La legge riempi-carceri di FdI: “Addio alle pene alternative” di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2023 Proposta di 13 senatori per cancellare la “messa alla prova”. Non si tratta di fronda. Né di un caso politico. Perché la proposta di legge firmata da 13 senatori meloniani per il ripristino della “certezza della pena” e per lo stop a “svuota-carceri” e “pene extra-murarie” non è certo un’iniziativa “bollinata” da via della Scrofa. Non parte da Giorgia Meloni né dal suo responsabile Giustizia, il sottosegretario Andrea Delmastro. Lo si potrebbe definire un moto che viene dalla “pancia” del partito. Lo firma un gruppo di senatori capitanato dal segretario di presidenza a Palazzo Madama, il campano Antonio Iannone, che comunque non è una figura marginalissima: è tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia al Senato. Con lui un drappello di colleghi solo due dei quali assegnati alla commissione Giustizia e dunque “specialisti” della materia. Ma l’iniziativa lascia pensare proprio perché sfugge a una traiettoria strategica precisa: sembra attestare non la volontà di Meloni e del suo gruppo dirigente, quanto un’attesa quasi silenziosa, ma diffusa tra i quadri del partito, per una politica più restrittiva in materia penale. Soprattutto riguardo a reati come i “borseggi”, i “furti in abitazione”, le “truffe” e altre fattispecie che, si legge nella relazione introduttiva, si moltiplicherebbero per via di una “inarrestabile e incontrollata ondata di immigrazione che sta travolgendo l’Italia” e anche per i “provvedimenti svuota-carceri degli ultimi governi”. La proposta di legge, depositata a fine 2022, non è stata neppure ancora affidata alla sua destinazione naturale, la commissione Giustizia presieduta da Giulia Bongiorno. Il che conferma che non si tratta di una priorità, non solo per Carlo Nordio ma anche per Meloni e Delmastro. Certo si tratterebbe di una vera e propria controriforma rispetto sia alla legge Cartabia sia ai tentativi di decongestionare i penitenziari compiuti negli ultimi anni, a partire dal mandato di Andrea Orlando a via Arenula. Colpisce più di tutto l’attacco ideologico alle pene alternative, cioè a uno dei punti chiave della riforma penale voluta dalla ex guardasigilli: “L’investimento sulle misure alternative alla detenzione”, secondo i firmatari, rischia di “tradursi in pericolosi meccanismi di disattivazione dell’effettività della pena, ossia di vera e propria impunità”. Perciò si punta a demolire le politiche del governo precedente, per esempio con la “riduzione da tre a un anno della pena detentiva inflitta per accedere all’affidamento al servizio sociale, in modo che potranno essere ammessi all’affidamento solo i condannati per reati lievi”. Vorrebbe dire cancellare o quasi l’istituto della messa alla prova, con conseguenze apocalittiche sull’affollamento delle carceri. Nei 7 lunghi articoli della proposta si colpisce la leva base con cui attualmente è possibile scongiurare l’esecuzione inframuraria, con “la riduzione da tre anni a un anno del limite di pena per la sospensione della pena”. Che si tratti di una mossa destinata quasi certamente al nulla di fatto lo si comprende dalle misure con cui, oltre a favorire gli ingressi in carcere, si colpirebbero duramente anche i riti alternativi. Aspetto che la riforma Cartabia, viceversa, valorizza per ridurre il carico processuale e dunque la durata dei giudizi, contrazione che nel penale l’Ue ha preteso nella misura del 25% come presupposto per concedere i fondi del Recovery: ebbene, i senatori di FdI agiscono sull’innalzamento delle pene edittali per il reato di estorsione, “con conseguente esclusione della fattispecie dall’applicazione del patteggiamento”. Introducono nuovi reati, come il “travisamento in occasione di manifestazioni” e puntano a tenere il più possibile dentro chi ha già la prospettiva di una detenzione lunga: innanzitutto gli ergastolani (quelli non ostativi) per i quali l’accesso ai permessi premio diventerebbe possibile solo dopo 20 anni, mentre oggi ne servono 10. Si mira a bersagli relativamente facili, con “l’eliminazione del meccanismo dell’esecuzione anticipata del beneficio della liberazione anticipata”, la previsione che “la semilibertà sia concedibile qualora il condannato abbia scontato almeno due terzi della pena” e “l’eliminazione della liberazione anticipata speciale”. Ora, per chi appena conosca i meccanismi dell’esecuzione penale, è evidente che un piano simile quadruplicherebbe, nella migliore delle ipotesi, il numero dei detenuti. E come si pensa di gestire un disastro di queste proporzioni? Ci si affida in modo vago alla riapertura dei “penitenziari ancora inutilizzati” e alla costruzione di nuovi istituti “fino a coprire il reale fabbisogno dello Stato”. Un piano da incubo che, nell’inevitabile secolare attesa che s’imporrebbe per vederlo realizzato, prevede, all’articolo 7, nuove assunzioni anche nella polizia penitenziaria, in modo da “affrontare le ormai note criticità delle carceri italiane”. E, evidentemente, per pigiare a forza nelle celle stracolme i nuovi reclusi. “Devi vedere”: così i cittadini visitano il carcere con i Radicali Italiani di Nicola Morawetz e Marco Ferrario* Il Dubbio, 15 aprile 2023 “Perché come società civile non ci siamo mai entrati?” - si chiede a caldo Tobia, uno dei volontari che con la delegazione di Radicali Italiani abbiamo accompagnato in visita alla casa circondariale di Como il 13 aprile “tra la miriade di domande che mi sono posto, questa è senza dubbio la più importante”. Il “Bassone” è stato il primo istituto lombardo ad accogliere la campagna “Devi Vedere”, iniziativa che si pone l’obiettivo di accompagnare, dopo un percorso di formazione, i cittadini comuni nei luoghi di detenzione. Da Radicali, riteniamo che ci sia un solo modo per capire davvero il mondo del carcere: vederlo con i propri occhi. Bisogna sentire, annusare, ascoltare, parlare con chi è detenuto e con chi ci lavora, per andare oltre i pregiudizi e smentire una certa narrazione superficiale che si muove per stereotipi. La realtà del carcere in Italia coincide con il sovraffollamento, con la strutturale mancanza di risorse e la carenza cronica di personale. Sono le strutture fatiscenti e la pena delle ore vuote. L’orrore della vita che lentamente scivola via. Solo parole, sulla carta stampata, ma tra quelle mura le parole si incarnano in vite sospese, dolore, lacrime, sangue e soprattutto grande, gratuita sofferenza. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27 della Costituzione, ma i dati sui tassi di recidiva delle persone che transitano dal carcere testimoniano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che qualcosa non sta funzionando. Nella selva delle “domandine” senza risposta, delle attività culturali e ricreative che compaiono e scompaiono dopo poche settimane, della perenne carenza di educatori e di personale per il trattamento non c’è percorso risocializzante che tenga, e al termine della reclusione i detenuti sono ributtati nella società più soli e con ancora meno risorse di prima. Così, nel silenzio assordante di gran parte della classe politica, il carcere come è oggi si rivela essere non già uno strumento di sicurezza collettiva e di rieducazione del reo, ma una discarica sociale dove nascondere e allontanare dalla vista le marginalità e i fenomeni complessi del nostro paese. Un problema enorme che riguarda la società nel suo insieme e che nessuno si prende la responsabilità di affrontare. Un pensiero che rivediamo anche nelle parole di Aurelia, un’altra volontaria, all’uscita dall’istituto: “Ritengo che sia importante andare a vedere coi nostri occhi, perché quello che accade in carcere riguarda tutti”. È questo il senso profondo della campagna che Radicali Italiani ha deciso di avviare: permettere ai cittadini, finalmente, di conoscere per deliberare. Solo offrendo l’occasione “a chi sta fuori” di capire davvero cosa sia il mondo della privazione della libertà, possiamo sperare di andare verso le urgenti riforme che sono necessarie e su cui la classe politica e la società civile tacciono. Calamandrei riteneva che il Parlamento del 1948, a cui rivolse un famoso discorso, avesse un’occasione unica per riformare le prigioni perché moltissimi parlamentari, membri della resistenza antifascista, avevano soggiornato nelle patrie galere e avevano conosciuto l’orrore della detenzione. “Bisogna vedere per rendersene conto” diceva lui. Questo appello lo facciamo nostro e lo rivolgiamo non solo ai parlamentari ma in primo luogo al cittadino: “Devi vedere”! *Membri di Comitato Radicali Italiani Il “manifesto” dei garantisti: insieme deputati di maggioranza e opposizione di Liana Milella La Repubblica, 15 aprile 2023 Costa lancia l’intergruppo parlamentare alla Camera: punterà a “tutelare e attuare i principi costituzionali alla base dello stato di diritto”. Divorziano Azione e Italia viva, ma il principio del “garantismo” per la giustizia e per i processi - da sempre vessillo degli avvocati - unisce il “calendiano” Enrico Costa e il renziano Roberto Giachetti. Costa lancia anche in questa legislatura l’intergruppo parlamentare alla Camera sul garantismo e tra i primi dodici promotori c’è anche Giachetti. Ma non solo. Ecco due deputati del Pd, Luciano D’Alfonso e Marco Lacarra, abruzzese il primo, pugliese il secondo, “figli” di una storia politica nelle due rispettive Regioni (D’Alfonso è stato sindaco di Pescara, presidente della Provincia e poi della Regione, mentre Lacarra, avvocato civilista, è stato consigliere comunale a Bari e poi regionale). Ma il fronte dei “garantisti” - che faranno da sponda alle preannunciate riforme del Guardasigilli Carlo Nordio - vede schierati anche Forza Italia con il vice presidente della Camera Giorgio Mulè e con il vice presidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis. Nonché due deputati meloniani, Dario Iaia e Ylenia Lucaselli. C’è anche Simonetta Matone, ex magistrato adesso in quota Lega a Montecitorio. Immancabili Maurizio Lupi di Noi con l’Italia e il radicale Riccardo Magi di +Europa. Ma anche Filiberto Zaratti di Avs. Il “manifesto” dei garantisti - che a quanto assicura Costa “in queste ore sta già raccogliendo molte adesioni trasversali di numerosi parlamentari” - rivela subito le sue intenzioni politiche sulla giustizia. Sarà “una zona franca”, secondo la definizione di Costa, ma i suoi obiettivi saranno quelli di espandere il più possibile nella legislazione futura “il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza, il giusto processo, la concezione di diritto penale come extrema ratio”, che lo stesso Costa considera “pilastri essenziali e irrinunciabili della nostra democrazia”. L’intergruppo punterà a “tutelare e attuare i principi costituzionali alla base dello stato di diritto”. Ovviamente visti con la lente del garantismo e della più esasperata presunzione d’innocenza. Della serie meglio un ladro libero piuttosto che un innocente in galera. E quindi stretta sulla custodia cautelare, sulle intercettazioni, sulla pubblicità stessa dei provvedimenti dei magistrati, e per le toghe bocche cucite. Come dimostra la polemica di Costa contro l’intervista rilasciata dal procuratore di Bergamo Antonio Chiappani a Repubblica sull’inchiesta Covid su cui è partito, dopo l’interrogazione di Costa al Guardasigilli Nordio, anche un primo accertamento degli ispettori di via Arenula in vista di una sua possibile incriminazione disciplinare. Perché il garantismo significa anche questo, i magistrati devono stare zitti. Alla Camera nasce l’intergruppo garantista, partecipano tutti tranne i grillini di Paolo Comi Il Riformista, 15 aprile 2023 È nato questa settimana alla Camera l’intergruppo parlamentare sul garantismo. A farne parte, per il momento, Enrico Costa (Azione), Roberto Giachetti (Italia Viva), Luciano D’Alfonso e Marco Lacarra (Pd), Giorgio Mulè e Pietro Pittalis (Forza Italia), Dario Iaia e Ylenia Lucaselli (Fratelli d’Italia), Simonetta Matone (Lega), Maurizio Lupi (Noi con l’Italia), Riccardo Magi (+Europa) e Filiberto Zaratti (Avs). Gli unici non pervenuti in questa compagine quanto mai trasversale, i deputati grillini. Il programma dell’intergruppo garantista “in queste ore sta già raccogliendo molte adesioni di numerosi parlamentari”, assicura Costa che è stato fra i promotori dell’iniziativa. Sarà “una zona franca”, aggiunge Costa, i cui obiettivi saranno quelli di espandere il più possibile nella legislazione futura “il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza, il giusto processo, la concezione di diritto penale come extrema ratio. Pilastri essenziali e irrinunciabili della nostra democrazia”, puntualizza il deputato di L’intergruppo, in particolare, punterà a “tutelare e attuare i principi costituzionali alla base dello stato di diritto” e sarà soprattutto un ‘pungolo’ nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul quale si concentrano molte aspettative. Il Guardasigilli, al netto degli iniziali bei proclami, non ha ad oggi però prodotto iniziative legislative degne di nota. Nessuna riforma delle intercettazioni telefoniche, nessuna limitazione a uno strumento altamente invasivo come il trojan, nessuno modifica dei reati contro la pubblica amministrazione, a iniziare dal quanto mai evanescente “traffico d’influenze illecite”. E poi, nessun progetto di legge per una vera separazione delle carriere fra pm e giudici, con concorsi separati e due distinti organi di autogoverno. I maligni dicono che la premier Giorgia Meloni non voglia andare allo scontro con le toghe e quindi con l’Associazione nazionale magistrati. Molto meglio, quindi, un profilo basso senza riforme che potrebbero irrigidire i pm e far rivivere all’esecutivo la stagione dello scontro toghe-politica di berlusconiana memoria. Nordio, poi, in questi primi mesi di governo ha riempito nuovamente gli uffici di via Arenula di magistrati ‘fuori ruolo’, mettendoli tutti in posti di comando, a iniziare da quello di capo di gabinetto e per finire a quello di numero uno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Una decisione che non deve aver fatto certamente felice lo stesso Costa che da sempre è in prima linea per evitare che il Ministero della giustizia venga ‘colonizzato’ dalle toghe. È inutile, infatti, parlare di riforma della giustizia se non si mette prima un freno agli incarichi che la politica affida ai magistrati. Se l’iniziativa dell’intergruppo avrà successo lo si vedrà nelle prossime settimane. Nordio, tornando alla riforme, ha, in un recente incontro con i vertici dell’Unione delle Camere penali, fatto sapere che “c’è stata la condivisione di un preciso e netto cronoprogramma, che avevamo già scandito d’intesa con gli altri colleghi sottosegretari”. “Entro fine aprile-metà maggio avremo un primo pacchetto di norme, ovviamente da sottoporre al necessario contraddittorio”, ha affermato il ministro. Sul punto Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia in quota Forza Italia, ha annunciato che ci sarà “una sorta di sistema componibile tra riforma dell’abuso d’ufficio, del traffico di influenze, riforma della prescrizione, interventi sulla figura del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio e normative per contrastare le baby gang”. Sul fronte del processo penale, ha aggiunto Sisto, “ci saranno interventi sulla possibilità per il pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione e sull’informazione di garanzia, che non deve essere più una condanna anticipata. E, sullo sfondo il grande tema delle intercettazioni telefoniche”. Staremo a vedere. “Tutti in galera!” di Claudio Marotta* Il Manifesto, 15 aprile 2023 Lunga permanenza in carcere e multe salate. Rileggendo le ultime proposte di legge della destra sono queste le uniche medicine per curare il Paese. Il caso più recente - su cui è a lavoro la Presidente Meloni, coinvolgendo l’esecutivo e le forze di maggioranza - è il disegno di legge contro la nuova immaginaria emergenza che sta investendo l’Italia: gli “ecovandali”, quegli attivisti di una generazione che non teme a definirsi l’Ultima di fronte al disastro climatico che stiamo vivendo. Ci sarebbe da ridere per l’atteggiamento di questa destra al governo, se non fossero da prendere in seria considerazione gli allarmi lanciati dagli ecoattivisti. Ci sarebbe da ridere, se non fosse da prendere sul serio il tempo perso da questa maggioranza in preda a una furia repressiva decisamente fuori misura. Sanzioni pesanti per chi parla in inglese nella pubblica amministrazione. Carcere per chi difende il diritto alla casa. Lo stesso trattamento per chi partecipa a un rave. Detenzione per chi produce cannabis light. Lotta senza tregua contro i migranti in cerca di occupazione e futuro nel nostro Paese e vale lo stesso per chi li soccorre in mare. Questa è la cifra di chi finora ha dimostrato di essere drammaticamente in affanno alla guida del Paese (basti pensare al Pnrr). Eppure non è sufficiente derubricare il tutto a un consapevole processo di “distrazione di massa” messo in atto per nascondere l’inadeguatezza dell’esecutivo. Piuttosto, alla facile ricerca del capro espiatorio si somma un atteggiamento di rifiuto, da parte di questa destra, davanti alla complessità dei fenomeni emergenti nella contemporaneità. Incapaci di trovare soluzioni, pensano di risolvere tutto con il carcere. Perché ciascuno dei casi sopra menzionati, messi nel mirino in questa deriva manettara, ci indica questioni che andrebbero comprese ed affrontate. Vale per gli attivisti di Ultima Generazione che con coraggio hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’alternativa indifferibile ai combustibili fossili, in un Paese che dovrebbe strategicamente investire sulle rinnovabili. Vale per tutte e tutti coloro che si battono per ottenere il fondamentale diritto ad avere una casa, in un Paese che da decenni non vede politiche di investimento per l’edilizia popolare. Vale per chi produce o consuma cannabis di cui dobbiamo rivendicare l’utilizzo anche a scopo ludico, proprio come avviene nello stato di New York dove si prevede la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro nelle aziende del settore. Vale, non da ultimo, per le donne e gli uomini che migrano verso l’Europa, ostaggi di politiche evidentemente inadeguate per un Paese come il nostro che è già nel precipizio dello spopolamento. Questo governo finora ha dimostrato di non sapere individuare soluzioni, ma di essere capace solo di annunciare nuove pene, proponendo sanzioni e detenzione come unico strumento per sbarazzarsi di chi, a loro giudizio, causa problemi. Senza contare la situazione disastrosa degli istituti penitenziari italiani, drammaticamente sovraffollati ed inadeguati come denunciato di nuovo dal Consiglio d’Europa appena due settimane fa. Chi sceglie di battersi per un diritto negato, chi sceglie la strada della disobbedienza civile, mette in conto di affrontare la reazione delle autorità. La repressione del dissenso e un certo continuo richiamo alla disciplina non sono risposte all’altezza della complessità che stiamo vivendo. Qualcuno nel governo, per favore, pensi almeno a questo prima di scrivere una nuova proposta di legge. *Consigliere regionale Alleanza Verdi Sinistra Lazio Caiazza: “Scioperiamo contro il governo. Le riforme non si vedono” di Angela Stella Il Riformista, 15 aprile 2023 Confermata la tre giorni di astensione dalle udienze dell’Unione delle Camere Penali Italiane: il 19, 20 e 21 aprile i penalisti saranno mobilitati per sviluppare - si legge in una nota della Giunta - “idee e proposte da offrire a supporto di un percorso di riforme per la cui realizzazione l’Ucpi sosterrà con tutto il proprio impegno e le proprie forze il Ministro Nordio, contro tutti coloro che da più parti vi si oppongono, ora in modo esplicito, ora in modo silenzioso ma non per questo meno efficace”. Ne parliamo con il Presidente Gian Domenico Caiazza. Due giorni fa il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, si è rivolto a lei chiedendo di revocare l’astensione. “Mi rivolgo al presidente Camere penali: le astensioni non portano a nulla e non sono giustificate. Nordio non può essere oggetto di critiche per responsabilità derivanti da precedenti leggi delega”. Come risponde? Non sono d’accordo con l’amico Ostellari perché a me pare che la proclamazione dell’astensione abbia da un lato accelerato, grazie all’approvazione in Cdm di un cronoprogramma, i tempi del varo delle riforme fino ad ora solo annunciate e dall’altro lato abbia finalmente acceso l’attenzione su alcune urgenze relative ai decreti attuativi della riforma di mediazione Cartabia del processo penale. Anche il presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto, ha detto: “Ci siamo opposti e abbiamo condannato l’astensione dei magistrati di qualche mese fa contro la riforma Cartabia, e in particolare contro il fascicolo delle performance e coerentemente riteniamo inopportuna questa astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle Camere Penali”... Mentre quella del sottosegretario Ostellari è una dichiarazione non condivisibile, questa del Presidente Benedetto la trovo addirittura stravagante. Non comprendo affatto l’equiparazione tra le due astensioni, quindi mi è difficile anche replicare onestamente. A leggere il documento pubblicato ieri dalla Giunta da un lato si apprezza Nordio dall’altro però si conferma l’astensione. Perché? L’astensione mantiene intatte le sue ragioni. Da quando Nordio è diventato Ministro abbiamo visto annunciare per la prima volta nella storia degli ultimi decenni quelle riforme che da sempre auspichiamo, di segno autenticamente liberale. Invece nel concreto abbiamo visto approvare solo controriforme in senso carcerocentrico e giustizialista, ispirate al peggior populismo penale. Preso atto di tutto questo, abbiamo dovuto lanciare con forza questo allarme: qual è il senso della nomina di Nordio a Ministro della Giustizia se poi i risultati sono questi? A proposito di questo, corrono voci secondo cui Nordio avrebbe le mani legate da Fratelli d’ Italia ma anche da persone appartenenti al suo entourage di Via Arenula. Crede sia possibile? Dai diversi incontri avuti, abbiamo trovato conferma della profonda convinzione di Nordio circa la volontà di realizzare quelle riforme liberali. L’impressione ulteriore che abbiamo avuto è che ci sia una resistenza a questa volontà del Ministro. Rispetto alla sua domanda, noi non siamo abituati a fare illazioni. Che questa resistenza sia di tipo politico o che sia all’interno del Gabinetto non possiamo affermarlo noi. Ma questo è il tema alla base della nostra iniziativa politica della prossima settimana. È necessaria una mobilitazione, non solo dell’avvocatura, per dare forza e sostegno ai progetti di Nordio. Quali sono i progetti che più spaventano? Il Ministro vuole ritornare sul divieto di impugnazione del pubblico ministero delle sentenze di assoluzione, vuole intervenire sull’abuso della custodia cautelare, vuole rimettere mano alla prescrizione sostanziale, vuole affrontare - anche se al momento in modo indeterminato - il tema delle intercettazioni. Su quest’ultimo punto abbiamo già visto quale reazione violenta ha evocato questa ipotesi. Noi sappiamo quali e quanti sono i nemici di queste riforme in questo Paese, quanto peso hanno i loro diktat, e quanto è fortissima ed indebita la presenza della magistratura nella gestione del Ministero. Per questo noi lanciamo - ribadisco - questo segnale di allarme. Il Ministro non deve essere lasciato solo: questo è il senso della nostra iniziativa, a cui speriamo prenda parte anche lui nel giorno della manifestazione di chiusura il prossimo 21 aprile. Saremmo pronti ad accoglierlo con amicizia e a confermargli la stima personale e la vicinanza dell’avvocatura. Nell’incontro del 4 aprile a Via Arenula era presente anche l’Anm. Come sono i rapporti con loro? Non solo siamo sempre disponibili ad incontrare l’Anm ma abbiamo proprio detto al Ministro Nordio che molti tavoli che sono stati aperti al Dicastero sui più vari temi hanno un senso se vedono come protagonisti l’avvocatura, l’accademia e la magistratura, però con le sue rappresentanze politiche, associative. I rapporti personali con Anm sono cordialissimi ma sta di fatto che noi da alcuni anni non riusciamo più a misurarci in modo costruttivo con Anm. La vediamo sempre schierata su posizioni molto lontane dalle nostre e sostanzialmente indisponibile al confronto. Lo vediamo anche dagli ultimi risultati che la magistratura ha ottenuto con il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario proprio perché conteneva delle proposte invise all’Anm. Su questo non siamo stati chiamati per nulla a confrontarci. Ricordiamo anche il posticipo dell’entrata in vigore della riforma Cartabia del processo penale: come disse Nordio in conferenza stampa “abbiamo accolto il grido di dolore delle Procure”. Spero che adesso ascolti il grido di dolore dell’avvocatura penale, a partire dal tema delle impugnazioni. Il Terzo Polo di Renzi e Calenda si è sfaldato. Considerato che era quello che maggiormente si faceva carico delle vostre istanze in Parlamento, quanto peserà questa scissione sulle battaglie per una giustizia liberale? L’Unione delle Camere Penali fa della trasversalità politica la sua forza. Certamente però guardiamo con preoccupazione alla crisi di un polo che si dichiara esplicitamente ispirato ai valori del diritto penale liberale. Riaprire i “tribunalini” significa preferire la prossimità alla specializzazione di Giovanni Zaccaro Il Domani, 15 aprile 2023 Si tratta di una legittima scelta politica che però deve essere fatta con la consapevolezza delle conseguenze - soprattutto a risorse invariate - sull’organizzazione degli uffici e sulla qualità della giurisdizione. Torna periodicamente la proposta di riaprire le piccole sedi giudiziarie. Alcune obiezioni e controindicazioni. Sempre più spesso provengono, da ambienti della attuale maggioranza parlamentare, voci favorevoli alla riapertura dei “tribunalini”, chiusi negli ultimi anni per razionalizzare la geografia giudiziaria. L’Italia è il paese dei mille campanili ed una sede giudiziaria rende lustro ad ogni città oltre a garantire l’avviamento del foro locale, bacino elettorale non trascurabile. Ma non manca chi allega ragioni più nobili: garantire una giustizia “di prossimità” e mantenere un presidio di legalità anche in territori periferici e vittime della criminalità. Si tratta di una legittima scelta politica che però deve essere fatta con la consapevolezza delle conseguenze - soprattutto a risorse invariate - sull’organizzazione degli uffici e sulla qualità della giurisdizione. La questione non cambia sia se l’intento è quello di riaprire le sezioni distaccate, articolazioni locali dei tribunali circondariali, sia se è quello di riaprire i piccoli tribunali accorpati innanzi a quelli più grandi (mentre forse ne andrebbero accorpati ancora di più). Sul punto, il legislatore deve prendere una decisione: vuole una giustizia di prossimità, ossia una pluralità di tribunali, anche piccoli e piccolissimi, con sedi in tutta Italia, od una giustizia specializzata che per forza di cose presuppone tribunali medio grandi? La specializzazione - Nelle sezioni distaccate e nei piccoli tribunali soppressi, i giudici trattavano le cause senza alcuna “specializzazione per materia”, come, invece, tendenzialmente avviene nelle sedi centrali ed in quelle più grandi. Per cui, si passava da un fascicolo in tema di infiltrazioni di umidità sul soffitto ad uno su un contratto bancario milionario, con buona pace della specializzazione che consente, come insegna l’esperienza, migliore qualità nelle decisioni e maggiore celerità nelle definizioni. La riapertura dei piccoli tribunali sarebbe in controtendenza rispetto a tutte le ultime iniziative legislative. Il legislatore, da anni, insiste per la specializzazione delle funzioni e per evitare giudici con ruoli promiscui. L’Italia si è impegnata con il PNRR alla specializzazione dei giudici fallimentari. I giudici del nuovo tribunale per la famiglia dovranno essere specializzati. In materia di violenza di genere, le convenzioni internazionali suggeriscono la specializzazione dei giudici. Con un calcolo approssimativo, ciascun tribunale italiano dovrebbe avere giudici a tempo pieno almeno per i settori del lavoro, della famiglia, delle procedure concorsuali, del gip gup, per tacere delle altre specializzazioni previste per i tribunali distrettuali. Perché si abbiano tutti questi giudici specializzati ed insieme gli altri che trattano “promiscuamente” anche tutte le altre materie, la pianta organica di ciascun tribunale (e soprattutto la copertura effettiva) deve essere di qualche decina di magistrati, molto superiore a quella delle sedi già soppresse che si vorrebbero riaprire e molto superiore a quella di molti tribunali che, tuttora operanti, hanno difficoltà a garantire la specializzazione. Vale la pena riaprire tanti uffici giudiziari a costo di rinunciare alla specializzazione dei giudici che vi operano? La copertura delle piccole sedi, che già era difficoltosa in passato, sarebbe ancora più ardua con le scoperture di organico attuali e, del resto, i giudici togati rifuggono le sezioni distaccate ancora esistenti di Ischia, Lipari e Portoferraio (sopravvissute per la loro competenza insulare) come testimonia il lungo ed intricato contenzioso tabellare sulla individuazione del giudice napoletano da destinare ad Ischia. Ed ancora, gli uffici piccoli, appunto perché con una minore dotazioni di magistrati sopportano molto peggio le vacanze di organico od i congedi parentali che fisiologicamente riguardano le sedi di prima destinazione: una cosa, è “spalmare” il turno od il ruolo dei magistrati in congedo su un organico complessivo di trenta magistrati, cosa assai più ardua è farlo su un organico di dieci. Vale la pena riaprire tanti uffici giudiziari senza avere la certezza di disporre di un numero sufficiente di magistrati per coprirne le piante organiche? La moltiplicazione dei dirigenti - Infine, la moltiplicazione degli uffici, porterebbe anche alla moltiplicazione dei dirigenti giudiziari. Spesso è più difficile dirigere un ufficio piccolo, magari senza dirigente amministrativo, rispetto ad un ufficio grande. Esistono tutte queste risorse od i magistrati più attrezzati ed esperti preferiranno le sedi metropolitane? L’esperienza consiliare ci ha consegnato ipotesi di piccoli uffici con un solo aspirante per i ruoli semi direttivi o direttivi, spesso con un’anzianità minima ed un’attitudine dirigenziale mai sperimentata prima. Vale la pena riaprire tanti uffici giudiziari senza avere dirigenti all’altezza di guidarli? Ma torniamo alle ragioni a favore della riapertura dei piccoli uffici giudiziari. Il primo è l’esigenza di garantire una “giustizia di prossimità” ossia fisicamente vicina ai cittadini. Ma tale argomento varrebbe per i luoghi dove, per mancanza di investimenti o per la difficile morfologia, la mobilità è più difficile mentre non mancano casi clamorosi di uffici giudiziari tuttora operanti, a poche decine di chilometri l’uno dall’altro, collegati con autostrade o strade statali o linee ferroviarie, ciascuno con serie scoperture di organico, che se gli uffici fossero tutti assorbiti in un’unica sede, sarebbero meglio gestite. La tecnologia - La “giustizia di prossimità” va coniugata con la rivoluzione tecnologica per la quale sempre più cittadini fanno acquisti, consumano prodotti culturali, lavorano, interloquiscono con la pubblica amministrazione “da remoto”. Il processo civile telematico, con tutti i limiti di assistenza e di periodico assestamento, già ora salva gli avvocati dai pellegrinaggi da tribunale in tribunale, per gli adempimenti di cancelleria o la partecipazione alle udienze. Ed allora, più che il campanile, devono essere tutelati i cittadini portatori di fragilità che devono avere il giudice che li tutela il più possibile “vicino casa”. A tale fine, però, non serve un intero tribunale ma, come già sperimentato felicemente, che la singola “prestazione di giustizia” venga periodicamente svolta in una sede decentrata dove, magari con l’aiuto degli enti locali, si concentrano, in quella occasione, tutti gli affari dello stesso tipo e della stessa zona. L’altro argomento usato è il carattere simbolico degli uffici giudiziari, presidio di legalità e di presenza dello Stato. È un argomento suggestivo, soprattutto nelle terre più martoriate dalla criminalità organizzata. Ma anche qui: siamo sicuri che un piccolo ufficio, sguarnito di magistrati e di personale amministrativo, con un turn over elevatissimo tale che la parte processuale conosce, ogni anno, un nuovo giudice per la stessa causa, ospitato in una sede inadeguata o fatiscente, possa essere un buon modo per dimostrare ai cittadini che lo Stato non li abbandona? Il governo vuole riformare la colpa medica, ma è diviso di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 aprile 2023 Il ministro della Giustizia Schillaci annuncia: “Depenalizzeremo la responsabilità medica”. Ma il Guardasigilli Carlo Nordio frena: “Depenalizzazione impossibile, ma si può ridurre responsabilità penale dei medici”. “È molto difficile, se non impossibile, una depenalizzazione del reato di colpa medica, perché bisognerebbe intervenire sulla struttura complessiva dell’omicidio colposo, delle lesioni colpose, della responsabilità omissiva, del nesso di causalità ecc. È però possibile ridurre non solo la responsabilità penale e civile degli operatori sanitari, ma anche la possibilità di aggredire gli operatori con denunce e cause civili”. Con queste parole il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accompagnato l’insediamento della commissione ministeriale per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica, presieduta dal magistrato Adelchi d’Ippolito e composta da giuristi e specialisti in ambito medico. Una presa di posizione, quella di Nordio, ribadita dallo stesso D’Ippolito: “Non si può parlare semplicemente di una depenalizzazione tout court ma occorre individuare un punto di equilibrio per garantire al paziente una piena tutela e assicurare al medico tranquillità e serenità nell’esercizio della sua professione”. Sia l’intervento di Nordio sia quello di D’Ippolito sono apparsi essere una correzione di rotta dopo l’annuncio fatto in diverse interviste dal ministro della Salute, Orazio Schillaci: “Agiremo depenalizzando la responsabilità medica, tranne che per il dolo, e mantenendo solo quella civile”. In un’altra intervista Schillaci aveva dichiarato: “Dai dati che abbiamo, gran parte delle cause giudiziarie contro i medici finiscono in un nulla di fatto, nell’assoluzione. Per questo va depenalizzato il reato”. Se Schillaci ha agitato l’accetta, Nordio ha mostrato la cautela tipica dei giuristi, facendo però emergere una differenza di visioni all’interno del governo sul tema della responsabilità medica, sia sui contenuti che sui metodi. L’obiettivo comunque, per entrambi, è quello di evitare che i medici continuino a essere inondati di cause penali e civili, e che per questo siano spinti verso la cosiddetta “medicina difensiva”, cioè l’eccesso di prescrizione di esami e di prestazioni proprio per il timore di incorrere in contenziosi legali. “Tutelare insieme il paziente e il medico, riducendo le attuali criticità - ha detto Nordio - Il malato è la prima vittima della medicina difensiva, diventata una zavorra per l’operatore sanitario, che ha il diritto di lavorare con tranquillità, e per il malato, che ha il diritto di non essere sottoposto a esami inutili e costosi, solo perché il medico pensa così di difendersi da possibili aggressioni giudiziarie”. I numeri, del resto, parlano chiaro. Secondo i dati di Anaao-Assomed, “ogni anno in Italia vengono intentate 35.600 nuove azioni legali, mentre ne giacciono 300 mila nei tribunali contro medici e strutture sanitarie pubbliche”, cause che nella maggior parte dei casi si traducono in un nulla di fatto, considerando che “il 95 per cento nel penale e il 70 per cento nel civile si conclude con il proscioglimento”. L’impatto della medicina difensiva sulla sanità pubblica è stimato invece in circa dieci miliardi di euro l’anno. “In Italia l’errore commesso dal medico può essere sanzionato penalmente come accade solo in altri due paesi del mondo: Polonia e Messico. Per questo abbiamo non solo apprezzato ma anche rilanciato e sostenuto con forza le parole del ministro Schillaci sull’esigenza improcrastinabile di procedere con una depenalizzazione dell’errore medico”, dichiara al Foglio Pierino Di Silverio, segretario generale di Anaao-Assomed. “Ma siamo chiari - aggiunge - il termine depenalizzazione è fuorviante, soprattutto per il cittadino. Noi non vogliamo l’impunibilità assoluta del medico per qualunque azione egli svolga. Noi vogliamo semplicemente che il medico nella sua professione possa avere la libertà di curare”. “La responsabilità medica va assolutamente ripensata. I medici non possono essere soggetti a cause penali per i loro atti”, prosegue Di Silverio, che sottolinea i danni causati dal moltiplicarsi di denunce nei confronti degli operatori della sanità: “Al medico che alla fine, magari dopo otto anni, risulta innocente nessuno rimborsa gli otto anni di vita personale e professionale. Nessuno rimborsa gli otto anni di pressioni psicologiche, di spese legali e anche di divieto a partecipare a concorsi a causa del carico pendente”. “Ci auguriamo di essere coinvolti nei lavori della commissione ministeriale, perché riteniamo che le parti sociali siano determinanti per portare avanti un percorso così delicato”, conclude. Commissione antimafia, trent’anni fa la relazione Violante: tanto lucida quanto profetica di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2023 Trent’anni fa veniva approvata la relazione “mafia-politica” dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’on. Luciano Violante: una relazione tanto lucida nel fotografare il presente quanto profetica. Forse persino al di là delle intenzioni dei suoi stessi redattori. La relazione venne precisamente approvata il 6 aprile 1993 e basta fermarsi a riflettere su questa data per comprenderne il significato politico, perché siamo nel pieno della strategia stragista di Cosa Nostra. O meglio della “Cosa Unica”, se assumiamo le risultanze del processo “‘Ndrangheta stragista”, che in Appello ha visto confermare l’ipotesi accusatoria già accolta in primo grado. La Commissione parlamentare antimafia, dando prova di grande sangue freddo e dedizione istituzionale, decise di affrontare il tema scottante dei rapporti tra mafia e politica nell’ottobre del ‘92, quando cioè si sono da poco consumate non soltanto le stragi di Capaci e via d’Amelio, ma anche gli omicidi non meno eloquenti di Salvo Lima e Ignazio Salvo. La relazione venne approvata un momento prima del ritorno del tritolo mafioso, che insanguinerà tutto il 1993 a cominciare dal fallito attentato di via Fauro a Roma il 14 maggio, di cui ho recentemente scritto. Magistrale è la relazione nel tracciare un quadro impietoso e dettagliato dei rapporti tra Stato (politica) e mafia, pur occupandosi dichiaratamente e comprensibilmente soltanto di Cosa Nostra e dunque della Sicilia, ma avendo comunque cura di sottolineare la valenza nazionale dei rapporti costruiti sull’isola. Altrettanto puntuale è la rivendicazione delle scelte positive fatte dalla politica volte a contrastare Cosa Nostra; scelte, invero, per decenni intermittenti e tragicamente mosse dalla necessità di reagire a fatti di intollerabile violenza mafiosa, diventate finalmente, secondo la relazione, strutturali e irrevocabili dopo la morte di Falcone e Borsellino. Ma ci sono almeno due questioni affrontate dalla relazione che la rendono attualissima e meritevole di attenzione (chissà se la nuova Commissione anti mafia vorrà dedicarle almeno un convegno). La prima: la relazione mette nero su bianco le ragioni storico-politiche che spiegano (non giustificano!) la “coabitazione” (cit.) tra Stato e Cosa Nostra, in danno di coloro che invece non la accettarono mai, pagando per ciò spesso il prezzo estremo della vita. Quali ragioni? 1. Il contesto geopolitico internazionale che autorizzava i due grandi campi contrapposti, quello comunista e quello atlantista, a darsele senza esclusione di colpi. In questo contesto la mafia siciliana avrebbe militato organicamente nel campo atlantista, con tutte le conseguenze del caso. 2. L’arretratezza delle tecniche investigative che, assegnando un peso eccessivo al ruolo del “confidente”, spingevano l’investigatore sul terreno scivoloso della continua negoziazione (oggi abbiamo imparato a chiamarla “trattativa”). 3. La tendenza isolazionista (sic) della Sicilia, animata da spinte indipendentiste di difficile gestione da parte dello Stato centrale. Rispetto a questa prima grande questione, rileva, sempre tenendo conto del momento in cui viene votata la relazione (6 aprile 1993!), il giudizio tranciante espresso dalla Commissione: tutte queste ragioni, argomenta la relazione, oggi sono venute meno e quindi la prosecuzione, in qualunque forma, di una logica “coabitativa” col suo corredo osceno di “negoziazioni” deve essere ripudiata perché il contrario sarebbe “un atto di inescusabile favoritismo”. Più chiaro di così. La seconda questione è quella che mi ha fatto usare in premessa il termine “profetica” e cioè la definizione accurata del concetto di colpa/responsabilità politica, come di una responsabilità perfettamente autonoma rispetto a quella penale. Autonoma tanto sul piano del contenuto, quanto sul piano dell’accertamento, quanto su quello delle conseguenze. Ai giudici la sovranità nella sfera penale, al Parlamento la sovranità nella sfera politica. Prima di addentrarmi, brevemente, nella questione, si tenga presente che la relazione tutta prende le mosse proprio dall’omicidio di Salvo Lima e che pertanto è possibile leggere l’intera relazione seguendo un filo che ora emerge esplicitamente, ora resta sommerso - quello del legame tra Salvo Lima e Giulio Andreotti (raggiunto dalla richiesta di autorizzazione a procedere il 27 marzo 1993). Ebbene: in che cosa si sostanzierebbe la colpa/responsabilità politica nel particolare campo del rapporto con la mafia? Cito: “La responsabilità politica (…) può certamente nascere da fatto altrui quando da tale fatto si desume un giudizio di inaffidabilità sull’uomo politico. Se la persona di fiducia dell’uomo politico compie atti di grave scorrettezza o di rilevanza penale, l’uomo politico non risponde dei commessi della persona di fiducia, ma risponde per aver dato prova di non saper scegliere o di non aver accertato o di aver tollerato comportamenti scorretti”. E come ne risponde? Con l’espulsione dal consorzio politico. *Attivista antimafia ed ex deputato Pd Caro Ranucci, il cosiddetto papello di Riina non è mai esistito di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2023 Il conduttore di Report, per rispondere ai penalisti, ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis. Ma la tesi non torna. Ranucci, il conduttore di Report, per rispondere agli avvocati delle camere penali, tra le varie argomentazioni ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis. Che Totò Riina non abbia sopportato questo istituto carcerario è scontato. Nessuno può sopportare questo tipo di carcerazione differenziata che, almeno sulla carta, non dovrebbe essere dura. Che le stragi continentali siano state volte anche a piegare lo Stato, affinché ritirasse questo regime, è altrettanto pacifico. Ma affermare con certezza l’esistenza del cosiddetto “papello” di Riina, è errato. La tesi che sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino agli ex ros Mori e De Donno, i quali, in concorso con l’allora ministro Mannino ed altri, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, mirante all’approvazione di provvedimenti validi a soddisfare le pretese di Riina, tra le quali appunto l’abolizione del 41 bis, approvato dopo l’attentato di Via D’Amelio, non torna. Quindi Riina si sarebbe sabotato da solo? Andiamo con ordine. La prima inchiesta giudiziaria sulla Trattativa Stato-mafia nasce nel 2000. La procura di Palermo avanza l’ipotesi che nel ‘92 Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l’apporto di veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spedendo un suo “papello” di richieste di benefìci per Cosa nostra, dettate da lui stesso come contropartita della cessazione dell’attacco stragista allo Stato e a una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L’identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell’indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato se, ed eventualmente quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Quindi nel 2004, viene archiviata l’inchiesta. Poi arriva la svolta. Spunta nel 2008 Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Con le sue dichiarazioni l’accusa si estende nei confronti di Mori e De Donno, Subranni, Dell’Utri, Mannino, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e così via, fino ad approdare al processo trattativa. In sostanza si attribuisce ai coimputati della parte politico-istituzionale di avere trattato con la parte mafiosa, sulle pretese riassunte nel “papello”, in particolare sulle applicazioni del trattamento carcerario del 41 bis, e quindi di avere concorso con la parte mafiosa in quel ricatto allo Stato, che sarebbe stato effettivamente veicolato alla compagine governativa, col conseguimento di alcuni risultati. Ciancimino, per corroborare ciò, tira fuori dal cilindro il “papello”: la madre di tutte le produzioni, propagandata su tutti gli organi di stampa. Ed è la “prova regina” che dette impulso al processo. Senza di quella, ci sarebbe stata l’ennesima archiviazione. Cosa è risultato dopo anni? Il “papello” consegnato ai Pm da Ciancimino è chiaramente frutto di una sua grossolana manipolazione: lo ha fornito ai Pm solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale. Risulta evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura. Lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l’originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita ‘“consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros”, attaccato alla fotocopia del “papello”. Si scoprì che quel post-it riguardava la consegna del libro di don Vito ai Ros. Un libro dal titolo “Le mafie”, ritenuto privo di valore. Ma attaccandolo alla fotocopia di quel “papello”, ha creato una manipolazione. Molto grossolana. Non solo. Si è accertato che il “papello” non è scritto da Riina, da Ciancimino o alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche. A questo si aggiungono altri racconti e documenti forniti da Ciancimino senza alcun dato autentico e utile ad identificarlo. In quel periodo, a differenza di Palermo, c’era la procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari che aveva ben inquadrato Massimo Ciancimino: una persona che mentiva. Quindi, in soldoni, parlare ancora del “papello” di Riina, significa continuare a propagandare ciò che è stato smentito con i fatti. Non esiste e nessuno ha dimostrato il contrario. Il giornalismo è separare i fatti dalle opinioni. Ecco il fatto: l’unico “papello” che è stato tirato fuori, è risultata una patacca. “La trattativa Stato-mafia non è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2023 Giovedì 27 aprile la Corte di Cassazione emetterà la sua decisione sulla lunga e travagliata odissea giudiziaria che vede coinvolti in primis gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per la vicenda della cosiddetta Trattativa Stato-mafia. All’esame del collegio c’è la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 ha ribaltato la decisione di primo grado assolvendo “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Marcello Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Confermate solo le condanne al boss corleonese Leoluca Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni) e quella al medico Antonino Cinà (12 anni). La procura generale di Palermo ha impugnato la sentenza e ha chiesto l’annullamento, proseguendo in sostanza la linea intrapresa dalla procura palermitana fin dal 2008, quando con l’arrivo del super teste Massimo Ciancimino, hanno potuto imbastire il processo trattativa. Un super teste che si rivelerà inattendibile su più fronti. Soprattutto era emersa la palese strumentalità del suo atteggiamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le molteplici contraddizioni e per tenere ‘sulla corda’ i pubblici ministeri, col protrarre la promessa di consegnar loro il “papello” (una volta consegnato, si rivelerà una patacca), carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo in trasmissioni in prima serata. Resta il fatto che secondo l’accusa, gli ex Ros prima e il senatore Marcello Dell’Utri poi, sarebbero stati i veicolatori della minaccia mafiosa al governo. I primi, su incarico dei politici (l’allora ex ministro Calogero Mannino), avrebbero contattato Vito Ciancimino per poter recepire tale messaggio e veicolarlo. Ecco il reato di minaccia al corpo politico dello Stato. Il problema di fondo è che non c’è alcuna prova, solo congetture e testimonianze de relato, tra l’alto arricchite con gli anni. Sappiamo che Mannino, secondo la tesi il mandante, è stato assolto con il rito abbreviato fino al sigillo della Cassazione. Quindi il teorema già viene decapitato: fuori i politici come mandanti. Dell’Utri, in appello, assolto perché non ha commesso il reato. Gli ex Ros assolti, ma perché “il fatto non costituisce reato”. Non c’era dolo per i giudici della corte d’Appello. Ebbene, cosa è accaduto in Cassazione? La procura generale della Corte Suprema ha chiesto la conferma dell’assoluzione di Dell’Utri, e nel contempo ha chiesto un nuovo processo per gli ex Ros per un motivo ben preciso: la ricostruzione che vede Mori e De Donno veicolare comunque la minaccia è piena zeppa di congetture. I procuratori generali della Corte Suprema hanno chiesto l’annullamento per rivalutare quella parte. Secondo loro i fatti storici non sono dimostrati “oltre ogni ragionevole dubbio”. Una esigenza processuale importante, perché la sentenza fornisce una risposta non conforme al diritto. E viene da sé, che l’assoluzione “il fatto non costituisce reato” non restituisce una piena dignità. Il fatto non è stato dimostrato. Ora toccherà alla Cassazione decidere. Continuazione tra reati, per i minori pesano le condizioni sociali e ambientali di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2023 Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 15625 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso dell’imputato. Nel caso di più reati commessi da un minore, ai fini della valutazione della “continuazione”, devono essere valutate anche le particolari condizioni di vita in cui egli si è venuto a trovare, considerata la condizione di particolare vulnerabilità connaturata alla minore età. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 15625 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso dell’imputato. Il Tribunale di Udine, quale Giudice dell’esecuzione, invece aveva rigettato l’istanza ritenendo ostativa l’eterogeneità esecutiva che connotava le condotte illecite oggetto di vaglio giurisdizionale. Inoltre, i comportamenti criminosi “coinvolgevano beni giuridici eterogenei” in territori “eterogenei” e in un spazio temporale dilatato. Per la Prima sezione penale, al contrario, il Tribunale non considerava che “una parte significativa delle condotte illecite era stata commessa tra il 2005 e il 2006, in un arco temporale oggettivamente ristretto”. Si imponeva dunque una “verifica giurisdizionale analitica” per valutare se non era possibile prefigurare “la preordinazione criminosa”. Ma soprattutto trattandosi di infra diciottenne non erano state valutate a fondo le condizioni ambientali e sociali del ricorrente. Secondo la giurisprudenza di legittimità infatti “nelle ipotesi in cui si invoca il riconoscimento della continuazione tra reati commessi da un soggetto minorenne, incombe sul giudice di considerare, con puntuale motivazione, l’incidenza delle condizioni sociali ed ambientali in cui il minore è cresciuto sulla programmazione delle condotte illecite commesse, specialmente se connotate da notevoli contiguità temporale ed uniformità di modalità esecutive, in considerazione della particolare sensibilità del medesimo e della conseguente sua condizionabilità dal contesto circostante”. Sardegna. Maschera e mani legate: da 16 anni l’unica cura per Bruno, paziente psichiatrico di Francesca Zoncheddu La Repubblica, 15 aprile 2023 La denuncia della Garante regionale dei detenuti Irene Testa: “Una tortura”. L’uomo è ricoverato nella struttura Aias di Cortoghiana, nel Sulcis-Iglesiente, affetto da picacismo, terribile patologia che lo porta a ingerire qualsiasi cosa gli capiti davanti. Il caso era esploso in tutta la sua drammaticità nel 2020 - con la diffusione di immagini shock che parlavano da sole - ora torna prepotentemente alla ribalta con una nuova denuncia della garante sarda delle persone private della libertà personale, Irene Testa. Si tratta della storia di Bruno, un paziente psichiatrico ricoverato nella struttura Aias di Cortoghiana, nel Sulcis-Iglesiente, affetto da picacismo, terribile patologia che lo porta a ingerire qualsiasi cosa gli capiti davanti. Bruno da oltre 16 anni viene tenuto tutto il giorno con le mani legate ed è costretto a portare una maschera protettiva che somiglia in maniera inquietante a quella indossata da Anthony Hopkins ne Il silenzio degli degli innocenti per interpretare il famigerato Hannibal Lecter. Solo che, a differenza del cannibale più famoso del cinema, Bruno non rappresenta un pericolo per gli altri, ma solo per se stesso: il casco serve appunto per evitare che possa mettersi in bocca oggetti che potrebbero soffocarlo o sostanze chimiche con le quali rischierebbe l’avvelenamento. Un piano terapeutico “estremo” che ha sconvolto la garante regionale, che pochi giorni fa ha ispezionato la struttura e oggi ha diffuso le ennesime foto shock: “Ho atteso prima di mettere nero su bianco quanto visto nella struttura Aias di Cordoghiana”, scrive Testa. Un giorno per riprendermi dallo scenario agghiacciante e raccapricciante che mi sono trovata davanti. Non mi sto riferendo alla struttura, ma ad un caso specifico di un ospite al suo interno, per la verità già sollevato da alcuni anni, in primis dalla presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, Gisella Trincas, ma anche oggetto di esposti alla procura, di lettere all’allora Ministro della Salute, Roberto Speranza, e di interrogazioni nel Consiglio regionale sardo”. Bruno, spiega Testa, “da oltre 16 anni viene tenuto tutto il giorno legato per le mani con un casco in testa. Io non sono un medico e non spetta a me dare ricette, magari dal sapore semplicistico perché guidate dall’onda emotiva: sono la garante delle persone private della libertà personale e proprio di persone, di singoli casi ho il dovere di occuparmi”. Per questo, prosegue, “non mi rassegno, non posso accettare che una persona malata venga sottoposta a un trattamento che appare più vicino al concetto di tortura che a quello di cura. Non è però tempo dell’indignazione ma della concreta e rapida azione di tutti gli attori istituzionali che possano dare un contributo a cambiare questa situazione. Questa è una sorta di appello: dobbiamo farlo per Bruno e per tutti gli altri Bruno”. Torino. Psicofarmaci e autolesioni, i guai del Cpr: “Rimpatriato solo il 20% dei trattenuti” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 15 aprile 2023 Avvocati e giudici discutono sulla “Detenzione amministrativa”. E c’è chi ha passato 180 giorni di isolamento dentro l’ospedaletto. Per ricordare come andava, dentro al Cpr di corso Brunelleschi: un immigrato si presentò all’udienza di convalida con una gamba gonfia il doppio dell’altra e undici (visibilissimi) punti di sutura sul collo, senza che il personale sanitario battesse ciglio; un altro, dichiaratosi omosessuale, fu spostato nell’allora “ospedaletto”, in una cella due metri per due, con unico contatto, le visite dei medici. Morale, “si fece sei mesi di isolamento, nella più totale illegalità”, ricorda con tono deciso (e preciso) l’avvocato Maurizio Veglio, membro dell’associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e autore del libro La Malapena. Il tutto dentro un “mostro giuridico” che, semplicemente, neppure funziona: dei trattenuti in tutto il 2022 ne sono stati rimpatriati meno del 21 per certo, ricorda Monica Gallo, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. L’occasione per rispolverare la memoria e denunciare gli abusi è stato l’incontro sulla “Detenzione amministrativa in Europa”, tenutosi alla fondazione Fulvio Croce, alla cui organizzazione ha partecipato il Comitato pari opportunità dell’ordine degli avvocati. Il quadro è - come tutti ben sanno e come molti ignorano - vergognosamente desolante: “Non esiste una normativa che stabilisce cosa si fa dentro i Cpr”, premette Veglio. Già l’incipit è surreale: “Le udienze di convalida si tengono dentro la struttura, che è nella disposizione del ministero dell’interno e, quindi, in violazione dell’articolo 110 della Costituzione”. Poiché l’organizzazione e il funzionamento dei servizi della giustizia spettano, appunto, al ministero della Giustizia. “Il punto più clamoroso resta però l’aver affidato la giurisdizione alla magistratura onoraria”: non a caso, “nel 95 per cento dei casi c’è l’accoglimento delle richieste della pubblica amministrazione”. E parliamo del controllo di un atto amministrativo che priva della libertà personale. L’interno si è spesso trasformato in un “teatro di violenza: nel 2021, per un paio di mesi, c’è stato un gesto anticonservativo al giorno”. Di più: “La metà dei trattenuti prendeva psicofarmaci”. Uno scenario sul quale, dopo il suicidio di Moussa Balde, sta indagando da mesi la Procura. Sottolinea le criticità anche la precisa analisi di Monica Mastrandrea, giudice della nona sezione civile, quella specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini: “La difficoltà è la normativa stessa”. Già. Rovigo. Il sottosegretario Ostellari: “Carcere minorile pronto nel 2024” Corriere del Veneto, 15 aprile 2023 “A causa di ritardi nei lavori, non attribuibili all’attività del ministero della Giustizia, per l’inaugurazione del carcere minorile di Rovigo dovremo aspettare il 2024”. A parlare è Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, che ieri ha visitato il carcere di Rovigo accompagnato dal consigliere comunale del Carroccio Valentina Noce, attuale segretaria particolare del guardasigilli Carlo Nordio. “L’apertura del carcere minorile è strategica non solo per questo territorio - ha illustrato Ostellari, che è anche avvocato - ma per tutto il Paese, perché consentirà di alleggerire molte strutture che ora ospitano reclusi provenienti da Veneto e Lombardia. Insieme al nuovo Capo del Dipartimento di Giustizia minorile, Antonio Sangermano, siamo al lavoro per cercare di accelerare i tempi”. Il sottosegretario ha poi ha definito il carcere rodigino “un modello per gli spazi, adeguati a chi ci lavora e ai detenuti, dei quali consente così la reale rieducazione prevista dalla Costituzione. Bisogna però potenziare il personale, perché l’attuale pianta organica è strutturata sulle esigenze dell’ex Casa circondariale”. Entro il 2026 sarà infine costruito un nuovo padiglione modello per 120 reclusi e un importo di 15 milioni stanziati con i fondi del Pnrr. Rovigo. Il sottosegretario Ostellari: “Il carcere ha bisogno di un direttore e di più personale” di Francesco Campi Il Gazzettino, 15 aprile 2023 “Questo è un carcere modello per struttura e spazi, adeguati sia a chi lavora all’interno, sia a chi è detenuto, ma per un buon trattamento rieducativo serve anche il personale, che qui manca: fondamentale e importantissimo accendere un faro che deve illuminare il ministero e fare in modo che qui arrivi più polizia”. Ad ammettere la necessità di intervenire per aumentare la pianta organica del carcere rodigino è stato il sottosegretario alla Giustizia, il senatore Andrea Ostellari, che ha fatto tappa a Rovigo, prima con un incontro ristretto in Tribunale per far il punto sulla situazione degli uffici giudiziari e del nuovo Palazzo di Giustizia, poi con un sopralluogo all’interno della casa circondariale, per un momento di approfondimento e di confronto. Il sottosegretario ha poi aggiunto che “verrà data risposta anche al tema della riclassificazione dell’istituto”, ovvero a innalzarne il livello che attualmente è ancora il terzo, nonostante circa la metà dei 207 detenuti presenti sia di Alta sicurezza 3, il regime previsto per i reati di associazione di stampo mafioso, seppur non per figure apicali. Il fatto che il carcere di Rovigo sia classificato ancora come terzo livello lo rende meno ambito per le figure apicali, come direttore e vicedirettore, che al momento sono reggenti a scavalco, così come manca un comandante in pianta stabile e pochi sono anche i sottufficiali di Polizia penitenziaria. Da parte del sottosegretario, che si è incontrato anche con i rappresentanti sindacali, è arrivata poi la conferma della futura realizzazione del nuovo padiglione da 120 posti, finanziato con una decina di milioni del Pnrr, quindi da completare entro il 2026, nonché della conclusione, il prossimo anno, della realizzazione dell’Istituto penale per i minorenni nell’ex carcere di via Verdi, con i lavori iniziati nel novembre 2021 e che nell’ipotesi iniziale si sarebbero dovuti concludere a metà di quest’anno. “C’è il progetto che prevede la realizzazione di un ulteriore padiglione, che vedrà una spinta del ministero e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Su Rovigo ci stiamo concentrando non solo su questo carcere, ma anche sul carcere dedicato ai minori, perché apriremo anche quello nel 2024, compatibilmente con i tempi di realizzazione e di costruzione che sono già avviati e a buon punto”. Ad accompagnare il sottosegretario anche l’assessore regionale Cristiano Corazzari e il segretario provinciale della Lega Guglielmo Ferrarese, nonché Valentina Noce, consigliere comunale, ma soprattutto segretario particolare del ministro della Giustizia Carlo Nordio. È stata proprio lei, su invito di Ostellari, a illustrare le ultime novità sul fronte del nuovo Tribunale. “Per quanto riguarda il tema dell’edilizia giudiziaria, anche qui massimo impegno”, si è limitato a sottolineare il sottosegretario, lasciando poi la parola a Noce: “Abbiamo incontrato il presidente del Tribunale, la presidente di Sezione, la Procuratrice e il presidente dell’Ordine degli avvocati: abbiamo fatto il punto sulla situazione degli uffici giudiziaria e sulle prospettive del nuovo Tribunale che sorgerà nell’ex questura. La novità vera è che adesso che ci sono le nomine del Demanio, procederemo noi come ministero a stabilire una convenzione con il Demanio che permetterà di accorciare i tempi, una volta che si sarà addivenuti all’accordo di programma e si potranno iniziare i lavori, che sono a carico del Demanio per l’esecuzione, ma a carico del ministero dal punto di vista economico e finanziario. L’attenzione e la sensibilità sono massime: il ministro Nordio tiene molto che ci sia un’efficienza piena del “sistema Giustizia” e questo passa anche attraverso l’efficientamento degli uffici giudiziari. Una tempistica di inizio lavori in questo momento non c’è perché si deve ancora indire la conferenza dei servizi. Sappiamo quali sono i tempi di esecuzione, preventivati e programmati, e non sarà domani, ma nell’arco di qualche anno, però si inizia e questo è l’importante”. Prato. Carcerati ma in cerca del futuro. Gli iscritti all’università sono 55 di Giulia Poggiali Il Tirreno, 15 aprile 2023 Inaugurato l’anno accademico alla Dogaia: le matricole sono 18. Studiare, laurearsi e riprogettare la propria vita mentre si sta scontando una pena, è una scelta sempre più diffusa tra i detenuti delle carceri italiane. Ieri, alla Casa circondariale La Dogaia di Prato, si è tenuta l’inaugurazione dell’anno accademico penitenziario, un’occasione che ha fornito importanti spunti di riflessione, a partire dall’importanza che riveste l’educazione nella vita di un detenuto. In tutta Italia, sono ben 1.450 gli studenti che hanno avviato la carriera accademica durante la loro permanenza in prigione, mentre attualmente, sono 55 gli studenti iscritti all’ateneo fiorentino, di cui 18 matricole. La maggior parte di loro, ovvero 28, fa capo alla casa circondariale pratese. Per i detenuti, intraprendere un percorso universitario può rappresentare un momento di riscatto, capace di cambiarli per sempre, aiutandoli a vedere quella luce in fondo al tunnel. “Studiare in carcere permette di riflettere sugli errori commessi e la cultura aiuta a conoscere meglio la propria personalità”, ha spiegato l’assessora alle politiche regionali per le questioni carcerarie Serena Spinelli. In giornate come questa la possibilità appare ancora più concreta e palpabile. Auspichiamo che molti sappiano cogliere questa opportunità”. Garantire il diritto allo studio, anche a chi è detenuto o in esecuzione penale esterna, è l’impegno intrapreso dall’università, che si è sostanziato anche di recente attraverso la ristrutturazione delle due sale riservate agli studenti della Dogaia di media e alta sicurezza, l’acquisto di nuovi computer, monitor e stampanti. L’università mette inoltre a disposizione i testi e il materiale necessario per lo studio. Nel corso della cerimonia, la rettrice ha ricordato la nascita del Pup (Polo universitario penitenziario) nel 2000 e le tappe che hanno portato questa realtà, a partire dall’esperienza fiorentina, ad assumere una dimensione regionale in grado di risocializzare, rieducare e restituire il rilievo costituzionale della dignità della persona umana, offrendo l’accesso ai corsi di laurea di quattro atenei. “La tutela del diritto allo studio - ha detto la rettrice dell’Ateneo fiorentino, Alessandra Petrucci - è garanzia di democrazia, intesa come condivisione delle diversità in ogni sua espressione, e come occasione per ciascuno di trovare il proprio posto nel mondo, che sia la stessa casa per tutti”. Presente al momento dell’inaugurazione, anche la direttrice de La Dogaia, Maria Isabella De Gennaro, che ha ribadito come la detenzione debba essere considerata una parentesi della vita della persona detenuta: “La cultura è accoglienza e studiare in carcere fino a ottenere un titolo accademico, è una grande opportunità che trova sempre più adesioni senza differenze tra detenuti italiani e detenuti stranieri”. Conseguire il diploma di laurea è importante perché permette ai detenuti di occupare il loro tempo, e soprattutto, alimenta le possibilità di reinserimento sociale, nonché le opportunità di aprirsi nuove strade per il futuro. Scienze politiche e studi umanistici e della formazione sono le aree più gettonate dagli studenti, che negli ultimi anni hanno incrementato la loro presenza anche nelle discipline economiche e nelle scienze naturali, fisiche e matematiche, ma è soprattutto giurisprudenza a guadagnarsi la maggioranza degli iscritti, secondo l’ateneo fiorentino. Reggio Emilia. Bonisoli incontra Agnese Moro: “Il 41 bis incentiva la violenza” di Serena Arbizzi Gazzetta di Reggio, 15 aprile 2023 “Mi ritengo uno sconfitto, sul piano personale, perché mentre pensavo di perseguire un ideale di giustizia, mi sono accorto che negavo gli ideali di pace e fratellanza: creando i nemici in una logica di guerra, disumanizzi te stesso. Il 41 bis oggi è quello che era per noi l’articolo 90. Sono finito nelle carceri di massima sicurezza e nonostante ciò non è che il mio livello di belligeranza si fosse abbassato. Più il carcere era duro, più mi faceva indurire. La violenza crea solo violenza: non esiste quella giusta e quella sbagliata”. Franco Bonisoli è partito da Reggio Emilia, quando aveva 19 anni - nel 1974 - per entrare nelle Brigate Rosse, di cui diventa componente della direzione strategica e del comitato esecutivo. Nel 1977 partecipò al ferimento di Indro Montanelli e l’anno successivo al sequestro di Aldo Moro. Proprio nella provincia in cui nacquero le Brigate Rosse, per la prima volta Bonisoli e la figlia dello statista democristiano, Agnese, si sono seduti allo stesso tavolo in occasione dell’incontro “Condivisione di vite”, alla chiesa di San Luigi Gonzaga di via Torricelli, per un’iniziativa organizzata dal centro di giustizia riparativa Anfora con la parrocchia e la cooperativa di solidarietà sociale L’Ovile. Oltre 300 persone hanno affollato il luogo di culto. Tra queste, erano presenti i giudici del tribunale di Reggio Emilia, Matteo Gambarati e Silvia Guareschi. L’incontro ha richiamato un vasto numero di giovani, tra i quali gruppi di scout. In prima fila era seduto - prima di partecipare con un intervento al termine delle testimonianze - l’ex brigatista Loris Tonino Paroli. “Durante la messa è stata ripetuta la parola “fratelli” parola che ha avuto un peso fondamentale nella mia vita - esordisce Bonisoli -. Ho lasciato Reggio Emilia per la lotta armata in una grande città, dove doveva scoppiare la rivoluzione secondo noi. Fare questa scelta ha implicato salutare la famiglia, la ragazza, strappare i documenti, prenderne dei falsi e diventare militante a tempo pieno. Sapevi di poter morire sul campo di battaglia. Ho vissuto quattro anni clandestino, ricercato da tutte le polizie, tra ferimenti, uccisioni di chi non ritenevamo persone, ma nemici. Secondo la logica di guerra, li disumanizzavamo. Andavamo in questa direzione senza accorgerci che mentre disumanizzi la persona che hai di fronte riduci la tua umanità. Come vediamo oggi nella guerra nel nord Europa”. “Dopo quattro anni sono stato arrestato e sono finito nelle carceri di massima sicurezza che manifestava la forma di repressione più dura, dove ci organizzavamo per continuare a combattere la guerra contro lo Stato - prosegue l’ex br. Ho avuto quattro condanne all’ergastolo e 105 anni di pena dai processi. Nel frattempo, nelle carceri circolava l’esplosivo con cui si volevano far saltare i muri per evadere. Se metti dentro le persone e butti via la chiave si acuisce solo la conflittualità. Poi qualcosa è cambiato: ero alle Vallette, a Torino. Noi eravamo molto belligeranti, ma il nuovo direttore, Giuseppe Suraci, fece una cosa stravolgente: invece di chiudere i canali della convivenza aprì la comunicazione. Ci disse che la situazione era difficile e che era necessario istituire una commissione fra detenuti per comunicare i problemi. Così iniziammo a dialogare. Fu favorito il rapporto con le nostre compagne e con l’esterno. Il livello di belligeranza si spense”. A 28 anni, per Bonisoli, arriva la svolta: “La mia famiglia aveva sofferto terribilmente per le mie scelte. La rivoluzione si dimostrava sempre più fallimentare e le persone cui avevamo fatto del male, quei nemici, iniziavano a diventare persone. Aprii cuore e mente. Pensai di farla finita. Ero nel carcere di Nuoro. Parlai con Alberto Franceschini (ex br reggiano, ndr) che propose uno sciopero della fame al quale aderì anche un altro reggiano, Ognibene e altri. Il cappellano del carcere fu protagonista di un’azione forte che ruppe il muro di silenzio. Disse che si rifiutava di celebrare la messa di Natale se i suoi fratelli stavano morendo in carcere. A Nuoro arrivarono tutti i politici, mi ricordo il giorno in cui mi trovai Pannella sulla branda. Venne anche l’ex sindaco Renzo Bonazzi di Reggio. E decisero di eliminare l’articolo 90. Da lì è stato come uscire dall’inferno, non a rimirare le stelle, ma almeno il purgatorio. Le condanne c’erano ma si poteva creare una risalita. Credo di essere fortunato, perché ne sono uscito vivo e sono libero. Non posso votare ma questo mi ha risolto un sacco di problemi”, aggiunge l’ex terrorista. Una volta scontata la pena, Bonisoli afferma che era rimasto il problema di coscienza con le persone alle quali aveva fatto danni irreparabili. Determinante, per la nuova svolta verso il recupero di un’umanità, inizialmente negata e poi inseguita un passo alla volta, l’incontro con padre Guido Bertagna, gesuita e mediatore, che da tempo si occupa di giustizia riparativa. “Padre Guido - rimarca l’ex brigatista - una volta mi ha mostrato una sedia dicendo: “Vedi, se lì si sedesse uno come te e alcuni parenti delle vittime cambierebbero tante cose. Abbiamo provato questo percorso e ho continuato a vivere con un grande senso di colpa che mi incatenava. Poi abbiamo cercato di trasformarlo in senso di responsabilità, attraversando insieme i nostri inferni: questo è stato liberatorio. Il dialogo è la vera rivoluzione”. Numerose le sollecitazioni riferite ai fatti di attualità. “Bisogna uscire dalle categorie con cui si etichettano i detenuti - aggiunge Bonisoli interpellato su Cospito e il 41 bis. Sono stato, di recente, in un carcere di massima sicurezza, a Parma e non si possono attribuire delle etichette. Usciamo, quindi, da queste categorie e poniamo più attenzione sul carcere e avere più coraggio. Noi eravamo considerati terroristi, ma c’è chi ha avuto il coraggio di chiamarci fratelli rompendo gli schemi e ciò ha prodotto cose buone. Tanti giovani, oggi, stanno cercando di avvicinarsi al concetto di giustizia riparativa. Noi mettiamo a disposizione la nostra esperienza”. Torino. Quei piccoli ignorati anche dalle istituzioni di Giulia Zonca La Stampa, 15 aprile 2023 Blitz in alcune abitazioni occupate da famiglie di origine rom alla periferia Sud. Anche i bimbi finiscono in strada. Per giocare in mezzo a uno sgombero ci vuole fantasia e i bambini la divorano per cui, se siamo molto fortunati, quelli che guardavano dal balcone le loro abitudini in disuso, da grandi avranno strane memorie colorate di questa giornata violenta. Tipo ringhiere magiche a guardia di mondi fantastici oltre le quali non può succedere nulla di brutto e orsi di peluche che volano nella spazzatura per mimetizzarsi dai cattivi e restare a difesa dei sogni. Sui cattivi probabile che restino confusi. Il comune di Torino ha sgomberato degli abusivi e ovviamente è giusto così. Le famiglie sloggiate, tutte con dei minorenni in casa, stavano lì senza averne diritto e sono state ripetutamente avvertite di quanto stava per accadere, erano preparate o rassegnate o pronte ad altre incursioni, vai a sapere. Sono stati invitati a trasferirsi in un altro posto che non hanno ritenuto adatto. Ci sta che avessero ragione pure loro, almeno su questo punto: essere senza fissa dimora non equivale a farsi mettere dove altri indicano per sentirsi più tranquilli. Va bene, ma proprio perché questa è una storia di scelte, di gente che sa di non poter rimanere dove si è aggrappata, di politici che hanno delle regole da rispettare come garanti della comunità che rappresentano, di uomini e donne che vogliono decidere e hanno o l’autorità o la libertà per farlo, fosse anche per preferire un campo nomade a quattro mura, resta brutale e inutile vedere questi minori, molto minori, abbandonati a loro stessi in ore destinate a essere dolorose. Si poteva scegliere anche di avere riguardo. Si poteva ipotizzare di investire sul futuro. Sgomberati 5 appartamenti delle case Atc di via Scarsellini - I ragazzini seduti per terra si erano probabilmente abituati alla quotidianità di un luogo che ora devono lasciare ed è probabile che, come testimoniano i vicini, non lo abbiano nemmeno sempre trattato al meglio questo posto, ma è più semplice identificarli come futuri teppistelli invece che tentare di evitarlo. In questa particolare situazione è facile non sentirsi responsabili, nemmeno per la mancata cautela. I bambini vengono ignorati dai genitori e ignorati dalle istituzioni. Lasciati alla loro immaginazione. Le famiglie da spostare erano note, forse non era poi così impossibile presentarsi allo sfratto con una figura che potesse prevenire i traumi o almeno schermarli, offuscarli, parlare con i più piccoli, tenerli occupati. Semplicemente distrarli. Certo, madri e padri e parenti avrebbero potuto farli uscire prima, prendersi cura. Perché se ne doveva fare carico chi tutela la legge, perché gente con tanti guai o senza voglia di reagire doveva occuparsi di scansare incubi? Ognuno ha i propri. La logica regge però i bambini forse no. Ci tocca sperare nella forza delle loro invenzioni perché se si arrendono all’idea che ogni cosa bella, pure l’orso di peluche, finisce nel pattume durante l’ennesimo caotico e urlante trasloco, che tutto è precario, nulla è serio, gli essere umani sono per lo più indifferenti, allora è più facile che crescano convinti di poter sprecare tutto. Padova. “Associazione a delinquere”. L’accusa dei magistrati agli attivisti del clima di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 15 aprile 2023 Contestate sette azioni dimostrative. La maggior parte dei protagonisti sono studenti. Si chiama Ultima generazione ed è un movimento internazionale che - si legge nel suo sito - vuole stoppare la corsa verso “un futuro di siccità e un inferno climatico”. E, per farlo, dichiara di usare “la disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai rispettivi governi impegni concreti nel contrastare il collasso ecoclimatico”. Dodici militanti di Ultima Generazione rischiano un processo davanti al tribunale di Padova per associazione a delinquere finalizzata a una serie di reati: l’interruzione di pubblico servizio, l’aver ostacolato la libera circolazione con un blocco stradale, più episodi di manifestazione senza l’obbligo del preavviso, il deturpamento di beni culturali e l’imbrattamento di luoghi, la violazione dell’ordine del questore di non fare rientro nel Comune di Padova (solo per due di loro). L’inchiesta - Il pm Benedetto Roberti ha chiuso un’inchiesta avviata in seguito a un rapporto della Digos che ha messo insieme vari blitz organizzati dal movimento dell’ambientalismo estremo, destinato sempre a suscitare polemiche e reazioni. E si prepara a chiedere il processo: il più vecchio degli indagati ha 57 anni, il più giovane di 21; per la maggior parte si tratta di studenti universitari di facoltà scientifiche originari del Padovano (due del capoluogo, uno di Villa del Conte); gli altri di Belluno; Voghera; del Trevigiano (Follina, Carbonera e Mogliano); del Veneziano (Mestre); del Vicentino (San Nazario), del Veronese (Bussolengo) e del Bolognese (S. Lazzaro Savena). Tutti sono difesi dagli avvocati Leonardo De Luca di Venezia e Aurora D’Agostino del foro di Padova. Sette episodi contestati - Il 29 aprile dell’anno scorso sono srotolati due striscioni che bloccano il traffico in via Venezia. Obiettivo: chiedere lo stop all’utilizzo dei combustibili fossili. All’arrivo della polizia i manifestanti oppongono resistenza “passiva”. L’11 maggio, in occasione della chiusura del forum sull’energia e la sostenibilità “Duezerocinquezero”, organizzato da Comune e AssoEsco, è imbrattato il muro del Centro culturale Altinate con le scritte “Ultima Genera... Stop gas e carbone” e viene improvvisata una manifestazione. Il 10 giugno nuovo blocco stradale sul cavalcavia di Chiesanuova con manifestazione senza preavviso e due striscioni che occupano le due corsie di marcia. Il 21 agosto tre attivisti si assicurano con una catena alle transenne all’interno della Cappella degli Scrovegni per protestare contro l’utilizzo di gas e carbone, gridando a voce alta il loro dissenso e rendendo impossibile la visita ai turisti. Il 7 settembre in tre tentano di usare le vernici spray sui muri della sede regionale della Lega a Noventa Padovana nei giorni in cui il leader del Carroccio Matteo Salvini è in Veneto. Ma l’azione è bloccata dall’intervento dei carabinieri e i giovani sono bloccati con l’attrezzatura pronta all’uso. Il 21 dello stesso mese ci riprovano sempre a Noventa: stavolta viene messa in scena una sorta di “performance” con due militanti coperti da maschere, che raffigurano l’allora ministro per la transizione energetica Cingolani e il segretario leghista Salvini, mentre simulano l’uccisione di una ragazzina coperta di carbonella. Il 6 ottobre scorso nuovo blocco stradale, della durata di mezz’ora, in una carreggiata di corso Australia per mostrare due striscioni con le scritte “Ultima Generazione No Gas” e “No Carbone”. Il gruppo - Ultima generazione è nato alla fine del 2021 all’interno del gruppo internazionale Extinction Rebellion: social e sito web sono gli strumenti di comunicazione del gruppo che, anche a Venezia, hanno messo a punto azioni dimostrative come il blocco del Ponte della Libertà; due attiviste, invece, hanno incollato le proprie mani sulla cornice del dipinto “La tempesta” di Giorgione nelle Gallerie dell’Accademia. Secondo la procura gli attivisti di Ultima Generazione nella città del Santo si sono strutturati sotto la guida di due leader, un bellunese e un trevigiano. L’avvocato De Luca, uno dei difensori, commenta: “Ritengo la contestazione dell’associazione per delinquere alquanto peculiare, non ravvisando elementi costitutivi di alcun sodalizio criminoso”. Larino (Cb). Alla Casa circondariale mostra curata da studenti e detenuti su Grossman ansa.it, 15 aprile 2023 Si intitola “Vasilij Grossman e il dramma della guerra” la mostra presentata nella Casa Circondariale di Larino che ha visto coinvolti gli studenti dell’Itaeg ‘San Pardo’ insieme ai detenuti che frequentano i corsi didattici. Il progetto, coordinato dalla docente Elena D’Angelantonio in collaborazione con i docenti dell’indirizzo agrario del carcere, è stato realizzato dagli allievi del diurno e del serale dell’Itaeg San Pardo con gli ospiti della struttura restrittiva. Gli alunni, partendo dal dramma della guerra tra Ucraina e Russia, hanno realizzato una mostra a pannelli che ripercorre le tappe più importanti della vita del giornalista e scrittore Vasilij Grossman, ucraino, di lingua russa ed ebreo. Gli studenti del Secondo Periodo della Casa circondariale hanno spiegato ai loro compagni come l’autore arrivi a definire comunismo e nazismo due facce della stessa medaglia. Hanno sottolineato, inoltre, l’importanza, per questo autore, del concetto di verità, strettamente connesso a quello di libertà e di come valga la pena: “vivere sempre, anche nelle situazioni più tragiche”. La mostra, dalla sede carceraria frentana sarà trasferita all’Itaeg “San Pardo” per il convegno del 18 aprile, alle ore 10, nell’Aula Magna della scuola superiore dove resterà fino alla fine del mese di aprile. La realizzazione dell’iniziativa è stata possibile grazie alla direttrice della Casa Circondariale di Larino Antonella De Paola che ha accolto con entusiasmo, facendola propria, l’idea progettuale degli studenti della sede carceraria e al capo area trattamentale, Brigida Finelli, molto attenta nell’accompagnamento dei percorsi esecutivi e di rieducazione. La dirigente scolastica dell’Istituto Emilia Sacco sottolinea soddisfazione per la realizzazione di un progetto culturale e della sinergia tra la scuola superiore e l’istituto penitenziario. Il lasciapassare di Mattia Feltri La Stampa, 15 aprile 2023 Otto anni fa un inviato delle Iene inseguì Guia Soncini per strada, sotto minaccia di microfono, e fino all’ingresso di casa, oltrepassando due portoni dotati di serratura, poi non ricordo se in ascensore o per le scale, allo scopo di spillare alla preda una dichiarazione a maggior gloria del giornalismo investigativo, diciamo così. Infatti Guia era indagata - per una quisquilia, finita più avanti con l’archiviazione - e tempi ed esigenze della verità processuale non coincidono con quelli della verità televisiva, che ha tempi stretti ed esigenze pressanti, e la pedinata non deve rompere più di tanto. Otto anni dopo, l’inviato è stato condannato in Cassazione per violenza privata e cioè il microfono non è un lasciapassare, non si può fare tutto, non si può andare ovunque, persino gli indagati godono del diritto di non partecipare allo show, perlomeno non a casa, se non gli va. Qualche giorno fa una giornalista dell’Ansa, Francesca Brunati, ha scritto la storia di una donna di tali condizioni da vivere in un capannone dove ha partorito un figlio, poi abbandonato in ospedale. Sono storie molto richieste, ultimamente. Francesca la scrive con scrupolo, in modo che la madre non sia individuabile né raggiungibile, ma subito - racconta su Facebook - la chiama l’inviata di una trasmissione pomeridiana: le servono nome e indirizzo. La povera donna deve essere raggiunta, ripresa, intervistata: bisogna che partecipi allo show, il lasciapassare è il microfono. Francesca ha trovato le parole adatte: mandata al diavolo la collega. Bè, due buone notizie in un solo articolo, una giornata davvero niente male. Educhiamo i ragazzi alla fragilità di Giulio Costa La Stampa, 15 aprile 2023 “Volere è potere” è la più grossa bugia che l’uomo abbia creato per gestire l’angoscia. Abbiamo via via trasformato la narrazione della fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e così facendo abbiamo educato i nostri figli al rifiuto della debolezza. “Date parole al dolore. Il dolore che non parla bisbiglia al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi”. Certo Shakespeare non immaginava come queste parole, che contraddistinguono il IV atto del Macbeth, sarebbero state quelle soffocate da una generazione di adolescenti fragile e spezzata. Una generazione ferita che teme e si vergogna di dare voce alle proprie legittime insicurezze e vulnerabilità non per sua natura, come invece sostiene ancora una narrazione vetero paternalista, ma perché schiacciata da una società performativa, secondo cui la propria vita acquista significato solo in funzione di risultati, obiettivi raggiunti e successi. A partire dal Secondo Dopoguerra abbiamo via via strangolato ogni discorso sulla fragilità, sul dolore e sul senso del limite. Negli ultimi anni le frasi motivazionali condivise sui social - perlopiù dagli adulti - un utilizzo spesso improprio della parola resilienza, si sono sempre più centrate sulla comunicazione della negazione del limite, che “il solo limite che esiste è quello che scegli tu”, della filosofia del do more ad ogni costo. “Volere è potere” è la più grossa bugia che l’uomo abbia creato per gestire l’angoscia. Abbiamo via via trasformato la narrazione della fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e così facendo abbiamo educato i nostri figli al rifiuto della debolezza. Da mesi ormai leggiamo di studenti universitari che hanno tentato il suicidio per non riuscire a gestire la troppa pressione, o servizi di neuropsichiatria che in tutta Italia, come nel resto dei Paesi dell’Europa Occidentale (e come in Nord America, Medio Oriente e Nord Africa) vedono un aumento del 30% dei casi di disturbi alimentari e autolesività tra le ragazze e di ritiro sociale tra i ragazzi. È vero, la pandemia ha slatentizzato un malessere che era già in aumento e l’ha potenziato, tuttavia continuare a dire che è tutta colpa del Covid, dei videogiochi o dei social è l’ennesimo cliché che deresponsabilizza la comunità educante. Una comunità fatta da genitori, insegnanti, educatori, allenatori sportivi, istituzioni all’interno della quale i nostri figli cercano la salvezza sperando di identificarsi educatori in grado di riconoscerli e valorizzarli per le loro umane vulnerabilità, ma restano intrappolati in modelli performativi intolleranti ad accettare l’imperfezione. Come possiamo aiutarli? Educandoli al rischio, altrimenti si metteranno loro in maniera pericolosa in situazioni gravemente rischiose. L’incontro con l’altro è per eccellenza un territorio rischioso, ma che ci fa crescere nella fiducia, nella conflittualità, nella solidarietà, così come nel fallimento e nel rapporto con l’intimità. Negli ultimi anni il corpo dei ragazzi si è sempre più identificato in un corpo performativo ed estetico e sempre meno in un corpo erotico perché timorosi di essere rifiutati, di non piacere, e di considerarsi falliti e difettosi. Parafrasando Susan Sontag, possiamo dire che ciascuno di noi nasce con una doppia cittadinanza: quella da usare all’interno dei confini della sicurezza e quella da usare nei territori della fragilità e della insicurezza. Riconosciamoci cittadini dell’”isola dei giocattoli difettosi”, come dicono i giovani protagonisti di Noi siamo infinito, film del 2012 con Emma Watson, e saremo per i nostri ragazzi un nuovo specchio entro cui riflettersi senza vergogna. Il sensazionalismo che alla scuola non serve di Simonetta Lucchi huffingtonpost.it, 15 aprile 2023 Le vicende del mondo della scuola vengono negli ultimi tempi esposte in modo talmente sensazionalistico e ossessivo da crearmi vero disagio. Non è un bene tutto questo clamore. Senza seria discussione, né replica, né confronto. O comunque, cosa importa, rispetto alla notizia urlata. Quindi mi chiedo dove sia il problema che, sono certa, non è la preghiera. Penso, leggendo della maestra di Oristano sospesa per venti giorni per aver fatto recitare una preghiera in classe ai bambini. Una notizia talmente inverosimile da suscitare la mia perplessità. Non la approfondisco molto, nella convinzione che le informazioni che troverò saranno solo parziali. Del resto, è in corso un procedimento disciplinare che ha i suoi tempi e diritto alla riservatezza. Le vicende del mondo della scuola vengono negli ultimi tempi esposte in modo talmente sensazionalistico e ossessivo da crearmi vero disagio. Non è un bene tutto questo clamore. Senza seria discussione, né replica, né confronto. O comunque, cosa importa, rispetto alla notizia urlata. Quindi mi chiedo dove sia il problema che, sono certa, non è la preghiera. Ad esempio, le supplenze. Che saranno sempre più frequenti. Diminuisce la popolazione studentesca ma anche i docenti abilitati. Ci vogliono decenni per la formazione di un docente. La normativa è estremamente complessa e non molto conosciuta. Ad esempio: “Se sostituisco un insegnante di Educazione motoria e succede un incidente, ho la copertura assicurativa?”. Se si insegna Storia difficilmente i rischi potenziali sono gli stessi rispetto a un’ora di ginnastica. Quindi, rimango in classe? Oppure: chi ha responsabilità se un ragazzo ha un incidente tra il suono della campanella e l’ingresso in classe? E se devo scendere dall’aula del secondo piano in palestra? Le mie frequenti domande non hanno finora avuto risposta: o meglio, ne hanno avute diverse. Nelle infinite pagine di normative scolastiche che ho studiato negli anni non ho trovato grande chiarezza. Tutto fa capo al dirigente scolastico, ma fino a un certo punto, però. Ma il problema delle supplenze c’è. Che sono ore dovute, pagate. Non sono “regali” che si fanno alla collega assente. Anche se spesso pensiamo così. Sono ore di lezione. Che la collega malata non può preparare per noi. Visto che è malata. Sono questioni che si porranno sempre più spesso. Tra le tante questioni, che si sollevano quotidianamente, nell’attività didattica. Anche perché del tema importante, “professionalità dei docenti”, non si discute molto. Non fa clamore. Eppure è “il” problema. I docenti formati, con esperienza, che andrebbero sostenuti. Chi conosce le normative scolastiche è una risorsa. Chi sa come consolare uno studente che ha una crisi di panico. O motivare i voti che attribuisce, in modo che siano uno stimolo e mai una punizione. O rispettare diverse culture e sensibilità. Tutto questo, è insegnare. E non si impara in breve tempo. Chi sa come risolvere brillantemente il problema di una sostituzione all’ultimo momento è persona preziosa. Da valorizzare. Appunto. Migranti. Maggioranza unita per ridimensionare la protezione speciale di Carlo Lania Il Manifesto, 15 aprile 2023 Con un subemendamento al decreto Cutro in discussione al Senato Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia tentano il (quasi) colpo di spugna. Evitata fino all’ultimo dal governo per timore di uno scontro con il Quirinale, alla fine la stretta sulla protezione speciale è arrivata sotto forma di un subemendamento della maggioranza al decreto Cutro in discussione nella commissione Affari costituzionali del Senato. La proposta di modifica, firmata dai senatori Gasparri (Fi), Lisei (FdI) e Pirovano (Lega) cancella la convertibilità del permesso di soggiorno in permesso di lavoro non solo per chi si è visto riconoscere la forma di protezione introdotta nel 2020 dal governo Conte 2, ma anche per coloro che hanno ottenuto il permesso di rimanere in Italia per calamità naturali o per cure mediche. Con lo stesso subemendamento, inoltre, si limita il divieto di espellere persone affette da gravi patologie solo se queste non sono adeguatamente curabili nel paese di origine. Almeno per il momento la Lega può cantare vittoria dopo aver visto i propri emendamenti ignorati dal governo. Del resto che per il Carroccio la battaglia fosse tutt’altro che finita lo aveva fatto capire fin da ieri mattina Nicola Molteni. “La protezione speciale ha creato problemi a tribunali e questure e verrà tolta con la conversione del decreto immigrazione. Daremo un giro di vite e verrà azzerata”, aveva annunciato il sottosegretario leghista all’Interno. Parole che in serata si sono trasformate nel subemendamento che suona però come una forzatura nei confronti dell’esecutivo. Interpretazione smentita da Marco Lisei. “Si tratta di una proposta di modifica corposa, alla quale abbiamo lavorato a più mani”, spiega il senatore di Fratelli d’Italia che ricorda come l’abolizione della protezione speciale trovi d’accordo anche la premier Giorgia Meloni. E dalla maggioranza assicurano anche che le modifiche proposte tengono contro dei rilievi sollevati dal Quirinale nei giorni in cui il decreto è stato varato, dopo la tragedia di Cutro. Bisogna vedere adesso cosa accadrà nei prossimi giorni. Lunedì la commissione Affari costituzionali tornerà a riunirsi con le opposizioni che hanno preparato 430 emendamenti, 250 dei quali del Pd, alle modifiche presentate giovedì dal governo. Resta però ancora in sospeso il parere dell’esecutivo sui 21 emendamenti del Carroccio, finora accantonati, e da ieri sera anche al subemedamnto della maggioranza. A questo punto è quasi scontato che la commissione interromperà i lavori e consenta al decreto di arrivare in aula senza relatore martedì 18, come del resto era previsto. Sarà lì che si capirà se l’iniziativa avrà l’avallo del governo e porterà a una drastica riduzione della protezione speciale. La mossa della maggioranza è stata duramente criticata dalle opposizioni, con capogruppo dem in commissione Affari costituzionali Andrea Giorgis che parla di “ scelta irresponsabile e dannosa per tutti”. “Il principale effetto di una riduzione o, peggio, di una abrogazione della protezione speciale - prosegue Giorgis - sarebbe quello di aumentare il numero delle persone irregolari (con tutto ciò che comporta la condizione di irregolarità) e contemporaneamente il contenzioso, perché la protezione speciale gode di una copertura costituzionale (art 10) e internazionale (art 8 Cedu e art 18 Carta di Nizza). “La maggioranza, succube della Lega, presenta emendamenti a quel decreto che stravolgono e aboliscono la protezione speciale”, attacca anche il capogruppo dem in Senato, Francesco Boccia, per il quale quelle della maggioranza sono “scelte che nulla hanno a che fare con l’umanità ma sono figlie di una pericolosa demagogia”. “La maggioranza - afferma invece il segretario di +Europa, Riccardo magi - svela la volontà di colpire le vittime del traffico e di non dare protezione anche a chi rischia la propria sicurezza e la vita se dovesse essere espulso”. Anche per Magi “eliminare la protezione speciale porterà ad aumentare il numero di irregolari, l’opposto di quello che servirebbe al nostro Paese”. Migranti. Stop alla protezione speciale, la linea dura sugli sbarchi di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 15 aprile 2023 Il pressing leghista, poi l’intesa in maggioranza. E c’è la stretta sui permessi per cure mediche. Il segnale l’aveva dato in mattinata il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, della Lega: “Azzereremo la protezione speciale. È un unicum italiano ed è diventata nel corso degli anni una sanatoria, un fattore di attrazione di immigrazione”. Una dichiarazione, quella del sottosegretario, che sosteneva il più importante dei 21 emendamenti presentati dalla Lega al decreto approvato nel Consiglio dei ministri di Cutro, dopo il naufragio che ha portato alla morte di 93 migranti. L’accordo - Nelle stesse ore i partiti di governo si stavano confrontando proprio sugli emendamenti al decreto. E dopo Molteni è intervenuto Nicola Procaccini, eurodeputato di FdI e già portavoce di Giorgia Meloni al ministero per la Gioventù: “La protezione speciale consente di fare questo sbando che purtroppo c’è stato”. Due indizi fanno quasi una prova, e infatti poco dopo arriva l’annuncio. La maggioranza ha presentato un subemendamento che cancella la protezione speciale. Il testo è stato firmato dai capigruppo in commissione Affari costituzionali Daisy Pirovano (Lega) e Marco Lisei (FdI), primo firmatario Maurizio Gasparri per Forza Italia. I tre senatori dicono “basta alle sanatorie per tutti i clandestini”. Esulta la Lega - Ma è soprattutto la Lega a cantare vittoria, dicendo che così “si ritorna ai decreti Salvini”. Mentre da FdI parlano di “maggioranza coesa nel raggiungere l’obiettivo di cancellare la cosiddetta protezione speciale”. Tradotto: non si torna ai decreti sicurezza, si elimina solo una procedura specifica. Il tutto nel giorno in cui l’Onu lancia un appello proprio al nostro Paese: “Qualsiasi nuova politica nell’ambito dello stato di emergenza - dice l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Volker Türk - deve essere conforme agli obblighi dell’Italia in materia di diritti umani”. Immediata la replica del capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti: “L’Alto commissario si può occupare di altre e più significative cose, anziché intromettersi nella legislazione (...) che il Parlamento approva”. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, invece, dice di “condividere quello che dice la Cei”. E cioè che “non esiste un allarme, ma esiste uno stato di emergenza tecnicamente inteso che ha suggerito al governo di dotarsi di procedure semplificate per poter essere all’altezza della sfida”. Il subemendamento - Il subemendamento elimina la conversione della protezione speciale in permesso di soggiorno per lavoro. E dà una stretta ai permessi per calamità naturali e per cure mediche, quest’ultimo ammesso solo per patologie non curabili nel Paese d’origine. Visto che in commissione il dibattito va a rilento, il testo dovrebbe essere votato direttamente in Aula. Va detto che il decreto era stato oggetto di interlocuzione anche con il Quirinale, come avviene sempre in questi casi. Ma nella maggioranza si dicono tranquilli su queste nuove modifiche: “Non sono a conoscenza di interlocuzioni specifiche né di allora né di adesso - dice il capogruppo di FdI al Senato Lucio Malan - ma di sicuro si fa in modo che tutto quello che viene scritto dalla maggioranza resti nell’alveo della Costituzione”. I numeri - Il permesso di soggiorno per protezione speciale rappresenta la terza forma di richiesta di asilo in Italia dopo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, prevista dalle norme Ue. Viene concesso al migrante nei casi in cui la commissione territoriale non riconosca né lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria, ma ritenga che non sia possibile il suo allontanamento dal territorio nazionale. Era stato introdotto nel 2018, ma nel 2020 i requisiti sono diventati molto meno stringenti. L’anno scorso hanno ricevuto la protezione speciale 10.865 migranti, contro i 6.161 che hanno ottenuto lo status di rifugiato e i 6.770 la protezione sussidiaria. Quella che doveva essere una procedura residuale, quindi, è diventata la più utilizzata. Anche se i numeri, tutto sommato, non sono così elevati. L’opposizione - Dall’opposizione arrivano 350 subemendamenti e diverse critiche. “Assurdo abolire la protezione speciale” dice il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, che parla di “maggioranza succube della Lega”. “Mi auguro che il passaggio in Parlamento sia di opposizione dura”, avverte Nicola Fratoianni, per Alleanza verdi sinistra. Secondo Riccardo Magi, +Europa, il “governo colpisce le vittime dei trafficanti”. Migranti. La vera emergenza è un governo che non sa gestire questo fenomeno di Giulia Capitani* Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2023 L’affermazione del ministro Musumeci di martedì pomeriggio lascia di stucco: “C’è una condizione di assoluta emergenza”, la quale però “non è un fatto nuovo, ed è destinato a non esaurirsi almeno per i prossimi dieci anni”. Come può una condizione di “assoluta emergenza” essere un fatto già noto da tempo, e placidamente considerato parte del futuro del paese almeno nel medio periodo? Siamo dunque di fronte a un governo che ammette platealmente di aver perso il controllo di una situazione strutturale, prevista e prevedibile, e di aver bisogno di ricorrere a leggi e procedure speciali per normarla. Da oltre trent’anni l’Italia è al centro dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo - spesso tra l’altro solo come Paese di transito e non di destinazione - accogliamo meno della metà dei migranti che accoglie la Francia, siamo al quindicesimo posto in Europa per numero di richiedenti asilo per abitante, ma non importa: il governo entra ufficialmente nel panico o piuttosto, cerca di farci entrare l’opinione pubblica. Una strategia per distrarre l’attenzione dal probabile fallimento sul Pnrr? Non sorprende infatti che la dichiarazione di allarme generale sull’immigrazione arrivi proprio nei giorni in cui si sta discutendo del probabile fallimento relativo all’utilizzo ai fondi del Pnrr, e in perfetta concomitanza col licenziamento del primo Documento di Economia e Finanza, a firma Meloni. Che si tratti dell’ennesima misura propagandistica, è evidente anche dalla scarsissima dotazione in termini di fondi: quale stato di emergenza richiede appena 5 milioni di euro per essere gestito? Ma intanto l’allarme è lanciato: media e social esplodono di commenti di ogni tipo tralasciando questioni ben più importanti, si provvede alla nomina dell’ennesimo Commissario Straordinario della storia del nostro Paese, si potrà andare in deroga a buona parte delle leggi attuali allargando i poteri del Viminale, già smisuratamente ampi per quanto riguarda la vita di migranti e rifugiati. Giova qui ricordare che lo stato di emergenza, applicato peraltro spessissimo in Italia, non è previsto dalla Costituzione, e che i poteri di ordinanza del Commissario Straordinario si esprimono attraverso atti amministrativi sottratti al controllo del Parlamento. Difficile immaginare che questo riporti chiarezza e trasparenza nella gestione del fenomeno migratorio. Nessuno sembra intenzionato a ricordare al governo le proprie responsabilità. Ma di fronte a questa ennesima scelta insensata, tante domande restano aperte. Chi, se non il Ministero dell’Interno, ha il potere di programmare e rinforzare il sistema di accoglienza, se davvero necessario? Chi deve prendere la decisione, almeno come risposta di brevissimo respiro, di adeguare strutturalmente il centro di accoglienza di Contrada Imbriacola a Lampedusa, per evitare che, una sera sì e una no, i principali notiziari gridino al collasso perché non ci sono abbastanza posti? Perché si sceglie invece di non investire su questo, e di spendere oltre 42 milioni di euro di soldi pubblici per l’ampliamento della rete dei Centri per il Rimpatrio, che come è noto sono luoghi di sospensione del diritto, per di più sostanzialmente inutili ai fini dell’allontanamento delle persone dal territorio? Perché non utilizzare per la promozione dell’accoglienza diffusa e dell’integrazione sociale e lavorativa dei migranti, anche solo una parte di quei 44 milioni di euro che negli ultimi sei anni abbiamo invece regalato alla Guardia Costiera Libica, perché li riportasse nei centri di tortura nordafricani? E, al di là di ogni considerazione umanitaria, a cosa servono i miliardi di euro spesi nell’esternalizzazione del controllo delle frontiere delegata a Paesi terzi, se in questi mesi gli sbarchi sono triplicati rispetto all’anno scorso? Un’emergenza indotta - Anche se l’obiettivo di destabilizzazione e di polarizzazione del dibattito pubblico è presto smascherato, provoca forte indignazione che i rappresentanti del governo gridino all’emergenza, quando sono proprio i loro atti a provocarla. A questo proposito, non deve passare inosservato che in questi giorni si discutono in Commissione Affari Costituzionali al Senato gli emendamenti al “Decreto Cutro”, altro capolavoro di studiata insipienza di questo Esecutivo. Una norma che nasce ufficialmente per rispondere a una delle tante stragi di richiedenti asilo in viaggio nel Mediterraneo, questa volta semplicemente avvenuta troppo vicina alle nostre coste per poterla ignorare. E che in realtà mette insieme provvedimenti eterogenei, o inutili o dannosi, senza nessun legame logico con la situazione a cui si pretende di rispondere. Non c’è nulla di efficace sulla prevenzione delle tragedie in mare, tranne la creazione di una nuova fattispecie di reato, “morte o lesioni in conseguenza di traffico di esseri umani”, che forse avrà come unico esito quello di comminare pene sproporzionate agli eventuali presunti scafisti, mentre chi gestisce davvero il traffico di esseri umani resta indisturbato, e di sicuro non si mette in mare su barchini destinati ad affondare. Si limitano le garanzie di ricorso per i richiedenti asilo in caso di diniego. Si attacca la protezione speciale, che aveva in parte attutito il disastroso impatto dell’abolizione della protezione umanitaria voluta da Decreti Salvini, in seguito alla quale il paese si era riempito di migranti improvvisamente irregolari, senza più diritto all’accoglienza né possibilità di lavorare. Si cerca poi di coprire tutto con il manto della ragionevolezza attuando piccole modifiche al decreto flussi, dimostrando di non avere compreso che l’unica soluzione per gestire efficacemente gli ingressi per lavoro è abolire tale norma, e passare a un sistema che consenta l’ingresso per ricerca lavoro e la regolarizzazione su base individuale di chi abbia trovato un datore di lavoro disposto ad assumerlo. A questo quadro già preoccupante, si aggiungono gli emendamenti presentati dalla Lega, che rasentano l’accanimento non solo contro i migranti, ma contro il buon senso: non convertibilità dei permessi di soggiorno per cure mediche e assistenza minore, aumento dei motivi di cessazione della protezione internazionale, ostacoli per il rilascio di permessi per lavoro ai minori non accompagnati che compiono 18 anni. Cosa faranno tutti quelli a cui non sarà più possibile chiedere protezione speciale in Questura, o che già ne sono titolari ma non la potranno più rinnovare? E coloro che, pur avendo la possibilità di essere assunti da un datore di lavoro, non potranno farlo perché il loro permesso è di altra natura e non sarà più convertibile? E i neo maggiorenni con il permesso in scadenza? Eccoli, i tanto paventati “clandestini”: li fabbrica il governo, con le sue leggi. Questa è la vera emergenza. *Policy Advisor su immigrazione e asilo, Oxfam Italia Tunisia. Morire per un chilo di banane, la rivoluzione ferita di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 15 aprile 2023 Il decesso del 35enne calciatore che si era dato fuoco per protesta torna a scuotere il paese. Nizar Aissaoui era andato alla polizia per denunciare un abuso. Incriminato per terrorismo. Morire per un chilo di banane. In una serie di tragiche circostanze, Nizar Aissaoui è deceduto nella notte di giovedì al centro grandi ustioni di Ben Arous dopo essersi dato fuoco tre giorni prima nella piccola città di Haffouz vicino a Kairouan, nella Tunisia centrale. Una storia, quella del 35enne calciatore tunisino con alle spalle una discreta carriera in patria, che riassume tutto ciò che non va nel paese. Prima di prendere la drastica decisione Aissaoui si era recato in un negozio di frutta e verdure per acquistare un chilo di banane. Il proprietario gli aveva fatto un prezzo fuori dalle logiche di mercato, dieci dinari (poco più di tre euro, ndr). Da lì è nata una discussione che ha portato il 35enne a recarsi al posto di polizia di Haffouz per denunciare quanto avvenuto. Tuttavia, invece di ascoltare l’intera vicenda, le autorità locali hanno notificato ad Aissaoui l’apertura di un fascicolo contro di lui per un caso di terrorismo dove sarebbe stato coinvolto in prima persona. La risposta è stata evidente: uscito dalla caserma, il giovane tunisino prima ha pubblicato un post su Facebook per denunciare l’accaduto (subito cancellato), poi ha avviato una diretta sullo stesso social network. Nelle immagini dove risuonano le urla disperate dei passanti, si vede Aissaoui ripetere la frase “dieci dinari al chilo!”, prendere l’accendino e darsi fuoco su dei vestiti pregni di benzina. In pochi istanti in cielo si è alzata una colonna di fumo nera e, in pochi giorni, l’ex calciatore sarebbe morto sul lettino di un ospedale poco fuori dalla capitale Tunisi. Il gesto di Aissaoui ha immediatamente ricordato una data ben precisa nell’immaginario collettivo dei tunisini, il 17 dicembre 2010. Giorno dell’immolazione di Mohamed Bouazizi che diede poi vita alla Rivoluzione del 2011 e alla cacciata del despota Zine El-Abidine Ben Ali. Da allora sono passati 12 anni e un faticoso processo di transizione democratica che, al netto della scoperta della libertà di espressione nel paese, non ha portato a un miglioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione, anzi. Soprattutto nei territori come Haffouz, cittadina di poco più di 8mila abitanti nell’entroterra tunisino che si è sollevata contro la polizia dopo la morte del calciatore, c’è stata una progressiva perdita di acquisto da parte dei cittadini, alimentata da una crisi economica pluridecennale e da un tasso di inflazione che da tempo ha superato il 10%. La storia di Nizar Aissaoui si va ad aggiungere ad altri gesti estremi. Oggi in Tunisia darsi fuoco è diventato l’ultimo tentativo per farsi ascoltare dalle autorità e nel paese si contano decine di Bouazizi. La sensazione è che per il prossimo sia solo una questione di tempo. Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato registrato in avenue Bourguiba, la via principale di Tunisi dove si registrano le principali rivendicazioni da parte della popolazione. La vittima si chiamava Néji Hefiane, aveva 26 anni ed era un ferito di quella Rivoluzione del 2011 che oggi viene sempre di più maledetta. Sentitosi abbandonato dalle istituzioni per delle promesse mai mantenute per avere delle cure alle ferite che aveva riportato all’epoca alla testa, il 6 settembre 2021 decise che non restava altro se non l’immolazione. Originario di Intilaka, quartiere popolare di Tunisi, “è stata l’ingiustizia e la marginalizzazione di cui è stato vittima a portare mio figlio alla morte”, furono all’epoca le dichiarazioni del padre Béji Hefiane. In Tunisia tuttavia le cattive notizie non finiscono qui. Dopo due mesi di sit in permanente di fronte all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel quartiere Lac 1 di Tunisi, i richiedenti asilo provenienti da paesi come Sierra Leone, Yemen, Camerun e Costa d’Avorio sono stati sgomberati con la forza dalla polizia nella mattinata di mercoledì 12 aprile. Le rivendicazioni andavano avanti proprio da due mesi non per semplice casualità: il 21 febbraio scorso il presidente della Repubblica Kais Saied ha pronunciato parole dalle tinte profondamente razziste e xenofobe che hanno portato a una serie di violenze contro la comunità subsahariana e, di conseguenza, a un’accelerazione delle partenze verso Lampedusa o alla richiesta di una ricollocazione rapida in un paese terzo. Il risultato è stato il ritorno della repressione della polizia e a una serie di arresti di persone originarie dell’Africa occidentale. A oggi sarebbero decine i fermati.