Mamme e bambini in carcere. “Offriamo occasioni di riscatto” di Carla Forcolin* Avvenire, 16 aprile 2023 Nel 2011 venne deciso con la legge n. 62 che “mai più si sarebbero rinchiusi i bambini in carcere”. I figli delle detenute, che stavano con le madri nei cosiddetti “nidi” delle nostre prigioni femminili fino a tre anni, in locali spesso inadeguati e angusti, avrebbero abitato i nuovi Icam (Istituti a custodia attenuata per madri), dove invece la loro vita sarebbe stata, secondo le fantasie di allora, quasi uguale a quella degli altri bambini. Per questo, si poteva evitare di staccarli dalle madri tanto presto e si decise allora, nel plauso generale, che sarebbero stati in Icam, con la mamma, fino a sei anni. Non tutti, però. La custodia attenuata sarebbe stata decisa dal giudice di Sorveglianza e per le madri che non venivano ritenute idonee alla stessa rimanevano le carceri normali. A Milano c’era l’Icam costruito dalle persone che avevano pensato a questi nuovi istituti e che era agli inizi più simile ad una casa-famiglia che ad un carcere, a Roma venne dedicata a madri detenute e figli una vera casa-famiglia, la casa di Leda. Il secondo Icam ad essere aperto fu quello di Venezia, poi ci furono Torino e Lauro. A Milano si aprì la casa-famiglia “Ciao”. Un Icam, mai abitato, fu costruito anche in provincia di Cagliari. Al posto dei bambini piccoli cominciarono ad arrivare bambini grandicelli, in quella fascia d’età in cui già gli amichetti sono importanti e non c’è solo la mamma nella vita. Passato l’entusiasmo del primo momento, quei bambini uscivano dalle loro “fresche prigioni” solo se i volontari andavano a prenderli. A Milano anzi ci pensavano educatori del Comune a portarli a scuola, ma non mi risulta che tale ottima prassi sia stata seguita nelle altre città. A Venezia ci pensò l’associazione “La gabbianella”, con il Comune che per sette anni pagò gli accompagnatori, dalla stessa reperiti e formati, poi per altri nove anni senza alcun finanziamento, perché il Comune era in difficoltà economiche. Il volontariato divenne ovunque il mezzo principale per far uscire questi bambini dalle mura in cui crescevano. Ma, come è ben noto, il volontariato è fragile e non sempre e non dovunque riesce ad assicurare nel tempo servizi adeguati. Così capitò che i bambini venissero portati fuori in modo irregolare. E quindi? I bambini finirono per rimanere in prigione (nei nuovi Icam) fino a sei anni invece che fino a tre (nei nidi). Nella perfetta buona fede di chi credeva nel potere rieducativo degli Icam e delle case- famiglia e non voleva separarli in tenera età dalla madre. A poco a poco si accorsero tutti che gli Icam erano solo carceri più dignitose, ma terribili e deleterie per lo sviluppo dei bimbi e si cominciò a dire che i bambini dovevano andare nelle case famiglia, dove i figli avrebbero potuto stare con le madri fino a 10 anni ... l’associazione “Gabbianella” rimase sola nel dire che per i bambini era meglio uscire dal carcere, comunque camuffato, al massimo a tre anni o andare in carcere dalla mamma solo a dormire e rimanere fuori tutto il giorno con affidatari diurni, che ovviamente concordassero con le madri le modalità di vita esterne dei bambini. Questa proposta non fu mai considerata, visto che l’affidamento, nell’immaginario di chi non lo conosce, viene associato all’adozione, alla perdita dei figli. In questo immaginario nemmeno la precisazione “diurno” scalfisce il preconcetto dei bambini ingiustamente tolti alle loro madri. Con la proposta di legge “Mai più bambini in carcere” (13 dicembre 2022) prima firmataria Debora Serracchiani, sembrava però che l’accordo fosse stato trovato, che si potessero inserire madri e figli in case- famiglia protette, dove almeno la scuola per i piccoli venisse assicurata e con la scuola altre possibilità di educazione per i bambini e rieducazione per le madri. La proposta intendeva “ridurre ulteriormente la possibilità che bambini piccoli si trovino a vivere la realtà carceraria al seguito di madri recluse”. A tal fine, come si legge nel testo del disegno di legge, introduceva “alcune modifiche alla disciplina delle misure cautelari, volte ad escludere l’applicazione della custodia cautelare in carcere per le madri con figli di età inferiore ai 6 anni prevedendo al contempo che, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice possa disporre la custodia cautelare solo negli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam)”. Ci avvicinavamo forse all’esempio della Germania, l’unico Paese europeo, con l’Italia, a lasciare i bambini con le madri fino a sei anni. La Germania però sembra provvede re davvero a formare madri e figli, con 13 case-famiglia, quasi una per Land, con una sezione chiusa e una aperta o semiaperta, dove ogni bambino ha il suo educatore e il suo programma individualizzato. Qui egli, dopo la scuola, può giocare liberamente o svolgere altre attività ricreative, mentre le madri fanno corsi di formazione professionale, economia domestica e simili. Ma ecco che nei mesi scorsi insorgono i partiti di governo, con FdI, che vuole evitare la strumentalizzazione - spesso reale - dei bambini da parte di alcune madri. Alcune/ i deputate/i propongono degli emendamenti alla proposta Serracchiani, tali per cui la maggior parte di queste coppie madri/bimbi non potrà accedere alle case-famiglia, in quanto le stesse non potranno aprirsi che alle madri non recidive, cioè una piccola frazione del totale. La proposta Serracchiani, frutto di molto lavoro e di molti accordi, anche nella precedente legislatura, viene di fatto svuotata, per non facilitare la vita alle “borseggiatrici e ladre” rom, sinti e camminanti. Così chi l’ha avanzata la ritira. Ma le bimbe e i bimbi reclusi non sono recidivi, sono solo della stessa etnia delle madri! Diventeranno purtroppo ladri tra una decina d’anni se nessuno li educherà ad una vita diversa da quella dei genitori, se cresceranno pieni di rabbia per la libertà loro negata e per il dolore che albergherà in loro nell’essere privati del padre e dei fratelli, dei giochi all’aria aperta e di tutte le cose belle che fanno parte dell’infanzia. Se cresceranno avendo assorbito e condiviso la pena della mamma. Se non avranno avuto altro esempio che quello di lei. Faccio un appello ai partiti di governo: rinchiudete pure le madri recidive negli Icam, se vi pare che sia più prudente - purché non vi stiano di fatto in isolamento con i loro bambini, com’è più volte successo - ma attuate il dettato costituzionale sulla rieducazione delle donne, che devono acquisire un minimo di cultura generale e imparare a fare un lavoro. Sono circa una ventina e si tratta spesso di ragazze giovani: si può fare, se si affidano a bravi operatori. Seguitele quando usciranno, finché non avranno trovato casa e lavoro per sé e i figli: spesso non hanno un marito/compagno. E soprattutto fate in modo che siano educati i bambini, affidandoli, solo di giorno, a persone che vogliano loro bene e si prendano cura della loro mente-cuore. Non lasciateli dentro fino a sei anni, senza attuare per loro progetti educativi individualizzati. Conviene anche a noi: è l’unico modo per prevenire davvero il riperpetuarsi della delinquenza di generazione in generazione. *Fondatrice dell’APS “La gabbianella e altri animali”. *Autrice di “Uscire dal carcere a sei anni”; “Mamme dentro”; (Franco Angeli); “Mamma non mamma”; (Marsilio) L’inflazione penale è il fallimento della politica di Luigi Testa Il Domani, 16 aprile 2023 Il ricorso al diritto penale è l’ultima cosa che un potere politico che sia all’altezza della sua missione costitutiva dovrebbe (e potrebbe) fare. È del tutto legittima la perplessità dinanzi alla facilità con cui il governo ricorre allo strumento penale - dai famosi rave party, passando per l’istigazione all’anoressia e bulimia, fino alla scelta di rincarare il regime penale per i ragazzi di Ultima generazione. Non c’è emancipazione, senza gesti forti, di rottura, violenti, che puntino a scuotere la coscienza borghese. E arrivare lì con manette e Codice penale è uscirne sconfitti, e nel peggiore dei modi. Certe volte conviene tornare alle origini e ricordarsi perché esiste il potere politico. A scuola l’abbiamo imparato tutti: il potere politico esiste perché serve a qualcosa; dunque non è un assoluto. Esiste per porre termine a quello stato di violenza autodistruttrice in cui gli egoismi di ciascuno finirebbero per trascinarci. Per evitare che la rissa degeneri, insomma. Libertà ceduta - Per uscire da questa rissa potenzialmente autodistruttrice, i consociati si mettono d’accordo su alcuni valori di base e cedono una quota della propria libertà al potere politico. Ma attenzione: una quota, mica tutta; solo quanto basta perché il potere politico possa operare per evitare il disastro di una guerra di tutti contro tutti. E anche di quella quota di libertà che abbiamo ceduto, il potere politico potrà disporre soltanto con stretta adeguatezza al suo fine. In definitiva, dunque, il potere politico dovrà svolgere il suo compito di custodia di una società ordinata - dove per ordine si intende che l’uomo, sia esso davvero lupo o no, almeno non si comporti da tale - senza mai arrivare ad espropriare completamente la libertà dei cittadini; e dunque soltanto come ultima spiaggia potrà arrivare a ricorrere a quelle sanzioni che proprio sulla libertà personale vanno direttamente ad incidere. Per essere ancora più chiari: il ricorso al diritto penale - la scelta di individuare una specifica condotta umana, e criminalizzarla, associandovi una sanzione che può arrivare alla privazione della libertà - è l’ultima cosa che un potere politico che sia all’altezza della sua missione costitutiva dovrebbe (e potrebbe) fare. Triplice fallimento - Criminalizzare una condotta è una triplice fallimento. Lo è anzitutto perché è l’ammissione di una inadeguatezza ad evitare la rissa in altri modi, con una efficace politica sociale. (Esempio: se arrivi a punire con la reclusione chi istiga ai disturbi alimentari, in fondo è perché non riesci a trovare modi più efficaci ed adeguati nel contrasto e nella prevenzione). Lo è, poi, perché una inflazione penale svuota di autorevolezza il sistema e lo delegittima, togliendo densità politica alla scelta criminalizzante e destinando ad un probabile fallimento la funzione preventiva della pena. Ci sono studi, soprattutto relativi alla situazione degli Stati Uniti, che restituiscono dati univoci in tal senso. Ed è, nondimeno, un fallimento perché spesso l’overcriminalization ha una sfacciata funzione tranquillizzante degli elettori, e viene da chiedersi quanto bene stia messo un potere politico che per tener buoni gli elettori non trova altro modo che giocare a giustiziere della notte. Criminalizzare tutto - È così del tutto legittima la perplessità dinanzi alla facilità con cui il governo di destra ricorre allo strumento penale - dai famosi rave party, passando per l’istigazione all’anoressia e bulimia, fino all’idea di rincarare il regime penale per i ragazzi di Ultima generazione (ora parzialmente rinunciata, ma vedremo fino a quando). Quest’ultimo caso, poi, lascerebbe aperti molti dubbi. Capiamoci: perché ci sia un reato, è necessario che la condotta integri un’offesa ad un bene giuridico, che l’ordinamento intende proteggere. Punisci l’omicidio, per proteggere il bene giuridico vita; punisci il furto, per proteggere il bene giuridico proprietà; punisci le aggressioni omofobe, per proteggere il bene giuridico libertà individuale e dignità (ah, no?); punisci i ragazzi che imbrattano con vernice lavabile il vetro che protegge un’opera d’arte, per proteggere quale bene giuridico? Non certo l’opera d’arte, che - nella maggior parte dei casi - non è direttamente colpita, o comunque lo è senza danno permanente. Qui l’unico bene giuridico che pare volersi proteggere è il valore simbolico dell’opera d’arte. Ma se il bene giuridico protetto è un valore simbolico, la pena non può che essere simbolica, non siamo ridicoli (che qui può dirsi anche: non siamo fascisti). Emancipazione incompresa - La sensazione è che nell’affaire Ultima generazione torni, in fondo, la solita difficoltà di comprensione di ogni fenomeno emancipatorio. E non c’è emancipazione, senza gesti forti, di rottura, violenti, che puntino a scuotere la coscienza borghese. Gesti che non sono compresi, che creano fratture, che molto spesso feriscono qualcuno (come d’altra parte anche nel processo di emancipazione in famiglia: è indicativo che Nardella abbia detto di aver agito con “l’istinto di un padre o madre di famiglia”). Ma è il conflitto generazionale, baby, niente di più niente di meno. E arrivare lì con manette e codice penale è uscirne sconfitti, e nel peggiore dei modi. Perché se il ricorso al diritto penale è sempre un fallimento per il potere politico, fallimento ancor più grottesco è impiegare il diritto penale senza accorgersi di aver già fallito, con la gonfia arroganza del proprio potere. E certe volte, non se l’abbiano a male, gli esponenti della destra italiana sembrano arrivare proprio così. Attivisti di Ultima generazione, 12 indagati a Padova. Per la Procura la loro è associazione per delinquere di Roberta Polese Corriere della Sera, 16 aprile 2023 Sono gli artefici dei blitz per il clima su edifici e opere d’arte. Il rischio di condanne pesanti per gli attivisti di “Ultima Generazione”: in Italia non era mai successo. Il gruppo sui social: “Siamo cittadini non violenti, trattati però come mafiosi”. Gli attivisti del loro stesso movimento a inizio novembre lanciarono una zuppa di verdure contro la teca in vetro dove si trovava il quadro di Van Gogh, Il seminatore a Roma. E di recente hanno sparso del liquido nero nella fontana della Barcaccia a Roma, così come dello stesso gruppo fa parte il giovane che ha imbrattato Palazzo Vecchio a Firenze, bloccato dal sindaco Dario Nardella. Solo per citare i fatti più eclatanti. Dopo le multe e le polemiche, i militanti di “Ultima Generazione” subiscono ora un inedito colpo giudiziario. Una procura ha preso di petto la situazione e ha indagato 12 attivisti del clima, contestando a cinque di loro anche il reato di associazione per delinquere finalizzata al deturpamento dei beni culturali, interruzione di pubblico servizio e ostacolo alla libera circolazione. Rischiano fino a sette anni di carcere. Accade a Padova, dove il pm Benedetto Roberti ha fatto seguire gli ambientalisti per tre anni dalla Digos, individuando i capi dell’organizzazione. Uno di loro è stato perquisito, altri sono stati schedati e controllati a vista. Sette gli episodi contestati agli studenti universitari (tra le loro fila, però, c’è anche un cinquantasettenne). Sette di loro sono indagati anche in altre due inchieste veneziane, due sono vecchie conoscenze della questura che aveva già consegnato loro un foglio di via dalla città. Per quanto riguarda le azioni in laguna, il primo è un blitz avvenuto il 4 settembre scorso alle Gallerie dell’Accademia, quando in tre entrarono nella sala in cui è custodita La Tempesta del Giorgione, e posizionando le loro mani sopra al quadro (protetto dalla teca), lanciarono i loro slogan contro l’inerzia della politica sulle misure contro il cambiamento climatico. L’altra riguarda invece il blocco del traffico del Ponte della Libertà, il ponte per le auto e i treni che collega Venezia alla terraferma. A Padova invece il nucleo di “Ultima Generazione” ha cominciato a farsi sentire a partire dalla scorsa primavera imbrattando il centro culturale San Gaetano in città. Gli attivisti si sono poi incatenati dentro alla cappella degli Scrovegni dove sono custoditi gli affreschi di Giotto, che però non furono toccati. Scritte sui muri contro il gas e il carbone sono comparse poi a settembre in un circolo della Lega in periferia, e un altro blitz, sempre al medesimo circolo, è stato sventato dalla Digos che stava pedinando i militanti. Inoltre, sul conto dei 12 indagati, ci sono vari blocchi del traffico. Il loro avvocato difensore, Leonardo De Luca, ieri ha commentato: “La provvisoria contestazione del reato di associazione per delinquere - indipendentemente dalla modesta gravità dei singoli reati contestati - appare singolare in quanto richiede la sussistenza di elementi distintivi molto specifici che non ritrovo in questa vicenda”. Plaude all’iniziativa della procura di Padova il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Giusto così. Chi vandalizza opere e blocca strade commette reati e va perseguito con durezza”. Li difende invece Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera: “Suonano come abnormi le accuse di associazione a delinquere contro esponenti di “Ultima Generazione” a Padova. Siamo solidali con gli indagati”. Stando alla nuova legge che dovrebbe inasprire le pene, gli esponenti di Ultima Generazione responsabili degli imbrattamenti rischierebbero fino a 60mila euro di multa, ma non sarà una norma retroattiva. Gli ambientalisti, che non si sono mai nascosti e che hanno sempre pubblicato sui social a viso aperto le loro proteste, scrivono su Instagram: “Gli indagati sono cittadini non violenti trattati come se fossero dei mafiosi, questa è la legge del far west, non la legge di uno stato democratico, ma noi non ci faremo intimidire”. Gli attivisti hanno lanciato sui social un appuntamento nazionale a Roma il 22 aprile in piazzale Ostiense a partire dalle 12. “La legge repressiva non fermerà la protesta anzi la farà crescere”: gli eco attivisti rispondono al governo Meloni di Chiara Sgreccia L’Espresso, 16 aprile 2023 Ultima Generazione non sembra intimidita dal nuovo disegno di legge che punisce le azioni di protesta contro i monumenti. “Andremo avanti fino a ottenere lo stop ai sussidi pubblici ai combustibili fossili”. Sanzioni da 20 mila a 60 mila euro per chi imbratta o danneggia beni culturali. Così ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge recante “Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”. Più volte definito dall’esecutivo come il ddl “contro gli eco-vandali”. Il provvedimento arriva dopo le recenti azioni di Ultima Generazione a Roma e Firenze, quando gli attivisti hanno tinto di nero, con il carbone vegetale, l’acqua della Fontana della Barcaccia a Piazza di Spagna e colorato con la vernice la facciata di Palazzo Vecchio, in Piazza della Signoria. “Gli attacchi ai monumenti e ai siti artistici producono danni economici alla collettività. Per ripulire occorrono l’intervento di personale altamente specializzato e l’utilizzo di macchinari molto costosi. Chi compie questi atti deve assumersi la responsabilità anche patrimoniale”, ha spiegato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, dopo che in tutta Italia è diventato popolare il video del sindaco di Firenze, Dario Nardella, che lava la facciata di Palazzo Vecchio con l’idropulitrice, senza protezioni. Così chi danneggia beni storici pagherà in prima persona. In base alla gravità dell’atto commesso, con sanzioni amministrative immediatamente irrogabili dal prefetto del luogo dove è commesso il fatto, sulla base delle denunce dei pubblici ufficiali. Ma se l’intento era quello di scoraggiare le proteste per la tutela dell’ambiente, i primi risultati non sembrano quelli sperati. Mercoledì mattina gli attivisti di Ultima Generazione sono scesi di nuovo in strada a Padova, per bloccare il traffico. “Andremo avanti fino a ottenere lo stop ai sussidi pubblici ai combustibili fossili”, scrivono sui social. Perché, come spiega Michele Giuli, che fa parte del movimento che si batte per impedire il collasso eco-climatico, “più le leggi sono repressive più aumentano le possibilità di protesta. Adesso è importante capire come organizzarsi. Immagino che l’intento del ddl sia quello di riuscire a placare i movimenti di contestazione. Ma potrebbe anche trasformarsi una delle ragioni alla base della nostra crescita. Non solo di Ultima Generazione ma anche di altri movimenti d’opposizione, allargando la battaglia dalla crisi climatica, alle politiche economiche e sociale, al tema più generale della repressione di uno Stato autoritario contro la popolazione civile. Un argomento anche molto più facile da comprendere, da più persone. In uno Stato iper-liberale le forme di protesta per attirare l’attenzione devono essere eclatanti, come i blocchi del traffico sull’autostrada che facciamo, che hanno portato anche tanti automobilisti a odiarci. Invece, in uno stato autoritario per protestare bastano gesti meno impattanti. In grado, contemporaneamente, anche di polemizzare e ridicolizzare leggi assurde”. Strage di Erba, il Pg: “Rosa e Olindo vittime di errore giudiziario” di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2023 Le prove per cui sono stati condannati Rosa e Olindo per la strage di Erba sarebbero maturate in “un contesto che definire malato sarebbe un esercizio di eufemismo”. A scriverlo il sostituto pg di Milano Cuno Tartufesser nell’istanza di revisione del processo che ha portato alla condanna all’ergastolo per l’omicidio dell’11 dicembre del 2006 di Raffaella Castagna, Paola Galli, Youssef Marzouk, Raffaella Cherubini e per il tentato omicidio di Mario Frigerio. Le tre prove cardine - il riconoscimento degli imputati come autori del delitto da parte di Frigerio, le confessioni dei coniugi e la macchia di sangue trovata sull’auto di Olindo appartenente a Cherubini - vengono smontate una a una dal magistrato, la cui istanza dovrà comunque essere valutata dai giudici prima di un eventuale nuovo processo. A convincere il pg della necessità di una revisione sono state anche due consulenze che gli hanno sottoposto gli avvocati Fabio Schembri e Paolo Sevesi il 14 febbraio scorso, “alla cui stesura hanno contribuito diversi accademici, tutti luminari della rispettiva materia tecnica e scientifica, le quali, alla luce delle più moderne e recenti tecniche e metodologie, comunque successive alla fine della prima decade del secolo, e quindi dei fatti oggetto del processo, hanno analizzato le due prove dichiarative, ovvero il riconoscimento e le confessioni dei due condannati e una consulenza Tecnica biologico-genetica forense che, ad oltre 16 anni di distanza, ha riesaminato e rivalutato alla luce dell’enorme sviluppo tecnologico e metodologico che ha avuto la materia in questi anni, la tecnologia e la metodologia utilizzata allora per il repertamento”. “Le dichiarazioni auto accusatorie di Olindo Romano e Rosa Bazzi sono da considerarsi false confessioni acquiescenti”, scrive Tartufesser, secondo cui questo è “il risultato cui giungono i consulenti” sulla base dei “più recenti ed avanzati dati scientifici che corrispondono ai criteri che, se mancanti, rendono le confessioni, false confessioni”. Quanto alla prova del sangue della vittima Valeria Cherubini sull’auto di Olindo, il magistrato scrive che “non si può non rilevare come si tratta di una prova che trasuda criticità mai valutate dalle Corti di merito che mai hanno messo in dubbio, né l’origine della macchia di sangue, né la chain of custody dal momento del suo repertamento”. Tra gli elementi “nuovi” la non attendibilità di Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage e oggi deceduto. “Queste novità si possono così riassumere: mancata valutazione dell’idoneità a rendere testimonianza, effettuata in base alla ricostruzione dalle intercettazioni mai entrate al processo, che evidenziano deficit cognitivi non segnalati nella relazione del dottor Cetti. L’elemento nuovo ècostituito dalla decodifica delle intercettazioni ambientali durante la degenza ospedaliera del testimone, nelle quali la somministrazione della testistica clinica è menzionata dai figli ma di cui non vi è traccia nella relazione medica. Dati clinici acquisiti dopo il 2010 che, applicati al caso specifico, dimostrano che Frigerio sviluppò, a seguito dell’aggressione, una disfunzione cognitiva provocata da intossicazione da monossido di carbonio, arresto cardiaco, shock emorragico e lesioni cerebrali focali. Stante la gravità dei singoli eventi neurolesivi, la loro concomitanza in un soggetto anziano ed iperteso ha sicuramente determinato un complessivo scadimento delle funzioni cognitive necessarie a rendere valida testimonianza. Dati nuovi che si ricavano dalle trascrizioni delle intercettazioni ambientali, mai effettuate prima, che evidenziano e dimostrano la presenza di disfunzioni cognitive tipicamente osservabili nei casi con patologia neurologica sopra descritta”. Insomma, “dalle intercettazioni mai trascritte emerge senza alcun dubbio che Mario Frigerio soffriva degli effetti tardivi dovuti all’intossicazione da monossido di carbonio, che hanno a loro volta provocato un’amnesia anterograda. L’amnesico anterogrado è soggetto patologicamente suscettibile agli effetti distorsivi delle suggestioni. Il paziente con amnesia anterograda è da considerarsi un caso di scuola per l’inidoneità a rendere valida testimonianza”. Si tratterebbe di “dati scientifici nuovi” che portano alla “conclusione” che in relazione alle dichiarazioni rese i giorni 20, 26 dicembre 2006 e 2 gennaio 2007 “il testimone fu progressivamente indotto ad aderire a suggerimenti che determinarono l’installazione di una falsa memoria circa la corrispondenza fra l’aggressore sconosciuto e Olindo Romano”. “Se quindi - è scritto nel documento - come ho cercato di dimostrare moltissimi erano gli elementi che sin dal giudizio di primo grado sarebbero stati idonei, se solo valutati dai Giudici, a giudicare inattendibile la prova del “riconoscimento”, fortemente dubbia la prova della “macchia di sangue” e indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo, le “confessioni”, trattate invece alla stregua di prove regine, oggi, a distanza di oltre 17 anni, la scienza - se auspicabilmente ammessa a farlo nel giudizio rescissorio - è fortunatamente in grado di fornire da sola, ma soprattutto in unione alle numerose criticità in atti e non in atti, comunque mai valutati, quelle certezze scientifiche idonee a fare sgretolare i tre pilastri probatori su cui fondano la condanna all’ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi”. Torino. Riforma Cartabia, protocollo di magistrati e avvocati di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 16 aprile 2023 Le linee guida per le nuove pene sostitutive. La Camera penale: “Servirà un’apertura culturale dei giudici”. Con un protocollo di otto pagine - operativo da qualche giorno - uffici giudiziari e avvocati tracciano le “Linee guida per l’applicazione delle nuove pene sostitutive di pene detentive brevi”, ovvero le novità introdotte dalla riforma Cartabia. Si tratta di un documento che vuole offrire la chiave interpretativa di alcuni punti della normativa, e sottoscritto da corte d’appello, Procura generale, Procura, Ufficio inter-distrettuale di esecuzione penale esterna (Uiepe), ordine degli avvocati e Camera penale “Vittorio Chiusano”. Questo il menù previsto dal decreto legislativo 150 del 2022, cioè la riforma griffata dall’ex ministro della Giustizia: la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva per condanne non superiori a quattro anni; il lavoro di pubblica utilità per condanne non superiori a tre anni; e la pena pecuniaria sostitutiva per condanne non superiori a un anno. “La nuova disciplina- si legge- attribuisce al giudice di merito il potere di sostituire la pena detentiva, anticipando alla fase della cognizione, a titolo di vera e propria pena, alcune forme di esecuzione extracarceraria che nell’ordinamento penitenziario vigente erano definite come “misure alternative alla detenzione”“. Sulla scia dell’ingresso tra i procedimenti speciali della sospensione del procedimento per messa alla prova, nella sostanza la riforma anticipa l’esecuzione della pena alla fase di cognizione, cercando di deflazionare il dibattimento e il carico di lavoro della sorveglianza. Ma coinvolgendo nuovamente gli uffici di esecuzione esterna della pena- già gravati di tante incombenze - e contando “sull’apporto della difesa del condannato”. Come sottolinea il protocollo: il difensore, “ove miri alla sostituzione della pena detentiva, ha il concreto interesse a fornire al giudice tutti gli elementi conoscitivi funzionali allo scopo”. Va da sé, ci potrebbe essere qualche criticità, come spiega l’avvocato Roberto Capra, presidente della Camera penale: “Si chiede un po’ di supplire a quelle che sono le difficoltà, per mancanza di risorse, dello Uiepe: che deve già far fronte a diversi compiti”. Però, in prospettiva, la valutazione è positiva: “Potrebbe essere una rivoluzione importante - continua Capra - anzi, avrei dato anche più poteri al giudice del merito”. Dopodiché, dalla carta si dovrà passare alla pratica: “Siamo contenti - chiude - ma il tasso di soddisfazione sarà misurato sul campo. La sfida è se, dal punto di vista culturale, ci sarà un’apertura da parte dei giudicanti di primo e secondo grado”. Sardegna. Forum su insularità e carceri: “Potenziare le misure alternative” di Massimiliano Rais L’Unione Sarda, 16 aprile 2023 Due giorni di studio nella sala Giorgio Pisano. Nella seconda giornata del forum su giustizia e insularità all’Unione Sarda si è discusso della vita nei penitenziari sardi. Da magistrati ed esperti un appello alle istituzioni: potenziare il sistema delle misure alternative alla detenzione in carcere. “I dati - ha dichiarato la funzionaria della polizia penitenziaria Alessandra Uscidda - dimostrano il valore e l’utilità delle misure alternative che riducono notevolmente la possibilità di una recidiva”. Il forum, nella sala Giorgio Pisano dell’Unione Sarda, ha offerto diverse indicazioni operative sull’organizzazione giudiziaria “di cui ora - spiega Maria Antonietta Mongiu, presidente del Comitato tecnico scientifico per l’Insularità in Costituzione - la politica deve tenere conto. Abbiamo ragionato in modo molto pragmatico su temi strettamente legati al principio di insularità che ha appena avuto il riconoscimento costituzionale”. Nel video le interviste a Mauro Mura, già alla guida della Procura di Cagliari, Alessandra Uscidda, dirigente della Polizia Penitenziaria, e il magistrato della Corte di Cassazione Carlo Renoldi. Firenze. “Con Cospito contro il 41bis”, il corteo blocca la città di Pietro Mecarozzi La Nazione, 16 aprile 2023 La manifestazione che si è svolta nella zona dell’Isolotto ha ostacolato il traffico. Guerra, carcere duro e migranti tra i temi che hanno mosso la marcia. È bastato un corteo di una centinaia di persone per mandare in tilt il traffico della città. La manifestazione, partita da piazza dell’Isolotto e arrivata in piazza Pier Vettori, è stata organizzata dal Centro popolare autogestito, Assemblea 41bis, alcuni centri sociali (tra cui il nEXt Emerson) e le sigle studentesche antifasciste di Firenze. Tutti riuniti sotto il simbolo anarchico del cerchio con saetta. L’obiettivo della mobilitazione era contestare il 41bis, sostenere la scarcerazione di Alfredo Cospito, dire stop alla guerra e alle torture nelle carceri. Il risultato indiretto è stato invece quello di bloccare le arterie principale della viabilità, congestionare la zona dell’Isolotto e creare disagi ai cittadini. Il corteo non si è fatto mancare anche l’accensione di un paio di fumogeni e qualche graffito con la bomboletta lasciato per strada, nel quale si incita alla scarcerazione dell’anarchico (sui muri di via Pisana) e alla distruzione delle banche (sui vetri di Chianti Banca in piazza Pier Vettori). Nessun altro danno è registrato. Il cuore della protesta è stata comunque la salute di Cospito, che nel 2014 è stato condannato a 9 anni e 5 mesi di reclusione per la gambizzazione di Roberto Adinolfi, dirigente della Ansaldo Nucleare, e negli ultimi mesi è stato protagonista di uno sciopero della fame. Mano per mano i manifestanti hanno fatto girare un foglio con le dichiarazione scritte di Cospito all’udienza di riesame per le misure cautelari dell’operazione Sibilla, nelle quali l’ergastolano spiega le motivazione del suo accanimento contro il carcere duro. “Cospito libero” e “no al 41 bis”, gridano a gran voce gli incitatori. Un tema molto attuale, che fa coppia nel testo dei cori a quello dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) dei i migranti. “Non sono concepibili, sono carceri nei quali i migranti vengono privati dei diritti fondamentali”, spiega Alessandra, una giovane che non si riconosce in nessuna sigla, ma che ha sentito la necessità di scendere in piazza per dire la sua. Sono molti gli ‘indipendenti’ che alla manifestazione non vogliono essere etichettati con le sigle organizzatrici. “Mi sono sentito chiamato in causa in quanto antifascista e in quanto sostenitore dei diritti dell’uomo, che con il 41bis vengono del tutto azzerati”, chiosa Paolo. Padova. Pallalpiede, 10 anni da Champions League di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 16 aprile 2023 Chi lo avrebbe mai detto, dieci anni fa, che questa che è una esperienza unica in Italia, riconosciuta dalla Figc, sarebbe arrivata a chiudere il traguardo di nove campionati al decimo anno di attività. La Presidente della squadra del Due Palazzi, Lara Mottarlini: “Un grazie a tutti quelli che ci sostengono”. Oggi contro il Tavo la squadra di casa al Due Palazzi ha concluso il suo nono campionato, forse il più importante perché arrivato dopo due anni di stop a causa del Covid. Per questo la soddisfazione è doppia, per la Presidente Lara Mottarlini, alla guida di questa compagine di soli detenuti, che è giunta a chiudere il decimo anno di attività. Che il calcio a Padova sia declinato al femminile se si parla di massimi dirigenti non è quindi solo per merito della collega del Calcio Padova, Alessandra Bianchi. Una esperienza mai facile quella di Pallalpiede, che è cresciuta in questi dieci anni. Quest’anno ad esempio, se non ci fosse stato l’intervento di Fabio Campagnolo non si sarebbe tornati in campo. “Dobbiamo davvero ringraziarlo perché è stato qualcosa in più di uno sponsor, perché ha colto l’essenza di questo progetto e per questo ci ha aiutato a tenerlo vivo. L’iscrizione al campionato e tutte le altre spese che dobbiamo sostenere per poter affrontare la stagione si possono coprire solo grazie ad aiuti esterni, come in questo caso. Ripartire non è stato facile ma ci ha dato grande soddisfazione questo campionato”. Andrea Zangirolami è il dirigente che affianca Lara Mottarlini. “La nostra Champions League è la Coppa Disciplina, e anche quest’anno l’abbiamo raggiunta. E’ un grandissimo risultato per noi non solo dal punto di vista simbolico”, sottolinea Zangirolami. Mister Fernando Badon allena da diverse stagioni Pallalpiede e deve fare i conti con un “mercato” sempre aperto. Qui gli arrivi e gli addii sono all’ordine del giorno, e ogni volta bisogna ricominciare daccapo. Ma non una volta all’anno, ma almeno una volta al mese. È anche grazie al suo entusiasmo che si sono potute spegnere dieci candelini, in Champions League. Volterra (Pi). Il teatro di Punzo, un Leone dietro le sbarre di Angela Calvini Avvenire, 16 aprile 2023 Parla il regista, fondatore della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra, Leone d’oro 2023 alla carriera della Biennale. “Premio agli sforzi dei miei attori in questi 35 anni insieme”. “Questo Leone d’Oro alla carriera è un premio che condivido con gli attori della compagnia e che ripaga gli sforzi di tanti di loro, un premio dovuto a questa esperienza in carcere, quindi non solo mio”. Il regista Armando Punzo, 64 anni, fondatore della storica Compagnia della Fortezza, la prima nata in un carcere nel 1988 e diventata una delle realtà più importanti della scena di ricerca, riceverà il Leone d’oro alla carriera della Biennale Teatro 2023. La premiazione si svolgerà il 17 giugno presso la sede della Biennale, nel corso del 51mo Festival Internazionale del Teatro che si svolgerà dal 15 giugno all’1 luglio a Venezia. Festival che verrà aperto dal nuovo spettacolo di Punzo Naturae il 15 giugno al Teatro alle Tese - Arsenale. È un importante riconoscimento al valore artistico del teatro in carcere quello assegnato dai direttori della sezione Teatro della Biennale Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte) che riconoscono a Punzo e alla Compagnia della Fortezza di avere utilizzato il teatro per “ricominciare a sognare un nuovo uomo e imporlo alla realtà”, nonostante il pregiudizio, perché “lo spirito e la fantasia non hanno sbarre che contengano”. Si snoda lungo trentacinque anni di lavoro quotidiano e a tempo pieno, con circa ottanta detenuti-attori, il percorso registico di un artista affascinante come Armando Punzo realizzando oltre quaranta spettacoli. Spettacoli pluripremiati in Italia e all’estero: Marat-Sade, I negri, I Pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht, Hamlice Saggio sulla fine di una civiltà, Beatitudo sono solo alcuni dei titoli che, attraverso l’indagine grandi temi umani, hanno fatto di un carcere penale come la Fortezza medicea di Volterra un centro culturale all’avanguardia. Armando Punzo quanto è importante questo Leone d’Oro per il mondo del teatro in carcere? Questo Leone d’oro è un qualcosa che viene da molto lontano e un po’ alla volta ha preso forma. Io sono felice che questa idea su cui lavoriamo da 35 anni si sia fatta apprezzare. È un premio per tutti. Era il 1988 e c’erano state altre esperienze di teatro in carcere, ma erano stati degli interventi estemporanei. Io sono il primo che ha deciso che il suo teatro è dentro a un carcere e da lì non me ne sono mai andato. Quella è la mia sede per un motivo: il carcere attraverso il teatro per me viene associato all’idea della libertà, contrapposto a quanto siamo prigionieri noi esseri umani. Per lei attore e regista del teatro d’avanguardia, quando è arrivata la svolta? Era appena finita la mia esperienza col gruppo Avventura che veniva da Grotowski, mentre ci trovavamo a Volterra. Dovevo decidere se tornare a Napoli o trasferirmi a Roma o Milano. Ho alzato gli occhi, ho visto la Fortezza medicea e ho avuto l’idea. Volevo lavorare con dei non professionisti e all’interno del carcere potevo ricominciare da zero con i detenuti, potevo riformulare l’idea del teatro. Ed è stato possibile grazie alla regione Toscana che ha sempre attenziognia ne per i diritti. Ho fatto richiesta, e un mese dopo ho cominciato a lavorare nel carcere. L’altroieri con la Compagnia della Fortezza abbiamo ricevuto il Gonfalone d’argento, la più alta onorificenza dell’Assemblea legislativa toscana. Lei ha sempre asserito che per lei il teatro in carcere è soprattutto arte... La scelta che mi caratterizza, e che segna la particolarità del lavoro quotidiano, è quella di fare vero teatro. E di non cedere ai discorsi tecnici o buonisti. Penso che una operazione artistica è trasformatrice dell’essere umano in qualunque cosa sia. Da chi è composta la Compagnia della Fortezza? Questa è una compagnia stabile proprio perché in un carcere penale le pene sono lunghe. C’è un aspetto terribile nelle lunghe pene, ma questi detenuti se decidono di fare qualcosa, lo possono fare sul serio. Sono circa un’ottantina, ed è rappresentato il mondo. Sono fortunato di avere una compagnia multietnica, l’Italia è rappresentata tutta, e poi ci cono persone che arrivano da Albania, Romania, Ucraina, Serbia, Nordafrica, Africa subsahariana. I miei attori sono stati molto contenti del Leone, mi hanno anche preso in giro. “Ma dove vogliamo arrivare?” hanno detto. Sono stati molto affettuosi. La sua Compagnia ha anche prodotto un grande attore come Aniello Arena, candidato ai David di Donatello per Reality di Matteo Garrone... Aniello ha scontato la sua pena, oggi lavora per il cinema e per il teatro. Sono felice che continui la sua strada di attore professionista. Che tipo di cambiamento ha visto negli attori che lavorano con lei? Lo stesso processo che vale anche per me. C’è una possibilità di aprire una breccia in noi e il nostro lavoro porta risultati in tutti noi. Quanto ha dovuto lottare agli inizi per il suo teatro? Quanto è difficile ancora oggi. Siamo nel carcere, il luogo di massima chiusura, e il teatro è il luogo di massima libertà. C’è un continuo scambio e sano conflitto quotidiano con l’idea che rappresenta, ma è stato molto difficile all’inizio. Perché nessuno capiva il perché e anche oggi nella pratica quotidiana trovi persone che non capiscono il perché. Ma per me è uno stimolo: non posso addormentarmi sugli allori. Come sarà lo spettacolo Naturae che debutterà alla Biennale Teatro di Venezia? “Naturae. La valle della permanenza” è un lavoro che tende a non volere fare copia della realtà, un modo per indicare che c’è altro nell’essere umano. Questo lavoro dura da 8 anni, con diversi spettacoli dove abbiamo lavorato su tutta l’opera di Shakesperae. L’umanità che lui ci consegna è una gabbia, sembra che non ci sia altra possibilità di umanità. Quando dicono che Macbeth e Otello sono ancora attuali, vuol dire che l’essere umano non è modificato. Il nostro lavoro dimostra invece che è possibile allontanarci dall’essere umano come descritto da Shakespeare. Dopo abbiamo incontrato Borges che ha raccontato una umanità più bidimensionale, che comporta uno sforzo in più, un interrogarsi. Fino a Naturae che arriva alla concretezza dell’uomo. A proposito di concretezza, presto avrete un vero teatro all’interno della Fortezza di Volterra... Finalmente sì. È stato fatto un bando, vinto da Mario Cucinella un architetto importante, di sensibilità rara. Ha disegnato una sala polivalente all’interno del carcere in armonia con la struttura medicea. Col nuovo teatro immaginiamo una stagione teatrale anche in inverno, mentre ora le rappresentazioni sono solo d’estate nei cortili. Sarà importante anche per la formazione professionale ai diversi mestieri del teatro, che già abbiamo avviato, dove si formeranno macchinisti, scenografi, tecnici del suono e delle luci. Uno dei miei sogni è che il teatro venga aperto a tutte le scuole a livello nazionale affinché possano venire a discutere degli spettacoli. Io cerco di superare le barriere, di non fare teatro di rappresentazione, da spiare, ma che sia parte della nostra esistenza. Genova. Il “Riccardo III” dei detenuti contro guerre e violenza conquista un teatro pieno di giovani di Silvia Isola primocanale.it, 16 aprile 2023 Il senso di Teatro Necessario, che dal 2005 porta sul palcoscenico i detenuti, è nella frase di Seidki: “Noi quando saliamo su questo palco ci sentiamo attori a tutti gli effetti, stacchi da tutto il resto e ti dimentichi dei problemi mentali”. Doppia prima con un tutto esaurito per i detenuti del carcere di Marassi che al Teatro Ivo Chiesa fino al 20 aprile con il loro “Riccardo III”, che ha saputo incantare le diverse scuole superiori che hanno riempito tutte le file in platea e galleria al mattino, sfida ben più difficile rispetto a conquistare il pubblico della sera. L’opera di Shakespeare riadattata dalla regia di Sandro Baldacci e dallo sceneggiatore Fabrizio Gambineri è piaciuta moltissimo: Riccardo III, interpretato dal noto attore Igor Chierici alla sua decima partecipazione, è divorato dalla bramosia di potere e da vere e proprie manie di persecuzione che lo porteranno ad annientare non solo gli affetti più cari, ma anche complici e amici di sempre. E, come sottolinea la moglie Anna, interpretata da Ilenia Maccarrone, e la cognata, la Regina Elisabetta, portata in scena da Marcella Silvestri, alla fine i fantasmi del passato torneranno a tormentarlo. Ma l’uomo non ha imparato la lezione: a dimostrarlo sono le guerre, i tempi che corrono, le manipolazioni dei governanti delle informazioni e fa effetto che a sottolinearlo con questo spettacolo siano persone che stanno espiando le proprie colpe in una casa circondariale. Teatro Necessario, questo il nome dell’associazione che dal 2005 porta in scena spettacoli al di fuori del carcere, riesce a proporre spunti di riflessione importanti per tutti. E ogni anno questi spettacoli toccano le corde del cuore facendo emozionare il pubblico, complici la bravura degli attori non professionisti, ma anche dei tecnici - anch’essi in detenzione - e della grande squadra che da settembre ad aprile accompagna nelle prove questa ‘scatenata’ compagnia. Questa volta le luci di grande impatto e le musiche di Bruno Coli giocano un ruolo ancor più importante nella riuscita dello spettacolo. Sul palco anche Marco Gualco, Gaetano Santella, Rajan Marini. Spiegano i detenuti ai ragazzi, rispondendo alle loro domande curiose come sempre su quello che provano a stare sul palcoscenico. E questo è proprio il senso del teatro, uno spazio di libertà attraverso il quale si possono riscoprire anche le proprie abilità e ci si rimette in gioco: per alcuni, il dopo detenzione ha portato comunque un lavoro grazie proprio ad uno dei progetti formativi di Teatro Necessario. “Ognuno al di fuori di qui trova poi la propria vita con cui fare i conti, ma questa esperienza rimane ed è un’arricchimento che per molti non ci sarebbe mai stato”. E allora non mancate l’appuntamento con questo spettacolo che si potrà andare a vedere anche all’interno del Teatro dell’Arca, proprio all’interno del carcere, dal 26 al 28 aprile. Il linguaggio è sostanza: le parole sbagliate possono ghettizzare intere comunità di Diletta Bellotti L’Espresso, 16 aprile 2023 I termini che usiamo delineano il nostro pensiero. Sono veicolo potenziale di violenza o di cura. E riproducono concetti che interiorizziamo. Perciò devono essere ponderati. Liberiamoci da strutture superate per descrivere gli altri senza ingabbiarli. Il linguaggio è un agente potenziale di violenza o di cura. Le parole, soprattutto, delineano modi di pensare. Scrivendo riproduciamo norme, spesso non esplicite, diventate ormai prassi. Il linguaggio accademico, per esempio, è un produttore di sapere elitario ed escludente. Soprattutto ciò che viene scritto accademicamente, autorevole e legittimo per definizione grazie ai rapporti di forza che veicolano il messaggio, viene tramandato e interiorizzato, diventa un modo di pensare naturale: diventa norma. E nella norma, in ciò che è noto, si nasconde il politico. Perché non riusciamo a pensare soluzioni alternative per la trasmissione del sapere? Forme che siano veramente libere e accessibili? Forse una risposta la danno le sorelle Ko, autrici del libro “Afro-ismo” (Vanda edizioni, 2020), quando scrivono che parte del potere della società dominante sta nel portarti via l’immaginazione; così che la maniera in cui il mondo ti viene presentato è l’unica in cui potrà mai essere e la sola libertà che ti resta, dentro a questa configurazione, è cercare di sentirti a tuo agio al suo interno. Occorre configurare una nuova grammatica. Il linguaggio silenzia intere comunità di esseri viventi, descrivendole in modo inesatto o semplicemente, come spesso accade, non lasciando che siano le comunità a parlare per loro stesse. Per esempio, riflettiamo su termini che si usano correntemente come “minoranza” e “inclusione”. Parlare di minoranze alimenta un discorso oppressivo, perché rimane implicito che sono le istituzioni, spesso e volentieri, a rendere attivamente minoritarie le persone, sono loro a tracciare la linea. Infatti, la parola “minoranza”, usata come etichetta, pone l’onere sulle persone indicate come “diverse” piuttosto che porre l’attenzione sull’impegno delle istituzioni nel privare sistematicamente alcune popolazioni di diritti. Al contrario, parlare di “identità minorizzate” sposta l’attenzione da chi si arroga il diritto di poter definire la natura e le modalità di chi è diverso, di chi è in minoranza, a chi è considerato “diverso”. Questa semplice mutazione di forma, da “minoranza” a “minorizzato”, cambia, in realtà, radicalmente le carte in tavola. La “minoranza”, percepita come un agglomerato informe, si trasforma in identità possibili: per ognuna di queste si riconosce l’individualità. In secondo luogo, con “identità minorizzate” si sottolinea la direzione del potere, si esplicita la Storia del creare minoranze. Per quanto riguarda il termine “inclusione”, invece, Nelson Maldonado-Torres, professore di Letterature comparate e studioso dei processi della colonialità, ci suggerisce che “l’opposto dell’esclusione, in contesti strutturati dalla colonialità, non è l’inclusione, ma la decolonizzazione”. L’inclusione, in questi contesti, è solo un’altra forma di colonialità: è forzare dei movimenti verso un “noi riconosciuto” senza spianare davvero la strada, già nel linguaggio, già usando il termine “inclusione” attiviamo un processo. Quando si parla di linguaggio, dobbiamo fare lo sforzo di metterci in discussione, capire cosa è interiorizzato, naturalizzato. Dobbiamo “decostruirci” nel senso di osservare la struttura che ci compone e vedere se riusciamo a cambiare forma: a diventare più liberi, per esempio; a descrivere l’altro senza cristallizzarlo, senza ingabbiarlo. Sono affezionata a quei versi di Bergonzoni: “Ti parlerò nella mia lingua e poi la inghiottirò”. Se la politica è diventata uno show per distrarre i cittadini dai problemi quotidiani di Ray Banhoff L’Espresso, 16 aprile 2023 È come se stessimo abitando il Paese, ma ne fossimo inquilini passivi; come se l’amministrazione fosse solo burocrazia e i cittadini un plotone di distratti da tenere buoni coi fatti trasformati in show. Chissà cosa penserebbero di noi oggi i partigiani che tra poco festeggeremo, i padri costituenti. Domenica mattina la gente legge il giornale al bar (non la propria copia, non sia mai, quella del locale) stancamente, brancolando tra i risultati delle partite e cercando qualche fatto locale. Un tizio col cellulare a tutto volume guarda i video del sindaco su Instagram, io spio e mi sento morire. Il sindaco, con un tono di voce sempre sopra il limite del sopportabile, inaugura aiuole con la solennità di un capo di Stato di fronte a una grande opera pubblica; poi il sindaco, mentre il giardiniere è in pausa, monta su un trattore per tagliare l’erba e mette su un teatrino che dovrebbe far ridere, ma deprime. Sul suo account il primo cittadino è seguito da duemila persone, ma ha pubblicato più di trentamila post. Trentamila solo su Instagram, senza considerare le ore di dirette quotidiane su Facebook. Credo abbia passato più tempo sui social che sul territorio, nonostante abbia fatto due mandati; è stato condannato per vicende legate ai soldi, ma a nessuno interessa, anzi al giorno d’oggi è quasi la norma e non voglio nemmeno essere il suo giudice. Però, ecco, sono otto anni che fa il sindaco e nella nostra città non è mai successo niente. Mai una vera iniziativa culturale, mai un segno di vita, solo strisce blu dei parcheggi a pagamento, sensi di marcia che cambiano a caso e uno stanco incedere della vita di provincia, priva di ogni sorpresa. Pure priva di un sogno. Però abbiamo trentamila post auto-riferiti in cui un uomo con una carica pubblica gioca a fare il comico. Chi sono queste persone? Che senso ha ormai votare per affidare la cosa pubblica alle loro mani? Non faccio il nome solo perché di sindaci come lui ce ne sono tanti. E non solo sindaci, ma anche politici di più alto grado. La domenica continua. Scruto la gente distratta, sono tutti assuefatti dal telefono, nessuno mi nota, potrei camminare in mutande dentro al bar e a malapena se ne accorgerebbero. I tavolini sono pieni di Gratta e Vinci grattati e non vinti, nei bar la musica alta non riesce mai a coprire il rumore delle slot machine, i cui proventi vanno diretti nelle casse dello Stato e generano plotoni di ludopatici che non si fanno curare e dissipano patrimoni o piccole pensioni, distruggendo famiglie. È moralmente accettabile che lo Stato lucri su una dipendenza? Un assistente scolastico si lamenta per la multa che ha preso perché ha varcato una Ztl. Quasi 100 euro su uno stipendio di 1.100: non che non sia giusta la multa, ma per le sue tasche è spropositata, pure se lavora. Vorrei leggere il giornale anche io, ma sono distratto. Il sindaco, il giardiniere, la gente qui attorno mi interessano di più e improvvisamente capisco perché. È come se ci fosse la realtà dei media, delle grandi notizie, delle manovre politiche che si rivelano tutte effimere e poi quella fuori dalla porta di casa; come se la prima, invece che una cosa seria, fosse una forma di intrattenimento per distrarsi dalla seconda. La realtà della gente in solitudine e ai margini la racconta più “Chi l’ha visto?” che qualsiasi altra inchiesta. È come se stessimo abitando il Paese, ma ne fossimo inquilini passivi; come se l’amministrazione fosse solo burocrazia e i cittadini un plotone di distratti da tenere buoni coi fatti trasformati in show. Chissà cosa penserebbero di noi oggi i partigiani che tra poco festeggeremo, i padri costituenti. Chissà loro cosa direbbero al mio sindaco. Per gli incidenti stradali la prevenzione “on the road”, ma anche nelle scuole di Paola D’Amico Corriere della Sera, 16 aprile 2023 I progetti delle Csv in Lombardia, nel Veneto e in Abruzzo in collaborazione con le varie associazioni che riuniscono i familiari delle vittime. “Portiamo i ragazzi dall’altra parte della barricata”. La tragedia a Terni, il 13 luglio 2009. Riccardo poco più che sedicenne esce di casa in motorino per andare agli allenamenti di calcetto. Pochi metri e viene travolto da un’auto. Muore sul colpo. Alla guida un uomo che la patente non l’ha mai posseduta, positivo all’alcol test, recidivo. Accanto a lui in auto, c’è il figlio adolescente. Marcello Fiaschini, papà di Riccardo, è oggi presidente della sezione locale dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada (www.vittimestrada.org). Dedica ogni minuto del suo tempo libero alle attività di prevenzione, anche se questo vuol dire “ricordare” a ogni incontro. “Ed è - dice - molto doloroso, perché quando muore un figlio, il dolore non passa mai”. Ogni anno trascina una marea di ragazze e ragazzi in tornei sportivi: il memorial “In gioco per la vita”, intitolato a Riccardo. Un impegno a tutto campo, anche con l’Uepe (Ufficio esecuzione pena esterna) dove incontra chi le regole della strada le ha trasgredite. Dall’Abruzzo alla Lombardia, dove è attiva “Ragazzi on the road” (www.ragazziontheroad.it), associazione nata 15 anni fa nei comuni di Nembro e Alzano (Bergamo) e oggi presente in cinque province, che sta rivoluzionando il modo di educare alla strada e alla legalità. L’idea è nata dall’amicizia di Alessandro Invernici, 40 anni, con un agente di polizia incontrato sul luogo dell’ennesimo grave incidente stradale in Valseriana: “Ero un giovane cronista e pensammo di portare i ragazzi dall’altra parte della barricata, nelle centrali operative, sulle ambulanze, nelle shock room degli ospedali, con le squadre di vigili del fuoco, polizia locale, carabinieri, polizia. Al tempo a Bergamo c’era il prefetto Camillo Andreana che sposò l’idea”. Mille giovanissimi sono già stati protagonisti di questo potente scambio di ruoli con presa diretta della realtà. Sono ragazzi che educano se stessi e poi altri ragazzi. Un’esperienza coinvolgente e “senza filtri” che può anche essere inquadrata come alternanza scuola-lavoro/Pcto, tirocinio o volontariato. A Vicenza giovanissimi sopravvissuti a incidenti stradali, di cui portano però segni pesanti, incontrano altri giovani in un’ora intensa di spettacolo cui partecipano anche detenuti ergastolani del carcere di Rebibbia. Il tutto, con il supporto di psicoterapeuti mediatori. “Facciamo prevenzione portando ai giovani un pezzo di vita vissuta. Ma nello stesso tempo - spiega la presidente Edda Sgarabottolo, 65 anni, logopedista - diamo un messaggio ai ragazzi usciti dal coma che seguiamo nel percorso di riabilitazione con l’associazione Brain: possono vincere la paura e rimettersi in gioco. Infine, i detenuti ci dimostrano che nella vita si può sbagliare ma tutti abbiamo una seconda possibilità”. Sgarabottolo ha fondato “Brain onlus” (riabilitazionetraumacranico.it) nel 1993. “Come logopedista in ospedale mi occupavo dei ragazzi vittime di incidenti nel post coma. E ho deciso di far nascere l’associazione per seguirli una volta tornati a casa. Venivano lasciati soli, ma la riabilitazione può essere molto lunga. Il mio messaggio per loro è sempre stato: si può volare anche con un’ala sola, purché qualcuno ti insegni a farlo”. In campo anche Acat Bassano (www.acatbassano.it) contro tutte le dipendenze, che sul tema alcol-guida organizza serate evento analcoliche. “Quando si fa prevenzione - dice Mario Palano, presidente del Csv di Vicenza (www.csv-vicenza.org) - bisogna fare i conti con l’immaginario che i giovani hanno del viaggiare in auto o dell’uso di alcol e sostanze: la velocità, l’ebbrezza, fondamentalmente l’incoscienza. L’impegno del mondo del volontariato è essenziale per renderli consapevoli e riportarli alla realtà”. Migranti. Il governo cerca la mediazione nella maggioranza guardando alla linea del Quirinale di Paola Di Caro Corriere della Sera, 16 aprile 2023 Nel 2018 aveva bocciato le norme dei decreti Salvini. L’obiettivo del governo: l’”eliminazione” dell’istituto della protezione speciale per i migranti ma, spiegano fonti di governo, con “buonsenso” e senza forzature. Nessun “ritorno ai decreti Sicurezza”, come dalla Lega proclamavano due giorni fa. E, per ora - parole di Giorgia Meloni - un “obiettivo” da raggiungere: l’”eliminazione” dell’istituto della protezione speciale per i migranti ma, spiegano fonti di governo, con “buonsenso” e senza forzature. Che non piacerebbero al Colle, come non erano piaciute al capo dello Stato le disposizioni previste dai decreti Sicurezza fortemente voluti da Matteo Salvini nel 2018, rimandati indietro con ben due lettere di accompagnamento e poi in parte bocciati dalla stessa Corte costituzionale. Anche stavolta, assicurano, Sergio Mattarella è molto attento a ciò che sta accadendo su un tema delicatissimo come quello dell’immigrazione, per il quale il governo è arrivato a dichiarare lo stato d’emergenza per sei mesi. Il presidente della Repubblica, come è ovvio, non partecipa alla stesura di testi, e oggi come in ogni occasione ha massimo rispetto per le scelte del Parlamento. Ma, soprattutto dopo la tragedia di Cutro, una linea di massima da seguire la dà, anche per evitare di incorrere negli stessi rilievi di cinque anni fa. Da giorni quindi sono in corso triangolazioni e approfondimenti tra il Quirinale, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani per arrivare a un testo che preveda sì - come è politicamente necessario per una coalizione che del contrasto all’immigrazione irregolare ha fatto uno dei temi centrali della legislatura - una “stretta forte”, perfino uno “svuotamento” della protezione per i migranti che non abbiano i necessari requisiti per accedere al permesso di lavoro o all’accoglienza; ma senza forzature e, come chiede il Colle, sempre “nel rispetto dei diritti umani”. Per prima cosa, dunque, non è stato il governo a presentare modifiche sulla protezione speciale al decreto legge varato subito dopo la tragedia di Cutro, che infatti non le prevedeva: il compito è stato affidato ai partiti, con l’obiettivo di arrivare - dopo la discussione e i voti sui vari emendamenti - ad un testo che mantenga un certo equilibrio. E che preveda, raccontano, il recepimento delle linee guida del Colle, anche rispetto al sub-emendamento della maggioranza, a prima firma Gasparri. Un nodo, trapela, è quello di una proroga dell’attuazione dell’istituto speciale, che sotto il governo Conte 2 fu concesso grazie alle modifiche volute dal ministro Lamorgese in maniera molto più estesa di quanto fosse avvenuto fino ad allora. Anche chi lo ha ottenuto sulla base delle vecchie norme, qualora le cause dell’ingresso perdurino (carestie, guerra), potrà prorogarlo per sei mesi. Altro punto è quello dei trattati bilaterali con i singoli Paesi: il Quirinale si raccomanda che vengano rispettati, non superati con una nuova legge. Quindi si procederà con molta attenzione, sanando eventuali criticità con una riformulazione del governo del sub-emendamento, o con la presentazione da parte della maggioranza di un testo bis. Insomma, Meloni ha assicurato che tutto si farà “con buonsenso”, pur senza venir meno all’impegno di una linea dura che, assicurano anche i suoi, sarà seguita perché “su questa materia non esiste nessuno che va a traino di nessuno: la pensiamo tutti allo stesso modo”. Il messaggio, dunque, è che non è la Lega a imporre diktat, ma è tutto il governo che - ripete la premier - non permetterà che “l’Italia diventi l’hub d’Europa”. E si voterà un testo, assicurano, che non andrà contro i paletti imposti dal capo dello Stato: piuttosto sulla protezione umanitaria si tornerà a quello che lo stesso Mattarella non aveva ostacolato, cioè alla legislazione antecedente a quella del governo Conte 2. Con più severi criteri e un altro atteggiamento visto che, spiega il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti “la situazione è cambiata, le crisi di Libia, Tunisia e Turchia ci impongono di mettere un freno. Portando comunque avanti il piano Mattei, o meglio il piano Meloni per l’Africa, che l’Europa, contiamo, vorrà condividere e sostenere assieme a noi”. Migranti. “Protezione speciale, sono io che l’abolisco” di Aldo Fabizzi Il Manifesto, 16 aprile 2023 Dall’Etiopia, Meloni rivendica a sé gli emendamenti voluti dalla Lega. Salvini rilancia: li ho voluti io. E tutte le destre ripetono la falsità che solo l’Italia ha una forma di protezione del genere. Schlein: “È una vergogna”. La rivendicazione di Giorgia Meloni arriva da Addis Abeba, subito dopo le foto abbracciata ai bambini africani e l’inno d’Italia fatto cantare a ragazze e ragazzi etiopi. “Io mi do come obiettivo l’eliminazione della protezione speciale, perché si tratta di una protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa”. Dunque direttamente la presidente del Consiglio mette la firma sull’operazione all’origine imposta da Salvini al resto della maggioranza. L’emendamento al decreto Cutro, arrivato venerdì in prima commissione al senato, del resto lo hanno firmato i capigruppo di tutti e tre i partiti della destra di governo. Riporta le lancette indietro ai decreti Salvini del governo Conte uno. Dunque è il capo leghista a dover correre a riappropriarsi del successo: “Grazie a un emendamento voluto dalla Lega stop alla protezione speciale allargata a dismisura dalla sinistra - dichiara lesto -. Per colpa di questo status presente unicamente nel nostro Paese l’Italia era diventata una meta ancora più ambita”. Per tutta la giornata di ieri, diversi esponenti di maggioranza ripetono la falsa informazione. Come il capogruppo di Fratelli d’Italia al senato, Malan: “Aboliamo norme permissive che abbiamo ereditato dai governi precedenti e che non esistono in alcun altro stato europeo. La protezione speciale è un passepartout per qualsiasi immigrato irregolare”. In realtà basta dare un’occhiata alle statistiche di Eurostat per scoprire che sono al contrario una minoranza (undici su trentadue censiti) i paesi europei che non hanno una forma di protezione ulteriore rispetto al diritto di asilo (humanitarian e subsidiary protection status). E che l’Italia non è il primo paese per numero di protezioni speciali riconosciute, neanche in termini assoluti (è la Germania). Ma non fa niente, Fratelli d’Italia va avanti, interessata evidentemente a non lasciare alla Lega quello che considera un dividendo elettorale. Per il capogruppo alla camera Foti cancellare la protezione speciale è addirittura “un dovere nei confronti del popolo italiano”. Ma la competizione con la Lega potrebbe non essere finita, visto che il partito di Salvini ha annunciato l’intenzione di presentare ulteriori emendamenti quando il decreto arriverà in aula. Meloni se la cava così: “È una materia complessa ed è normale che ci siano diversi emendamenti”. Sullo stop alla protezione speciale reintrodotto dal governo Conte due nel 2020 però non ci sono più incertezze: “C’è una proposta di maggioranza nel suo complesso, non è un tema su cui ci sono divergenze”, chiude il discorso la presidente del Consiglio dall’Etiopia. Dall’Italia arriva la reazione della segretaria del Pd Elly Schlein, tornata alle iniziative pubbliche (ieri a Siena) dopo lo “stacco” pasquale. “È una vergogna che vogliono cancellare la protezione speciale, ci avevano già provato e si era espressa anche la Corte costituzionale sui decreti Salvini. Vogliono riportarci là”, dichiara. In realtà la Corte nella sentenza 194 del 2019 sul punto della protezione umanitaria non si è pronunciata, mentre nella sentenza 186 dell’anno successivo a fatto cadere il divieto all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. “Noi - aggiunge Schlein - ci opporremo con forza alla mancanza di una visione di politica migratoria che sia in grado essere efficace lungimirante e rispettosa dei diritti fondamentali delle persone”. Critico anche il segretario di +Europa Riccardo Magi: “È persino peggio di un ritorno ai decreti Salvini. Il governo aumenta gli irregolari di migliaia e smantella il sistema di accoglienza, aumentando i centri che fanno un tipo di accoglienza peggiore, come hotspot e cpr, a dispetto di un sistema di accoglienza diffuso Sai”. Contrario anche il delegato all’immigrazione dell’Associazione dei comuni d’Italia, il primo cittadino di Prato Biffoni: “Sono misure che in passato hanno complicato le cose con ricadute negative in termini di degrado, marginalità e insicurezza. Le urgenze sono altre, come accorciare i tempi di rilascio dei permessi di soggiorno che oggi sono lunghissimi e rallentano i percorsi di autonomia”. Migranti. Come nasce, chi protegge e perché rischia di scomparire la tutela del permesso speciale di Flavia Amabile La Stampa, 16 aprile 2023 Nel 2022 sono stati 10 mila i permessi rilasciati. Ora, se la norma sarà cancellata, perderanno ogni forma di protezione. Per la Lega e Fratelli d’Italia la protezione speciale è “l’unicum”, “l’anomalia”, il grande privilegio da eliminare. Con un emendamento al decreto legge Cutro, la maggioranza ha trovato un accordo per far sparire questo permesso temporaneo che - sempre secondo Lega e Fratelli d’Italia - ha creato una sorta di sanatoria, un’ancora di salvezza indiscriminata per chi è irregolare. Cancellarlo vuol dire uniformare la legislazione italiana a quella del resto d’Europa, assicurano. Affermazioni che vengono liquidate come “populismo” e “demagogia” da parte degli addetti ai lavori. Cancellare questa forma di protezione dalle norme ordinarie - rispondono - è del tutto inutile: chi ne ha diritto si vedrà comunque assicurata la tutela da parte dell’Italia. I requisiti per il permesso - Il permesso di soggiorno per protezione speciale è stato introdotto nel 2018 quando ministro dell’Interno era Matteo Salvini che decise di abolire la protezione umanitaria, ed è stato ampliato nel 2020 quando al Viminale c’era Luciana Lamorgese. Viene rilasciato, sulla base di alcuni presupposti previsti dalle norme, ai cittadini stranieri che non ottengono dalla Commissione territoriale lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria . Oppure i cittadini stranieri possono chiedere il permesso direttamente alla Questura. Il permesso ha la durata di due anni e lo può ottenere chi rischia di essere espulso o respinto verso uno Stato dove sarebbe oggetto di “persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di identità di genere di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”. Oppure lo ottiene chi rischia di essere mandato in un altro Stato dove non sarebbe tutelato dalla persecuzione. Si ottiene la protezione speciale anche quando, in caso di espulsione, lo straniero “rischi di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. L’ultimo presupposto è il caso in cui l’espulsione rappresenti “una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”. L’amministrazione, quindi, dovrà tenere di conto dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese di origine. Diecimila tutelati nel 2022 - Dice Nazzarena Zorzella, avvocata dell’Asgi, l’associazione di studi giuridici sull’immigrazione: “Non è vero che la protezione speciale sia un’anomalia italiana. Sono 24 su 27 Paesi Ue a riconoscere questo tipo di protezione. Ogni Stato ha la facoltà di introdurre delle deroghe rispetto alle regole esistenti per ottenere permessi di soggiorno per motivi di carattere umanitario. Nel 2022 sono stati 10 mila i permessi di protezione speciale rilasciati. Sono il 21 per cento rispetto al totale delle forme di protezione, la forma di tutela più diffusa. Sono persone che lavorano, sono impiegati nel settore della metallurgia, dell’alimentare, della logistica, sono risorse che danno il loro contributo all’economia italiana. In caso di abrogazione della protezione, rischierebbero di tornare in una condizione di irregolarità. Si finisce per tornare ancora una volta indietro di anni e di non gestire mai razionalmente una realtà di cui l’Italia ha bisogno”. Una cancellazione inutile - Antonello Ciervo, anche lui avvocato dell’Asgi: “Non è con una legge dello Stato che si può abrogare quello che prevedono la Costituzione, la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Giustizia”. Se la protezione speciale sarà abrogata si avrà - per chi ne aveva diritto - la caduta in un buco nero delle garanzie ai cittadini stranieri, un aumento del contenzioso giudiziario, dell’inefficienza della pubblica amministrazione. La realtà non si può abolire. La si può mettere sotto il tappeto ma dopo un po’ anche il tappeto non potrà più nascondere tutta questa polvere e la situazione esploderà. L’Italia non è in grado di espellere tutte le persone presenti sul territorio che non avranno più la protezione. Si avranno persone che non potranno integrarsi più socialmente, che faranno ricorso ingolfando i tribunali, che ricominceranno a lavorare in nero e diventeranno degli strumenti ricattabili nelle mani della criminalità organizzata. Vuol dire creare un contesto di illegalità che aumenterà in modo esponenziale”. Amnesty International: “I diritti nel mondo sono sotto attacco” di Daniele Mastrogiacomo L’Espresso, 16 aprile 2023 Per Riccardo Noury è a rischio soprattutto la libertà di manifestare. Dall’Iran a Israele, dal Sud America al Nord Africa, le proteste vengono represse nel sangue. “I diritti nel mondo sono sotto attacco”, ci dice Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International di cui fa parte dal 1980. Un osservatore attento e puntuale su una tendenza che mette a rischio i valori fondamentali della democrazia. Il rapporto appena pubblicato sul biennio 2022-2023 lo conferma. In che modo vengono attaccati? “Quest’anno ricorrono i 75 anni della dichiarazione dei Diritti umani. Sono passati quasi inosservati. Il principale era il diritto alla protesta. Nel 2022 ce ne sono state in 87 Paesi. All’inizio pacifiche, sono poi scivolate nella violenza. E in quasi tutte è stata usata una forza eccessiva per reprimerle. Questo si traduce nel restringere sempre più ampi spazi di libertà. Si sopprimono perché producono richieste di cambiamenti. Guardiamo cosa è successo in Israele e cosa sta accadendo in questi giorni in Francia. È preoccupante”. Debolezza dei governi o rinuncia al confronto? “Negli ultimi 15 anni ci sono stati due momenti chiave per capire l’attuale crisi. Nel 2010 con l’avvio delle occupy, le primavere arabe, le tendopoli allestite in tutto il mondo. Avevano le stesse parole d’ordine: libertà, fine della corruzione, soprattutto riconquista della dignità. Quindi, il gelo. Fino al 2018 le persone erano convinte di potersi esprimere con un click o un like. Nel 2019 scatta la scintilla di cui non conosciamo l’origine. Il mondo intero, di colpo, ha capito che per ottenere delle conquiste bisognava impegnarsi. Con la testa e con il cuore. Milioni di persone sono scese in piazza chiedendo libertà e cambiamenti. Pensiamo a Hong Kong, al Cile, alla Colombia”. La crisi del voto, si è persa fiducia nella democrazia? “È entrata in crisi la rappresentazione più che la democrazia. Si è parlato poco dell’Algeria. È nato un movimento, l’Hirak, che è riuscito a dare una spallata a una parvenza di potere gestita da una persona espressione dei militari. Un movimento imponente che ha trascinato mezzo Paese per le strade. Lo Stato ha reagito con una repressione feroce”. Per paura? “Per paura del cambiamento. Le persone hanno capito che dovevano mobilitarsi perché nei Palazzi non trovavano una sponda. L’Iran è esemplare. Ha vissuto e vive una rivolta nuova. Non sono più le donne che si ribellano a 44 anni di discriminazione. La novità sono gli uomini che le affiancano nelle proteste. Questo terrorizza il potere. Le autorità hanno rinunciato alla mediazione. Sparano sulle folle per fare più male possibile. Non c’è dialogo, confronto. Si uccide. Con tattiche che abbiamo visto adottare sempre più spesso dal 2019: proiettili di gomma all’altezza degli occhi per gli uomini e agli organi genitali per le donne, fino alle granate usate in Iraq”. Stessa tendenza con la criminalità? Il Salvador sembra diventato una prigione. “Per combattere la violenza diffusa assistiamo alla normalizzazione dello stato di emergenza. Quando verrà abrogato, i codici ordinari saranno così intrisi di norme illiberali che nessuno ci farà più caso. Il caso Bukele, presidente del Salvador, ha tutte le premesse per diventare il vero emblema del 2022. L’1,5 per cento della popolazione è in carcere, 132 detenuti sono morti sotto tortura. Meno diritti e più sicurezza”. Ma Bukele ha enorme consenso. “Deve però tenere in carcere per tutta la vita chi arresta perché quando esce è più infuriato di prima; crea delle zone franche e altre totalmente impoverite. Molte delle persone finite dentro, magari solo per un tatuaggio al polso, erano quelle che davano da mangiare alle famiglie che ora si trovano senza più sostegno”. Pugno duro anche con i migranti. Frustati o deportati, bruciati nei centri, morti in mare… “L’approccio è diverso. È più sottile. Dopo i muri si usano i Paesi di partenza come dighe umane”. Accade con il Messico. “Non dimentichiamoci che questa pratica è iniziata con l’Australia. Per fronteggiare l’ondata migratoria si sono pagate la Papua Nuova Guinea e l’isola di Nauru. In Europa si è applicata con la Turchia nel 2016 e l’Italia con la Libia nel 2017. Stessa cosa accade nelle Americhe. È il gioco delle palline da ping pong. Da Nord a Sud. Tra Usa e Canada è stato aggiunto un protocollo su un accordo vecchio di 15 anni. Accolto soltanto chi arriva da un Paese sicuro. E il Canada considera tale solo gli Usa. Tutti gli altri trovano un muro e vengono spediti indietro. Dagli Usa tornano in Messico che a sua volta li respinge fino ai Paesi del Triangolo della morte e poi ancora in Venezuela o ad Haiti. La strategia è chiara: respingere e logorare. Lo vediamo nei Balcani”. Ma l’emergenza resta. Perché è un fenomeno epocale. “Non c’è nulla di nuovo in questa strategia. Spostare progressivamente le frontiere meridionali e orientali nei Paesi di partenza è una vecchia tesi. Oggi è applicata in modo più spregiudicato. L’Italia coopera con gruppi di persone che gestiscono pezzetti di territorio in Libia. È gente che a più riprese è stata denunciata per crimini contro l’umanità e che è sotto indagine da parte della Corte penale internazionale. Collaboriamo con dei criminali per frenare il flusso migratorio. Lo dice l’Onu, non Amnesty”. A quale prezzo? “A qualsiasi prezzo. Aiutare un Paese come la Tunisia perché rischia il default in cambio di un blocco delle partenze fa parte della cooperazione. Può sembrare un accordo cinico ma ci può stare. L’errore è non rimuovere le cause che spingono le persone a fuggire: l’odio razzista instillato da chi governa nei confronti delle popolazioni subsahariane. Se non affronti questa verità non risolvi il problema. Non fai altro che dare soldi a un sistema che alimenta ciò per cui stai finanziando”. Aiuti allo sviluppo, la denuncia di Oxfam Italia: “Un aumento illusorio” di Francesco Petrelli* Corriere della Sera, 16 aprile 2023 Sulla carta sono soldi per i Paesi più poveri, di fatto in buona parte non escono dai confini del Paese donatore. È la denuncia di Oxfam Italia, secondo cui l’aumento globale da 186 a 202 miliardi di Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) registrato lo scorso anno è solo illusorio: quasi il 30& di quei fondi servono per “costi dei rifugiati nel Paese donatore”. I dati presentati nei giorni scorsi dall’ Ocse sull’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps) europeo per il 2022 ci propongono contraddizioni e incongruenze. Secondo il quadro presentato dal Comitato Sviluppo dell’organizzazione che raggruppa gran parte dei Paesi industrializzati, tradizionali donatori, si registra un incremento dell’Aps globale del 13,6 % : da 186 miliardi di dollari nel 2021 a 204 nel 2022. La realtà è ben diversa. Di questi 204 miliardi complessivi quasi 30 sono per la voce “costi dei rifugiati nel Paese donatore”, più 134% rispetto al 2021. Si tratta di risorse importanti naturalmente, ma da anni contabilizzate impropriamente nei bilanci della cooperazione, in quanto non varcano i confini del Paese donatore, coprendo la gestione delle spese di accoglienza dei richiedenti asilo. Non contribuiscono quindi alla lotta alla povertà, alla fame o a creare nei paesi del Sud globale uno sviluppo più equo e sostenibile. Il secondo fattore fuorviante è in relazione alle risorse per la crisi umanitaria in Ucraina prodotta dalla guerra, con il più grande esodo di profughi dal secondo dopo guerra in Europa, che sono state “reindirizzate” in gran quantità dall’Aps per far fronte all’emergenza (16 miliardi dollari, pari all’8% sul totale dell’APS globale). Aiuti necessari, che dovrebbero essere addizionali, altrimenti il rischio è che gli effetti della guerra in Europa lo paghino i Paesi più poveri e fragili. Significativo che in questo quadro di aumenti quantitativi gli aiuti per l’Africa diminuiscano dell’8%. E l’Italia non fa eccezione, se non va peggio. Il nostro Paese passa infatti dallo 0,29% del 2021 allo 0,32%del 2022 di Aps in rapporto al reddito nazionale lordo, con un aumento sulla carta del 15%, cioè da 6,085 miliardi di dollari a 6,468. Come sostiene però la stessa Ocse nei giudizi sulle tendenze dell’aiuto dei vari paesi: “Si tratta di un aumento esclusivamente dovuto alla quota dei costi dei rifugiati nel Paese donatore, senza il quale l’aiuto allo sviluppo diminuirebbe”. Questi costi sono passati da 557 milioni a quasi 1 miliardo e mezzo e rappresentano il 23% del totale dell’intero Aps italiano. Certamente pesa l’aumento degli arrivi attraverso il Mediterraneo: da 67.000 nel 2021 ab104.000 nel 2022 e il reindirizzamento di 359 milioni di dollari per la crisi Ucraina. Resta però un’evidenza lampante: sono risorse non destinate ai Paesi poveri. Tutto ciò mentre, nonostante i proclami fatti su “Piani Marshall” o” Piani Mattei” gli aiuti italiani verso l’Africa si sono stati più che dimezzati, passando da 1,030 miliardi di dollari nel 2021 a 491 milioni di dollari nel 2022. Lo stesso vale per i fondi destinati ai cosiddetti Paesi a basso tasso di sviluppo (Ldc), che crollano da 925 milioni di dollari nel 2021 a 335 nel 2022”. Tra i Paesi donatori Ocse l’obiettivo dello stanziamento dello 0.70% in Aps resta un miraggio, così come il mantenimento degli impegni presi oltre 50 anni fa e ribaditi nel 2015 con l’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile. In particolare quello di raggiungere lo 0.70% rispetto al reddito nazionale lordo in aiuto allo sviluppo: si allontanano gli obiettivi di sostenibilità sociale, ambientale e di lotta alla povertà estrema, considerando che questi indicatori peggiorano in 9 Paesi su 10. Secondo le stime di Oxfam questa promessa mancata è costata ai Paesi a basso e medio reddito 6.500 miliardi di dollari dal 1970 al 2021. Quello a cui stiamo assistendo non solo è un gioco a somma zero o negativo, ma denuncia una mancanza di visione e di assunzione di responsabilità, che mette a rischio il futuro dell’intero Pianeta. Per queste ragioni sosteniamo la Campagna 070, promossa dalle reti delle ONG italiane, nel chiedere al Governo e al Parlamento che si inverta la tendenza e si cambi rotta, a partire dalla prossima Legge di bilancio. *Oxfam Italia Le responsabilità del governo italiano nella crisi tunisina di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 16 aprile 2023 L’associazione sportiva di Ghardimaou è stata sciolta dalla Lega calcio di Bizerta non per sanzione disciplinare o per decisioni della giustizia ma a causa dell’emigrazione clandestina di circa 70 giocatori. La fine di questo club storico, fondato nel 1922, per mancanza di giocatori è il segno tangibile di come la fuga dalla Tunisia stia investendo tutto il paese. A partire sono soprattutto giovani che lasciano interi quartieri di città come Kairouan o Gafsa svuotati di una generazione, da un giorno all’altro. Partono rischiando la propria vita con il miraggio di una vita migliore in Italia o in Europa. Dalle coste tunisine partono disoccupati, minatori o giocatori di calcio. Nemmeno i naufragi con decine di morti riescono a fermare questa evasione di massa alimentata anche dai profughi provenienti dall’area sub-sahariana. Non tutti i tunisini che lasciano il paese ricorrono a mezzi di fortuna: migliaia di medici, ingegneri, giornalisti, architetti lo fanno con un regolare visto. I tunisini non credono nel futuro del loro paese e soprattutto nel presidente Kais Saied che lo ha portato sull’orlo della catastrofe. Come può pensare il governo italiano di fermare questa ondata migratoria con un fantomatico “piano Mattei” per l’Africa che conta solo sui soldi del Fondo monetario internazionale tanto da indurre il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani a proporre all’organismo di iniziare lo stanziamento di una tranche dei fondi senza pretendere dal governo tunisino il rispetto delle condizioni legate alle riforme. “Le riforme seguiranno”, ha detto il ministro degli esteri tunisino Nabil Ammar in visita a Roma il 13 aprile, mentre il presidente tunisino, lo scorso 6 aprile, aveva annunciato di non accettare i diktat del Fmi. Il prestito alla Tunisia di 1,9 miliardi di dollari, di cui si parla dallo scorso ottobre, è condizionato da un piano di riforme per la ristrutturazione di oltre cento imprese pubbliche pesantemente indebitate e dal taglio delle sovvenzioni all’energia e ad alcuni beni di prima necessità, molti dei quali sono diventati introvabili. Persino l’acqua è razionata a causa della siccità. Il rifiuto delle condizioni poste dal Fmi non è motivato solo dal rifiuto - sostenuto da alcuni consiglieri del presidente - di un sistema di regole imposte dall’occidente, ma dipende anche dai timori che un taglio delle sovvenzioni potrebbe provocare il ripetersi di quella “rivolta del pane” scatenata contro Burghiba nel 1980 quando aveva tagliano le sovvenzioni alle derrate alimentari. Contro la ristrutturazione delle imprese pubbliche invece si è espresso il sindacato che teme la loro privatizzazione. Sebbene non ci sia stata ancora la rinuncia formale al prestito Fmi e il governo tunisino continui a trattare, i tempi stringono: la Tunisia è indebitata per circa l’80 per cento del Pil. La possibilità ventilata dal presidente di trovare una soluzione recuperando i soldi sottratti al governo dalla corruzione dei tempi di Ben Ali, che ammonterebbero a circa 13 miliardi di dinari (l’equivalente di 4 miliardi di euro), non appare praticabile. Alla Tunisia sull’orlo della bancarotta restano poche alternative: la possibilità di prestiti bilaterali o la scelta perorata dall’entourage del presidente di un avvicinamento ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). La prima, che troverebbe sicuramente il favore dell’Algeria (che ha già proferito offerte), rischia di rendere la Tunisia troppo dipendente dal paese vicino. Per quanto riguarda invece i Brics, i timori riguardano le conseguenze che potrebbero avere forti investimenti della Cina, già ben posizionata in tutta l’Africa. L’Italia segue da vicino la situazione della Tunisia perché teme un ulteriore aumento degli arrivi di profughi, ma la sua politica di contenimento se non di blocco, tante volte sbandierato da Meloni e Salvini, non ha possibilità di realizzarsi. Il sostegno al regime autoritario e xenofobo di Kais Saied - condannato anche dal Parlamento europeo - è cinico e spietato. E la presidente Giorgia Meloni che sfrutta la memoria di Enrico Mattei, il cui operato è incompatibile con l’ideologia della premier, e si reca in Etiopia, dove si fa fotografare in stile coloniale abbracciando bambini neri senza dire una parola sull’eredità nefasta del generale Graziani, mostra solo la sua spregiudicatezza nell’approfittare delle difficoltà di paesi in crisi solo per realizzare i propri interessi. Sudan. Assalto a Khartoum: i berretti rossi del generale Dagalo cercano di bloccare il processo democratico di Giordano Stabile La Stampa, 16 aprile 2023 L’obiettivo è scalzare il rivale Abdel Fattah al-Burhan. Il bilancio degli scontri salito a 56 morti e 595 feriti. I Berretti rossi sono tornati. E hanno riportato il terrore nel cuore di Khartoum, come quattro anni fa, quando loro, i miliziani del generale Mohamed Hamdan Dagalo, trucidarono a colpi di mitragliatrice centinaia di studenti accampati per protesta davanti al quartier generale delle Forze armate. Ma ieri l’obiettivo del massacratore del Darfour, già braccio destro dell’ex dittatore ricercato dall’Aja Omar al-Bashir, era un altro. Ovvero il nuovo uomo forte del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan. L’ultimo bilancio degli scontri (domenica mattina alle 8, ora italiana) è di 56 morti e 595 feriti. La primavera sudanese del 2019 aveva portato a una lentissima transizione verso la democrazia, un governo misto civile-militare che doveva poi lasciare il posto alla società civile, protagonista della rivoluzione culminata a fine giugno con la “marcia del milione”, l’ultima spallata al regime. Al-Burhan, fautore anche della normalizzazione dei rapporti con Israele, era pronto. L’11 aprile doveva essere firmato l’accordo per il nuovo esecutivo tutto civile. Ma qualcuno ha bloccato tutto. E quel qualcuno è Dagalo. Nei giorni scorsi la gente era tornata nelle strade. Con lo stesso grido di quattro anni fa, “houkoume madaniyeh”, “governo civile”, libertà, diritti. Al-Burhan ha cercato di convincere Dagalo a un passo indietro. Poi, la sera di venerdì, ha deciso di sciogliere il nodo con la forza. Ha decretato l’assorbimento dei Beretti rossi, la milizia personale di Dagalo, conosciuta anche come Rapid Support Forces o Rsf, nelle forze armate regolari. Un modo per disarmare il rivale. Che ha reagito con la massima brutalità, il suo marchio di fabbrica. Ieri, prima dell’alba, ha lanciato l’assalto ai centri del potere nella capitale, alla confluenza del Nilo Azzurro con il Nilo Bianco. Cannonate contro il comando dell’esercito, e poi l’assalto all’aeroporto internazionale e al palazzo presidenziale, dove risiede lo stesso Al-Burhan, subito conquistati. Al-Burhan, presidente del Consiglio esecutivo civile-militare però non c’era. Si era spostato, dopo aver annusato il pericolo, in una caserma con militari a lui fedeli. E ha lanciato il contrattacco. Si sono alzati in volo i vecchi cacciabombardieri di fabbricazione sovietica e hanno cominciato a bombardare le postazioni dei Berretti rossi. Un golpe mezzo fallito, e una guerra civile fra fazioni militari a pieno regime, che ha fatto piombare il Sudan nella sua peggiore crisi da quattro anni. Gli attivisti della rivoluzione però non disperano. Sono convinti che Al-Burhan, con l’appoggio della popolazione, alla fine prevarrà. “Ci sono scontri in tutti tre i settori della città - conferma alla Stampa uno di loro, Mohamed Youssif -. I ponti sono bloccati e le fazioni si sparano con l’artiglieria pesante”. I miliziani di Dagalo puntano a isolare la capitale e a impedire alla gente di uscire, con il terrore, i morti sarebbero già decine, mentre dai palazzi colpiti da bombe e proiettili di artiglieria ieri sera si levavano dense colonne di fumo. Muhameda Tulumovic, direttrice di Emergency nel Paese, racconta che ha dovuto chiudere l’ospedale pediatrico, e il personale del centro di cardiochirurgia. Salam, è bloccato perché “è impossibile spostarsi” nella capitale. Uno scenario di guerra che preoccupa i Paesi vicini, Europa e Stati Uniti. Il segretario di Stato Antony Blinken ha rivolto un appello affinché “cessino subito le violenze”, senza però accusare nessuno. Anche l’equilibrio nei rapporti internazionali, come quello interno, è precario e variabile. Dagalo, come il suo mentore Al-Bashir, mai consegnato all’Aja, aveva un ventaglio di alleati che andava dagli Emirati alla Russia. Ancora a febbraio è andato in visita a Mosca. E parte dei suoi miliziani sarebbe stata addestrata dalla Wagner. Dopo la rivoluzione del 2019 il Sudan si è invece riavvicinato agli Stati Uniti fino a impegnarsi a firmare un accordo di pace con Israele “entro la fine del 2023”. Russi e alleati nel Golfo non hanno però mai abbandonato del tutto la presa. E i loro rapporti privilegiati con Dagalo, anche se ieri il Cremlino ha esortato alla “tregua”. Dalla battaglia di Khartoum dipendono anche i rapporti di forza nel Sahel e in Africa orientale. Ecuador. Guerriglia in carcere, morti 12 detenuti agi.it, 16 aprile 2023 Ore di sparatorie nel penitenziario più grande del Paese, dove dal 2020 oltre 450 detenuti sono stati uccisi negli scontri tra bande rivali. Sono dodici i detenuti morti durante una rissa nel carcere più grande dell’Ecuador, la Penitenciaria del Litoral. La procura ha “avviato un’indagine preliminare per identificare i responsabili della morte di 12 persone private della libertà, all’interno della Penitenciarìa del Litoral, a Guayaquil”. Lo scontro, iniziato nel primo pomeriggio e durato fino alla tarda serata di ieri, quando dall’esterno si sono uditi colpi di arma da fuoco, ha coinvolto i detenuti delle ali 3, 5, 8 e 9. Due giorni prima, 6 detenuti del reparto 5 dello stesso carcere sono morti impiccati. Il direttore del penitenziario, Ronald Sanchez, ha dichiarato che non sono state registrate evasioni durante la sanguinosa rissa. La sparatoria è durata circa 4 ore e mezza e sono state utilizzate pistole da 9 mm e fucili. Massacri e sovraffollamento - Mentre il lavoro di identificazione continua all’interno del carcere, le famiglie dei detenuti sono in disperata attesa di informazioni all’esterno. In mezzo alla disperazione, le richieste di notizie da parte dei parenti si sono unite in un angosciato coro e la richiesta al direttore del carcere “di farsi vedere, di comunicarci una lista dei morti: non sono animali, sono esseri umani”. La Penitenciarìa del Litoral è stata teatro di alcuni dei più grandi massacri registrati nelle carceri dell’Ecuador dal 2020, in cui più di 450 detenuti sono stati uccisi a causa degli scontri tra bande rivali che si contendono il controllo interno delle prigioni. A ciò si aggiungono le condizioni carcerarie, con un sovraffollamento che in alcuni casi può raggiungere il 50% della capacità del carcere.