste recinzioni perché non si tratta di proteggere i confini nazionali ma quelli europei”. Come aiutare l’Italia? “La frontiera marittima è estremamente complicata perché la priorità in mare è salvare vite umane ed è quello che stanno facendo le autorità e la Guardia costiera italiana. Per questo le ringrazio. Insieme dobbiamo stabilizzare la rotta del Mediterraneo. Serve un piano europeo, la Commissione Ue e gli Stati membri devono presentare al prossimo Consiglio europeo una proposta concreta per la Tunisia. L’abbiamo già fatto anni fa con il piano Ue per la Turchia, per il quale abbiamo speso circa 6 miliardi. Serve uno sforzo simile con i nostri partner del Nord Africa”. La Commissione Ue ha torto nel non voler finanziare la costruzione di recinzioni? “Non c’è alcun problema legale, condivido l’opinione del presidente Michel, è una questione politica ed è per questo che discuteremo e voteremo al Parlamento Ue. Penso che gli altri partiti, come i liberali, i socialisti e i verdi, debbano spiegare perché costruiscono recinzioni a livello nazionale ma al Parlamento Ue votano contro e questo per me non è serio”. Domani la presidente von der Leyen parlerà in plenaria delle relazioni Ue-Cina. C’è un problema di unità nell’Ue? “L’intervista di Macron è stata un disastro, ha reso evidente la grande spaccatura all’interno dell’Ue nel definire un piano strategico comune verso Pechino. Al prossimo Consiglio europeo di giugno i leader dovranno discuterne e trovare un’intesa”. È d’accordo con la posizione di Macron sull’autonomia strategica dell’Ue? “Da un lato è vero che è necessaria una maggiore indipendenza ma dall’altro l’export è chiave per l’Ue. Oltre all’autonomia strategica, serve la disponibilità a costruire accordi di libero scambio con il mondo libero”. L’Ue dovrebbe prendere le distanze dalle tensioni sino-americane su Taiwan come dice Macron? “L’Ue deve avere una voce forte definita dall’interesse europeo. Ma in un momento in cui ci sono navi da guerra cinesi sulle coste di Taiwan, le parole di equidistanza di Macron sono state un disastro e hanno indebolito l’Ue. Ora i Paesi dell’Est saranno più allineati con Washington che con Parigi o Berlino”. Meno fondi per gli Stati africani, il Piano Mattei inizia con i tagli alla cooperazione di Alessandro Barbera La Stampa, 17 aprile 2023 Nel Def appena presentato la riduzione di 109 milioni in tre anni per “immigrazione e garanzia dei diritti”. Oggi la percentuale maggiore degli aiuti allo sviluppo è destinata all’emergenza dell’Ucraina in guerra. Il nuovo “piano Mattei” sarà pronto nel dettaglio a ottobre, in tempo per il summit intergovernativo Italia-Africa. “Ci stiamo lavorando ascoltando e coinvolgendo i paesi africani”, spiegava due giorni fa la premier da Addis Abeba. Di cosa si tratterà in concreto ancora non è chiaro. Le prime indicazioni appaiono contraddittorie: il governo taglierà i fondi della cooperazione allo sviluppo. Per capire meglio il problema riavvolgiamo il nastro allo scorso 25 ottobre, giorno dell’insediamento di Giorgia Meloni alle Camere. “L’Italia deve farsi promotrice di un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana. Ci piacerebbe recuperare il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”. Fin qui, una petizione di principio alla quale è difficile essere contrari. Ma in cosa consistette il piano Mattei? Il manager, scelto dopo la fine della seconda guerra mondiale per liquidare l’Agip, si ribellò alle richieste della politica e la convinse a rilanciarla, trasformandola in quella che oggi è l’Eni. La sua intuizione fu quella di portare l’azienda nei Paesi di estrazione, aprire società paritetiche e superare la vecchia logica di sfruttamento coloniale. L’idea di Meloni sembra partire dallo stesso principio, nell’idea che una maggiore crescita nei Paesi poveri è la chiave per disinnescare la bomba migratoria. Può la politica farsi promotrice di un simile progetto? Sarà di nuovo l’Eni la protagonista di questo piano? Il rafforzamento degli acquisti di gas dall’Algeria per sopperire al taglio del metano russo può essere considerate parte di questa strategia? E si può considerare tutto questo parte di un progetto di crescita in Paesi in cui raramente i profitti delle società statali vanno a vantaggio degli ultimi? Per avere le risposta occorre solo attendere. Nel frattempo però il governo ha deciso il taglio dei fondi per i Paesi poveri. Per averne contezza occorre scorrere il Documento di economia e finanza appena presentato fino a pagina 146. Le tavole 6.1 e 6.2 sono dedicate rispettivamente agli “obiettivi di risparmio dei ministeri” e “riduzioni di spesa per missioni” 2023-2025. La Farnesina si vedrà ridotti i fondi rispettivamente per 49,2 milioni quest’anno, 76 nel 2024, 94,9 nel 2025. Si tratta di una voce che comprende anche i costi di funzionamento del ministero, ma che investono anche la cooperazione. Nella tabella per missioni sono dettagliati anche i tagli a “immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti”: si tratta di 9,8 milioni quest’anno, 32,2 il prossimo, 67 nel 2025. Ridurre i fondi per l’accoglienza non è di per sé incoerente con un piano di sviluppo nei Paesi africani, ma non è certo un buon punto di partenza per il dialogo. Secondo le elaborazioni di Openpolis fra il 2018 e il 2020 le risorse destinate dall’Italia alla cooperazione sono sempre scese, nel 2021 - l’ultimo dato certificato - erano lievemente risalite. Scrive il Def appena pubblicato sempre a proposito del 2021: “l’insieme dei flussi finanziari per i Paesi in via di sviluppo sono stati pari a 5,2 miliardi”, lo 0,29 per cento del reddito nazionale lordo (una sorta di indicatore netto della ricchezza del Paese, ndr). A contribuire all’aumento la cancellazione del debito della Somalia (520 milioni), l’aumento dei contributi del Tesoro a banche e fondi di sviluppo (673 milioni) e la crescita dei costi sostenuti dal ministero degli Interni per l’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo (saliti da 200 a 470 milioni). Oggi la gran parte di questi fondi viene utilizzato per l’emergenza Ucraina: i dati del governo dicono che dall’inizio dell’attacco russo l’Italia ha speso 390 milioni di euro. La tendenza non è solo italiana: l’Ocse - l’organizzazione che riunisce i trenta Paesi più ricchi - stima che l’anno scorso i suoi membri hanno destinato complessivamente agli aiuti allo sviluppo 204 miliardi di dollari, il 13 per cento in più del 2021. Molte organizzazioni non governative - fra cui Oxfam - sottolineano che l’aumento è stato sulla carta, perché 16 miliardi di dollari sono stati dedicati all’Ucraina. Ucraina a parte, scrive ancora il Def: “Il governo conferma l’intenzione di un allineamento degli aiuti allo sviluppo agli standard internazionali impegnandosi in un percorso di avvicinamento graduale all’obiettivo dello 0,70 per cento” fissato dall’Agenda 2030 dell’Onu. Per il momento però i fondi scenderanno. In attesa del Piano Mattei. Yemen a un passo dalla pace, maxi scambio di prigionieri tra sauditi e ribelli Houthi di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 aprile 2023 In tre giorni sono rilasciati quasi 900 detenuti. Settimana scorsa l’incontro a Sana’a tra i per negoziare la fine del conflitto in corso dal 2015. In molti hanno riso e pianto per la felicità. In tanti sono scesi con dalla scaletta dell’aereo con il pugno alzato. Sono i prigionieri delle milizie ribelli Houthi che in queste ore stanno rientrando a casa, nell’ambito del maxi-scambio di prigionieri concordato dall’Arabia Saudita e dai rappresentanti del gruppo filo Teheran iniziato venerdì per porre fine al conflitto che devasta il Paese da oltre otto anni. Tra chi è sceso dai voli, anche l’ex ministro della Difesa dello Yemen e il fratello dell’ex presidente, trasportati da Aden, controllata dal governo, alla capitale Sana’a. A mediare lo scambio che prevede il rilascio di 900 detenuti in tre giorni, il Comitato della Croce Rossa Internazionale. Si tratta della più grande operazione dopo il rilascio di oltre 1.000 prigionieri nell’ottobre 2020. Ma soprattutto si tratta del primo concreto segnale che finalmente la guerra in Yemen si avvia alla sua conclusione, dopo aver provocato 150 mila morti tra combattenti e civili e una delle peggiori catastrofi umanitarie che la storia ricordi. “Le operazioni di rilascio sono il risultato dei colloqui conclusi il 20 marzo 2023 a Berna, in Svizzera, dove le parti in conflitto nello Yemen hanno finalizzato il piano per il rilascio. Il Comitato internazionale della Croce rossa ha co-presieduto questi incontri con l’Ufficio dell’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per lo Yemen”, si legge in un comunicato di Icrc. Fabrizio Carboni, direttore regionale della Croce rossa per il Vicino e Medio Oriente, ha aggiunto: “Con questo atto di buona volontà, centinaia di famiglie dilaniate dal conflitto si stanno riunendo durante il mese sacro del Ramadan, un barlume di speranza in mezzo a grandi sofferenze. Il nostro profondo desiderio è che questi rilasci forniscano lo slancio per una soluzione politica più ampia, portando un numero ancora maggiore di detenuti dai loro cari”. Intanto il coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa, Brett McGurk, è tornato negli Stati Uniti dopo un viaggio di due giorni in Arabia Saudita, accompagnato dall’inviato della presidenza Usa per le infrastrutture e la sicurezza energetica, Amos Hochstein, e dal rappresentante speciale di Washington per lo Yemen, Tim Lenderking. La delegazione statunitense ha incontrato il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman; il ministro della Difesa, Khalid bin Salman; il ministro degli Esteri, Faisal bin Farhan; e una serie di alti funzionari del governo di Riad. I colloqui si sono incentrati sulla necessità di portare avanti gli sforzi per arrivare ad una soluzione diplomatica del conflitto in Yemen, ed entrambe le parti hanno elogiato la tregua mediata dalle Nazioni Unite. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Hans Grundberg, ha esortato le parti in guerra a continuare la ricerca di un futuro pacifico per il Paese in guerra, in concomitanza con l’avvio dello scambio dei prigionieri. Tutti passi in avanti verso la sigla di un definitivo accordo. Domenica scorsa i rappresentanti sauditi avevano già incontrato i funzionari Houthi a Sana’a. Un evento storico, dato che si è trattato del primo incontro diretto tra i rappresentanti del Regno e il movimento Houthi e durante il quale le due parti avrebbero discusso una serie di questioni, tra cui le riparazioni, un altro potenziale cessate il fuoco, l’accesso umanitario e la riapertura a tempo indeterminato dell’aeroporto internazionale di Sana’a. Era il 2014 quando iniziò quella che venne quasi subito ribattezzata la “guerra dimenticata”. Gli Houthi conquistarono Sana’a e gran parte del nord del Paese mentre una coalizione araba a guida saudita intervenne mesi dopo iniziando a bombardare il nord del Paese. A contribuire sia ai colloqui sia al rilascio di prigionieri il riposizionamento dell’Arabia Saudita in particolare in relazioni ai rapporti con Teheran. L’intesa sottoscritta il 10 marzo scorso da Iran e Arabia Saudita, con la mediazione della Cina, per ripristinare le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016, prevede accordi anche su diverse questioni di sicurezza, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano e proprio il conflitto nello Yemen. In particolare l’accordo stabilisce che “l’Iran rispetti gli interessi sauditi nella regione e sostenga i piani di pace”. Inoltre, hanno aggiunto le fonti, “L’Iran ha assicurato che i suoi missili balistici non costituiranno una minaccia per l’Arabia Saudita”. Nelle scorse settimane anche il Wall Street Journal, citando fonti americane e saudite, aveva riferito di un’intesa riguardante lo Yemen raggiunta nell’ambito dell’accordo del 10 marzo scorso, secondo cui Teheran avrebbe accettato di mettere fine alle forniture di armi agli Houthi. Egitto. Anas al-Beltagy in carcere da quasi dieci anni perché figlio di un oppositore di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2023 Detenuto da quasi 10 anni senza vedere i familiari da sei, sottoposto a sparizione forzata e a torture, murato vivo nella prigione di massima sicurezza di Badr dove le udienze di convalida della detenzione preventiva si svolgono online. Questo è l’incubo che sta passando il prigioniero egiziano Anas al-Beltagy. In questi nove anni e mezzo, Anas al-Beltagy è stato assolto in quattro processi per reati di terrorismo, ma a causa del noto sistema a porte girevoli della “rotazione” non è mai stato scarcerato. Quando un giudice, nel corso di una quinta indagine, ha autorizzato la sua libertà provvisoria, è stato iscritto a una sesta indagine. Il motivo? Anas è figlio di Mohamed al-Beltagy, ex parlamentare e alto dirigente della Fratellanza musulmana, condannato a morte e in attesa di esecuzione. Diversi familiari hanno dovuto fuggire all’estero, un’altra - Asma, la sorella minore di Anas - è stata uccisa a 16 anni il 14 agosto 2013 nel corso del violentissimo sgombero del sit-in di Rabaa al-Adawiya. Arrestato una prima volta il 24 dicembre 2013 al Cairo mentre era andato a trovare il padre in carcere e rimesso in libertà dopo una ventina d’ore, Anas al-Beltagy è stato nuovamente imprigionato il 31 dicembre. “Desaparecido” per un mese, è riapparso ad Alessandria e poi trasferito nuovamente al Cairo, nella famigerata prigione di Tora. Da qui, nel novembre 2022, è stato portato a Badr, il “centro penitenziario modello” nel quale decine di detenuti hanno tentato il suicidio. In quell’inferno sulla terra, situato 70 chilometri a nordest del Cairo, le celle sono gelide, le luci al neon sono costantemente accese, le videocamere di sorveglianza sono puntate contro i detenuti, non vi sono forniture sufficienti di cibo, vestiario e prodotti igienici ed è vietato inviarli dall’esterno. Non è consentito leggere libri. Anas al-Beltagy rischia ogni giorno di essere torturato o di morire per diniego di cure mediche. *Portavoce di Amnesty International Italia